Di Maio prova a ripartire dalla riforma della giustizia

Il leader del M5s incalza il Pd sulla prescrizione: «Possiamo fare questo passo insieme». Ma la trattativa non è ancora finita. All'orizzonte ci sono le Regionali: in Calabria potrebbe tornare in campo Callipo, in Emilia-Romagna liste in alto mare.

Luigi Di Maio prova a riscrivere la sua agenda di capo politico del M5s dopo il faccia a faccia con Beppe Grillo. Il garante pentastellato ha chiesto un forte rilancio della maggioranza sull’azione del governo. E così Di Maio, in piena crisi di leadership, mentre da una parte fa partire il difficile confronto sul territorio per le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, dall’altra mette sul tavolo i desiderata del Movimento per l’esecutivo.

In cima alla lista c’è il cavallo di battaglia per eccellenza del M5s, la riforma della giustizia, a partire dalla prescrizione. Le modifiche su quest’ultimo punto sono già state approvate con la legge che ha inasprito le pene per i reati di corruzione, la cosiddetta spazzacorrotti. Previsto il blocco dei tempi dopo il primo grado di giudizio, con entrata in vigore dal primo gennaio 2020. Il Pd, tuttavia, finora si è opposto, chiedendo prima che la riforma del processo penale velocizzi la durata dei procedimenti. La trattativa tra dem, renziani e il ministro Alfonso Bonafede non è ancora finita.

«Questo governo può davvero cambiare le cose. Ma le parole non bastano, servono i fatti», ha scritto Di Maio su Facebook, lanciando un monito proprio al Pd. Ai partner di governo viene chiesto di «andare avanti, non indietro». E di non comportarsi come Matteo Salvini, visto che a battersi contro quella che viene definita una norma «di assoluto buon senso» in prima fila ci sono Lega e Forza Italia.

LEGGETE E CONDIVIDETE! SULLA PRESCRIZIONE E SU UN PAESE CHE DEVE ANDARE AVANTI (E NON INDIETRO)Vittime di disastri,…

Posted by Luigi Di Maio on Monday, November 25, 2019

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Di Maio incassa la sponda del premier Giuseppe Conte, che ha sottolineato come la riforma della giustizia non solo figuri nei punti programmatici della maggioranza, ma sia anche «fortemente voluta dal presidente del Consiglio». Ovvero da lui stesso. Il Pd, per il momento, non ha replicato ufficialmente. Ma fonti dem vicine al dossier tendono a considerare l’uscita di Conte come un segnale della volontà del premier di farsi carico di una mediazione.

IL PD STORCE IL NASO

Il Pd, com’è noto, chiede l’introduzione di limiti alla durata dei processi, una sorta di prescrizione processuale. E interpreta il post di Di Maio come una provocazione demagogica, che semplifica eccessivamente la questione mentre le parti stanno cercando di raggiungere una sintesi. Di Maio ha rilanciato anche sulla revoca delle concessioni ad Autostrade per l’Italia («Bisogna muoversi») e sul carcere per i grandi evasori. Ma all’orizzonte ci sono le Regionali del 26 gennaio 2020.

IL REBUS DELLE REGIONALI IN EMILIA-ROMAGNA E CALABRIA

Mentre in Calabria si vocifera di un possibile ritorno in campo dell’imprenditore del tonno Pippo Callipo, in Emilia-Romagna la partita si fa sempre più complicata. Il capo politico del M5s ha incontrato a Bologna gli eletti e gli attivisti, per cercare di trovare una soluzione all’impasse che si è aperta dopo il voto su Rousseau che ha sconfessato Di Maio e ha detto sì alla presentazione delle liste. Ma sia in Calabria, sia in Emilia-Romagna i pentastellati sono divisi. Il deputato “ortodosso” Giuseppe Brescia ha chiesto, assieme all’ex deputata Roberta Lombardi, di rimettere ai voti dei soli iscritti emiliani e calabresi la scelta di come andare al voto: «Non escluderei di tornare su Rousseau per chiedere agli attivisti se preferiscono vederci correre da soli oppure alleati con il Pd», ha detto Brescia.

TEMPO FINO AL 4 DICEMBRE PER LE CANDIDATURE

La vicepresidente della Camera, Maria Elena Spadoni, non concorda: «Penso che sia ormai troppo tardi per aprire a qualsiasi tipo di alleanza, oltretutto non prevista dal nostro statuto», alludendo evidentemente anche alla possibilità di optare per il voto disgiunto, al M5s e al candidato governatore del Pd. Con una presa d’atto finale: «In Emilia i nostri attivisti e consiglieri comunali da anni fanno battaglie contro il Pd. Nessuno dal territorio ha mai aperto ad alleanze». Nell’attesa, il Movimento ha comunque avviato la ricerca dei candidati governatori attraverso le cosiddette “regionarie”: chi intende proporsi avrà tempo fino al 4 dicembre. Sapendo che, come previsto dallo statuto, «il capo politico, sentito il garante», avrà la facoltà di esprimere un eventuale parere vincolante negativo.

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L’Autostrada A26 chiusa a Genova: «Viadotti a rischio»

Dopo il crollo del viadotto sulla A6, la procura ha disposto lo stop alla circolazione tra Voltri e Masone. Preoccupano le condizioni dei ponti Fado e Pecetti.

Dopo il crollo del viadotto sulla A6 SavonaTorino, ora anche un tratto dell’A26 vicino a Genova viene chiuso per «verifiche». E la Liguria e il suo capoluogo rischiano l’isolamento. In serata, Autostrade per l’Italia ha reso noto che a partire dalle 21.30 sarà chiusa al traffico in entrambe le direzioni la tratta dell’autostrada A26 compresa tra l’allacciamento con l’autostrada A10 e lo svincolo di Masone.

La chiusura è stata disposta dalla procura di Genova visto lo stato di ammaloramento dei viadotti Fado Nord e Pecetti Sud. «Sono viadotti a rischio rovina. Credo che il termine sia chiaro a tutti», aveva detto il procuratore capo Francesco Cozzi.

IL RISCHIO ISOLAMENTO

Si aggrava così la situazione della viabilità per la Liguria, mentre la frana che ha distrutto il viadotto della Madonna del Monte sulla A6 Savona-Torino al momento è ferma. Ma ci sono ancora 15 mila metri cubi di fango in bilico, che potrebbero scivolare a valle in un attimo, velocissimi, così come veloci sono stati quei 30 mila metri cubi di terra che hanno abbattuto i piloni del viadotto ‘correndo’ a 20 metri al secondo.

TOTI: «GENOVA TORNA AGLI ANNI ’30»

«Genova ora è isolata, siamo tornati agli anni ‘30. Va bene il provvedimento per la sicurezza dei cittadini, ma il governo deve pensare anche all’economia di una città, deve garantire gli spostamenti e il primo sistema portuale italiano che ora è irraggiungibile. Spero che si chiarisca tutto questo», ha detto il governatore della Liguria Giovanni Toti, «la Liguria è isolata con la A6 chiusa, la A26 chiusa e le limitazioni alla A7. Voglio sapere cosa farà il governo». «Il Porto di Genova in queste condizioni non può resistere più di una settimana», ha detto il presidente dell’Autorità portuale deL Mar Ligure occidentale Paolo Emilio Signorini.

LE INDICAZIONI PER LE STRADE ALTERNATIVE

Veicoli leggeri e autocarri fino a 7,5 tonnellate (esclusi autobus): per la A26 dalla A10 uscire a Prà e proseguire fino a Masone tramite la SP 456 del Turchino. Per la A10 dalla A26 effettuare il percorso inverso.

Veicoli pesanti superiori a 7,5 ton e autobus: per la A26 dalla A10 utilizzare la A7. Per la A10 dalla A26 obbligo di deviazione sulla Diramazione Predosa Bettole, dalla quale, con fermo temporaneo e progressivo deflusso, sarà possibile procedere verso Genova lungo la A7. Potranno proseguire fino a Masone i soli mezzi pesanti con destinazione di scarico o carico nella zona collegata a tale svincolo.

Itinerari di lunga percorrenza: per i collegamenti tra la A4, A26 e A21 verso la Toscana, utilizzare la A21 fino all’allacciamento con la A1 e da questa raggiungere Firenze o riprendere l’autostrada tirrenica tramite la A15.

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Come si evolve la battaglia legale tra giocatori del Napoli e società

Linea dura del presidente De Laurentiis. Taglio del 25% dello stipendio per tutti, con punte del 50% per Allan e i capi della rivolta contro il ritiro. E il procedimento arbitrale è alle porte. La situazione.

Al Napoli le cose in campo non vanno bene. Settimo posto e -15 punti dalla Juventus capolista. Fuori, forse ancora peggio. Questioni calcistiche e giuridiche si sono intrecciate affossando la stagione degli azzurri. Tutto è iniziato col grande “ammutinamento, il rifiuto dei giocatori di andare in ritiro per gli scarsi risultati sportivi (soprattutto in campionato). E ora è arrivata la risposta ufficiale della società, che ha attaccato i calciatori infliggendo un taglio del 25% dello stipendio per tutti, ma punte del 50% nei confronti di Allan e di altri considerati dal club i “capi” della rivolta. Le richieste sono contenute nelle raccomandate inviate anche via pec.

DALLE SUPER MULTE AL CASO DEI FURTI

Il presidente Aurelio De Laurentiis ha inflitto così delle super multe. Gli ultrà avevano “scaricato” la squadra per il suo atteggiamento, mentre in città si è parlato anche molto della fuga” delle mogli dei calciatori dopo i diversi furti subiti che avevano addirittura fatto presupporre l’esistenza di un piano criminale dietro questi episodi.

LETTERE CONSEGNATE PRIMA DELLA CHAMPIONS

La notizia era nell’aria e, si è appreso oltre la cortina di silenzio ufficiale del club, si dovrebbe concretizzare con la ricezione delle lettere a poche ore dalla partita di Champions league contro il Liverpool. I due piani, ormai, sono completamente scollegati. Il Napoli ha deciso di separare le vicende sportive da quelle contrattuali: i tifosi giudicheranno le prestazioni in campo di capitan Lorenzo Insigne e compagni, il collegio arbitrale del tribunale deve decidere in merito alle sanzioni.

COME FUNZIONA IL PROCEDIMENTO ARBITRALE

Ogni calciatore nominerà un proprio arbitro, il club un altro e i due dovranno accordarsi per eleggere il presidente del collegio; ciascun calciatore avrà un proprio procedimento arbitrale.

ALLAN ACCUSATO DI AVER AGGREDITO IL VICEPRESIDENTE

La multa più salata è stata chiesta ad Allan che oltre alla ribellione paga anche l’accusa di aver tentato di aggredire il vicepresidente azzurro Edoardo De Laurentiis negli spogliatoi dopo il match con il Salisburgo.

CONTESTATA LA LESIONE DEI DIRITTI D’IMMAGINE

Oltre alle multe richieste per il mancato rispetto dell’ordine di andare in ritiro, il Napoli è pronto a infliggere anche multe individuali per una lesione dei diritti d’immagine: ogni calciatore quando firma con il club azzurro raggiunge anche un accordo per la cessione dei propri diritti d’immagine che, a parere del Napoli, è stata lesa dall’atteggiamento poco professionale della ribellione. In questo caso le multe saranno individuali e parametrate al contratto che è diverso per ognuno.

DE LAURENTIIS NON È ANDATO A LIVERPOOL

Al Napoli dunque continua il gelo tra lo spogliatoio e la dirigenza, che aspetta ora risultati sul campo, e testimoniato anche dal fatto che il presidente non è volato in Inghilterra per il match di Champions. In questo clima il Napoli parte per Liverpool dove mercoledì sera affronta i campioni d’Europa. L’allenatore Carlo Ancelotti sa che anche il suo futuro personale è legato alle prossime partite e già il pareggio di San Siro contro il Milan è stato considerato negativamente dal club.

GRANDE ATTESA PER LE PAROLE DI ANCELOTTI

Su questo, ma anche sul clima con cui lo spogliatoio sta vivendo il momento, il tecnico è chiamato a parlare martedì 26 novembre nel pomeriggio a Liverpool, durante la conferenza stampa pre-partita destinata a interrompere il silenzio stampa cominciato proprio nella notte dell’insubordinazione dopo il pari con il Salisburgo. Quella sera Ancelotti andò via senza parlare.

INSIGNE INFORTUNATO, ATTACCO DA INVENTARE

Parlò, prima di sapere della rivolta, Insigne, che rimane a Napoli a causa della contusione al gomito subita a Milano. L’attacco è quindi da inventare, la forza di reazione del gruppo da dimostrare in campo. I 2 mila tifosi azzurri a Liverpool aspettano risposte da Anfield. Poi arriveranno le sentenze del tribunale.

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I sondaggi politici elettorali del 25 novembre 2019

Fratelli d'Italia per la prima volta supera il 10%. Brusca frenata della Lega che perde lo 0,9%. Stabili i partiti di governo.

Fratelli d’Italia continua la sua ascesa nel gradimento degli italiani e per la prima volta nella sua storia in un sondaggio nazionale raggiunge una percentuale a doppia cifra. Il partito di Giorgia Meloni, secondo la rilevazione di Swg per il TgLa7 del 25 novembre, passa dal 9,5% del 18 novembre al 10,1%. La Lega subisce una brusca frenata e perde in una settimana lo 0,9%, scendendo dal 34% al 33,1%. Variazioni meno significative per gli altri partiti, con il Pd che passa dal 18,3% al 18,1%, il M5s dal 16,2% al 16,5% e Forza Italia in calo dal 6,4% al 6%. Italia viva riprende a salire, passando dal 5% al 5,5%.

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L’ultimo sfregio ai tesori di Dresda, la “Firenze sull’Elba”

La rapina alla Camera del Tesoro del palazzo reale è un attacco al patrimonio culturale della città tedesca. Già ampiamente distrutto e trafugato nella Seconda guerra mondiale. Le opere e la storia.

Non sarà il «furto spettacolare di un miliardo di euro» sparato dai tabloid tedeschi, ma è un altro saccheggio per Dresda, un nuovo furto del secolo. «Una perdita di valore inestimabile, storico e artistico. Per gioielli del genere non esiste un valore finanziario», raccontano dal museo dei Tesori del Castello che fu la residenza dei principi e dei re di Sassonia. Le sue sale dalle Volte verdi (Grünes Gewölbe) dal 2006 sono tornate lo scrigno della maggiore collezione di gioielli in Europa: la volle nel 1723 Augusto II il Forte, il principe (poi re di Polonia) che rese la città “la Firenze sull’Elba“. Da una vetrina spaccata nella notte tra il 24 e il 25 novembre sono sparite proprio tre parure di diamanti e brillanti, in tutto un centinaio di pezzi, del tesoro del principe del rinascimento della Sassonia. Tra i gioielli più pregiati si è salvato il grande diamante verde da 41 carati, al Metropolitan di New York dal 18 novembre.

NELLE VOLTE VERDI 3 MILA GIOIELLI

I tesori del palazzo reale di Dresda contano più di 4 mila gioielli, circa 3 mila dei quali (non tutti esposti) nelle sale della Grünes Gewölbe, con altre opere in oro, argento e preziosi. Per la Germania, e più che mai per la città, la rapina nel museo è uno choc dopo lo choc: Dresda fu rasa al suolo durante la Seconda guerra mondiale, anche parte rilevante del castello andò distrutta e i tesori furono portati a Mosca dall’Armata rossa. Solo anni dopo i gioielli furono restituiti alla Ddr, e le sale interamente ricostruite all’inizio del 2000. Per il museo della Grünes Gewölbe sono stati spesi 45 milioni di euro: con la Pinacoteca dello Zwinger è diventata la maggiore attrazione dei visitatori di Dresda, ma la storia tormentata dei suoi tesori non ha avuto fine. Per i cristiano-democratici che governano il Land la rapina è «un attentato all’identità culturale di tutta la Sassonia».

Dresda furto gioielli arte
Il furto dei Tesori al palazzo reale di Dresda. GETTY.

I PRECEDENTI DEI MUNCH E DEI VAN GOGH RECUPERATI 

L’allarme del furto è partito all’alba, attorno alle 5. La Bild ha riportato l’indiscrezione (non confermata) di una centralina elettrica collegata al complesso sabotata nella notte. I ladri – «un gruppo di diversi sconosciuti», ha comunicato il governo del Land – sarebbero poi entrati da una finestra nel museo. Anche per la polizia criminale il caso è «grosso». Ma non è il furto più eclatante di opere d’arte, neanche negli ultimi decenni: fece scalpore, nel 2004, l’assalto al Museo Munch di Stoccolma, da parte di due uomini armati, sotto gli occhi dei visitatori. L’Urlo fu recuperato, ma i danni alla tela si sono rivelati irreparabili. Un altro furto spettacolare fu messo a segno nel 1991 al Van Gogh Museum di Amsterdam, dove un rapinatore chiuso in bagno riuscì a trafugare 20 dipinti del genio olandese, con l’aiuto di un basista. Quadri ritrovati poche ore dopo in un’auto.

La Monna Lisa di Leonardo da Vinci fu portata via dal Louvre nel 1911 dal decoratore italiano Vincenzo Peruggia

LA GIOCONDA RUBATA E RITROVATA

Altri capolavori rubati da gallerie o musei sono riemersi tempo dopo, su segnalazioni o alle aste. Accadde così anche per il furto d’arte di tutti i secoli: la Monna Lisa di Leonardo da Vinci portata via dal Louvre nel 1911. Il decoratore italiano Vincenzo Peruggia si infilò in uno sgabuzzino del museo, dopo la chiusura sfilò la Gioconda dalla cornice e se la infilò sotto il camice, scappando da una porta sul retro. Un atto di «patriottismo», dichiarò un paio di anni dopo, intercettato mentre tentava di rivenderla agli Uffizi. Un altro da Vinci, valutato 70 milioni di euro, sparì da un castello scozzese nel 2003 e fu rinvenuto in una perquisizione a Glasgow nel 2007. Altre opere non sono invece mai tornate a casa, come il Manet e il Vermeer trafugati nel 1990 al Gardner Museum di Boston. O come, a proposito di Germania, la moneta d’oro da 100 chili sparita nel 2017 dal Bode Museum di Berlino.

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Le sale delle Volte verdi, nel Castello di Dresda, contengono più di 3 mila preziosi. (Getty)

IL RINASCIMENTO SULL’ELBA

O almeno non sono ancora tornati, ma gli inquirenti dubitano di ritrovare Big Maple Leaf. I quattro autori sono stati arrestati in un mega blitz, ma è probabile che il quintale d’oro da un milione di euro sia stato fuso appena dopo il furto. Anche in questo caso, i ladri sarebbero entrati di notte da una finestra, beffando in un modo o nell’altro il sistema d’allarme: si parlò del «colpo alla moneta più grande del mondo». Quanto al palazzo reale di Dresda, ospita una collezione di gioielli meno nota, per esempio, della Camera del tesoro imperiale di Vienna. Ma come quella dell’Hofburg tra le più antiche e belle d’Europa. Lo splendore neoclassico e barocco, anche degli edifici della città, voluto da Augusto II il Forte ha molto dell’Italia: sotto il suo assolutismo la città sull’Elba visse un rinascimento. Il principe commissionò i lavori ad architetti che avevano studiato il barocco a Firenze, da Michelangelo e dal Bernini.

La Sempergalerie della pinacoteca Zwinger fu progettata ricalcando gli Uffizi, per ospitare centinaia di opere d’arte del 1400, 1550 e 1600

I PALAZZI IN STILE FIORENTINO

Per la cattedrale cattolica, che nella cripta ospita Augusto II il forte e altri membri della casata, fu incaricato l’architetto Gaetano Chiaveri che per il cantiere trasferì a Dresda tutte le maestranze. Diverse ville e palazzi della nobiltà, bombardati nei raid del 1945, furono costruiti sul modello dei palazzi fiorentini. La Sempergalerie della pinacoteca Zwinger fu progettata ricalcando gli Uffizi, per ospitare centinaia di opere d’arte del 1400, 1550 e 1600, diverse anche del Rinascimento italiano. Della collezione inestimabile di Dresda fanno parte capolavori di Tiziano, Raffaello, del Correggio e del Mantegna: opere accumulate nei palazzi, come i gioielli della Camera del tesoro, per la sete estetica anche del figlio e successore di Augusto II il forte, Augusto III. La rapina al palazzo reale è una nuova ferita per Dresda, per la Germania il «furto peggiore dalla Seconda guerra mondiale».

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Roberto Tomasi è il nuovo amministratore delegato di Autostrade

La scelta del consiglio di amministrazione della società.

Roberto Tomasi, come annunciato a gennaio 2019 da Autostrade per l’Italia, è stato ufficialmente nominato come nuovo amministratore delegato della società.

Il consiglio di amministrazione si è riunito il 25 novembre per la prima volta sotto la presidenza dell’ingegner Giuliano Mari, dopo il rinnovo deciso venerdì dall’assemblea degli azionisti.

In quell’occasione i vicepresidenti di Autostrade – Giancarlo Guenzi, direttore generale di Atlantia, e Michelangelo Damasco, general counselor di Atlantia, nonché il consigliere Amedeo Gagliardi, direttore legale di Autostrade – hanno rassegnato le dimissioni.

L’assemblea aveva stabilito che il cda sarebbe stato composto da 11 persone, nominando per gli esercizi 2019-2020-2021 Giuliano Mari, Roberto Tomasi, Tommaso Barracco, Carlo Bertazzo, Massimo Bianchi, Roberto Pistorelli, Elisabetta De Bernardi Di Valserra, Nicola Rossi e Antonino Turicchi, tratti dalla lista presentata da Atlantia; Christoph Holzer, dalla lista presentata da Appia Investments; e Hongcheng Li, dalla lista presentata dal socio Silk Road Fund.

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Da Londra a Barcellona: la corsa a ostacoli di Uber in Ue

La app di trasporto ha già avuto difficoltà in Germania, Spagna, Regno Unito, Belgio, Danimarca, Bulgaria e Ungheria. Una sentenza della Corte Ue lascia largo margine alle città.

La fine della proroga per l’utilizzo della licenza a Londra per Uber è solo l’ennesimo ostacolo per la app di trasporto auto con conducente in Ue anche se quella che pesa di più tra le città per numero di autisti coinvolti e di corse effettuate.

BRUXELLES TRA LE PRIME A LIMITARE IL SERVIZIO

Tra le città che hanno limitato l’ingresso di Uber per prime è stata Bruxelles: nel 2014, infatti, la giustizia belga ha messo al bando l’applicazione dopo le proteste dei tassisti dato che il nuovo servizio auto non era in possesso della licenza.

IN GERMANIA DISPONIBILE SOLO IN ALCUNE CITTÀ

Il nuovo piano Taxi in Belgio prevede ora un servizio Uber limousine, mentre continua ad essere vietato Uberpop, il servizio meno costoso, condotto da guidatori non professionisti. In Germania il servizio Uber è disponibile in quattro delle principali città (tra le quali Berlino e Monaco) mentre non è disponibile in numerose altre città.

BARCELLONA ABBANDONATA DA UBER

Uber ha avuto difficoltà in Danimarca, Bulgaria e Ungheria mentre ha deciso di abbandonare Barcellona dopo che sono cambiate le regole rendendo il servizio poco vantaggioso per l’azienda.

LA SENTENZA DELLA CORTE UE CHE DÀ LIBERTÀ ALLE CITTÀ

Ad aprile la Corte Ue ha stabilito che gli Stati membri «possono vietare e reprimere penalmente l’esercizio illegale dell’attività di trasporto nell’ambito del servizio UberPop senza dover previamente notificare alla Commissione il progetto di legge che stabilisce il divieto e le sanzioni penali per tale esercizio». Il servizio Uberpop viene considerato rientrante nel «settore dei trasporti» e non in quello dei servizi digitali, che invece richiederebbe una notifica in base alla direttiva «società dell’informazione».

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Tiffany è un mito appannato. E Arnault lo sa bene

Il patron del lusso ha acquistato strapagandolo il marchio reso celebre dal romanzo di Capote e dal film. Ma che negli anni ha perso il suo fascino presso i millenial riducendosi a rivenditore di oggetti per la casa e gadget d’argento per signori di mezza età.

Dopo otto anni di tentativi Bernard Arnault ha comprato Tiffany, strapagandolo, e siamo in attesa di capire che straordinaria immissione di denaro dovrà fare per recuperarne l’immagine e il posizionamento, perché dubitiamo che voglia mantenerlo nel novero del produttore di oggetti per la casa e gadget d’argento per signori di mezza età in cui è scivolato negli ultimi decenni, l’ultimo in particolare e in particolare in Europa.

UNA LEGGENDA APPANNATA

Anni di sonaglini per neonati, di medagliette a 160 euro e di tagliasigari per nostalgici hanno polverizzato lo straordinario capitale di marca dato da quel titolo letterario e geniale 50 anni fa. E i volenterosi tentativi di Daniella Vitale per rivitalizzare la marca nel Vecchio Continente fino a oggi non sono stati coronati da clamorosi successi (la chief brand officer, prima signora ai vertici di Tiffany dalla fondazione nel 1837, è arrivata nel 2017 in Fifth Avenue dalla Madison, e per la precisione da Barneys, il grande magazzino fallito, diciamo non proprio un biglietto da visita eccezionale).

UNA COLAZIONE CHE HA PERSO APPEAL

Cartier, come rilevava l’analista indiana Rhada Chahda qualche anno fa, è sinonimo di lusso nel gioiello soprattutto in Asia. Altrove, le reazioni sono “mixed”. E poi ci sono i giovani, anzi, ci sono innanzitutto loro.

Chiedete a un 20enne se abbia mai letto Colazione da Tiffany e 99 volte su 100 vi dirà di no. Di solito ignora perfino che all’origine del film vi sia un racconto. Truman Capote, il White Ball, i cigni: chi sono, anzi, chi sono stati. Anche sul celeberrimo film, che pure del racconto ha poco e niente e sembra fatto solo per soddisfare la pruderie americana degli Anni 60, le nozioni sono vaghe e confuse (il tema di fondo è quello di Peccato che sia una sgualdrina, commedia elisabettiana di John Ford, ma sfidiamo chiunque a capire dalla sceneggiatura come Audrey Hepburn si paghi gli abiti di alta sartoria).

Audrey Hepburn sul set di Colazione da Tiffany.

I MILLENNIAL NON CONOSCONO LA STORIA DEL MARCHIO NÉ IL ROMANZO

Per tutto il resto, cioè per le pietre, i gioielli, i nomi di riferimento a livello mondiale sono altri. Marilyn Monroe non lo citerebbe più prima di «Cartier» e di Harry Winston «tell me all about it».

La mappa del posizionamento mondiale della gioielleria è profondamente cambiato dai tempo dei diamanti che sono i migliori amici delle ragazze, e ai vertici di questa piramide si trovano Van Cleef&Arpels, ancora Cartier oppure, Bulgari, che in questa ultima acquisizione di Arnault entra certamente più di quanto si creda, visto che l’amministratore delegato Alessandro Bogliolo è un ex-Bulgari e due anni fa venne chiamato in Tiffany da Francesco Trapani, nipote di Paolo e Nicola Bulgari, che per molti anni guidò l’azienda di famiglia prima di cederla ad Arnault.

LA SCELTA STRATEGICA DI LVMH

Il duo Bogliolo-Trapani ha certamente favorito il deal, benché il prezzo di 135 dollari per azione pagato dal patron di Lvmh Bernard Arnault, con un premio di maggioranza di 9,5 dollari rispetto al valore di chiusura del titolo di venerdì scorso a 125,5 dollari (li pagherà cash per una transazione totale di 16,2 miliardi di dollari che verrà completata entro i primi mesi del 2020), rappresentano un prezzo amateur. Da collezionista. Per Lmvh si tratta della maggiore acquisizione mai effettuata, superiore anche all’acquisto dell’ultima quota di Christian Dior nel 2017. Addirittura superiore di tre volte rispetto a quanto pagato per rilevare Bulgari nel 2011 (4,3 miliardi di euro), quando l’approccio fu simile anche nelle tempistiche “da week end”.

TIFFANY, RICAVI IN DISCESA

«L’acquisizione di Tiffany», si legge nella nota diffusa, «rafforzerà la posizione di Lvmh nella gioielleria e aumenterà ulteriormente la sua impronta negli Stati Uniti. L’aggiunta di Tiffany trasformerà la divisione Watches & Jewelry di Lvmh e va a completare le 75 distinguished houses del gruppo», che nel settore specifico comprendono per l’appunto Bulgari, ma anche Tag Heuer, Zenith, Fred, Hublot, Chaumet. Una scelta, dunque, strategica, effettuata sia per accorciare le distanze dal gruppo Richemont (appunto Cartier e Van Cleef) sia per rafforzarsi nel segmento, fra i più profittevoli del 2018, con una crescita del 7%. Nello stesso periodo, Tiffany è andata in controtendenza; nei primi sei mesi del 2019 ha perso il 3% dei ricavi, scesi a 2,1 miliardi di dollari.

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Il razzismo di Cellino con Balotelli e i precedenti nel calcio

Per il presidente del Brescia «Mario è nero, sta lavorando per schiarirsi». Poi parla di battuta fraintesa. Un po' come quelle di Passirani sulle banane a Lukaku, di Tavecchio e Opti Pobà, di Lotito che parlò di «pelle normale» dei bianchi. Il vizietto discriminatorio degli uomini nel pallone.

Il 25 novembre era la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ma mentre si parlava di femminicidi qualcuno è riuscito a esibirsi in dichiarazioni razziste. Nel mondo del calcio, tanto per cambiare. Troppo difficile portare avanti più di una sensibilizzazione alla volta: probabilmente il presidente del Brescia Massimo Cellino non è dotato di questa abilità di multitasking. Così si è fatto sfuggire un commento poco “tecnico”: «Cos’è successo a Mario Balotelli? Che è nero, cosa devo dire, che sta lavorando per schiarirsi, però c’ha molte difficoltà». Mario Balotelli sarebbe (è, in attesa di sviluppi dal mercato) un suo giocatore, il secondo più prezioso della rosa (valore 20 milioni, dietro solo a Sandro Tonali stando ai dati Transfermarkt). E per di più fresco bersaglio dei versi da scimmia che gli hanno riservato i tifosi delll’Hellas Verona il 3 novembre.

ENNESIMO TASSELLO NEL MOMENTO-NO DI SUPER MARIO

Ma Cellino non deve aver pensato a tutto questo e ha provato a motivare così l’attaccante dopo il periodo-no che, oltre a questioni extra campo, ha riguardato aspetti di gioco: prima la discussa sostituzione all’intervallo nella partita persa 4-0 in casa contro il Torino, poi la mancata convocazione in Nazionale – la qualificazione a Euro 2020 era già in tasca – nonostante il suggerimento del presidente della Figc, Gabriele Gravina, che voleva chiamare Super Mario come gesto simbolico anti-razzista. Infine, alla ripresa del campionato, la cacciata dall’allenamento per scarso impegno e l’esclusione di Balo dalla trasferta di Roma.

IL RITORNELLO DELLA BATTUTA FRAINTESA

Dopo l’uscita di Cellino, il Brescia ha cercato di cancellare il guaio fatto: «Una battuta a titolo di paradosso, palesemente fraintesa, rilasciata nel tentativo di sdrammatizzare un’esposizione mediatica eccessiva e con l’intento di proteggere il giocatore stesso», è stato scritto in un comunicato.

Se scrivete tutte le cazzate che dico, non smettete più. Se chiarisco faccio ancora più danni. Le persone perbene mi conoscono


La “pezza” di Massimo Cellino

Poi Cellino è tornato sull’argomento: «Chi è che mi ha dato del razzista? Se scrivete tutte le cazzate che dico, non smettete più di scrivere. Io non mi devo mica discolpare di una cosa alla quale non credo. La cosa tragica sapete qual è? È che non sapete più che caz.. scrivere». Infine: «Se chiarisco faccio ancora più danni. Le persone perbene mi conoscono». E comunque Cellino si consoli: è solo l’ultimo di una lunga lista di esternazioni razziste che sono arrivate dai protagonisti del calcio italiano.

PASSIRANI E LE BANANE DA LANCIARE A LUKAKU

Luciano Passirani, ex dirigente di diversi club calcistici e opinionista nelle tivù locali, il 16 settembre 2019 parlando del centravanti dell’Inter Romelu Lukaku aveva detto: «Questo ti trascina la squadra. Questo nell’uno contro uno ti uccide, se gli vai contro cadi per terra. O c’hai 10 banane qui per mangiare che gliele dai, altrimenti…». Telelombardia ha deciso di non invitarlo più alle sue trasmissioni.

TAVECCHIO E IL FAMIGERATO OPTI POBÀ

Restando alla frutta, l’esternazione più famigerata è quella di Carlo Tavecchio del 2014: «L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Pobà (nome inventato, ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio». Concetto che non gli impedì di diventare presidente della Federazione italiana giuoco calcio.

LOTITO E I BIANCHI CON LA PELLE «NORMALE»

La Lazio un presidente vero e non inventato ce l’ha, si chiama Claudio Lotito e il 2 ottobre 2019 ha parlato di razzismo dicendo che «non sempre la vocazione “buuu” corrisponde effettivamente a un atto discriminatorio razzista» perché tra le vittime ci sono anche «persone di non colore, che avevano la pelle normale, bianca, e non di colore».

LE CALCIATRICI «LESBICHE» E «HANDICAPPATE»

Parentesi femminile, nel senso delle vittime delle offese. L’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, nel 2015 definì le giocatrici di calcio «queste quattro lesbiche», secondo quanto riportò il verbale di una riunione. Fu inibito per quattro mesi. Il già citato Tavecchio invece nel 2014, in un’intervista a Report, parlò così del movimento: «Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l’aspetto della resistenza, del tempo, dell’espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili».

MALAGÒ E I SIMULATORI PEGGIO DEI RAZZISTI

Tornando al razzismo, il 25 settembre 2019 il presidente del Coni Giovanni Malagò ha detto che «è sbagliato se qualcuno fa “buuu” a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore». Poi si è corretto: «Non dico che il comportamento di chi simula sia peggiore di chi fa cori razzisti, ma ogni attore protagonista deve fare la sua parte nel modo eticamente migliore». Compreso il presidente del Coni.

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Giovanni Malagò. (Ansa)

SACCHI E L’ORGOGLIO ITALIANO ANTI-STRANIERI

Arrigo Sacchi, ex commissario della Nazionale e storico allenatore del Milan, nel 2015 dichiarò: «Io mi vergogno di essere italiano. Per avere successo siamo disposti a vendere l’anima al diavolo. Non abbiamo una dignità, non abbiamo un orgoglio italiano. Ci sono squadre con 15 stranieri. Oggi vedevo il torneo di Viareggio: io non sono un razzista, ho avuto Rijkaard, ma vedere così tanti giocatori di colore, vedere così tanti stranieri, è un’offesa per il calcio italiano».

ERANIO E I NERI NON CONCENTRATI QUANDO C’È DA PENSARE

Sacchi in rossonero incrociò Stefano Eranio, ex centrocampista. Una volta diventato commentatore televisivo, nel 2015 ai microfoni della tivù svizzera Rsi Eranio spiegò che «i giocatori di colore, quando sono sulla linea difensiva, spesso certi errori li fanno perché non sono concentrati. Sono potenti fisicamente però, quando c’è da pensare, spesso e volentieri fanno questi errori». Parlava dell’allora difensore della Roma Antonio Rüdiger. Fu licenziato.

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Scoperta una molecola che blocca l’Alzheimer

L'anticorpo A13 "ringiovanisce" il cervello bloccando la malattia nella prima fase. La scoperta di uno studio italiano effettuato sui topi.

Scoperta dai ricercatori della fondazione Ebri Rita Levi-Montalcini una molecola che “ringiovanisce” il cervello bloccando l’Alzheimer nella prima fase: è l’anticorpo A13, che ringiovanisce appunto il cervello favorendo la nascita di nuovi neuroni e contrastando così i difetti che accompagnano le fasi precoci della malattia. Lo studio, italiano, è stato effettuato su topi che, così trattati, hanno ripreso a produrre neuroni a un livello quasi normale. Una strategia, secondo i ricercatori, che apre nuove possibilità di diagnosi e cura. Lo studio interamente italiano è coordinato da Antonino Cattaneo, Giovanni Meli e Raffaella Scardigli, presso la Fondazione Ebri (European Brain Research Institute) Rita Levi-Montalcini, in collaborazione con il CNR, la Scuola Normale Superiore e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Roma Tre. E’ stato pubblicato sulla rivista Cell Death and Differentiation.

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Il creatore della Rete ha lanciato il Contratto per salvare il web

Tim Berners-Lee ha presentato il suo manifesto per «rendere Internet più sicuro e utile per tutti». Il documento rivolto a governi, aziende e cittadini.

Il creatore del web, Tim BernersLee, ha lanciato ufficialmente il suo piano per aggiustare Internet. Lo riporta l’Agi. La Word Wide Web Fondation, una società no profit creata dallo scienziato inglese, ha già ottenuto il sostengo dei giganti tecnologici come Facebook, Google e Microsoft. È lo stesso Berners-Lee ad annunciare il progetto su Twitter: «Se noi non riusciamo a difendere la libertà del web aperto, rischiamo una distopia digitale di disuguaglianza radicale e abuso dei diritti. Dobbiamo agire ora».

Nel tweet Berners-Lee condivide il link a un sito, contractfortheweb.org, dove sono elencati i nove principi del suo Contratto per il web. Tre riguardano i governi: assicurare che ognuno possa connettersi alla rete; fare in modo che tutta la rete internet sia sempre accessibile; rispettare i diritti fondamentali della privacy e dei dati personali.

I PUNTI PER LE AZIENDE E I CITTADINI

Tre riguardano le aziende: avere sempre prezzi accessibili per i servizi di connessione; rispettare e proteggere la privacy e i dati delle persone per creare fiducia a chi accede alla rete; sviluppare tecnologie che valorizzino il meglio dell’umanità, arginandone i lati peggiori. Tre riguardano invece i cittadini: essere creatori e collaboratori del web; costruire community forti e rispettare la civiltà del discorso pubblico e la dignità umana; lottare per la rete.

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Il creatore della Rete ha lanciato il Contratto per salvare il web

Tim Berners-Lee ha presentato il suo manifesto per «rendere Internet più sicuro e utile per tutti». Il documento rivolto a governi, aziende e cittadini.

Il creatore del web, Tim BernersLee, ha lanciato ufficialmente il suo piano per aggiustare Internet. Lo riporta l’Agi. La Word Wide Web Fondation, una società no profit creata dallo scienziato inglese, ha già ottenuto il sostengo dei giganti tecnologici come Facebook, Google e Microsoft. È lo stesso Berners-Lee ad annunciare il progetto su Twitter: «Se noi non riusciamo a difendere la libertà del web aperto, rischiamo una distopia digitale di disuguaglianza radicale e abuso dei diritti. Dobbiamo agire ora».

Nel tweet Berners-Lee condivide il link a un sito, contractfortheweb.org, dove sono elencati i nove principi del suo Contratto per il web. Tre riguardano i governi: assicurare che ognuno possa connettersi alla rete; fare in modo che tutta la rete internet sia sempre accessibile; rispettare i diritti fondamentali della privacy e dei dati personali.

I PUNTI PER LE AZIENDE E I CITTADINI

Tre riguardano le aziende: avere sempre prezzi accessibili per i servizi di connessione; rispettare e proteggere la privacy e i dati delle persone per creare fiducia a chi accede alla rete; sviluppare tecnologie che valorizzino il meglio dell’umanità, arginandone i lati peggiori. Tre riguardano invece i cittadini: essere creatori e collaboratori del web; costruire community forti e rispettare la civiltà del discorso pubblico e la dignità umana; lottare per la rete.

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La prova Invalsi torna obbligatoria per la Maturità

Non era stata più considerata un requisito vincolante nel precedente anno scolastico. Ora ritorna condizione indispensabile per l'ammissione all'esame.

Torna obbligatorio per i ragazzi delle superiori sostenere la prova Invalsi per accedere all’esame di Maturità. Il test torna quindi a essere pre-requisito per l’esame di Stato, come era accaduto nell’anno scolastico 2017-2018. L’obbligatorietà era stata sospesa per l’anno scolastico 2018-2019. Con la legge Milleproroghe 2018 il precedente ministro dell’Istruzione Marco Bussetti aveva differito di un anno (all’1 settembre 2019) l’applicazione della norma sull’Invalsi, esonerando così gli studenti che hanno fatto la Maturità quest’anno. Ora però, «non essendo intervenuto un ulteriore differimento annuale», la circolare ricorda che «dovrà essere verificato, ai fini dell’ammissione dei candidati interni all’esame di Stato dell’a.s. 2019/2020, oltre al requisito della frequenza scolastica e del profitto scolastico, anche il requisito della partecipazione, durante l’ultimo anno di corso, alle prove a carattere nazionale predisposte dall’Invalsi e quello dello svolgimento delle attività programmate nell’ambito dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, secondo il monte ore previsto dall’indirizzo di studi».


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Gli odiosi pregiudizi degli italiani sulla violenza sessuale contro le donne

Il 23,9% pensa che possano essere loro a provocare lo stupro con il modo di vestire. E il 10,3% ritiene che spesso le accuse siano false. Gli stereotipi da abbattere fotografati dall'Istat.

Pregiudizi odiosi e stereotipi pericolosi, da smontare pezzo dopo pezzo. Secondo l’Istat, per il 6,2% degli italiani le “donne serie” non vengono violentate.

Il 39,3% ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. E il 23,9% – cioè quasi una persona su quattro – pensa che possano essere loro a provocare lo stupro con il modo di vestire, mentre il 15,1% è convinto che una donna che subisce violenza quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.

I dati – inquietanti – sono contenuti nel report “Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale”, diffuso dall’istituto di statistica in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

LEGGI ANCHE: Violenza sulle donne, quei segnali d’allarme tra gli adolescenti

Come se non bastasse, per il 10,3% della popolazione italiana spesso le accuse di violenza sessuale sono false, dato che sale al 12,7% tra gli uomini e scende al 7,9% tra le stesse donne. Il 7,2% è convinto che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono di no, ma in realtà intendono sì. Infine, l’1,9% ritiene che non si tratti di violenza se un uomo obbliga la moglie o la compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

Se poi si parla di conciliazione tra lavoro e famiglia, secondo il 32% degli intervistati «per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro»; per il 31,5% «gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche»; per il 27,9% «è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia». Mentre per l’8,8% «spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia».

Non a caso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato che «benché molto sia stato fatto anche in Italia», la violenza «non smette di essere un’emergenza pubblica e per questo la coscienza della gravità del fenomeno deve continuare a crescere. Le donne non cessano di essere oggetto di molestie, vittime di tragedie palesi e di soprusi taciuti perché consumati spesso dentro le famiglie o perpetrati da persone conosciute». Ogni donna «deve sentire le istituzioni vicine, dobbiamo continuare ad adoperarci nella prevenzione, nel sostegno delle vittime e dei loro figli, nel reperimento delle risorse necessarie e nell’elaborazione di ciò che serve per intercettare e contrastare i segnali del maltrattamento».

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Il M5s lancia le Regionarie per le elezioni in Emilia Romagna e Calabria

Aperte le candidature per il voto del 26 gennaio su Rousseau. Resta il parere vincolante di Grillo e Di Maio.

Sono aperte le candidature per le “RegionarieM5s della Calabria e dell’Emilia Romagna in vista delle elezioni del 26 gennaio. Da oggi e fino al 4 dicembre tutti gli iscritti certificati residenti in Calabria o Emilia-Romagna potranno avanzare la loro candidatura su Rousseau. Come previsto dallo Statuto, «il Capo Politico, sentito il Garante, ha la facoltà di valutare la compatibilità della candidatura con i valori e le politiche del M5s, esprimendo l’eventuale parere vincolante negativo».

I CANDIDATI VOTATI SU ROUSSEAU

Il parere vincolante di Grillo e Di Maio sull’opportunità di accettazione della candidatura può essere espresso fino al momento del deposito delle liste elettorali. La lista dei candidati «che risulteranno effettivamente in regola con i requisiti, verrà resa pubblica e successivamente sottoposta alla votazione online su Rousseau» annuncia il M5s sul blog che ricorda la regola pentastellata: «Non sono consentite iniziative di autopromozione sia relativamente alla candidatura che per la votazione online».

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Perché occorre una mappatura geologica contro il dissesto

Il progetto Carg avviato nel 1988 è fermo da 15 anni per mancanza di fondi. Eppure il suo completamento sarebbe necessario per prevenire disastri e tragedie. Il punto.

Alluvioni e frane provocano vittime. Distruggono case e strade. Lasciando fango e distruzione. È successo di nuovo nelle ultime ore, da Nord a Sud: dalla Liguria a Matera.

IL PROGETTO CARG BLOCCATO DA 15 ANNI

Eppure in Italia non esiste una mappatura geologica precisa. Nonostante la continua denuncia del dissesto idrogeologico che flagella il Paese, i governi che si sono succeduti non hanno pensato di completare quella che è una “risonanza magnetica del territorio” per comprenderlo a fondo. E attuare iniziative di prevenzione, utili a capire anche i pericoli connessi alla sismicità delle aree più vulnerabili. Il progetto Carg, avviato nel 1988 con lo scopo di avere un quadro puntuale della geologia del Paese, è infatti fermo. Bloccato, a meno della metà della sua realizzazione, da almeno 15 anni per mancanza di finanziamenti.

LA CONOSCENZA DEL TERRITORIO

Il progetto di cartografia geologica (Carg) punta alla «realizzazione e informatizzazione dei 636 fogli geologici e geotematici alla scala 1:50.000 che compongono il puzzle della copertura al 50.000 dell’intero territorio nazionale (su una numerazione complessiva di 652 – tenuto conto dei Fogli con numerazione multipla che contengono porzioni di altri limitrofi e di quelli con numerazione duplicata)», recita la dicitura ufficiale. Detta così sembra qualcosa di eccessivamente tecnico.

LEGGI ANCHE: L’impatto degli eventi climatici estremi nelle città italiane

«Per far capire l’obiettivo di questo progetto è necessario fare un esempio», spiegano a Lettera43.it dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) . «La conoscenza del territorio è come una visita medica specialistica approfondita. Insomma, se una persona ha mal di schiena fa degli esami adeguati e si rivolge al medico adatto. Lo stesso vale per lo studio della geologia del Paese: se abbiamo i dati precisi, appena individuato il problema siamo in grado di fornire un’indicazione tempestiva», aggiungono dall’Istituto. Ma l’iniziativa fatica ad andare avanti: i fogli geologici, attivati nell’ambito del Progetto Carg, coprono il 44% del territorio rispetto al totale. Ci sono stati anni di lavoro, a cominciare dal 1988, con varie istituzioni, da quelle locali alle Università. Poi dal 2004 c’è stato lo stop.

PER SBLOCCARE IL LAVORO SERVONO 200 MILIONI

Per sbloccare l’impasse e ultimare il lavoro servirebbero poco più di 200 milioni di euro. In alternativa, per consentire la ripresa del progetto, sarebbero sufficienti 20 milioni all’anno per il prossimo triennio. Quest’anno è arrivato un segno di vita: un emendamento alla legge di Bilancio per destinare 30 milioni di euro al progetto Carg. La proposta è del Movimento 5 stelle, a firma di Vilma Moronese. La parola passa adesso alla maggioranza. «L’emendamento è un passo per andare avanti su un tema che riguarda tutti. Purtroppo si parla di dissesto idrogeologico solo quando ci sono i disastri», dice il pentastellato Mauro Coltorti. «È importante dare un segnale al Paese, la questione si intreccia con le conseguenze dell’emergenza climatica. Perché se da una parte c’è il clima, dall’altra c’è la vulnerabilità del territorio, che va curato nei minimi dettagli. E quale strumento migliore di una cartografia geologica?», sottolinea il senatore geologo. L’approvazione dell’emendamento sarebbe una boccata di ossigeno per il progetto: consentirebbe di realizzare circa 60 fogli geologici, il cui singolo costo si aggira sui 550 mila euro.

L’UTILIZZO IN CONTESTI DI CRISI

L’evoluzione della tecnologia favorirebbe l’impiego della carta geologica in contesti di crisi, come quelli visti nelle ultime ore. «La carta geologica è una infrastruttura preliminare che serve a realizzare le infrastrutture», mettono in chiaro dall’Ispra. «E in caso di richiesta potremmo fornire i dati anche mentre li stiamo realizzando. Se ci dovessero essere delle emergenze, per una zona in particolare, garantiremmo infatti la disponibilità di fornire le informazioni necessarie sulla porzione di territorio interessata da alluvioni o terremoti».

MOLTE REGIONI SENZA COPERTURA

Allo stato attuale, per capire il quadro, Piemonte, Veneto, Toscana, gran parte della Sardegna, ma anche la Calabria non hanno quasi copertura dei fogli. E sono zone ad alto rischio. Con la conoscenza del territorio ci sarebbe così la possibilità di scongiurare disastri, evitando la costruzione di edifici laddove non è geologicamente sicuro. Un esempio drammatico, ma lampante, è la frana di Sarno, che provocò la morte di 137 persone nel 1998. L’area è caratterizzata da terreno vulcanico che assorbe molta acqua, su una roccia calcarea: quando il terreno si è appesantito è venuto giù tutto, causando una tragedia. In presenza di una mappatura puntuale, il pericolo sarebbe stato di dominio pubblico.

ITALIA FANALINO DI CODA

L’Italia ha un primato di cui non andare fieri: è tra i fanalini di coda in Europa sulla conoscenza del territorio. In alcuni Paesi la carta geologica è già alla quarta edizione, con aggiornamenti continui. Eppure l’Italia un tempo era all’avanguardia: la prima carta geologica è stata finanziata nel 1861 da Quintino Sella. Il motivo? Da quegli studi era possibile capire dove reperire le risorse attraverso le estrazioni minerarie. Ma era anche una progettazione orientata alla necessità di studiare le opere pubbliche, come ferrovie e dighe. Proprio come ora.

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Hong Kong canta Bella ciao e spaventa il gigante Cina

Il risultato del voto contro Pechino ha una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica per l'ex colonia. Non era mai successo prima che i rappresentanti filo-cinesi venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.

Più che una vittoria elettorale è stato un plebiscito. Il 24 novembre il popolo di Hong Kong si è messo in fila, pazientemente, per strada, di fronte alle scuole, agli uffici governativi, ovunque ci fosse un seggio elettorale.

Si è alzato molto presto al mattino, il popolo di Hong Kong, malgrado fosse domenica, per arrivare prima, per cercare di creare il minor disturbo possibile, visto che già si poteva immaginare che l’affluenza sarebbe stata alta, anzi altissima, straordinaria: quasi il 72% degli aventi diritto al voto.

E senza aggressività, senza clamore – dopo settimane, mesi, di proteste, violenze e disordini – ha messo in pratica quello che di buono l’Occidente – gli inglesi in questo caso – in 150 anni di dominio coloniale gli hanno insegnato. La loro «migliore eredità»: la democrazia.

PER LA PRIMA VOLTA I PARITI FILO-CINESI SONO ESIGUA MINORANZA

E la democrazia ha vinto, a Hong Kong. I candidati anti-Pechino e pro-democrazia hanno conquistato il 90 % dei seggi, stravincendo in 17 dei 18 distretti in cui si divide l’ex colonia britannica. Si dirà che queste elezioni hanno carattere locale, che non cambieranno radicalmente gli equilibri politici all’interno del LegCo, il Legislative Council o “mini parlamento” di Hong Kong, che resterà comunque ancora dominato dai rappresentanti imposti da Pechino. Ma l’importanza del risultato elettorale riveste comunque una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica. Non era mai successo prima che, praticamente nell’intera struttura distrettuale di Hong Kong, i rappresentanti Pro-Pechino venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.

Supporter democratici esultano dopo il voto del 24 novembre a Hong Kong.

IL PARTITO COMUNISTA CINESE HA ACCUSATO IL COLPO

Ora, probabilmente, è troppo presto per cantare vittoria. Certo, all’indomani della disfatta del fronte pro-Pechino, anche l’inetta governatrice-fantoccio di Hong Kong, la contestatissima Carrie Lam, ha dovuto prendere atto del risultato. E della storica dèbacle. Persino a Pechino, i burocrati del Partito comunista cinese che continuano a governare questo immenso Paese con il pugno sempre più di ferro, strangolando ogni minimo sussulto democratico, hanno accusato il colpo. La prima ha dichiarato a caldo di volere «con umiltà ascoltare le opinioni dei cittadini», ma Geng Shuang, portavoce del ministro degli Esteri cinese, si è subito affrettato a dichiarare minacciosamente che «Hong Kong resta parte della Cina, a prescindere da qualsiasi risultato elettorale». Ma oggi queste parole aggressive e autoritarie, alle quali il gigante illiberale cinese ci ha abituato, suonano vuote, sembrano dette in affanno, per parare un colpo.

LA RESISTENZA DI HONG KONG PUÒ INCEPPARE LA PROPAGANDA CINESE

Forse anche l’onnipotente presidente-a-vita Xi Jinping ha già capito che la piccola Hong Kong potrebbe essere il sassolino che rischia di far saltare l’immenso e fino a oggi imbattibile ingranaggio repressivo cinese? Forse. Ma certo non accadrà domani. La ferrea censura cinese riesce ancora a mantenere nell’ignoranza e a manipolare quel miliardo e rotti di cittadini che ascoltano solo la versione dei fatti artefatta dall’efficiente macchina della propaganda di Pechino. La voglia, anzi la pretesa di democrazia, che si è affermata a Hong Kong senza se e senza ma, potrà piano piano “sgocciolare” dentro questa macchina propagandistica e distruggerla? Ce lo auguriamo, e chiunque abbia a cuore i valori non negoziabili della democrazia e dei diritti umani dovrebbe augurarselo. Ma è ancora troppo presto per dire se e quando ciò accadrà.

Cittadini di Hong Kong in fila durante le elezioni.

UN VOTO CHE DÀ ANCORA PIÙ VALORE ALLE PROTESTE

Intanto i cittadini di Hong Kong – lasciati soli, totalmente e colpevolmente soli nella loro lotta, dall’intero Occidente, che ha preferito girare la testa dall’altra parte e continuare ad allungare la mano per arraffare i soldi cinesi – hanno dato a tutti una straordinaria lezione di perseveranza, orgoglio, rappresentanza e democrazia. Grazie al loro voto, tutto il mondo ha potuto vedere che i manifestanti che combattevano da mesi, mettendo a ferro a fuoco le eleganti vie della ex colonia, non erano – come qualcuno, anche da noi, sosteneva in aperta cattiva fede – una «sparuta minoranza di violenti», avversati dalla maggioranza della popolazione di Hong Kong che in realtà sarebbe stata tutta a favore di Pechino. Al contrario, il risultato elettorale ha dimostrato che essi erano l’avanguardia di un fronte immenso, condiviso, maggioritario, che unisce nell’amore per la propria città e nella richiesta di democrazia, giovanissimi studenti, impiegati pubblici, professionisti, uomini d’affari, commercianti e casalinghe. Il popolo di Hong Kong, insomma. Quello che «una mattina, si è svegliato».

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Gli Altri, storie di burqa, amore e rabbia nel secolo del Jihad

Quello di Nicastro e Mineo è uno spettacolo ibrido, tra teatro e giornalismo. Che attraverso storie mostra la paura per un guerrigliero che ti punta contro un’arma, la pietà per una famiglia di profughi, l’incredulità davanti a un aspirante kamikaze.

Settanta anni fa erano i kamikaze giapponesi a sacrificare la propria vita per l’imperatore e oggi sono gli shahid islamisti a farlo in nome di Allah. L’interrogativo, però, è molto difficile da affrontare per la nostra cultura illuminista, ed è sempre lo stesso: perché lo fanno? La risposta più semplice è quella che si sente a ogni tigì quando un uomo-bomba si fa esplodere. È la risposta più rassicurante, quella, in fondo, che ci auto-assolve: sono dei pazzi. Semplicemente dei pazzi. 

UNO SPETTACOLO IBRIDO TRA CRONACA E TEATRO

Per 80 minuti, invece, i due autori-interpreti dello spettacolo Gli Altri, storie di burqa, amore e rabbia nel secolo del Jihad, in scena al teatro Officina di Milano, fanno di tutto per contestualizzare, problematizzare, rendere la complessità del reale in tutte le sue sfaccettature. Uno zigzagare tra luoghi, date, guerre alla ricerca di una risposta più elaborata. Possiamo noi occidentali, con la nostra razionalità, ma anche con le nostre rimozioni collettive davanti a una storia che non ci rende orgogliosi, capire tale sacrificio? Così, nel corso dello spettacolo, le ragioni umane, ma anche storiche e politiche del terrorismo islamista, prendono forma una dopo l’altra, incarnate in storie di persone reali, incontrate in Cecenia, Egitto, Iraq, AfghanistanGli Altri è uno spettacolo “ibrido”, di fusione tra cronaca e drammaturgia, e prova a rispondere a quella scomoda domanda «perché lo fanno?», con tutte le modalità espressive del genere. Non sono poche le lacrime alla fine della rappresentazione. Dal Vajont di Marco Paolini in avanti, le “orazioni civili” sembrano essere diventate l’elemento di maggiore impatto della scena teatrale contemporanea. In genere è l’attore o il drammaturgo che si spingono nel terreno dell’informazione. Nel caso de Gli Altri, storie di burqa, amore e rabbia nel secolo del Jihad sono invece due giornalisti a fare il percorso dalla cronaca verso le scene. Con tutti i limiti, ma anche i pregi del caso.

IL VIAGGIO DI NICASTRO E MINEO

Andrea Nicastro è inviato del Corriere della Sera, Francesca Mineo la voce di tante Ong che lavorano per lo sviluppo dei Paesi più poveri. Assieme hanno scritto e ideato un viaggio (immobile, ma coinvolgente) nei luoghi e nelle situazioni dove vivono gli Altri. Il loro peso attoriale non regge il confronto con i professionisti della scena, ma l’esposizione non ne risente perché gode della forza della verità. Come dice Massimo De Vita, direttore artistico dell’Officina, «i bravi attori devono essere capaci di “ascoltare e osservare” i personaggi che vogliono riprodurre in scena. Il duo Mineo-Nicastro non ha bisogno di padroneggiare la tecnica perché “recitano” semplicemente loro stessi. La paura per un guerrigliero che ti punta contro un’arma, la pietà per una famiglia di profughi, l’incredulità davanti a un aspirante uomo-bomba, non sono recitate, sono solo rievocate rispetto a episodi provati in prima persona. Non c’è bisogno di interpretare, basta che raccontino». Il risultato è un effetto verità che nessun attore può raggiungere. Aiuta anche la presenza di un enorme schermo che inonda l’intera scena con piccole clip o anche solo foto che mostrano le persone e gli eventi che si vogliono evocare. Tutti i sensi vengono così coinvolti. La regia è di Fabio Bettonica, le foto, intense e commoventi, di sguardi e volti “Altri” sono di Romano Cagnoni, Lorenzo Merlo e Mauro Sioli. Un intervento in audio è del direttore di Radio Popolare Massimo Bacchetta. Tre serate, tre sold out. Se c’era bisogno di verificare la fame di informazione di qualità nel nostro Paese, questo Gli Altri lo ribadisce con forza.

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Cellino su Balotelli: «È nero, sta lavorando per schiarirsi»

Le parole - che definire infelici è dire poco - del presidente del Brescia sulla situazione dell'attaccante, escluso dalla sfida contro la Roma per scarso impegno negli allenamenti. E ancora: «Dà più peso ai social che ai suoi valori sportivi».

Cosa succede con Mario Balotelli? «Che è nero, cosa vi devo dire. Che sta lavorando per schiarirsi, però c’ha molte difficoltà».

È iniziata con questa frase – che definire infelice è un eufemismo – l’analisi dal presidente del Brescia, Massimo Cellino, sulla situazione dell’attaccante italiano, recentemente bersagliato da versi di scimmia nello stadio dell’Hellas Verona.

Nella sede della Lega Serie A, l’imprenditore agricolo originario di Cagliari ha aggiunto: «Nel calcio ci sono squadre che combattono e vincono. Se noi pensiamo che un giocatore da solo possa vincere la partita, offendiamo la squadra e il gioco del calcio».

LEGGI ANCHE: Il razzismo negli stadi si combatte anche con le parole giuste

Cellino ha proseguito sullo stesso tono critico: «È giusto comunicare con la gente, però forse Balotelli dà più peso ai social che ai suoi valori da sportivo». E non ha risparmiato nemmeno l’allenatore delle Rondinelle, Fabio Grosso: «La settimana scorsa ha fatto un errore, in conferenza stampa ha parlato di Balotelli e non della squadra. Ho preso Balotelli a fine mercato, non per fare abbonamenti né per vendere pubblicità. L’ho preso perché è un metro e 90, è un animale, ha ancora un’età per dire qualcosa nel calcio. Poteva essere un valore aggiunto, per sovraesposizione lo abbiamo fatto diventare un punto di debolezza. Se continuiamo a parlare di Balotelli, facciamo male a lui e a noi stessi».

LEGGI ANCHE: Il Verona mette al bando il capo ultrà Castellini fino al 2030

Il presidente del Brescia ha detto tuttavia che personalmente non si sente “tradito” dall’attaccante, escluso dalla sfida contro la Roma per scarso impegno durante gli allenamenti. Una decisione dell’allenatore, alla quale Balotelli aveva replicato con una story su Instagram. Il video temporaneo lo ritraeva mentra veniva massaggiato da un membro dello staff medico del club ed era accompagnato da una didascalia: “In guarigione. Torno presto, per il momento lasciamoli parlare”. Grosso l’aveva definito «svogliato» e dopo la sconfitta con la Roma aveva puntualizzato: «Se c’è o non c’è lo decido io. Ha le qualità per fare bene, ma servono anche disponibilità, fatica e qualcosa in più. E se Mario a volte non riesce a mettersi a disposizione la squadra fatica a sorreggerlo».

«Non speravo assolutamente che fosse Balotelli a salvare la squadra e gliel’ho detto», ha commentato invece Cellino, «è troppo facile scaricare le colpe su di lui e usarlo come capro espiatorio. È uno dei motivi per cui ho cambiato allenatore. Andava più aiutato lui di quanto lui potesse aiutare noi. Forse all’inizio eravamo in grado di farlo, ora ci siamo indeboliti ed è più difficile. Perciò dobbiamo cercare di parlare meno possibile e di spegnere ‘sti cazzo di social, sono la bestia degli Anni 2000».

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Violenza sulle donne, quei segnali d’allarme tra gli adolescenti

Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il premier Giuseppe Conte ha dichiarato: «La violenza..

Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il premier Giuseppe Conte ha dichiarato: «La violenza contro le donne rimane un’emergenza. Lavoriamo per una svolta culturale, che parta dai giovani». Ma, al netto degli interventi (doverosi) della politica, come si può capire nel concreto se una relazione rischia di sfociare in un rapporto violento o comunque malsano? È utile, sia per i ragazzi sia per le ragazze, riconoscere alcuni segnali. Un vademecum per i più giovani, (Non) È amore se – Piccola guida per adolescenti su come dare vita a una relazione d’amore senza abusi né prevaricazioni – è scaricabile gratuitamente a questo link.

I SEGNALI PER I RAGAZZI…

Parlando dei ragazzi, gli autori spiegano: «Non è amore se, involontariamente, ti trovi spesso ad essere insensibile, irrispettoso o diffidente; se aggredisci verbalmente la tua ragazza e ti arrabbi sconsideratamente quando non sei d’accordo con lei; se ti capita di insultarla, di deriderla o di sminuire i suoi sentimenti o le cose che per lei sono importanti, se la umili su Facebook o davanti ai tuoi amici, se sei eccessivamente geloso delle sue amicizie, del tempo passato in famiglia e dei suoi spazi “senza di te”, se le imponi di non vedere i suoi amici o se glielo permetti, poi ti vendichi trattandola male o mostrando indifferenza e allontanandoti, se non ti fidi di lei e la costringi spesso a mostrarti il cellulare o il suo profilo Facebook».

…E QUELLI PER LE RAGAZZE

Nella guida si parla anche di ragazze. Spesso si tende a sminuire episodi violenti, a non ‘capirli’, a inquadrarli. Ci sono segnali per capire se la relazione sta andando nella direzione sbagliata. Ad esempio, continuano gli autori, se «il tuo partner controlla il tuo cellulare o i tuoi account aocial senza autorizzazione, tende ad umiliarti costantemente, mostra una gelosia estrema: fa scenate, urla, spacca cose o ti sequestra il cellulare e vuole sapere esattamente dove vai o con chi, ti isola dalla famiglia o dagli amici, ti accusa di cose che non hai mai fatto, ha frequenti sbalzi d’umore e ti accusa di essere la causa di ogni suo male, insiste nel voler fare sesso anche se tu non vuoi e ti aggredisce verbalmente e si arrabbia sconsideratamente se dici di no o se cambi idea dopo aver detto di sì».

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Guidare con la pioggia, i consigli di Pirelli

Sull’asfalto bagnato l’aderenza è ridotta, la direzionalità diminuisce e aumentano gli spazi di frenata. Ecco come contenere i rischi

Siamo ormai entrati ufficialmente nella stagione della pioggia, uno dei nemici più insidiosi di chi si trova alla guida, che sia per lunghi o brevi tratti. Sebbene le auto di oggi siano più sicure rispetto a quelle del passato, la pioggia resta un nemico da non sottovalutare mai. Lo ricorda a tutti gli automobilisti Pirelli, l’azienda dalle forti radici italiane con stabilimenti in 12 Paesi del pianeta tra i principali produttori mondiali di pneumatici e di servizi a questi collegati.

ADERENZA E VISIBILITÀ

Diverse sono le problematiche con le quali il guidatore deve fare i conti quando piove. Prima tra tutti la diminuzione dell’aderenza soprattutto in presenza di pozzanghere le quali possono innescare l’aquaplaning, il temibile fenomeno di “cuscinetto” d’acqua che fa venir meno il contatto tra le gomme e l’asfalto. Freddo e foglie poi, in autunno, non fanno che rincarare la dose perché cadono intasando i tombini e trasformandosi in “saponette”. Oltre che con l’aderenza ridotta, chi guida deve tenere sempre ben presente che a causa delle gocce di pioggia la visibilità è limitata, motivo per cui i tergicristallo devono essere in perfetta efficienza. A questo si aggiunge, inoltre, la “nube” sollevata dai pneumatici che viene limitata solo dai tratti di strada con asfalto drenante.

ALCUNI ACCORGIMENTI DA ADOTTARE IN AUTO

Partiamo ora con i consigli veri e propri che l’azienda ha ritenuto segnalare. «Quando piove – spiega Pirelli – sterzo, acceleratore e freno vanno usati più dolcemente del solito. Se l’Esp c’è, non va disinserito come molti pensano. Se manca, occorre sfruttare le marce più alte compatibili con la velocità alla quale si procede: in questo modo le ruote tenderanno meno a slittare. Inoltre, bisogna attivare il “clima” per ridurre il rischio che i vetri si appannino. Nel caso, deviare l’aria sul parabrezza (spesso esiste un tasto specifico) per ripulirlo alla svelta».

ATTENZIONE A SEGNALI E POZZANGHERE

Messe in chiaro alcune impostazioni di guida, Pirelli pone l’attenzione sui segnali stradali, mai da sottovalutare soprattutto in caso di pioggia. «Attenzione, quindi, ai cartelli che avvisano di fondi sdrucciolevoli in caso di pioggia e anche a quelli che annunciano cunette o sottopassi – segnala Pirelli – sono le situazioni più a rischio di allagamento». Importante inoltre è prestare attenzione alle pozzanghere, senza mai sminuire la loro profondità: «Potrebbero nascondere una buca in grado di provocare seri danni a gomme, cerchi e sospensioni, oltre che far perdere il controllo della vettura. Meglio evitarle, o comunque superarle lentamente. Identico è il consiglio nel caso di un allagamento: il rischio, nello specifico, è di far aspirare acqua al motore o di bagnare l’impianto elettrico» ribadisce l’azienda produttrice di pneumatici. Fatte queste premesse, Pirelli non dimentica di ricordare che il primo consiglio per guidare sul bagnato è quello di adottare uno stile più prudente, moderando la velocità, evitando distrazioni e aumentando la distanza di sicurezza.

COME CONTRASTARE L’AQUAPLANING

Come detto quando parliamo di pozzanghere e guida con pioggia tiriamo in ballo anchel’aquaplaning che si presenta quando si entra in una pozzanghera già a partire dai 50 km/h. Cosa succede nello specifico? L’azienda lo spiega in modo semplice: «Il pneumatico, non riuscendo ad espellere l’acqua tramite la scolpitura del battistrada, tende a far ‘galleggiare’ la vettura con la conseguente perdita di direzionalità. Non per forza il fenomeno è causato da un avvallamento della sede stradale, ma entrano in gioco uno stato d’uso avanzato o una pressione errata delle nostre gomme». Per contrastare l’aquaplaning, il primo consiglio proposto da Pirelli è quello di cercare di restare calmi tenendo lo sterzo ben saldo ed eventualmente toccare lievemente i freni. Da tenere bene a mente, inoltre, è il fatto che in questi casi anche i più sofisticati sistemi di sicurezza possono avere tempi di risposta “lunghi”, motivo per cui è bene intervenire rapidamente, in modo deciso ma delicato.

OCCHIO ALLA ‘SCHIUMETTA’

Altro fenomeno a cui prestare attenzione quando piove e si è alla guida è il pericoloso viscoplaning che si presenta, di solito, dopo la caduta delle prime gocce di pioggia. «L’acqua si mischia con lo sporco e gli oli che sono depositati sulle strade creando un’emulsione particolarmente viscida: è la famosa ‘schiumetta’ che si vede affiorare sull’asfalto quando inizia a piovere – spiega Pirelli – La prudenza e la velocità ridotta sono i primi rimedi per anticipare situazioni di pericolo che possono portare sovrasterzo o sottosterzo». Come reagire in questi casi? Alleggerire il gas e raddrizzare leggermente il volante fino a quando le ruote non riprendano direzionalità evitando di accentuare la sterzata, azione che per istinto verrebbe di fare.

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Le indagini sul viadotto crollato della Torino-Savona

La procura della città ligure vuole accertare anche lo stato dei piloni. Al momento «è impossibile» stabilire la causa del cedimento. Il gruppo Gavio: «Ricostruzione in quattro mesi».

C’è anche lo stato dei piloni nell’inchiesta della procura di Savona che indaga sul viadotto della A6 “Madonna del Monte” crollato domenica 24 novembre.

Quel tratto di autostrada è di competenza di Autostrada dei Fiori, di proprietà del gruppo Gavio. Una porzione di circa 30 metri è venuta giù «a causa di una frana che ha travolto i pilastri», ha detto Giovanni Toti, governatore della Regione Liguria.

Ma il procuratore di Savona, Ubaldo Pelosi, per il momento non esclude nessuna ipotesi: «Abbiamo fatto alcuni sopralluoghi, per chiarire i fatti ci vorrà del tempo». Di sicuro allo stadio attuale «è impossibile» dire se quanto accaduto debba essere attribuito a problemi strutturali oppure no.

LEGGI ANCHE: Sono quasi 6 mila i viadotti da mettere in sicurezza

Intanto Bernardo Magrì, amministratore delegato di Autostrada dei Fiori, ha stimato in quattro mesi i tempi di ricostruzione della parte crollata del viadotto: «È tecnicamente possibile, con l’ipotesi di una campata in acciaio non sorretta da un pilone». Magrì ha aggiunto che ci sono già aziende pronte a intervenire. I tecnici stanno verificando la tenuta dell’altra carreggiata, per valutare se poterla riaprire su due sensi di marcia.

Mentre una buona notizia arriva dai vigili del fuoco, che hanno ufficialmente terminato le ricerche sulla massa della frana: il crollo non ha coinvolto né automobili, né persone. Sono ora in corso le operazioni per la messa in sicurezza dell’alveo, visto il peggioramento delle condizioni meteo atteso per la giornata del 26 novembre.

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La Cina ha provato a infiltrare una spia nel parlamento australiano

Un cittadino cinese ha anche rivelato ai servizi segreti australiani come Pechino segretamente controlli le imprese quotate in borsa per finanziare operazioni di intelligence.

Lo spionaggio cinese sulla politica australiana. Una rete di spionaggio di Pechino ha tentato di far eleggere nel Parlamento federale australiano un proprio operatore come deputato del partito liberale al governo. Inoltre le autorità australiane valutano seriamente, nonostante le smentite di Pechino, le dichiarazioni di un cittadino cinese Wang Liqiang che si dichiara agente dell’intelligence militare cinese e rivela ai servizi segreti australiani come Pechino segretamente controlli le imprese quotate in borsa per finanziare operazioni di spionaggio.

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A Hiroshima il papa ha scritto la sua Pacem in Terris

Nel discorso pronunciato al Memoriale per la pace di Hirsoshima Francesco è si è concentrato sul rischio rappresentato dagli arsenali nucleari, ricalcando i passi di Giovanni XXIII e Paolo VI.

Utilizzare l’energia atomica «per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune». Lo ha affermato papa Francesco durante il suo viaggio pastorale in Thailandia e Giappone durante il quale sta scrivendo un capitolo importante del suo magistero, una sorta di Pacem in Terris per il nostro tempo.

D’altro canto, nel discorso pronunciato al Memoriale per la pace di Hirsoshima, città colpita nell’agosto del 1945 da una delle due bombe atomiche che caddero sul Giappone (l’altra devastò Nagasaki), Francesco ha fatto più volte riferimento all’enciclica di Giovanni XXIII pubblicata nel 1963 che conteneva la visione nuova della Chiesa di fronte ai grandi cambiamenti della seconda metà del secolo scorso: dall’urgenza del disarmo nell’epoca della corsa agli armamenti, alla scossa tellurica prodotta dal processo di decolonizzazione attraverso i continenti, dalle rivendicazioni del movimento dei lavoratori, al nuovo protagonismo civile delle donne, all’affermazione dei diritti umani e civili.

Infine, nel rifiuto totale della guerra da parte del papa, è riecheggiato il magistero di Paolo VI – al cui insegnamento speso guarda Bergoglio – e del celebre discorso pronunciato alle Nazioni Unite il 4 ottobre del 1965 in cui disse li suo «mai più la guerra!».

LA SFIDA DEL FUTURO PER LA CHIESA È LA CONQUISTA DELL’ASIA

Bergoglio, da buon gesuita, sta riprendendo in questi giorni, e più largamente in questi anni di pontificato, la strada dell’oriente che la Compagnia di Gesù ha percorso praticamente fin dalla sua nascita nel XVI secolo seguendo le orme di Francesco Saverio e Matteo Ricci. Dalla Cina al Giappone, infatti, i seguaci di Ignazio di Loyola hanno provato a portare il Vangelo oltre i confini del mondo cristiano aprendo all’evangelizzazione le porte dell’Asia, continente immenso, immensamente popolato e oggi non più misterioso come qualche secolo fa.

La Chiesa non è più organicamente legata all’Occidente, magari lungo l’asse atlantico, guarda ai popoli e alle nazioni di tutti i continenti

Non per caso Francesco ha già visitato Corea del Sud, Myanmar, Bangladesh, Filippine, Sri Lanka, e in questi giorni ha toccato Thailandia e Giappone. La sfida della Chiesa per i prossimi decenni del resto, è quella di riuscire a ‘entrare’ in Asia non più, come pure avvenne spesso nei secoli in passati, a bordo delle navi delle grandi compagnie commerciali europee o sotto scorta dei contingenti miliari delle potenze un tempo coloniali, ma con la forza del messaggio cristiano, un messaggio che, di conseguenza, non può imporsi con la forza di un’ideologia – non può insomma essere inteso come dottrina spirituale ufficiale dell’occidente – ma che deve incontrarsi e amalgamarsi con le tradizioni culturali e religiose incontrate lungo il cammino.

Papa Francesco con l’imperatore del Giappone Naruhito (foto LaPresse).

Se questo è l’obiettivo, il papa da tempo ha messo in atto una strategia globale che va in tale direzione: la Chiesa non è più organicamente legata all’Occidente, magari lungo l’asse atlantico, guarda ai popoli e alle nazioni di tutti i continenti – come dimostrano le tante nomine fatte dal pontefice di cardinali di località e Paesi del Sud del mondo e di tutti i continenti – propone muovi modelli di sviluppo per curare le ingiustizie sociali, affronta i grandi temi globali del disarmo nucleare, della tutela del Creato, delle migrazioni. D’altro canto non va dimenticato che la storia dei gesuiti in Giappone è stata anche segnata da incomprensioni, persecuzioni e martirio racconta Silence, un recente film del grande regista americano Martin Scorsese.

LA SVOLTA GREEN E L’ATTACCO ALLA PROLIFERAZIONE DEGLI ARMAMENTI

Sul piano diplomatico la Santa Sede ha sviluppato un intenso dialogo con Pechino riuscendo, dopo lunghi negoziati, a sottoscrivere un accordo, certo ancora fragile, per la nomina condivisa dei vescovi; accordo che ha spaventato e allarmato la Casa Bianca in pieno conflitto economico con la Cina e che pure in oriente non tutti hanno visto di buon occhio. D’altro canto la battaglia apertasi a Hong Kong fra i giovani e le autorità cinesi ha messo in qualche imbarazzo la Santa Sede, chiusa fino ad ora in uno stretto riserbo sulla crisi nell’ex colonia britannica

Il possesso di ordigni nucleari per Francesco è «immorale»

Ora, con la visita in Giappone, Francesco ha compiuto una tappa fondamentale del suo pellegrinaggio verso oriente e a Hiroshima e Nagasaki è tornato su un tema cruciale che passa dal secolo scorso a quello successivo: quello del rischio rappresentato dagli arsenali nucleari. Se Giovanni XXIII nella Pacem in Terris chiedeva la «messa al bando» degli armamenti nucleari e Giovanni Paolo II nel 1981 a Nagasaki impegnava la Chiesa a battersi per «l’abolizione delle armi nucleari», Francesco ci sta dicendo che finita ormai da un trentennio la Guerra fredda – si celebra in questi giorni il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino – la minaccia nucleare pesa ancora su di noi, tanto che «l’intimidazione bellica nucleare» viene utilizzata dagli Stati come risorsa legittima «per la risoluzione dei conflitti», mentre lo stesso possesso di ordigni nucleari per Francesco è «immorale».

Papa Francesco durante l’incontro con un monaco buddista durante l’incontro per commemorare le vittime di Fukushima (foto LaPresse).

Il papa, inoltre, ha allargato il discorso alla proliferazione delle armi convenzionali sempre più raffinate, al persistere di conflitti tragici, al loro legame con la povertà, con la scarsa attenzione alla cura della «casa comune», cioè della Terra, col diffondersi di odio e discriminazioni. Ancora, incontrando a Tokyo i sopravvissuti del disastro di Fukushima (dove nel 2011 vi fu un gravissimo incidente nella centrale nucleare in seguito a un terremoto), ha espresso «preoccupazione» per l’uso civile dell’energia nucleare, mentre con l’imperatore del Giappone Naruhito ha toccato il tema delle guerre del futuro che potrebbero essere combattute per il controllo delle risorse idriche. Una cosa sembra ormai certa: il papa declina il suo magistero sociale in chiave “green” disegnando un pontificato che collega sempre di più i temi dell’ambiente, della crisi ecologica del Pianeta, all’annuncio cristiano.

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Nuovo record per le emissioni di gas serra

Nessun rallentamento nell'ultimo bollettino pubblicato dall'Organizzazione meteorologica mondiale. Ancora in crescita i livelli di anidride carbonica.

Nuovo, preoccupante record dei livelli di gas serra. Lo ha comunicato l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) nel bollettino pubblicato il 25 novembre. Questa tendenza a lungo termine, dicono gli esperti, si traduce in «impatti sempre più gravi dei cambiamenti climatici, con temperature in aumento, condizioni meteo più estreme, stress idrico, innalzamento del livello del mare e perturbazione degli ecosistemi marini e terrestri». Inoltre, «non vi è alcun segno di rallentamento, per non parlare di un calo», ha detto il segretario generale dell’Omm, Petteri Taalas.

ANCORA IN CRESCITA I LIVELLI DI ANIDRIDE CARBONICA

Il bollettino dei gas serra dell’Omm ha dimostrato che le concentrazioni medie globali di anidride carbonica (Co2) hanno raggiunto 407,8 parti per milione nel 2018, rispetto a 405,5 parti per milione (ppm) nel 2017. L’aumento di Co2 dal 2017 al 2018 è stato molto vicino a quello osservato dal 2016 al 2017 e appena sopra la media nell’ultimo decennio. I livelli globali di Co2, che resta in atmosfera per secoli e negli oceani ancora più a lungo, hanno attraversato il benchmark simbolico e significativo di 400 parti per milione nel 2015. Anche le concentrazioni di metano e protossido di azoto sono aumentate in misura maggiore rispetto allo scorso decennio, secondo le osservazioni della rete Global Atmosphere Watch che comprende stazioni nell’Artico remoto, aree montane e isole tropicali.

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L’insopportabile leggerezza del dibattito sul Mes

La polemica sovranista rischia di far dimenticare che si tratta di un’istituzione necessaria, soprattutto per un Paese con un debito monstre come l'Italia. E che a gridare «al lupo al lupo» sono gli stessi lupi: coloro che più di tutti hanno contribuito a rendere fragile il nostro Paese con parole a vanvera e azioni dissennate gridate dal balcone.

Il confuso dibattito sul Mes, dominato dalle grida dei sovranisti, rischia di far dimenticare che il Mes è un’istituzione molto utile, soprattutto per un Paese come l’Italia con il suo debito pubblico monstre

L’esigenza di dotare il sistema comunitario di un fondo in grado di sostenere le economie più deboli si manifestò prima con la crisi greca e poi con quelle di Cipro, Portogallo, Irlanda e Spagna. Proprio l’esperienza greca convinse l’Eurogruppo a costituire uno stabile sistema di salvaguardia, il Mes, dotato di un capitale molto consistente (704 miliardi sottoscritti, di cui 80 versati) e della possibilità di emettere una grande quantità di obbligazioni per finanziare a tassi di favore e con scadenze fino a 40 anni Paesi in difficoltà.

I prestiti del Mes sono inoltre la porta di accesso alle Omt (Outright Monetary Transaction), operazioni teoricamente illimitate a sostegno di un Paese che furono introdotte assieme alla famosa affermazione di Mario Draghi nel 2012 che l’euro sarebbe stato salvato con qualunque mezzo (whatever it takes).

IL MES È UNA RETE DI SICUREZZA PER I PAESI IN DIFFICOLTÀ

In sostanza il Mes è una rete di sicurezza a favore di Paesi in difficoltà; è proprio quel prestatore di ultima istanza di cui molti avevano denunciato l’assenza. È anche utile ricordare ai nostri sovranisti che il Mes è una manifestazione di solidarietà dei Paesi più solidi nei confronti degli altri: la Germania, con una quota del 27%, è infatti di gran lunga il principale contributore, anche se è del tutto improbabile che possa aver bisogno della sua assistenza. Anche se andassero in crisi le maggiori banche tedesche, la Germania, avendo un debito inferiore al 60% del Pil, sarebbe in grado di cavarsela sa sé. L’Italia invece contribuisce con il 17% (che corrisponde a 14 miliardi). 

LA RIFORMA NON STRITOLA IL NOSTRO PAESE

È anche sbagliato vedere la riforma come un modo per stritolare l’Italia, come è stato detto in questi giorni. Nessun leader europeo ha voglia di trovarsi a dover gestire il guaio immenso che sarebbe per l’intera Europa un default dell’Italia. La finalità della riforma è quella di rendere più solida l’Eurozona, attraverso il potenziamento dei prestiti precauzionali e l’introduzione del backstop bancario, ossia della rete di sicurezza per il Fondo di Risoluzione Unico delle banche; questi sono passi avanti, anche se abbastanza limitati. 

IL NODO DELLA RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO

Il punto critico riguarda la possibile ristrutturazione dei debiti pubblici. Qui va subito chiarito che, come ha spiegato nei giorni scorsi l’ex-ministro Giovanni Tria, non è passata la linea oltranzista, sostenuta in particolare dall’Olanda, secondo cui un Paese che si rivolge al Mes per assistenza deve preventivamente ristrutturare il proprio debito. La proposta di revisione del Trattato, che dovrebbe essere approvata dai governi a dicembre e sottoposta successivamente alla ratifica dei parlamenti nazionali, prevede infatti una cosa diversa e cioè una preventiva analisi di sostenibilità del debito. Solo se l’esito di tale analisi è negativo si apre la strada della ristrutturazione. L’aver definito questa sequenza di adempimenti in modo assai prescrittivo è il motivo per il quale molti analisti economici, a cominciare dal governatore Visco, hanno espresso delle perplessità

GLI UNICI A PREOCCUPARSI SONO GLI ITALIANI

Il timore è che si replichi il guaio di Deauville, la cittadina francese in cui, a margine di vertice europeo, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, nell’ottobre del 2010, parlarono per la prima volta di «coinvolgimento del settore privato» che è una perifrasi per ristrutturazione del debito pubblico; il riferimento era alla Grecia, ma gli effetti di contagio furono notevoli sull’Italia e sugli altri Paesi della cosiddetta periferia dell’Eurozona. Ma anche qui è bene chiarire che queste preoccupazioni derivano dal fatto che l’Italia è un Paese che sta perennemente sull’orlo del baratro a causa dell’alto debito pubblico e della mancanza di politiche che possano rilanciare la crescita, migliorare l’avanzo primario e, in definitiva, porre su una traiettoria chiaramente discendente il rapporto debito/Pil. Non è un caso che gli unici che si preoccupano di questa riforma sono gli italiani; gli altri Paesi hanno fatto le riforme che erano necessarie e sono oggi tutti più solidi dell’Italia, come mostra il fatto che il nostro spread con la Germania è il più alto dell’intera Eurozona. 

I MOTIVI ALLA BASE DELLA RIFORMA

Se l’Italia fosse riuscita a fare le riforme che ha fatto per esempio la Spagna non si preoccuperebbe oggi del nuovo Trattato Mes le cui finalità, per quello che riguarda la gestione dei debiti pubblici, sono, di per sé, ragionevoli. La prima ragione della riforma riguarda l’azzardo morale. Si sostiene che occorre mantenere aperta la possibilità di una ristrutturazione, altrimenti viene meno qualunque incentivo a mettere ordine nei conti pubblici. Sapendo che tanto, in caso di crisi, interverrà il Fondo Salva Stati, i mercati non prezzano il rischio di un Paese e il governo può accumulare debiti quasi senza limiti. La seconda ragione della riforma nasce dall’esperienza della Grecia: nel periodo fra il 2010, quando scoppiò la crisi, e il 2012, quando fu attuata la ristrutturazione del debito, i prestiti dell’Efsf (l’istituzione temporanea che fu poi sostituita dal Mes) andarono in parte a rimborsare i creditori della Grecia e, fra questi, le banche tedesche e francesi che erano molto esposte con la Grecia. Per evitare questo esito e far sì che i prestiti vadano effettivamente ad aiutare la nazione in difficoltà, occorre aver attuato preventivamente una ristrutturazione del debito. È curioso che proprio coloro che sostengono che il Mes serve per salvare i creditori, allora le banche francesi e tedesche, ora strepitino contro l’unica soluzione che può effettivamente evitare che ciò avvenga.    

I TIMORI SONO LEGATI ALLE NOSTRE MANCANZE

In conclusione, i timori di un giudizio negativo sulla sostenibilità del nostro debito da parte di Mes e Commissione attengono più alla nostra incapacità di dotarci di una disciplina di bilancio che guardi alla crescita e alle riforme e meno agli sforamenti del deficit. A gridare «al lupo al lupo» sono gli stessi lupi, ossia coloro che più di tutti hanno contribuito a rendere fragile l’Italia, con parole a vanvera e azioni dissennate gridate dal balcone. 

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Perché Uber non potrà più operare a Londra

Le autorità municipali non rinnovano la licenza. Ultimo atto di una controversia che dura dal 2017. Il motivo? Problemi legati a sicurezza dei passeggeri e tutela del lavoro.

Uber non potrà più operare a Londra. Le autorità municipali della capitale britannica hanno infatti annunciato il 25 novembre di aver negato il rinnovo della licenza al colosso americano dei taxi online evocando «violazioni» delle regole che mettono a rischio i passeggeri e la loro sicurezza. L’azienda farà appello e potrà restare attiva finché questo non verrà esaminato. Transport for London (Tfl), l’agenzia comunale dei trasporti, aveva già sospeso Uber nel 2017, salvo concedere poi due proroghe, l’ultima scaduta il 24 novembre.

UNA CONTROVERSIA CHE DURA DA DUE ANNI

Tfl ha ricordato di aver contestato violazioni e negligenze a Uber nell’ambito del conflitto legale innescatosi già due anni fa, sottolineando come l’azienda vi abbia posto rimedio solo in parte. Mentre ha liquidato il modus operandi dell’app come tuttora «non adeguato né corretto» rispetto alla normativa locale. Nel 2017 Uber era finita sotto accusa per non aver denunciato alla polizia alcuni reati commessi dai suoi autisti, fra cui molestie sessuali nei confronti dei clienti. Ma anche per le precarie condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i driver.

OLTRE 3,5 MILIONI DI UTENTI E 45 MILA AUTISTI A LONDRA

Lo stop imposto dal Comune nel 2017 era stato seguito da una prima estensione temporanea della licenza di 15 mesi e da una seconda di due, concesse dopo una serie di impegni assunti dall’azienda in materia di sicurezza dei passeggeri e della tutela del lavoro, nonché dopo la sostituzione dei vertici manageriali nel Regno Unito. Uber, che ha ora 21 giorni per formalizzare l’appello di fronte alla giustizia britannica, ha bollato la decisione dell’autorità municipale – con cui è entrata in conflitto fin dall’elezione a sindaco del laburista Sadiq Khan al posto del conservatore (e attuale primo ministro) Boris Johnson – «incredibile e sbagliata». Circa 45 mila autisti lavorano a Londra per Uber, con un’utenza di oltre 3,5 milioni di persone.

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Sono quasi 6 mila i viadotti da mettere in sicurezza

L'allarme del presidente dell'Upi: nessuna iniziativa concreta intrapresa dopo il monitoraggio seguito al crollo del Ponte Morandi.

Quasi 6 mila viadotti che necessitavano di un intervento urgente e per i quali non è stato fatto ancora nulla. L’allarme è stato lanciato dal presidente dall’Upi (unione delle Province italiane) all’indomani del crollo sulla Torino-Savona e dei danni pesantissimi alle infrastrutture viarie causati dal maltempo. «Nell’agosto del 2018, all’indomani della tragedia del ponte Morandi», ha spiegato Michele De Pascale, «ci venne chiesto un monitoraggio urgente sugli oltre 30 mila ponti, viadotti e gallerie in gestione. In poche settimane consegnammo al ministero delle Infrastrutture un quadro da cui emergeva la necessità di intervenire su 5.931 strutture, su cui avevamo già pronti i primi progetti, e di procedere con indagini tecnico diagnostiche urgenti su 14.089 opere».

«CI ASPETTAVAMO RISPOSTE MIRATE, MA NULLA È STATO FATTO»

«Ci aspettavamo che questa analisi dettagliata portasse a risorse mirate, invece nulla è stato fatto», ha aggiunto il presidente dell’Upi. «Non solo, le Province continuano a essere sottoposte a un assurdo blocco di assunzioni, del tutto ingiustificabile, che non ci permette di avere personale tecnico specializzato, ingegneri, progettisti, tecnici, indispensabili per far procedere rapidamente gli investimenti. Un blocco che sembra essere tutto ideologico, non giustificato da motivi tecnici né di spesa, frutto del pregiudizio contro le Province che non fa che riflettersi sui servizi ai cittadini e perfino sulla loro incolumità e sicurezza». Intanto, la procura di Savona, che indaga sul crollo del viadotto della A6 Madonna del Monte, ha avviato accertamenti anche sullo stato dei piloni del viadotto nel tratto tra Altare e Ferrania. «Abbiamo fatto alcuni sopralluoghi ma per chiarire i fatti ci vorrà tempo», ha detto il procuratore capo Ubaldo Pelosi. A chi gli chiedeva se quanto successo si debba attribuire a problemi strutturali su piloni o collina Pelosi ha risposto: «È impossibile dirlo adesso, sono oggetto delle indagini».

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Nel castello di Dresda il furto d’arte più grosso del Dopoguerra

Rubati gioielli antichi per il valore di un miliardo dalla celebre sala delle volte verdi, Gruene Gewoelbe, del castello di Dresda.

La Bild, il più diffuso quotidiano di Germania e d’Europa, lo ha definito il furto d’arte più clamoroso della storia del Dopoguerra. Il 25 novembre gioielli antichi dal valore di circa 1 miliardo di euro: è il bottino di un furto clamoroso, avvenuto nella sala delle famosissime Gruene Gewoelbe (volte verdi) nel castello di Dresda. La polizia ha confermato il fatto e i ladri si sono dati alla fuga, secondo quanto riporta la Bild.

Un’immagine della sala delle volte verdi, gruene gewoelbe, così come appare sul sito del Castello di Dresda.

Le nove sale del Castello di Dresda contengono la collezione di gioielli più grande d’Europa, che dalla metà del 700 ha raccolto il tesoro degli elettori di Sassonia e delle corone che da loro dipendevano, in primis quella di Polonia.

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Nel castello di Dresda il furto d’arte più grosso del Dopoguerra

Rubati gioielli antichi per il valore di un miliardo dalla celebre sala delle volte verdi, Gruene Gewoelbe, del castello di Dresda.

La Bild, il più diffuso quotidiano di Germania e d’Europa, lo ha definito il furto d’arte più clamoroso della storia del Dopoguerra. Il 25 novembre gioielli antichi dal valore di circa 1 miliardo di euro: è il bottino di un furto clamoroso, avvenuto nella sala delle famosissime Gruene Gewoelbe (volte verdi) nel castello di Dresda. La polizia ha confermato il fatto e i ladri si sono dati alla fuga, secondo quanto riporta la Bild.

Un’immagine della sala delle volte verdi, gruene gewoelbe, così come appare sul sito del Castello di Dresda.

Le nove sale del Castello di Dresda contengono la collezione di gioielli più grande d’Europa, che dalla metà del 700 ha raccolto il tesoro degli elettori di Sassonia e delle corone che da loro dipendevano, in primis quella di Polonia.

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