Lagarde diplomatica con Schaeuble: inizio soft per la presidente Bce

La numero uno dell'Eurotower a Berlino, in casa dell'ex ministro delle finanze tedesco, non cita né la politica monetaria né la necessità di uno sforzo di bilancio. Ma con tutta probabilità sta giocando di tattica.

I richiami alla necessità di aumentare lo sforzo di bilancio non si sono sentiti. Christine Lagarde, alla sua prima uscita dal presidente della Bce, esordisce a Berlino di fronte a Wolfgang Schaeuble. Ma anziché svelare subito le sue carte spingendo per uno stimolo di bilancio, preferisce la diplomazia con uno dei referenti dell’austerity tedesca, che potrebbe rivelarsi decisivo nei prossimi mesi.

«IL SEGNO DI UN VERO UOMO DI STATO»

Durante un intervento a Berlino in lode all’ex ministro delle Finanze, ora potente presidente del Bundestag, la neopresidente della Bce ha ricordato i negoziati durissimi vissuti insieme (il pensiero va alla crisi della Grecia) ma non ha toccato esplicitamente né la politica monetaria, come atteso, né la politica di bilancio, come qualcuno invece si sarebbe aspettato. Ha riconosciuto a Schaeuble di portare «il segno di un vero uomo di Stato: la capacità di esaminare profondamente ciò che va fatto, evitando false certezze».

UN GIOCO DI TATTICA

L’ex direttrice generale del Fmi, insomma, di fronte a Schaeuble, in una Berlino sempre più critica delle politiche espansive della Bce che Lagarde eredita da Draghi, prende alla larga l’argomento scottante su cui era già intervenuta nei giorni scorsi chiedendo a Germania e Olanda di farsi avanti con uno stimolo di bilancio per sostenere l’Europa. Un esordio sotto tono, anche se diversi osservatori notano che l’approccio soft (già visto all’Europarlamento quando Lagarde non ha sottoscritto convintamente il ‘whatever it takes di Draghi) probabilmente sta giocando di tattica.

RICERCA DEL CONSENSO DIETRO LE QUINTE

Ha bisogno, cioè, di ammorbidire l’establishment tedesco per cercare di convincerlo a non osteggiare con troppa forza le mosse della Bce, specie se dovesse rendersi necessario un ulteriore rilancio del quantitative easing di fronte al rischio di recessione. E di cercare il consenso, dietro le quinte, per l’eventualità di uno stimolo di bilancio per la crescita che vada oltre i 54 miliardi per il clima di investimento messi sul piatto dalla cancelliera Merkel. Con Schaeuble funziona così e Lagarde l’ha imparato negli anni della grande crisi, riuscendo a costruire con lui una relazione cordiale nonostante posizioni diametralmente opposte sull’opportunità di ristrutturare il debito ellenico: il politico tedesco – con una Cdu alle prese con l’affermazione della Afd che la spinge a destra – non ama le sorprese.

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Chi è Lindsay Hoyle, il nuovo speaker della Camera dei comuni britannica

Laburista, ma eletto in un collegio pro Brexit, è stato il vice di Bercow per nove anni. Segni particolari: è un ammiratore di Lady D e si è scontrato più volte con l'ex premier Tony Blair.

La Camera dei Comuni britannica ha un nuovo speaker: è sir Lindsay Hoyle (Labour) eletto al quarto scrutinio con 325 voti a succedere, a fine legislatura, al Tory anticonformista John Bercow, in carica per 10 anni. Vice speaker dal 2010, Hoyle ha già mostrato nei suoi turni di presidenza dell’assemblea mano ferma e piglio grintoso, anche se in misura più episodica dell’istrionico Bercow: a differenza del quale è eletto in un collegio pro Brexit. Laburista per tradizione di famiglia, è noto pure per l’ammirazione per la defunta lady D.

IN CARICA PER SOLI DUE GIORNI PRIMA DELLE ELEZIONI

Il prescelto si è lasciato alle spalle nelle ultime votazioni i due rivali rimasti in lizza (su una platea iniziale di 7): eliminando dapprima l’altra vice speaker uscente, la conservatrice dame Eleanor Laing, e quindi il deputato laburista Chris Bryant, ex pastore anglicano entrato in Parlamento dopo aver lasciato l’abito ecclesiastico e aver fatto coming out come gay. Resterà in carica per ora solo 2 giorni, prima dello scioglimento della Camera mercoledì 6 in vista delle elezioni già fissate per il 12 dicembre. Avrà però il vantaggio di poter venire rieletto deputato nel suo collegio da indipendente senza concorrenti, se sarà rispettata una prassi di cortesia istituzionale in vigore nel Regno, e di poter essere candidato naturale alla propria conferma nella futura assemblea.

CRESCIUTO A PANE E POLITICA, CELEBRI GLI SCONTRI CON BLAIR

Lindsay Hoyle, 62 anni compiuti a giugno (sei in più del predecessore Bercow), è considerato da tempo una figura super partes a Westminster e nello stesso Labour. E subito dopo la designazione ha ricevuto l’omaggio di rito in aula da parte del premier Boris Johnson (che ne ha sottolineato “l’imparzialità”), del leader dell’opposizione Jeremy Corbyn e da esponenti di tutti i partiti minori. Deputato dal 1997, sempre rieletto nel collegio della contea d’origine, il Lancashire, nell’Inghilterra nord-occidentale, è cresciuto a pane e politica. Anche suo padre Doug è stato membro della Camera dei Comuni e da oltre un ventennio lo è dei Lord, dove tuttora siede quasi 90enne. Ligio per tradizione alla disciplina di partito e gradito a Corbyn, ma anche a diversi conservatori e in particolare ai brexiteer, il neo speaker è stato tuttavia protagonista in passato di un paio di scontri con l’allora premier Tony Blair: a cui contestò fra l’altro l’introduzione delle rette universitarie e l’espansione dell’istruzione a pagamento nel Regno a fine Anni ’90.

LA FIGLIA AVUTA DALLA SUA AVVERSARIA POLITICA

Sulla Brexit non s’è mai sbottonato per ragioni istituzionali legate al ruolo precedente di vice speaker, ma si sa che gli elettori del suo collegio sono in maggioranza pro Leave. È ben conosciuto invece il rispetto che nutre per la figura della principessa Diana, al cui nome propose invano dopo la morte l’intitolazione di un ospedale o dell’aeroporto londinese di Heathrow. Nel 2018 ha ricevuto il titolo di cavaliere dalla regina e può fregiarsi così dell’appellativo di sir. Sposato in prime nozze con Lynda Anne Fowler, dalla quale ha divorziato nel 1982, e in seconde con Catherine Swindley, impalmata nel ’93, ha avuto due figlie: la minore della quali – nata nel 1989 da una relazione extra matrimoniale con Miriam Lewis, allora avversaria politica e consigliera locale Tory nella sua stessa contea – morta a soli 28 anni. Una tragedia che Hoyle ha ricordato, nel primo intervento dallo scranno, non senza commuoversi.

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Ex Ilva: la mossa di ArcelorMittal riapre lo scontro nel governo

L'annuncio dell'addio del gruppo indo-francese scatena un nuovo botta e risposta tra M5s e Pd. Il premier giura di dare battaglia al colosso dell'acciaio.

Una “bomba“, che va a sovrapporsi ad un percorso sulla manovra già accidentato. L’annuncio dell’addio di ArcelorMittal all’ex Ilva aumenta ben sopra il livello di guardia le tensioni interne ad una maggioranza che mai come in questi giorni appare sfilacciata. La lettera della multinazionale dell’acciaio scatena una serie di botta e risposta tra Pd, M5s e Italia viva, che sembrano diretti più alla ricerca del colpevole che a quella di una soluzione.

CONTE PRONTO ALLA BATTAGLIA CON ARCELORMITTAL

E l’allarme arriva a Palazzo Chigi, dove il premier Giuseppe Conte passa al contrattacco, mettendo in campo una duplice strategia: una battaglia senza esclusione di colpi a ArcelorMittal e, parallelamente, la ricerca di una via alternativa per salvare lo stabilimento. «Il problema è che l’azienda vuole andarsene perché perde 2,5 milioni di euro al giorno. Vuole almeno 5 mila esuberi», sbottano fonti del governo vicine al dossier a tarda sera, inquadrando quello che, a loro parere, è il reale pomo della discordia: «ArcelorMittal non ce la fa a mantenere la produzione richiesta e, approfittando di un quadro politico incerto ha preso l’assenza dello scudo penale come alibi per andar via».

L’INCONTRO A PALAZZO CHIGI CON IL COLOSSO INDO-FRANCESE

Un ragionamento che, probabilmente, domani Conte e il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli recapiteranno all’azienda nell’incontro del pomeriggio. Sarà l’inizio di una partita a scacchi che, qualcuno, nel governo, paragona a quella appena (parzialmente) conclusasi con la Whirlpool su Napoli. Da un punto di vista strettamente giuridico il governo potrebbe sventolare ai vertici dell’azienda quell’articolo 51 del codice penale secondo il quale «l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità». Di fatto, secondo il governo, l’articolo esclude che ArcelorMittal sia punibile nel momento in cui attua, come da contratto, il piano ambientale previsto fino al 2023. Il tema, si ragiona nella maggioranza, per ArcelorMittal è duplice: da un lato l’azienda non può sostenere il livello occupazionale concordato, dall’altro si pretende la bonifica necessaria di uno dei due forni o i finanziamenti necessari per realizzarla.

L’IPOTESI CASSA DEPOSITI E PRESTITI

Allo stesso tempo, nel governo si cerca già di correre ai ripari. E nelle ore più calde del dossier ex Ilva, oltre al progetto di un decreto su Ilva, torna l’idea di una nazionalizzare. A Palazzo Chigi, nel corso della giornata, sarebbe stato consultato il neo presidente di Cdp Giovanni Gorno Tempini. Un eventuale intervento per sostituire ArcelorMittal dovrebbe tuttavia prevedere una cordata industriale e finanziaria, nella quale la quota di Cdp sia minoritaria e marginale. Al momento si tratta solo di ipotesi. Ma Conte non vuole perdere tempo. Anche perché il caso ex Ilva potrebbe costare consenso al Pd e al M5s. La richiesta di riferire in Aula inoltrata da Italia viva ha sorpreso e non è piaciuta a più di un membro del governo.

SALVINI CERCA DI SFRUTTARE LA CRISI

Mentre, nel M5s, c’è chi punta il dito contro quella fronda, capitanata da Barbara Lezzi, che qualche settimana fa al Senato ha voluto lo stralcio dello scudo penale “a scadenza” sul quale Luigi Di Maio aveva, nei mesi scorsi, siglato una tregua con ArcelorMittal. Il tema, si sfoga una fonte del governo, è che se una cosa del genere accade in Germania la politica si unisce contro l’azienda, non ci si incolpa a vicenda. Già, ma Matteo Salvini, intanto, ha innalzato l’ennesima trincea. E la paura di perdere, a fine gennaio, EmiliaRomagna e Calabria tra i Dem e nel M5s aumenta. Tanto che, nel Movimento, c’è chi guarda allo scenario peggiore non legando il voto in Emilia-Romagna alla tenuta del governo. Anche se una sconfitta del Pd dovesse provocare le dimissioni di Nicola Zingaretti.

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Il 26 gennaio possibile election day in Calabria e Emilia Romagna

Il presidente Mario Oliverio propone il 26 gennaio come data per il voto. Ma è rebus sulle candidature.

Calabria al voto per eleggere il nuovo presidente e rinnovare il Consiglio regionale in concomitanza con l’Emilia Romagna? É la data di domenica 26 gennaio quella che pare ormai delinearsi – sebbene in materia di candidature e schieramenti la situazione rimanga ancora piuttosto incerta – per le prossime regionali in Calabria. A rompere gli indugi è stato il presidente uscente della Regione, Mario Oliverio, sempre più determinato a riproporre la propria candidatura – malgrado i reiterati “niet” di Roma e del commissario regionale dem Stefano Graziano – contando sul sostegno di circoli, sindaci e amministratori del partito.

LE POLEMICHE SULLA DATA PER SFRUTTARE IL VANTAGGIO

«In questi giorni, tra domani e dopodomani – ha detto Oliverio parlando con i giornalisti a margine della conferenza programmatica della sua coalizione ribattezzata la “Leopolda calabrese” – chiederò un incontro ai presidenti di Corte d’Appello e mi determinerò. Presumo che proporrò la data del 26 gennaio perché ritengo che sia necessario dare il giusto tempo». Oliverio, tra un passaggio e l’altro ai tavoli tematici per la costruzione del programma di governo della coalizione, ha respinto con forza l’accusa di voler modulare la decisione sulla data del voto in base alle proprie convenienze. «Non sono per utilizzare il mio vantaggio – ha aggiunto – come se si trattasse di giocare una partita a scacchi. Qui stiamo parlando della Calabria. Non appartiene alla mia cultura il gioco tattico sulla pelle di un territorio». Se sulla data del ritorno alle urne, dunque, pare aprirsi uno squarcio, la confusione e l’incertezza continuano invece a farla da padrone per quanto riguarda tutto il resto. E non solo per il Pd e per il centrosinistra, ma anche per gli altri possibili schieramenti in campo.

IL VETO DELLA LEGA SUL SINDACO DI COSENZA E L’INCERTEZZA 5s

In ambasce, infatti, è anche il centrodestra, che ancora è alle prese con gli effetti del veto opposto alla candidatura a presidente del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, anche lui da tempo in campagna elettorale, da parte di Matteo Salvini e della Lega. In queste ore, si fanno strada, a questo proposito, altri possibili nomi e tra questi quello del sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo. Niente di deciso, inoltre, nemmeno nel campo dei Cinquestelle, stretti tra la tentazione del disimpegno e il tramonto dell’ipotesi di quel patto con i democrat, sul modello dell’accordo di governo nazionale, le cui quotazioni sono precipitate dopo i risultati dell’Umbria. A giorni è previsto un nuovo vertice romano con Luigi Di Maio.

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La storia della relazione amorosa che ha stravolto McDonald’s

L'amministratore delegato Easterbrook cacciato per una liaison con una dipendente. Il titolo ha perso il 2,9% in Borsa. E anche un altro top manager se n'è andato. La banca d'investimento Piper Jaffray: «Cambiamenti distruttivi».

Più che un hambruger, stavolta è stata una frittata: McDonald’s ha dovuto silurare il suo amministratore delegato protagonista di una relazione consensuale con una dipendente, in violazione delle severe norme etiche interne alla società.

UNA BUONUSCITA D’ORO

Steve Easterbrook, 52 anni, divorziato e padre di tre figli, è stato costretto così a lasciare la guida del colosso del fast food: lo ha fatto comunque portandosi a casa 675 mila dollari, una copertura assicurative per 18 mesi e mantenendo titoli azionari, ricevuti come forma di compenso per i risultati raggiunti, dal valore di 37 milioni di dollari.

A WALL STREET PERDITE FINO AL 2,9%

Per McDonald’s si è trattata di una perdita importante e improvvisa. E che non è piaciuta a Wall Street, dove la società è arrivata a perdere il 2,9%. Gli investitori hanno dimostrato preoccupazione per il dopo Easterbrook, l’architetto della rinascita online di McDonald’s con l’introduzione degli ordini sul web e le consegne di panini a domicilio.

«CAMBIAMENTI DISTRUTTIVI»

La banca d’investimento Piper Jaffray ha rivisto al ribasso la sua valutazione su McDonald’s invitando gli investitori a guardare altrove: «Cambiamenti di tale portata tendono a essere distruttivi».

AL TIMONE CI VA KEMPCZINSKI

Il posto di Easterbrook finisce a Chris Kempczinski: i due hanno lavorato insieme in questi ultimi anni per cercare di rilanciare i ristoranti McDonald’s tramite le nuove tecnologie e menù con ingredienti più freschi.

ADDIO PURE PER FAIRHURST DELLE RISORSE UMANE

Ma McDonald’s ha perso anche un altro pezzo grosso. Dicendo addio a sorpresa dopo 15 anni di carriera all’interno della società anche al top manager delle risorse umane David Fairhurst. Dopo aver lavorato con Easterbrook a McDonald’s in Gran Bretagna, Fairhurst era stato promosso con la nomina di Easterbrook alla guida della società. E ora che il suo capo ha lasciato, se n’è andato pure Fairhurst.

INDAGINE INTERNA E POLICY VIOLATA

Easterbrook è stato costretto ad abbandonare l’incarico e a dare le dimissioni al termine di un’indagine interna il cui esito non ha lasciato scampo al manager: nonostante la relazione fosse consensuale (il nome della donna non è stato reso noto) l’amministratore delegato ha violato la policy a cui deve attenersi tutto il personale e il top management dell’azienda.

VALORE DEL TITOLO RADDOPPIATO IN QUATTRO ANNI

In quattro anni Easterbrook è riuscito quasi a raddoppiare il valore del titolo di McDonald’s grazie a una ristrutturazione incentrata sull’obiettivo di dare al consumatore un prodotto di migliore qualità per non soccombere nella sfida con i fast food di nuova generazione che propongono menù più salutari e che vanno incontro di più ai gusti di una clientela che sta cambiando rapidamente. Ma una relazione amorosa ha rovinato tutto.

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La storia infinita della crisi dell’Ilva di Taranto in cinque tappe

Dal sequestro dell'acciaieria nel 2012 alla promessa di chiusura del M5s per le elezioni del 2018, Come siamo arrivati al conflitto di oggi.

Sembrava l’inizio della fine della crisi, almeno sul fronte occupazionale, quando, un anno fa, l’insegna sopra la fabbrica -città di Taranto, è cambiata da Ilva a ArcelorMittal. E invece a 365 giorni dal presunto salvataggio del gruppo franco indiano, il destino dell’Ilva è ancora tutto da definire. Ecco il film degli ultimi anni.

LEGGI ANCHE: ArcelorMittal è pronta a lasciare l’ex Ilva

1° NOVEMBRE 2018: ARRIVA ARCELOR MITTAL

Il 1° novembre 2018 dopo 113 anni, l’Ilva ammaina la bandiera italiana ed entra a far parte di un colosso multinazionale, ArcelorMittal, nato nel 2006 dalla fusione della francese Arcelor e dell’inglese Mittal Steel. La vecchia insegna viene subito sostituita dal nuovo marchio ArcelorMittal Italia ma se per la multinazionale con sede a Lussemburgo, con stabilimenti in tutta Europa e guidata dalla famiglia indiana Mittal, è un successo inseguito da anni i problemi e le polemiche che hanno accompagnato l’operazione non si quietano.

2012: L’ACCIAIERIA FINISCE SOTTO SEQUESTRO

Negli anni precedenti all’arrivo di ArcelorMittal più volte il siderurgico di Taranto (la più importante acciaieria a caldo d’Europa) ha rischiato di essere chiuso. Nel corso degli anni, infatti, Ilva è diventata il simbolo della fabbrica che inquina e uccide. Nel 2005 lo stabilimento di Cornigliano chiude la produzione a caldo (quella più inquinante) che rimane solo a Taranto. Una ferita per i tarantini. Il caso Ilva diventa eclatante nel 2012 quando la magistratura dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali e l’arresto dei suoi dirigenti, di Emilio Riva e di suo figlio Nicola. Da quel momento, per i governi che si sono succeduti, il sito siderurgico diventa una sfida da vincere con l’obiettivo di coniugare il diritto alla salute, la tutela dell’ambiente e mantenere viva la produzione di acciaio, materia prima fondamentale per le aziende italiane manifatturiere.

2015: LA TRIADE DI COMMISSARI

Sottratta ai vecchi proprietari Riva, l’azienda viene commissariata. Il primo commissario governativo è Enrico Bondi al quale succederà Piero Gnudi. All’inizio del 2015 Ilva viene ammessa alla procedura in Amministrazione Straordinaria. I commissari diventano tre: resta Pietro Gnudi al quale si affiancano Enrico Laghi e Corrado Carrubba.

2016: IL BANDO INTERNAZIONALE PER LA VENDITA DEL GRUPPO

Un anno dopo, a inizio 2016, si apre la procedura per il trasferimento degli asset aziendali attraverso un bando internazionale. Alla fine in corsa restano due cordate. Una cordata italiana col nome “Acciaitalia” e un’altra AmInvestco nata dalla joint-venture fra l’italiana Marcegaglia e ArcelorMittal. Alla cordata tricolore partecipano Cassa Depositi e Prestiti, l’italiana Arvedi, la holding della famiglia Del Vecchio Delfin, a questi gruppi va a unirsi il gruppo indiano Jindal South West (JSW). Alla fine vincitrice risulta la joint venture “AmInvestco” considerata dai commissari la cordata che ha presentato il piano industriale e ambientale migliore. Vinta la gara partono le trattative con i sindacati. Un confronto che risulta subito in salita per l’alto numero di tagli chiesto dai nuovi proprietari (4.000 esuberi e 10.000 assunti).

2018: IL M5s PROMETTE LA CHIUSURA DELLA FABBRICA

Il Governo Gentiloni con il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda e il vice ministro Teresa Bellanova cercano di mediare e di chiudere l’acquisizione prima della fine della legislatura. Su Ilva pendono infatti le minacce del Movimento 5 Stelle che in campagna elettorale nel 2018 promette ai tarantini la chiusura dell’Ilva. Vinte le elezioni il vicepremier Luigi di Maio, dopo aver letto le 27.000 pagine del pesante dossier Ilva, si convince che l’Ilva non si può chiudere e continua la trattativa con Arcelor Mittal.

6 SETTEMBRE 2018: SI CHIUDE L’ACCORDO, ASSUNTI IN 10.700

Il 6 settembre 2018 arriva l’accordo, fin da subito vengono assunti in 10.700. Non ci sono esuberi perché gli altri lavoratori restano in Amministrazione Straordinaria ovvero vengono incentivati all’uscita. L’accordo raggiunto ottiene un voto plebiscitario dai dipendenti ma la successiva rottura sul fronte della tutela legale per gli amministratori coinvolti nel lavori di risanamento ambientale riporta in luce tutti i problemi. Nei giorni scorsi la maggioranza giallorossa raggiunge un accordo per sopprimere l’articolo del decreto relativo ad ArcelorMittal, dopo la presa di posizione del M5s.

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Al voto in cinque Stati Usa, un referendum su Trump

Prima prova elettorale per il presidente dopo l'avvio dell'indagine per impeachment. Insidie per i repubblicani nel voto per i governatori in Kentucky e Louisiana.

L’America fa le prove generali a un anno dalle presidenziali del 3 novembre del 2020. In ben cinque Stati milioni di cittadini sono chiamati a rinnovare le istituzioni locali. Ma il Supertuesday è inevitabilmente destinato a dare un’indicazione su quello che potrebbe accadere tra dodici mesi.

Si tratta del primo voto dopo l’avvio dell’indagine per impeachment contro il presidente, e dalla Virginia al Kentucky le elezioni non possono che trasformarsi in un vero e proprio referendum sull’operato di Donald Trump.

In gioco c’è soprattutto la tenuta del tycoon negli Stati del Sud che nel 2016, insieme a quelli industriali della Rust Belt, furono fondamentali per il suo trionfo, con oltre il 60% degli elettori che votarono per lui. Oltre al Kentucky, dove Trump vinse su Hillary Clinton con 30 punti di vantaggio, si elegge il governatore in Mississippi e in Louisiana, che tre anni furono facilmente conquistati dal tycoon rispettivamente con 17 e 20 punti di vantaggio. Ma ora le cose potrebbero cambiare, con gli ultimi sondaggi che indicano come nei tre Stati sarà battaglia fino all’ultimo voto.

GOP A RISHIO IN KENTUCKY E LOUISIANA

In Kentucky il governatore uscente Matt Bevin, un trumpiano di ferro che ha fatto campagna puntando proprio sui suoi rapporti con il tycoon, è dato alla pari col democratico Andy Beshear. Trump ha fiotato il pericolo e non a caso è voltato nello Stato alla vigilia del voto per salire sul palco dell’ultimo comizio di Bevin. Cattive notizie per i repubblicani, però, anche in Louisiana, dove il democratico John Bel Edwards è in vantaggio di addirittura 23 punti, e in Mississippi, dove il candidato repubblicano Tate Reeves è avanti solo di tre lunghezze. Per Trump si tratta di numeri preoccupanti che, se confermati nelle urne, suonerebbero come un campanello d’allarme per le sue chance di rielezione, segnalando come una parte dello zoccolo duro che ha finora sostenuto il tycoon si sta sgretolando.

TIMORE ANCHE PER LE ELEZIONI IN VIRGINIA E NEW JERSEY

Anche se alla vigilia del supermartedì a soffiare sulle vele del tycoon ci pensa una Wall Street da record, dopo gli ottimi dati sull’occupazione della scorsa settimana. Ma i repubblicani rischiano la sconfitta anche in Virginia e in New Jersey, dove si vota per rinnovare i parlamenti locali. E nonostante Trump parli di fake news, alla Casa Bianca si guarda con grande preoccupazione alle ultime rilevazioni da cui emerge che circa la metà degli americani è favorevole all’impeachment e pensa che il presidente vada rimosso dall’incarico.

I DUBBI IN CASA DEM IN VISTA DEL 2020

I democratici sono alla finestra e sperano. Anche perché la sensazione è che non abbiano ancora trovato il candidato ideale per il 2020. L’ultimo sondaggio del New York Times ha mostrato come solo il moderato Joe Biden sia in grado di battere Trump nella maggior parte degli Stati chiave. Ma le difficoltà in cui naviga la campagna dell’ex vicepresidente e l’ascesa della senatrice progressista Elizabeth Warren, vista come il fumo negli occhi da Wall Street, creano ansia tra i dem in vista delle primarie. «Tutti sono nervosi per Warren», ha spiegato Steve Rattner, il democratico che gestisce la ricchezza personale di quel Michael Bloomberg che potrebbe essere la vera clamorosa sorpresa dei prossimi mesi.

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I sondaggi politici elettorali del 4 novembre 2019

La Lega sfonda la soglia del 34%, più di quanto riescano a ottenere M5s e Pd insieme. Gli alleati di governo rispettivamente al 16,8% e al 17,5%.

La Lega sfonda la soglia del 34%, più di quanto riescano a ottenere Movimento 5 stelle e Pd insieme. È quanto risulta dai sondaggi politici elettorali del 4 novembre realizzati da Swg per il TgLa7. Il partito di Matteo Salvini passa dal 33,6% del 27 ottobre al 34,1%. Il Partito democratico dal 18% al 17,5%. Ulteriore emorragia di consensi per il Movimento 5 stelle che dal 18,2% scende al 16,8%. Leggera flessione anche per Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che dal 9% arriva all’8,9%. Forza Italia risale dal 5,5% al 6,2%, come il partito di Matteo Renzi Italia viva che dal 5,2% arriva al 6%.

IL GOVERNO TREMA PER LE ELEZIONI IN EMILIA-ROMAGNA

Con le elezioni in Emilia-Romagna che si avvicinano, dopo la batosta in Umbria, i partiti di coalizione stanno subendo l’opposizione della Lega mentre contemporaneamente risentono di continui scontri interni, in particolare per quel che riguarda la manovra.

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Il sindaco di Verona e Salvini minimizzano il caso Balotelli

Per Sboarina «è inaccettabile quello che sta succedendo alla città», visto che «nessuno allo stadio ha sentito quei cori». E il leader della Lega attacca Super Mario: «Fenomeno, vale più un operaio dell'Ilva che 10 come lui».

In mezzo a un coro di solidarietà c’è stato anche chi proprio non è riuscito a condannare gli ululati razzisti contro Mario Balotelli. A partire dal sindaco di Verona Federico Sboarina, che intervistato da Sky Tg24 e dall’Ansa ha minimizzato i cori dei tifosi dell’Hellas durante la partita contro il Brescia: «Sembra che la sentenza sia già stata scritta. È oggettivamente inaccettabile quello che sta succedendo alla nostra città».

IL SINDACO: «NESSUNO CAPIVA QUEL GESTO»

La linea del primo cittadino è derubricare il caso a poche urla di qualche persona in Curva: «Ribadisco, ero allo stadio e quando Balotelli ha calciato via la palla la sensazione di tutti è stata di stupore. Nessuno riusciva a spiegarsi perché». Secondo il referto che la procura della Figc ha preparato per il giudice sportivo chiamato a valutare «erano in 20, il resto della Curva veronese applaudiva».

RIPETUTA LA LINEA NEGAZIONISTA

Ci sono dei video dove però i buuu si sentono chiaramente. Ma Sboarina è andato dritto per la sua strada: «Non può esistere che da un presupposto che non esiste, perché allo stadio non ci sono stati cori razzisti, venga messa alla gogna una tifoseria e una città». A proposito di tifoseria, il discusso capo ultrà Luca Castellini ha detto, tra le altre cose, che «Balotelli non potrà mai essere del tutto italiano».

Balotelli è l’ultima mia preoccupazione, vale più un operaio dell’Ilva che 10 Balotelli, non abbiamo bisogno di fenomeni


Matteo Salvini

Non poteva mancare un commento al veleno di Matteo Salvini. L’ex ministro dell’Interno ha sempre lanciato frecciatine al centravanti («Non mi piaceva in campo, mi piace ancor meno fuori») e anche stavolta ha sviato davanti alle domande dei giornalisti in Senato: «Con 20 mila posti di lavori a rischio Balotelli è l’ultima mia preoccupazione, vale più un operaio dell’Ilva che 10 Balotelli, non abbiamo bisogno di fenomeni». Ribadendo in generale la solita condanna di antisemitismo e razzismo, la stessa peraltro annunciata dopo il mancato voto in favore della Commissione Segre.

LEGGI ANCHE: Le difficoltà degli “altri Balotelli” nell’Italia di Salvini

IL VESCOVO ZENTI: «VERONA NON È QUELLA DELLO STADIO»

Pure il vescovo Giuseppe Zenti ha difeso la città: «Verona non è quella che si vede allo stadio». Ambiente che però lui ha ammesso di non conoscere, sottolineando poi che Verona è da sempre «una città accogliente, inclusiva, ricca di associazioni di volontariato», che «non merita di essere infangata».

TOMMASI: «LA CITTÀ NON È RAZZISTA»

Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione italiana calciatori e veronese, ha detto: «Inutile girarci intorno, se qualcuno fa il verso della scimmia a un giocatore perché è di colore, quello è razzismo. Sento troppi “sì, ma”. E anche se sono solo due, sono troppi». Poi ha aggiunto: «Pochi sanno che il patrono, San Zeno, è un vescovo di colore, e che qui sono nati i comboniani attivi in Africa. Razzista non è una città, ma i comportamenti sì, quelli sono razzisti».

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Aumento di capitale per salvare Bialetti dal fallimento

La manovra finanziaria dovrebbe portare Sculptor Ristretto al massimo al 25% del capital. Ma si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente per la sopravvivenza dello storico marchio del Made in Italy.

Parte l’aumento di capitale di Bialetti, parte della manovra finanziaria che cerca di evitare il fallimento del”omino coi baffi’. Le azioni hanno guadagnato il 28,4% a 0,28 euro mentre i diritti, negoziabili fino al 15 novembre, sono stati venduti (-4,05% a 0,0332 euro). Il risanamento è in corso ma il rischio fallimento non è allontanato.

SCULPTOR AL MASSIMO AL 25% DEL CAPITALE

«Sussiste una incertezza significativa» sulla continuità aziendale scrive il gruppo nel prospetto e «il rischio di mancata esecuzione del Piano stesso è molto elevato». Sculptor Ristretto, veicolo che fa capo ai fondi Och Ziff, si è impegnato a sottoscrivere l’aumento per 4,2 milioni (e ha già effettuato il pagamento). Se nessun altro aderirà, Bialetti Holding scenderà dal 64,8% al 50,5% con Sculptor al 21,89%, mentre in caso di sottoscrizione totale Bialetti Holding scenderebbe al 45% e Sculptor si troverebbe al 19,57%. Ma Bialetti Holding si è impegnata a cedere la totalità dei diritti di opzione che le spettano (sul 5,43%) e questo farà salire Och Ziff fino a un massimo del 25% del capitale.

10 MILIONI DI DEBITI A SOSTEGNO DEL NUOVO PIANO INDUSTRIALE

La manovra finanziaria prevede anche un bond da 35,8 milioni, sottoscritto da Sculptor Ristretto Investments e nuovo debito per 10 milioni per supportare il piano industriale 2018-2023. «La piena realizzazione della manovra finanziaria costituisce condizione necessaria ma non sufficiente» mentre è «necessario che le azioni del Piano Industriale 2018-2023 siano realizzate». Bialetti dovrebbe correre ben più del mercato: le previsioni di settore – riportate dalla stessa società – evidenziano un mercato italiano del caffè in crescita nel 2018-2023 del 2,5%, mentre il Piano si attende una crescita media dei ricavi pari a circa l’11% ma durante l’ultima riunione, il 4 ottobre, il cda ha tagliato le stime sul 2019 e all’orizzonte ci sono sempre le possibili dismissioni mentre l‘indebitamento finanziario netto al 30 settembre è salito a 120,5 milioni.

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