Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta

Non sarà un caso che i candidati a capo ufficio stampa della Camera siano passati dai 270 del 2016 ai 57 di oggi. Perché la nomina, a fronte della selezione pubblica, dovrebbe essere neutra, basata su merito e curriculum, ma forse così non è. Sta di fatto che il nuovo capo ufficio stampa di Montecitorio (ruolo che prevede un’indennità da 160 mila euro l’anno) è Filippo Manvuller, giornalista piacentino che in passato è stato portavoce dell’attuale presidente della Camera, Lorenzo Fontana, quando quest’ultimo era ministro della Famiglia nel governo Conte I. Manvuller aveva a lungo collaborato con Fontana anche all’Europarlamento a Bruxelles e ultimamente era responsabile della comunicazione del sindaco di Ferrara, Alan Fabbri (sempre della Lega).

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Filippo Manvuller.

A Montecitorio dal 2013 viene messa in piedi una selezione pubblica

Insomma, una nomina che ha tanto il sapore della chiamata diretta, su cui non ci sarebbe niente da ridire: un politico ha tutto il diritto di scegliersi come collaboratori le persone che ritiene più valide e di cui si fida. Basta però farlo alla luce del sole. E infatti nei dicasteri il ruolo riservato alla comunicazione è sempre su indicazione del ministro di turno, che sceglie portavoce e capo ufficio stampa. A Montecitorio, invece, dal 2013 viene messa in piedi una selezione pubblica: in quest’ultimo caso i candidati erano appunto 57 e tra questi, guarda caso, c’era l’ex portavoce del presidente leghista. «Il suo nome, fortemente voluto da Fontana, ha avuto la meglio su una short list composta da 12 nomi (sei donne e sei uomini), rimasta segreta», ha scritto il Foglio.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Il presidente della Camera Lorenzo Fontana (Imagoeconomica).

Menichini dalla Boldrini dopo aver sempre gravitato a sinistra

Non è la prima volta che accade. Qualche sospetto aleggiò anche su Stefano Menichini, giornalista che ha sempre gravitato a sinistra, prima a il manifesto e poi capo della comunicazione di Francesco Rutelli sindaco, e in seguito direttore di Europa, quotidiano della Margherita che poi chiuse i battenti. Era il 2016, presidente della Camera era Laura Boldrini, e Menichini sbaragliò la concorrenza di altri 269 candidati.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Stefano Menichini (Imagoeconomica).

Con Fico il giornalista di Sky Marinozzi, sconosciuto ai cronisti parlamentari

La selezione pubblica a Montecitorio si fa dal 2013. La prima ad assicurarsi il posto è stata la giornalista de La Stampa Anna Masera, sempre con la presidenza Boldrini, che invece come portavoce volle con sé Roberto Natale, giornalista Rai ed ex segretario del sindacato Usigrai. Nel 2016 toccò a Menichini, mentre nel luglio 2020, con presidente Roberto Fico, la scelta cadde sul giornalista di Sky Moreno Marinozzi. I sussurri di Radio Transatlantico riportarono che a metterci una buona parola fosse stato l’allora portavoce di Fico, Carlo Passarello. Chissà. Sta di fatto che la scelta sorprese tutti, anche perché nessun cronista parlamentare aveva mai visto né sentito Marinozzi, così come totalmente sconosciuta a Montecitorio e agli ambienti della politica era Anna Masera.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Moreno Marinozzi (foto Linkedin).

L’ultimo entrato con una scelta interna è stato Giuseppe Leone

Marinozzi ora è a capo della comunicazione ad Acea e a Montecitorio s’è resa necessaria una nuova selezione, vinta da Manvuller. Prima del 2013, invece, la selezione era tutta interna: l’ultimo che è entrato con questo sistema è stato Giuseppe Leone, nominato nel 2008 da Gianfranco Fini, e prima di lui c’era stato Vincenzo Porcacchia. Lo stesso metodo si segue ancora in Senato, dove il capo ufficio stampa viene nominato dall’ufficio di presidenza tra i dirigenti interni dell’amministrazione, senza dunque spese aggiuntive per le casse dello Stato. Adesso è Federico Toniato, l’enfant prodige dei palazzi romani, che nel 2014, a soli 39 anni, divenne vicesegretario generale di Palazzo Madama, carica che ricopre tutt’ora, insieme a quella di responsabile dell’ufficio stampa dal giugno 2016, nominato sotto la presidenza di Piero Grasso.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Federico Toniato (Imagoeconomica).

La politica, poi, a volte conta anche per gli ingressi nella squadra. L’ex portavoce dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, Fabio Rosati, è da molti anni in forze all’ufficio stampa di Montecitorio, mentre in quello di Palazzo Madama c’è Eli Benedetti, che fu portavoce dell’ex presidente Renato Schifani.

La nuova lobby dei chirurghi estetici che è riuscita a farsi cancellare l’Iva sugli interventi

Tutti a parlare di quanto siano forti le lobby dei balneari e dei tassisti, che eroicamente resistono a ogni tentativo di liberalizzazione, alle bestemmie degli utenti che li aspettano in fila per ore e al fatto che oramai per un posto in spiaggia occorra presentarsi muniti di fideiussione bancaria. Ma da oggi si scopre che c’è un’altra lobby potentissima di cui finora si era sottovalutata l’esistenza, quella dei chirurghi estetici, che è riuscita a infilare nel decreto Anticipi la cancellazione dell’Iva sugli interventi. Si badi bene che nel suddetto decreto dovrebbero finire quelli che si chiamano provvedimenti indifferibili, tipo il rinvio di imposte per le zone colpite da calamità naturali, rifinanziamento di leggi precedenti o istituzione di fondi ad hoc che consentano di far partire il sostegno a particolari iniziative (il campionario è vastissimo: edilizia scolastica, sport, sostegno alle imprese, eccetera).

Se mi trovo particolarmente brutto, non pago l’Iva sulla fattura del chirurgo

Ora, quale sia l’urgenza di togliere l’Iva sui ritocchi non è dato sapere. Probabilmente la domanda se la deve essere posta anche il legislatore il quale, prevedendo le critiche, si è affrettato a precisare che la decisione riguarda solo gli interventi a fini terapeutici. Però siccome la maggioranza di quelli che ricorrono alla chirurgia estetica lo fanno per sentirsi più belli, i paletti messi gli devono essere sembrati troppo stretti per rimpinguare il giro d’affari della categoria. Ecco che allora ha subito allargato i confini dell’esenzione a quegli interventi che servono a tutelare la salute psicofisica di chi vi ricorre. Tradotto: se io mi trovo particolarmente brutto e la ferale constatazione mi porta a cadere in depressione, non pago l’Iva sulla fattura del chirurgo che mi avrà restituito l’autostima. E chi stabilisce se faccio il furbo o sto veramente male quando mi guardo allo specchio? Un certificato del medico attesterà la fondatezza della mia richiesta. Ah beh, allora siamo sicuri che sotto i bisturi del chirurgo plastico sfileranno solo tipi alla Body Bizarre, la fortunata serie di Real Time che propone allo spettatore una galleria di corpi e facce deformate cui il medico e la sua equipe devono trovare rimedio.

La nuova lobby dei chirurghi estetici che è riuscita a farsi cancellare l’Iva sugli interventi
Il governo ha cancellato l’Iva sugli interventi di chirurgia estetica (Getty).

E ora a chi lo dirà alle italiche mamme che si sono viste raddoppiare l’imposta?

A questo punto sorge spontanea la domanda: d’accordo che il primo governo di destra della storia repubblicana è Open to meraviglia, e fa della bellezza dei monumenti e qualcuno aggiungerebbe della razza un motivo di orgoglio. Ma che dire delle italiche mamme, chiamate a figliare per scongiurare il rischio di indesiderate sostituzioni etniche, che si sono viste raddoppiare l’Iva su pannolini, seggiolini e latte in polvere? È più importante l’estetica o la procreazione? Sono questi, come diceva con pensoso tormento il manovale Marcello Mastroianni nel Dramma della gelosia di Ettore Scola, gli interrogativi cui dobbiamo rispondere.

La ridicola corsa al giustificazionismo sul treno di Lollobrigida

Perché invocare l’arroganza del potere? L’ignavo ministro Francesco Lollobrigida in realtà è solo il pioniere di una tendenza che di qui ai prossimi anni, col progredire della tecnologia dei trasporti, verrà messa al servizio di tutti: la fermata a richiesta. Come nei tram, ogni posto a sedere disporrà di un pulsante premendo il quale il treno si fermerà nella stazione più vicina. D’accordo, così facendo la durata dei viaggi rischia di dilatarsi a dismisura. Però se vuoi il servizio personalizzato non puoi avere tutto. E comunque un treno che si ferma a pochi passi dalla porta di casa ti evita lunghe file in estenuante attesa del taxi che non c’è mai.

I giornali di destra subito a difesa del cognato d’Italia Lollobrigida

Ma non è di questo che ovviamente volevamo parlare. Piuttosto del giustificazionismo che la parte politica del ministro e i giornali vicini hanno subito messo in campo a sua difesa. Immaginiamo la scena: riunione di redazione (ognuno scelga a suo piacimento la testata), arriva la notizia che Lollobrigida, spazientito dei ritardi accumulati del Frecciarossa che lo deve portare a Napoli per poi da lì raggiungere Caivano dove era atteso, fa fermare il treno e scende a Ciampino dove un’auto blu lo raccoglie per farlo arrivare in tempo a destinazione. Unanimi i commenti dal caporedattore in giù: ma gli ha dato di volta il cervello, come si fa a fermare un treno solo per consentirti di fare i tuoi comodi? Perplessità, ironia, un pizzico di indignazione ma finisce lì, perché ora il problema è trovare un modo per giustificare con i lettori il colpo di testa del cognato ministro.

La ridicola corsa al giustificazionismo sul treno di Lollobrigida
Il ministro Francesco Lollobrigida (Imagoeconomica).

Tesi 1: l’alto senso di responsabilità istituzionale

Qualcuno propone di buttarla sull’alto senso di responsabilità istituzionale. Pur di non mancare a un impegno con la collettività e deludere chi lo stava aspettando Lollobrigida sarebbe sceso anche dal treno in corsa. Teoria che potremmo chiamare dell’ubi maior, dove l’ubi in questo è la necessità di essere a tutti i costi a Caivano, la cui disagiata situazione Giorgia Meloni ha sempre avuto a cuore. Teoria debole ad arginare il fuoco di fila delle opposizioni che stanno invocando le dimissioni del ministro.

Tesi 2: così fan tutti, guardate quelli di sinistra! 

Decisamente meglio puntare sul così fan tutti. Ed ecco che parte una spasmodica ricerca per trovare qualche malcapitato di sinistra che abbia fatto la stessa cosa o peggio. Purtroppo però non si trova granché. Gli archivi riportano la voce di Maria Elena Boschi che avrebbe utilizzato una non prevista fermata ad Arezzo per salire sul Firenze-Milano. Non è vera, ma viene buono riesumarla perché Matteo Renzi è in prima linea nel coro dei fustigatori di Lollo. E poi quella di Graziano Delrio che quando era al governo aveva battezzato la una tratta Reggio Emilia (che è casa sua)-Roma. Ma a quel punto Google che non parteggia per nessuno fa emergere dal dimenticatoio anche la storia dell’aeroporto di Albenga, battezzato Riviera Airport, da cui l’allora ministro Claudio Scajola s’era ritrovato a sua insaputa un volo quotidiano per Roma che, lui che ha casa a Imperia, gli veniva come il cacio sui maccheroni.

Tesi 3: andiamo sul sicuro e buttiamola in caciara

Bocciato, arma a doppio taglio, sbotta a quel punto il vicedirettore del giornale giustificazionista. Meglio andare sul sicuro e buttarla in caciara. E allora via con l’aereo di Renzi che è costato un occhio dei contribuenti, con la Anna Finocchiaro che va a fare la spesa con la scorta che spinge il carrello, Claudio Burlando che per prendere una scorciatoia guidava contromano, auto blu e lampeggianti a gogo utilizzati magari per accompagnare la morosa dal parrucchiere. Eureka, questa sì che è una difesa convincente: la pagliuzza di Lollo che impedisce ai suoi fustigatori di vedere la trave che c’è nel loro sguardo. Approvato, si stampi.

Alemanno e Rizzo? No, la destra a destra di Meloni c’è già ed è quella di Salvini

Se l’obiettivo della strana coppia AlemannoRizzo, i rossobruni che hanno unito le forze, è la convinzione che ci sia uno spazio politico da occupare più a destra della destra, Giorgia Meloni può tirare dritto senza temere erosioni nel consenso di cui ancora ampiamente gode. Anche se il fu sindaco di Roma, con divertente suggestione, ha paragonato i suoi ex camerati alla vecchia Dc. In sostanza ha dato loro dei dorotei, che fu corrente scudocrociata di gran peso, ossia gente che in politica sapeva tenere tutto e il contrario di tutto. Cosa che, a prescindere dal contesto storico in cui nacque, ha fatto assurgere il doroteismo a generale categoria dello spirito.

Per i duri e puri col culto di Predappio non c’è spazio da occupare

In questo senso la premier sta interpretando bene la parte: in Europa flirta con i tedeschi, il cui spirito rigorista sui conti prima di varcare la soglia di Palazzo Chigi è sempre stato un suo bersaglio privilegiato. In casa lascia ad alcuni dei suoi, che spesso la interpretano goffamente, la parte degli anti sistema. Dunque non c’è nessuna possibilità che la destra nostalgica del passato che fu possa mettere radici come partito politico antagonista al di fuori delle chat tra militanti, sfogatoio dei duri e puri che tendono ad alzare il braccio e coltivano il culto di Predappio? No, per la semplice ragione che quel partito c’è già, ed è la Lega di Matteo Salvini. La sua, non quella che governa stabilmente sui territori e che nel suo pragmatismo è lontana mille miglia dal frenetico camaleontismo dell’ineffabile segretario.

Alemanno e Rizzo? No, la destra a destra di Meloni c'è già ed è quella di Salvini
Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Salvini sta facendo come Fratelli d’Italia ai tempi dell’opposizione

Per dirla in breve, si potrebbe dire che Salvini, pur essendo vicepremier e ministro, tende a emulare il ruolo che fu di Meloni quando la leader di Fratelli d’Italia stava all’opposizione. In politica estera il suo modello valoriale è quello delineato dal discorso spagnolo di Giorgia al raduno di Vox dell’ottobre 2021. Ma mentre lei adesso guarda ai Popolari, come perno di un possibile ribaltamento degli attuali assetti a Bruxelles, i referenti europei del Capitano sono Afd e Marine Le Pen. E in casa sua il leader del Carroccio è diventato il miglior interprete del motto Dio, patria e famiglia tanto caro alla destra estrema. E così facendo ha trasformato la Lega da federalista a movimento reazionario e sanfedista.

Obiettivo Europee 2024, ma i sondaggi per ora non danno ragione

La posta in gioco è chiara, la possibilità di vincerla un vero azzardo. Salvini vuole scavalcare a destra Meloni per arrivare alle Europee 2024 come solido approdo di chi si sente tradito dalla sua metamorfosi governista. I sondaggi, per ora, non gli stanno dando ragione. Difficile stare la governo e indossare al tempo stesso la felpa del capopopolo. Ma di qui a giugno c’è ancora tempo per tentare l’impresa.

Dal Mes al Piano Mattei, un governo di indecisionisti che bluffano

Gli indecisionisti. Del Mes, per esempio, si sono perse le tracce. Come ha fatto notare il sito Pagella politica, il dibattito in Italia è precox. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a discussioni spente nel giro di qualche ora come sul missile francese della strage di Ustica dopo un’intervista a Giuliano Amato: stupore, furore, opinionismo inviperito e poi alla sera tutti a letto a dormire. Del finanziamento tedesco alle Ong nel Mediterraneo si è scritto come se dovesse essere la fine di qualsiasi relazione diplomatica tra Italia e Germania. A leggere il giornali sembrava la fine dell’Europa come l’abbiamo sempre pensata, con dirigenti di partito che apparivano pronti alla crocifissione. Passata la buriana sono ricominciati i baci, gli abbracci e le scatole di cioccolatini in regalo.

Gentiloni nemico del giorno e il caos sullo spot Esselunga

Paolo Gentiloni accusato di «giocare con un’altra maglia a Bruxelles» è stato l’episodio breve della serie “un nemico al giorno” tanto cara al governo. Si è chiusa talmente presto e bene che si può saltare senza la paura di perdere il filo. Imbarazzante a dir poco è stato il duello sulla pesca dell’Esselunga che ha visto in prima fila anche la presidente del Consiglio, sempre parca nelle dichiarazioni di intenzioni politiche ma sorprendentemente prodiga di opinioni sulla frutta tradizionale. Chissà cosa avranno pensato all’estero di una nazione che si accapigliava su uno spot pubblicitario.

Apostolico era il male della Patria, poi tutti appresso a Giambruno

La giudice di Catania Iolanda Apostolico è stata presentata come nemica della Patria, possibile elemento di rovesciamento della pace sociale italiana. La giustizia italiana non ha ancora deciso se la sua decisione di non convalidare il trattenimento di quattro migranti tunisini, ma la politica ha già emesso la sua sentenza della sua Cassazione: disinteressato silenzio. Della separazione di Giorgia Meloni e Andrea Giambruno si è scritto talmente tanto e tumultuosamente che a ripensarci oggi provoca quasi imbarazzo. I litigi tra Marina Berlusconi e la presidente del Consiglio promettono di essere pillole che torneranno a giorni alterni.

Tante scenate sul Mes, però alla fine il governo dovrà cedere

Poi c’è il Mes. Il Mes che è diavolo e acqua santa, salvifico e poi subito drammatico, indispensabile e poi truffa. Ma sul Mes gli indecisionisti non potranno bluffare a lungo. Per questo il caso fa specie. Come degli immaturi di fronte ai problemi dalle parti del governo decidono di non parlarne, chiedono di non farne parlare. Però l’Europa bussa e non si potrà fingere che in casa non ci sia nessuno ancora per molto. «Alla fine dovremo cedere, ma almeno speriamo di chiedere qualcosa in cambio», mi disse qualche settimana fa a microfono spento un alto dirigente della Lega.

Dal Mes al Piano Mattei, un governo di indecisionisti che bluffano
Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Ma quale pugno duro, Meloni si è inginocchiata davanti ai balneari

È ormai un genere letterario invece il tira e molla sui balneari con Bruxelles che ormai ha aperto una linea diretta per le infrazioni rivolte al governo italiano. Chissà come racconteremo tra vent’anni che il governo che vorrebbe essere del “pugno duro” non riesca a non inginocchiarsi di fronte a un chiosco sulla piaggia. Decidere di non decidere. Anche l’assegno unico universale resta sotto infrazione a livello europeo. Bruxelles ha formalizzato, con l’invio di un parere motivato all’Italia, la contestazione mossa contro la principale misura di sostegno per le famiglie, entrata in vigore a marzo 2022. Il governo aveva spedito delle valutazioni che non sono state ritenute soddisfacenti.

Piano Mattei pubblicato in Gazzetta eppure è tutto rinviato

Decidere di non decidere. Sulla Gazzetta ufficiale la pubblicazione del “Piano Mattei” è un’imperdibile scena di nonsense: dalla rivoluzionaria strategia sull’immigrazione della presidente del Consiglio sparisce l’articolo che ci dice quando dovrebbe partire. Tutto rinviato: un proposito pubblicato in Gazzetta è un capolavoro di propaganda. Gli indecisionisti sono squali panpenalisti quando si tratta di punire (di più i poveracci), ma si incagliano su tutto il resto. Doveva essere il governo della “donna forte” circondata da “uomini forti”, invece è un bullo che balbetta. Ma quanto può funzionare? Questo è il tarlo che consuma ogni indecisionista.

L’appello all’unità di Di Maio

Il ministro degli Esteri: in una lettera a Repubblica «Inaccettabile polarizzare il dibattito attorno al dualismo della paura. Siamo in ritardo, avremo un ruolo solo facendo squadra».

«Dopo anni di immobilismo e difficoltà del sistema Italia, siamo di fronte a un bivio importante: o iniziamo a fare squadra, oppure ci relegheremo in un angolo senza via d’uscita». Lo scrive il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in una lettera a Repubblica in cui si dice «convinto che l’Italia, dopo qualche silenzio di troppo, oggi abbia ancora molto da dire. Deve solo ritrovare fiducia in se stessa, abbandonare i colori delle proprie bandierine politiche e giocare da squadra. Solo a quel punto riusciremo a misurare realmente il nostro valore nel mondo».

«INACCETTABILE POLARIZZARE IL DIBATITO»

«Non è accettabile che in merito ai focolai di questi giorni, qualcuno tenti di polarizzare il dibattito pubblico intorno al dualismo emotivo della paura e, dunque, della violenza», scrive Di Maio. «Non ci sono parti in causa per cui tifare. Sussistono bensì alleanze, come quella Atlantica, che contribuiscono a tracciare la strada da seguire. E sussiste la volontà di porsi come mediatori e facilitatori di un dialogo che, soprattutto in Libia, non deve e non può restare ancorato al palo. La Libia» – sottolinea – è per il nostro Paese un tema di sicurezza nazionale».

«LAVORARE INSIEME A UN EMBARGO TOTALE»

«Stati Uniti, Russia, Turchia ed Egitto, tra tutti, sono e debbono continuare ad essere per l’Ue degli interlocutori. Riunirsi a Bruxelles è stata un’occasione importante per ribadirlo», evidenzia Di Maio, secondo il quale «solo ricongiungendo tutti sotto l’ombrello europeo riusciremo a porre un freno alle interferenze dei singoli Stati, per poi lavorare insieme a un embargo totale via terra, via mare e via aerea che porti la Libia quanto meno verso una tregua».

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La proposta di Paola Pisano su username e password statali

La ministra della Pubblica amministrazione propone l'identità digitale unica. Per accedere ai servizi pubblici ma anche a quelli privati. Sui social scoppia la polemica. E lei prova a fare chiarezza con un tweet.

Un’unica e sola user e password per accedere a tutti i servizi digitali. Della pubblica amministrazione ma non solo, anche al proprio conto in banca, per acquistare un biglietto del cinema, per prenotare un’auto. La proposta lanciata dalla ministra della Pa Paola Pisano al programma Eta Beta di Radio1 ha fatto discutere parecchio, muovendo non poche perplessità.

MADIA CRITICA

L’iniziativa ha però trovato le critiche di Marianna Madia, ex titolare dello stesso ministero occupato dalla Pisano: «Sono molto perplessa per le posizioni espresse oggi dalla ministra Pisano relative all’identità digitale», ha affermato la deputata del Partito democratico. «Credo occorra un confronto urgente sulle scelte complessive del governo in materia di digitale e dati. Si tratta di un tema strategico per i diritti dei cittadini, la democrazia e la competitività del Paese. Alcune scelte meritano un approfondimento e un confronto ampio e non possono essere rilasciate ad improvvisazioni estemporanee».

SENSI E ATTIVISSIMO PREOCCUPATI

Quella della Madia non è stata l’unica voce critica. In tanti, sui social, hanno espresso dubbi e timori in termini di privacy e sicurezza. «Una sola password e pure di Stato?», ha commentato il debunker Paolo Attivissimo, «significherebbe collegare le attività private (che non devono interessare a uno Stato) a quelle che riguardano lo Stato (tasse, certificati, atti pubblici)». Ancora più netto e duro Filippo Sensi: «A me questa cosa mette i brividi e mi fermo per carità di patria».

IL CHIARIMENTO DELLA MINISTRA

La polemica è montata rapidamente sui social, tanto che la titolare della Pa è dovuta tornare sull’argomento con un tweet: «Vediamo di sgombrare il campo da ogni equivoco: l’identità digitale sarà rilasciata dallo Stato e servirà a identificare il cittadino in modo univoco verso lo Stato stesso. In futuro, per aziende e cittadini che lo vorranno, potrebbe essere un ulteriore sistema di autenticazione».

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Vertice a sorpresa tra Di Maio e Zingaretti

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi. Sul tavolo i prossimi obiettivi di governo.

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi tra il leader del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Stando a quanto si legge in una nota congiunta degli staff dei due leader, nel corso del colloquio si è parlato della situazione politica generale e si è fatto un primo confronto sul percorso da avviare per definire i prossimi obiettivi di governo. Il clima è stato definito come molto positivo e costruttivo.

UN GENNAIO DI FUOCO PER IL GOVERNO

Per il governo, il mese di gennaio si annuncia pieno di insidie e sfide delicate, in un contesto appesantito dalle tensioni interne al Movimento 5 stelle. Il 20 gennaio è previsto il voto della Giunta per l’Immunità del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini nell’ambito del caso Gregoretti; voto da cui la maggioranza potrebbe uscire non così compatta, specie alla luce delle riserve di Italia viva. Sei giorni più tardi, sono in agenda le elezioni regionali in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna, dove un risultato negativo del Pd potrebbe avere effetti pesanti sul governo. Da non sottovalutare anche il dibattito sulla prescrizione, con le tensioni tra M5s e Italia viva.

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Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Il nodo prescrizione. Il voto sulla Gregoretti. Le Regionali. Ma anche la questione banche, i decreti Sicurezza (che una parte del Pd vuole cancellare) e il Reddito di cittadinanza, nel mirino di Renzi. I dossier che metteranno a dura prova la tenuta della maggioranza.

C’è Giuseppe Conte che guarda a «una maratona» fino al 2023 e c’è Nicola Zingaretti che con più cautela parla di agenda per il 2020, invocando «crescita e giustizia fiscale». In mezzo ci sono Luigi Di Maio e Matteo Renzi che giurano lealtà, ma devono districarsi tra reciproche diffidenze e problemi di varia natura. Ed è proprio il rapporto tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva ad aumentare i pericoli di una crisi, con Palazzo Chigi spettatore interessato delle scintille tra gli alleati-nemici. Il nuovo anno del governo non si annuncia affatto tranquillo. E più che un progetto annuale, se non addirittura triennale come vaticinato dal presidente del Consiglio, la realtà racconta di una navigazione sempre più a vista. 

Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato

Fonti di maggioranza

L’ottimismo professato da Conte non trova grandi riscontri nei fatti. «Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato», ammette un parlamentare della maggioranza. Fin dai prossimi primi giorni ci saranno degli ostacoli da saltare, aggirare. O, come è avvenuto nelle ultime settimane, da spostare qualche mese più in avanti, cercando di rinviare e temporeggiare. Dal voto su Matteo Salvini per il caso Gregoretti alle elezioni regionali, l’inizio del 2020 sarà ricco di insidie, con le varie forze di maggioranza che devono accorciare distanze siderali. Ma il principale problema resta la tenuta del Movimento 5 Stelle: non trascorre giorno senza le voci di possibili transfughi, in qualsiasi direzione. E principalmente verso la Lega.

I MALUMORI DI ITALIA VIVA SULLA PRESCRIZIONE

A parole nessuno vuole creare l’incidente sulla Giustizia, in particolare sulla cancellazione della prescrizione prevista dalla riforma del ministro Bonafede. Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, così il Partito democratico ha piantato un paletto: senza un accordo di maggioranza, sarà portata in Aula una proposta di legge alternativa che non elimina la prescrizione, ma la regolamenta con una sospensione massima di tre anni e sei mesi. Come se non bastasse Italia Viva ha ribadito che è pronta anche a votare il testo di Forza Italia, presentato dal deputato Enrico Costa. Questa proposta punta a neutralizzare la norma voluta dal Guardasigilli. Una mossa che spalanca le porte a un’eventuale, ulteriore, spaccatura tra i cinque stelle. Una retromarcia sulla prescrizione, infatti, potrebbe essere la scusa buona per i malpancisti del Senato a lasciare il Movimento. Senza dimenticare il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade, che potrebbe provocare la stessa dinamica tra i dissidenti M5s. 

IL REFERENDUM CHE PUÒ AVVICINARE LE ELEZIONI

Pochi giorni e gli italiani sapranno se ci sarà un referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il 12 gennaio scade il termine per le firme sulla richiesta del referendum: al Senato il quorum è stato raggiunto, ma qualcuno potrebbe decidere di ritirare la firma, facendo saltare la consultazione (che si terrebbe in primavera). Il passaggio è molto delicato: intorno a questa decisione c’è un interesse di Palazzo, ossia la possibilità di far terminare anticipatamente la legislatura per tornare subito al voto ed eleggere, per l’ultima volta, 945 parlamentari invece di 600 come previsto dalla riforma approvata. A questo si aggiunge un’altra atavica questione: la legge elettorale, su cui la maggioranza fatica a trovare un’intesa. Ma c’è una certezza: nelle prossime settimane la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega; l’obiettivo è quello di introdurre un maggioritario puro, cancellando la quota proporzionale prevista dal Rosatellum.

IL VOTO SU SALVINI ALIMENTA LE TENSIONI

Il 20 gennaio ci sarà il voto su Salvini e la vicenda giudiziaria relativa alla nave Gregoretti: i magistrati chiedono di poter processare il leader della Lega. La vicenda accresce gli imbarazzi dei cinque stelle, che sul caso della Diciotti avevano respinto la richiesta della magistratura. Ma quella era l’epoca del Salvini alleato di Di Maio, ora la fase politica è diversa. E anche l’orientamento sembra cambiato. I leghisti scrutano perciò le intenzioni di Italia Viva, che non si è sbilanciata sulla decisione. L’aria che tira nei corridoi parlamentari è che il dialogo tra i “due Mattei”, Renzi e Salvini, potrebbe manifestarsi proprio il 20 gennaio. Facendo esplodere ulteriori tensioni. 

LE REGIONALI COME PUNTO DI SVOLTA

Le Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, in calendario il 26 gennaio, hanno una valenza nazionale. Al di là delle smentite di rito, l’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini provocherebbe uno smottamento nel Pd, rischiando seriamente di trascinare con sé l’intero governo. Facile prevedere pure le accuse rivolte al Movimento che ha voluto presentare un proprio candidato. Nelle ultime settimane, il barometro segnala un moderato ottimismo: il centrosinistra è dato in vantaggio nei sondaggi sull’alleanza di centrodestra, guidata dalla leghista Lucia Borgonzoni. Ma c’è un altro tornante fondamentale nel voto per l’Emilia-Romagna. Un risultato molto deludente di Simone Benini, candidato del M5s, aprirebbe l’ennesimo fronte polemico interno nei confronti di Di Maio. Con la messa in discussione della sua leadership e l’aumento del malcontento tra i parlamentari pentastellati. Sull’esito del voto in Calabria, invece, l’attenzione è al momento minore.

EX ILVA, MA NON SOLO: LE VERTENZE CHE SCOTTANO

La «maratona» di tre anni annunciata da Conte parte quindi con un primo chilometro durissimo. Tutto in salita. Oltre al rapporto tra i partiti, sul tavolo ci sono questioni che tirano in ballo il destino di decine di migliaia di lavoratori. In questo caso spetterà al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, dirimere le problematiche più delicate. Il futuro dell’ex Ilva e di Alitalia è incerto: lo stabilimento di Taranto è al centro di una complicata trattativa con ArcelorMittal, mentre la compagnia aerea ha ricevuto l’ennesimo prestito-ponte. Ma all’orizzonte non si delinea una soluzione definitiva. Tra le vertenze ci sono anche quelle della Whirpool, dell’ex Embraco e della Bosch di Bari. Sempre nel capoluogo pugliese c’è un’altra criticità: la Popolare di Bari. Il salvataggio in extremis dell’istituto non ha risolto la questione. Anzi.

DALLE BANCHE A QUOTA 100: GLI ALTRI FRONTI DELICATI

La questione banche è pronta ad acuire le divisioni. I lavori della commissione di inchiesta dovranno comunque partire nel 2020: non è immaginabile un ulteriore slittamento. E le scintille tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva sono facilmente prevedibili. Un altro terreno di scontro è rappresentato dai decreti Sicurezza: una parte del Pd chiede la totale cancellazione dei provvedimenti voluti da Salvini nel corso della precedente esperienza di governo. Conte ha detto di voler conservare l’impianto normativo, prevedendo solo ritocchi. Zingaretti sarà costretto a battere i pugni sul tavolo e comunque dovrà accettare una mediazione, rischiando di alimentare le polemiche interne. Sempre tra i dem c’è la volontà di rilanciare la battaglia sullo Ius Culturae, sfidando il niet di Di Maio. Tra i tanti dossier aperti e quelli da aprire, si inserisce l’attivismo di Renzi, che ha bisogno di ritagliarsi uno spazio per aumentare i consensi della sua creatura politica. Italia Viva al momento non sfonda nei sondaggi. Così l’ex presidente del Consiglio, attraverso i suoi fedelissimi, ha già annunciato una campagna contro Reddito di cittadinanza e Quota 100, cavalli di battaglia del M5s. Una provocazione che non è passata inosservata. Insomma, all’ordine del giorno delle criticità del Conte 2 c’è un ricco capitolo di “varie ed eventuali”.

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Le mosse del Mit su Autostrade per il 2020

Il ministero dei Trasporti prova a limitare Aspi con l'introduzione di un osservatorio sulle verifiche di sicurezza. E spinge per congelare i pedaggi sul 95% della rete.

L’anno difficile delle strade liguri ha coinciso un un anno complesso soprattutto per Autostrade per l’Italia, tanto da tenere il ministero del Trasporti, e in generale la fazione grillina del governo, sul piede di guerra. Gli ultimi episodi di fine anno, come l’incendio nel cantiere del viadotto Polcevera a Genova o il crollo del soffitto di una galleria sulla A26, hanno spinto il Mit a correre ai ripari.

DAL 2020 NUOVO OSSERVATORIO SUL MONITORIAGGIO DI ASPI

La ministra Paola De Micheli al termine della riunione informativa sul distacco di parte del soffitto della galleria Berté ha deciso che a partire dal prossimo anno verrà istituito presso il Mit un Osservatorio permanente di monitoraggio delle verifiche di sicurezza relative a tutte le strade e autostrade gestite in concessione, anche con il coinvolgimento di Ansfisa, l’agenzia per la sicurezza stradale e ferroviaria. Durante il vertice che si è tenuto al ministero con i vertici di Aspi si è discusso di una accelerazione dei tempi relativi alla manutenzione di autostrade e gallerie gestite da Aspi, dell’istituzione di un osservatorio Mit-Aspi sui controlli realizzati dalla società concessionaria e di un aiuto economico al Porto di Genova. Alla riunione hanno partecipato oltre al ministro in conference call, il capo di gabinetto del Mit, il direttore generale per la Vigilanza sulle concessionarie autostradali del Mit, e l’Amministratore delegato di Aspi.

IL MINISTERO CHIEDE DI COGLEARE GLI AUMENTI PER IL 2020

Il Mit ha reso noto anche che verranno differiti dal decreto Milleproroghe gli incrementi tariffari previsti dal prossimo 1 gennaio 2020 per il «95% della rete autostradale» e che gli aumenti tariffari ci saranno solo per le società CAV 1,20%, Autovia Padana 4,88%, Bre.Be.Mi. 3,79% e Pedemontana Lombarda 0,80%. Inoltre «si conferma l’ulteriore congelamento degli incrementi tariffari relativi agli anni precedenti» per le società Concessionarie quali Strada dei Parchi, Autostrade per l’Italia e Milano Serravalle. Il Ministero ha fatto inoltre presente che «relativamente alla Concessionaria Strada dei Parchi, l’incremento tariffario è ulteriormente sospeso fino al 31 ottobre 2021» per cui sulle autostrade A24 e A25 «continueranno ad applicarsi le tariffe di pedaggio vigenti alla data del 31 dicembre 2017».

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Fioramonti lascia il M5s e passa al gruppo misto

L'ex ministro dell'Istruzione ha annunciato l'intenzione di uscire dei pentastellati. «C'è diffuso sentimento di delusione».

L’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha lasciato il gruppo parlamentare del Movimento Cinque Stelle e si è iscritto, «a titolo puramente individuale», al gruppo Misto. Lo ha annunciato lo stesso Fioramonti su Facebook.

Questi giorni sono stati difficili. Il mio nome sballottolato sui giornali per ogni sorta di retroscena, speculazione e…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Monday, December 30, 2019

«Il Movimento 5 Stelle mi ha deluso molto. So che esiste un senso di delusione profondo, più diffuso di quanto si voglia far credere», ha scritto ancora l’ex titolare del Miur annunciando di aver comunicato al Presidente della Camera la «decisione di lasciare il gruppo parlamentare ed approdare al misto». «È come se quei valori di trasparenza, democrazia interna e vocazione ambientalista che ne hanno animato la nascita si fossero persi nella pura amministrazione, sempre più verticistica, dello status quo», ha aggiunto.

«ATTACCHI FEROCI CONTRO LA MIA PERSONA»

«Gli attacchi più feroci sono arrivati dal Movimento 5 Stelle, non criticando la mia scelta, ma colpendo la mia persona. Anche se tutti, ma proprio tutti, sapevano da mesi come la pensavo», ha aggiunto l’ex titolare del Miur spiegando che l’addio al gruppo è legato anche a «tutti gli attacchi che ho ricevuto». «In questo percorso, ho incontrato tante persone che mi hanno sostenuto. Dentro e fuori dal Movimento», ha continuato. «E non c’è niente di male se con alcune di queste persone si è cercato di collaborare per riportare in auge temi cruciali come l’ambiente, lo sviluppo sostenibile, la formazione e la ricerca. Sono questi i veri temi del presente e del futuro. E invece tutti parlano di altro. Si è parlato di gruppi, correnti, partiti. Tutte parole al vento per riempire giornali e pagine web».

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Il governo smentisce la revisione di reddito di cittadinanza e Quota 100

Dopo le polemiche fra Italia viva e M5s, Palazzo Chigi chiude a eventuali modifiche delle due misure-simbolo del governo gialloverde.

Il governo ha ufficialmente smentito di essere al lavoro su eventuali modifiche da apportare al reddito di cittadinanza e alle pensioni con Quota 100: «Dopo l’approvazione della manovra, non è all’ordine del giorno alcuna revisione», ha precisato Palazzo Chigi in una nota.

LEGGI ANCHE: Reddito e pensione di cittadinanza valgono in media 484 euro

LE POLEMICHE TRA ITALIA VIVA E M5S

Il riferimento è alla ricostruzione giornalistica pubblicata dal quotidiano La Stampa in edicola il 30 dicembre, ma il comunicato del governo suona anche come una risposta alle polemiche aperte nella maggioranza dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. L’esponente di Italia viva, infatti, aveva chiesto all’esecutivo di cancellare il reddito e di ridiscutere quota 100. Per il M5s aveva replicato l’ex ministra Barbara Lezzi: «Se il reddito le fa schifo allora si dimetta e faccia cadere il governo».

I PRESUNTI INTERVENTI ALLO STUDIO DELL’ESECUTIVO

Secondo La Stampa, il premier Giuseppe Conte sarebbe disponibile a ridiscutere entrambe le misure. Per quanto riguarda il reddito, intervenendo sui navigator e sul ruolo dell’Anpal. Per quanto riguarda invece Quota 100, non sarebbe da escludere una riforma strutturale del sistema pensionistico finalizzata a superare sia tale meccanismo, sia la legge Fornero. La secca smentita di Palazzo Chigi, tuttavia, fa capire che non ci sono margini.

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Prescrizione ma non solo: il gennaio a ostacoli di Conte

Il nodo giustizia fa tremare il governo. Alle prese anche con le delicate questioni Autostrade e Ilva. Italia viva sul piede di guerra. Mentre nel M5s è tutti contro tutti.

Un gennaio a ostacoli, che avrà nella giustizia – e nella prescrizione in particolare – la prima, spinosissima tappa. Ad attendere il premier Giuseppe Conte sarà un mese infuocato. M5S, Pd e Iv viaggiano su binari lontanissimi e il rischio è che lo stallo sulla riforma Bonafede inquini sul nascere il confronto nel governo dal quale il presidente del Consiglio vuol far ripartire la sua agenda. La maggioranza resta fragile. Con l’ombra del nuovo gruppo alla Camera che, nonostante l’appello del premier a non destabilizzare, resta un’ipotesi sul tavolo. Il capo del governo arriverà al vertice sulla giustizia previsto il 7 gennaio probabilmente dopo aver completato l’insediamento di nuovi ministri alla Scuola e all’Università e Ricerca Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi. La scelta dello spacchettamento, a livello numerico, avvantaggia il Pd e, allo stesso tempo, frena la possibile richiesta di un mini-rimpasto da parte dei Dem dopo le Regionali.

IL TUTTI CONTRO TUTTI NEL MOVIMENTO 5 STELLE

Il Movimento, dal canto suo, si consola con la promozione del suo sottosegretario, la deputata Azzolina. La sua indicazione trova il gradimento dei vertici e forse scontenta l’ala ortodossa (tra i papabili c’era anche il presidente della commissione Cultura Luigi Gallo) ma non dovrebbe creare ulteriori crepe in un Movimento dove, da giorni, è in atto un tutti contro tutti. Oggi è il “dissidente” Gianluigi Paragone a parlare. «Proveranno a espellermi, certo. Forse ce la faranno pure, ma poi metterò in evidenza che il collegio dei probiviri è composto da persone che sono incompatibili, come la ministra Dadone che non può essere ministro e probiviro insieme», attacca il senatore. Difficile, tuttavia, che Luigi Di Maio aumenti la tensione optando per espellere subito dissidenti e ritardatari sui rimborsi. Più facile che, almeno alla Camera, siano i dissidenti ad andar via.

I TIMORI DEL PREMIER

L’ipotesi del gruppo “contiano”, guidato da Lorenzo Fioramonti, resta concreta e potrebbe raccogliere almeno una decina di scontenti M5S ma, arrivare a quota 20 deputati – necessaria per avere l’ok della Camera – non è semplice. E già fioccano smentite. Su due battaglie i pentastellati si mostrano uniti. La revoca delle concessioni ad Autostrade e la riforma della prescrizione. Sul primo punto la linea di Conte sembra convergere con quella Di Maio: nessuno sconto ad Autostrade, ha spiegato il premier nell’attesa che finisca l’istruttoria. Ma lo scontro con Iv è alle porte. Il Pd, invece, è in una posizione attendista, forse anche perché, almeno dal punto di vista cronologico, il dossier Autostrade s’incrocia con quello della prescrizione, dove i Dem sono invece in trincea. L’obiettivo, per Conte, è fare in modo che il vertice del 7 non si trasformi in un’ennesima fumata nera.

SI CERCA L’ACCELERATA SULL’ILVA

«Bonafede faccia un passo di lato», è l’invito del ministro Francesco Boccia che dà al Guardisigilli due mesi di tempo per trovare un punto di caduta. «Oppure andremo avanti con la nostra proposta di legge», avvertono i dem. Sempre nella prima metà di gennaio, Conte proverà a dare un’accelerata al dossier Ilva varando contestualmente il decreto “Cantiere Taranto” che, nella strategia del governo, è parte della soluzione di rilancio dello stabilimento.

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L’iter per la nomina dei ministri Azzolina e Manfredi

Prima un decreto per lo spacchettamento del dicastero; quindi la nomina da parte del presidente della Repubblica e il successivo giuramento.

Prima il decreto in Consiglio dei ministri per lo spacchettamento tra ministero dell’Istruzione e ministero dell’Università e della Ricerca di competenze finora accorpate in un solo dicastero; quindi la nomina da parte del presidente della Repubblica e il successivo giuramento. È il timing che attende Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi, i ministri indicati dal premier Giuseppe Conte per il post-Fioramonti: la prima messa a capo del ministero della Scuola, il secondo titolare dell’Università e della Ricerca. Per l’ufficialità, tuttavia, a quanto spiegano fonti di governo, bisogna attendere almeno i primi di gennaio. Anche perché l’iter richiede più tappe.

L’ITER CHE PORTA ALL’INSEDIAMENTO DEI DUE MINISTRI

Innanzitutto è necessario un decreto legge (ipotesi altamente più probabile di un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri – Dpcm) che spacchetti le competenze assegnate all’attuale Ministero dell’Istruzione, dell’università e della Ricerca, che è un dicastero con portafoglio. Quindi il Consiglio dei ministri deve dare il via libera all’operazione, in modo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, su indicazione del premier Giuseppe Conte, possa procedere alla nomina. Solo allora i ministri nominati potranno salire al Quirinale per il giuramento e insediarsi nei loro nuovi uffici. A quel punto i ministri del governo Conte Bis passeranno da 21 a 22.

UN ESECUTIVO COMPOSTO DA 63 PERSONE

Come precisato dallo stesso presidente del Consiglio non è prevista la nomina di nuovi sottosegretari. Che in totale, compresi i viceministri, erano 42. Con le nomine del 28 dicembre diventano 41 per il passaggio di Azzolina dalla sottosegreteria alla guida del nuovo dicastero della Scuola. In totale i componenti dell’Esecutivo sono quindi 63. Il governo Conte Uno con la maggioranza gialloverde era arrivato a 64, uno in più. I cinque premier precedenti hanno totalizzato rispettivamente: Paolo Gentiloni 60 elementi, Matteo Renzi 63, Enrico Letta 63, Mario Monti 47. Quest’ultimo, il “governo dei professori”, risulta il più magro di tutti. Il record assoluto di affollamento spetta invece al secondo governo di Romano Prodi che, insediatosi nel 2006, in due anni di durata arrivò alla cosiddetta «carica dei 102», il totale tra ministri e sottosegretari. L’Andreotti VII nel ’91 si era fermato a 101.

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Chi sono i due nuovi ministri Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi

Conte scinde Scuola e Università. Alla prima approda l'ex sottosegretaria in orbita cinque stelle. Alla Ricerca il rettore dell'Università di Napoli. I profili.

Dopo i due vicepremier, tocca ai due ministri. Con una mossa a sorpresa il premier Giuseppe Conte ha sciolto le riserve annunciando non uno, ma ben due nomi per sostituire il dimissionario tra le polemiche Lorenzo FioramOnti. A quello di Lucia Azzolini, da giorni considerata tra i papabili per la poltrona del Miur, il presidente del Consiglio ha affiancato quello del professor Gaetano Manfredi. Già, perché Conte ha annunciato che Scuola e Università non andranno più a braccetto, ma avranno ciascuna un ministero di riferimento.

AZZOLINA, DA SOTTOSEGRETARIO A MINISTRO

Lucia Azzolina approda dunque al ministero dell’Istruzione dopo esserne già stata sottosegretario. Trentasette anni, originaria di Siracusa, la neoministra si è laureata dapprima in Filosofia e poi in Giurisprudenza nel 2013. Nel gennaio 2014, come riporta l’Agi, è passata di ruolo all’I.I.S “Quintino Sella” di Biella. Nel maggio 2019 si è classifica tra gli idonei del concorso per dirigente scolastico, nelle cui graduatorie è rimasta iscritta in attesa di un eventuale reclutamento degli idonei, in subordine ai vincitori del concorso. I primi passi in politica li ha percorsi nel 2018, con la candidatura alle parlamentarie del Movimento 5 stelle per Novara-Biella-Vercelli-Verbania e parte della provincia di Alessandria: in quell’occasione ha ottenuto il maggior numero di voti tra le donne candidate. Il 19 marzo 2018 è stata proclamata deputato nella XVIII legislatura.

MANFREDI, UN ACCADEMICO ESORDIENTE IN POLITICA

Il nuovo ministro dell’Università e ricerca Gaetano Manfredi, 55 anni, ingegnere, è dal 2014 rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. In precedenza ha insegnato per molti anni nello stesso ateneo ed è stato a capo della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. La sua ascesa accademica ha preso il via nel 1995, quando Manfredi è diventato prima ricercatore, poi professore associato, ordinario, direttore del dipartimento di Analisi e progettazione, direttore del dipartimento di ingegneria strutturale, prorettore e, infine, rettore.

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La conferenza stampa di fine anno del premier Conte

Il premier incontra la stampa per il tradizionale evento organizzato dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti.

Tradizionale appuntamento di fine anno con la stampa per il premier Giuseppe Conte. A Roma il presidente del Consiglio ha preso parte all’evento organizzato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, rispondendo alle domande della platea. Conte ha tracciato un primo bilancio del suo secondo esecutivo, ribadendo l’orizzonte temporale che la maggioranza ha davanti e parlando a tal proposito di una «maratona di tre anni».

«Non solo è stata disinnescata l’Iva», ha spiegato Conte, «ma abbiamo anche iniziato a realizzare alcuni degli impegni sui quali abbiamo chiesto la fiducia del parlamento e dei cittadini. Ora abbiamo davanti a noi una maratona di tre anni, non significa che andremo a passo lento, marceremo spediti, ma questo spazio temporale ci consentirà di programmare senza l’affanno di questi mesi le nostre iniziative di governo. Vogliamo un piano ambizioso e riformatore per realizzare quelle misure che il Paese attende da anni per migliorare la qualità della vita dei cittadini».

«ABBIAMO MESSO IL PAESE IN SICUREZZA»

«In questi primi giorni del nuovo governo siamo stati costretti a correre i 100 metri, anzi una corsa a ostacoli, per mettere il Paese in sicurezza e reperire i 23 miliardi per disinnescare l’Iva», ha spiegato Conte in apertura del suo intervento. «Sono orgoglioso di avere raggiunto gli obiettivi prefissati».

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Fioramonti e la risposta polemica alle critiche M5s

L'ex ministro al contrattacco dopo le dimissioni: «Stupiscono critiche dai vertici, sistema dei rimborsi poco trasparente».

«Mi stupisce che tante voci della leadership del M5s mi stiano attaccando. E per che cosa? Per aver fatto solo ciò che ho sempre detto». È quanto afferma in un lungo post su Facebook l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, rispondendo alle critiche arrivate dai cinque stelle dopo la sua decisione di lasciare il governo.

«CRITICATO PER AVER FATTO CIÒ CHE AVEVO ANNUNCIATO»

«Credo che sia la prima volta nella storia del nostro Paese che un ministro venga criticato perché ha fatto ciò che aveva annunciato. Non da giorni, ma da mesi. Io sono così: se una cosa la dico poi la faccio e per questo ho lottato senza sosta, anche da ministro, per porre la questione nel governo», ha detto Fioramonti, ricordando che le prime interviste in cui annunciò che si sarebbe dimesso se non avesse trovato almeno un miliardo per la ricerca risalgono a giugno prima sul Fatto Quotidiano e poi su La Verità, quando era ancora viceministro del governo Conte uno.

«SISTEMA DEI RIMBORSI FARRAGINOSO E POCO TRASPARENTE»

«Non possono mancare le solite polemiche sui rimborsi», ha aggiunto Fioramonti. «In tanti, nel Movimento, abbiamo contestato un sistema farraginoso e poco trasparente di rendicontazione». E ancora: «Dopo aver restituito puntualmente per un anno, come altri colleghi, ho continuato a versare nel conto del Bilancio dello Stato e le mie ultime restituzioni saranno donate sul conto del Tecnopolo Mediterraneo per lo Sviluppo Sostenibile, un centro di ricerca pubblico che, da viceministro prima e da ministro poi, ho promosso a Taranto, una città deturpata da un modello di sviluppo sbagliato. Ed invito anche altri parlamentari M5s a fare lo stesso, non appena il conto sarà attivo».

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Le reazioni politiche alle dimissioni del ministro Fioramonti

Voci critiche interne alla maggioranza e attacchi netti dall'opposizione. Mentre i presidi delle scuole sono sempre più preoccupati.

Le dimissioni del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti tengono banco nel dibattito politico sotto le feste. E fioccano le polemiche, dentro e fuori dal governo, tra maggioranza e opposizione. Fioramonti è vittima anche di quello che dovrebbe essere fuoco amico. «Se veramente ci si vuole battere per avere più risorse per la scuola bisogna stare in parlamento non all’estero, non a presentare un libro o a fare conferenze stampa», hanno attaccato Gabriele Toccafondi e Daniela Sbrollini, capogruppo di Italia Viva in Commissione Cultura a Camera e Senato, che hanno difeso il lavoro del governo sul fronte scuola: «In quattro mesi questa maggioranza ha votato un decreto scuola, con 50 mila assunzioni e risorse. Non è quanto volevamo, ma nella legge di Bilancio, di risorse per l’istruzione, ci sono».

DADONE: «SE HAI CORAGGIO NON SCAPPI»

Non fa il nome di Fioramonti, ma forse non ce n’è bisogno, la ministra per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone: «Trovo stucchevole che chi professi coraggio agli elettori poi scappi dalle responsabilità politiche», ha scritto in un post su Facebook. «Se hai coraggio, non scappi. Se condividi davvero una battaglia, non scappi, ma mangi sale quando devi e porti avanti un progetto (ammesso che lo si abbia mai realmente condiviso). La coerenza è per lo più un pregio, ma a volte rischia di sconfinare nella sterile testimonianza che, peraltro, si addice poco a chi occupa posizioni di responsabilità».

CARFAGNA: «ORA UN MINISTRO INDIPENDENTE»

Mara Carfagna guarda invece avanti, a ciò che sarà poi, e auspica la nomina di un ministro che sia indipendente e autonomo dalle forze politiche della maggioranza: «Il ministero dell’Istruzione da anni è considerato un parcheggio per notabili di partito in cerca di collocazione. Dal 2013 abbiamo avuto ben cinque ministri, e in seguito alle dimissioni di Fioramonti verrà nominato il sesto», ha detto la vicepresidente della Camera.«È tempo di affidare l’incarico a una personalità autorevole e capace di far capire ai partiti che il sistema dell’istruzione è il “core business” di un Paese moderno».

FORZA ITALIA: «ATTO GRAVE E IRRESPONSABILE»

Durissimi i deputati di Forza Italia in commissione cultura alla Camera Valentina Aprea (capogruppo), Luigi Casciello, Marco Marin, Antonio Palmieri e Gloria Saccani. «Le dimissioni del ministro Fioramonti, costituiscono un atto grave e irresponsabile», hanno scritto in una nota congiunta. «Già minacciate sin dal suo insediamento, arrivano ora in un momento delicato e denso di appuntamenti amministrativi per l’attività del ministero dell’Istruzione. Avere maggiore disponibilità finanziarie per le politiche della scuola, dell’Università e della ricerca è da sempre aspirazione legittima di tutti i ministri dell’istruzione della Repubblica, ma Fioramonti sembra aver sottovalutato irresponsabilmente di essere arrivato a Viale Trastevere da soli quattro mesi, in un momento di crisi economica del Paese».

CALDEROLI RINGRAZIA BABBO NATALE

Sarcastico il senatore della Lega Roberto Calderoli: «Grazie a Babbo Natale per aver pensato ai nostri bambini mandando a casa con un sacco di carbone il pessimo ministro Fioramonti, uno dei peggiori ministri della storia repubblicana, quello che voleva tassare le merendine, quello che voleva togliere il crocifisso dalle aule perché non ci rappresenta. Grazie Babbo Natale per averlo fatto andare via, ora confidiamo nella Befana che magari nella calza ci farà trovare le dimissioni di tutto il governo».

PREOCCUPATI I PRESIDI

Preoccupazione è stata invece espressa dall’Associazione nazionale presidi: «Le dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti. nell’aria da alcuni giorni, ci preoccupano per l’inevitabile incertezza che si abbatte sul mondo della scuola e, soprattutto, per le ragioni delle dimissioni legate al mancato reperimento dei fondi necessari all’istruzione ed alla ricerca», ha affermato il presidente Antonello Giannelli. «Fioramonti, che ringrazio per l’impegno profuso durante il mandato, è stato un interlocutore sensibile e partecipe; questo suo gesto dimostra coerenza ma rende evidente la scarsa considerazione della politica per la scuola».

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Le parole di Fioramonti sulle sue dimissioni da ministro

La notizia dell'addio all'incarico era filtrato la sera di Natale. La spiegazione è arrivata la mattina dopo con un post su Facebook. «Si trovano risorse per tutto, ma mai per l'istruzione».

Non avrebbe voluto andarsene così, con tutto quel clamore la sera di Natale. Lorenzo Fioramonti, la sua lettera di dimissioni al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’aveva presentata il 23, prima della Vigilia, ma aveva deciso di aspettare a rendere pubblica la sua decisione e di collaborare per una transizione rapida ed efficace al vertice del ministero dell’Istruzione. La notizia però è filtrata nel bel mezzo delle feste, così anche lui si è trovato a fornire la sua versione dei fatti la mattina del 26.

L’ATTESA PER L’APPROVAZIONE DELLA MANOVRA

«Prima di prendere questa decisione, ho atteso il voto definitivo sulla Legge di Bilancio, in modo da non porre tale carico sulle spalle del parlamento in un momento così delicato», ha spiegato il ministro dimissionario con un post sulla sua pagina Facebook. «Le ragioni sono da tempo e a tutti ben note: ho accettato il mio incarico con l’unico fine di invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza».

La sera del 23 dicembre, ho inviato al Presidente del Consiglio la lettera formale con cui rassegno le dimissioni da…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Thursday, December 26, 2019

PER L’ISTRUZIONE SOLO 1,9 MILIARDI

Un fine che evidentemente non riteneva più raggiungibile, considerando che dei 3 miliardi che aveva chiesto per la scuola in linea di galleggiamento, ne sono arrivati solo 1,9. «Mi sono impegnato per rimettere l’istruzione – fondamentale per la sopravvivenza e per il futuro di ogni società – al centro del dibattito pubblico, sottolineando in ogni occasione quanto, senza adeguate risorse, fosse impossibile anche solo tamponare le emergenze che affliggono la scuola e l’università pubblica».

«NON È STATA UNA BATTAGLIA INUTILE»

Nonostante le dimissioni, per Fioramonti «non è stata una battaglia inutile e possiamo essere fieri di aver raggiunto risultati importanti: lo stop ai tagli, la rivalutazione degli stipendi degli insegnanti (insufficiente ma importante), la copertura delle borse di studio per tutti gli idonei, un approccio efficiente e partecipato per l’edilizia scolastica, il sostegno ad alcuni enti di ricerca che rischiavano di chiudere e, infine, l’introduzione dell’educazione allo sviluppo sostenibile in tutte le scuole (la prima nazione al mondo a farlo)».

«SERVIVA PIÙ CORAGGIO»

Ma non è bastato: «La verità è che sarebbe servito più coraggio da parte del governo per garantire quella ‘linea di galleggiamento’ finanziaria di cui ho sempre parlato, soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca. Pare che le risorse non si trovino mai quando si tratta della scuola e della ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore da destinare ad altre finalità quando c’è la volontà politica».

«COMBATTUTO PER OGNI EURO IN PIÙ»

Sulle tempistiche delle sue dimissioni ha precisato: «Alcuni mi hanno criticato per non aver rimesso il mio mandato prima, visto che le risorse era improbabile che si trovassero. Ma io ho sempre chiarito che avrei lottato per ogni euro in più fino all’ultimo, tirando le somme solo dopo l’approvazione della Legge di Bilancio. Ora forse mi criticheranno perché, in coerenza con quanto promesso, ho avuto l’ardire di mantenere la parola».

«UN GOVERNO CHE PUÒ ANCORA FARE BENE»

L’ormai ex ministro ha poi fatto capire di sostenere ancora il governo, invocando però quel coraggio necessario per fare le scelte giuste: «Le dimissioni sono una scelta individuale, eppure vorrei che – sgomberato il campo dalla mia persona – non si perdesse l’occasione per riflettere sull’importanza della funzione che riconsegno nelle mani del governo. Un governo che può fare ancora molto e bene per il Paese se riuscirà a trovare il coraggio di cui abbiamo bisogno».

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Il ministro Fioramonti si è dimesso

Aveva chiesto con la manovra tre miliardi di euro per scuola e università. Le risorse non sono arrivate,.

Il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, si è dimesso il 25 dicembre con una lettera indirizzata al premier Giuseppe Conte. Aveva chiesto 3 miliardi di euro con la manovra per finanziare scuola e università, anticipando che se le risorse non fossero arrivate avrebbe lasciato l’incarico. A metà dicembre l’esponente del M5s aveva manifestato apertamente il suo malcontento: «La scuola in questo Paese avrebbe bisogno di 24 miliardi. I tre che ho chiesto io non sono la sufficienza, ma la linea di galleggiamento». Tredici giorni dopo, a 48 ore dall’approvazione definitiva della legge di bilancio, è passato dalle parole ai fatti.

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A gennaio la resa dei conti sulle concessioni ad Autostrade

La ministra De Micheli (Pd): «All'inizio del 2020 decideremo su Aspi». Di Maio spinge: «Non c'è altra soluzione alla revoca». Renzi frena.

«Nessun esproprio proletario. Nessuna nazionalizzazione o vendetta. Vogliamo solo che le regole siano uguali per tutti. È così sbagliato in una democrazia liberale?», è quanto dice, in un’intervista in apertura del Corriere della Sera, la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli a proposito delle nuove norme sulle concessioni autostradali inserite nel Milleproroghe. “C’è un intervento su due concessioni – ricorda -, la RagusaCatania e la Tirrenica. Passeranno ad Anas e saranno completate, come giusto in un Paese normale. Poi vengono modificate le modalità di indennizzo in caso di revoca per tutti i concessionari che non si trovano ancora in questa condizione. È una previsione di legge generale. Come si fa in uno stato liberale, parifichiamo le condizione di tutti i concessionari davanti alla legge”. E ad Aspi che sostiene che è già così, De Micheli risponde: “Non mi pare. Ci sono tre o quattro concessioni con condizioni più vantaggiose. Tra queste anche Aspi”.

Con le regole in vigore, ad Aspi spetterebbero 23,25 miliardi, osserva il Corriere introducendo la domanda su quanti soldi sarebbero con quelle nuove: “No, molto meno – replica De Micheli – . Ma con la nuova regola ai concessionari eventualmente revocati spetterà la cifra iscritta a bilancio degli investimenti non ammortizzati, oltre a quanto previsto dal codice degli appalti. Per procedere alla revoca ci deve essere un inadempimento grave. Una cosa che va dimostrata e condivisa”. Il decreto è un passo verso la revoca ad Aspi? “La revoca è una procedura separata – chiarisce la ministra -, sulla quale stiamo ancora acquisendo dati. Una volta che avremo terminato l’analisi, tutto il governo approfondirà il se, il come e il quando”, e “a gennaio saremo in grado di prendere una decisione, ma fino a quando non avremo esaminato tutti gli aspetti non mi sbilancio”.

“Come può finire? Abbiamo 43 vittime, delle famiglie che ancora piangono, indagini e perizie che ci dicono che Autostrade non ha provveduto adeguatamente alla manutenzione del Ponte Morandi nonostante fosse a conoscenza dei rischi. È gravissimo, non c’ è altra soluzione alla revoca della concessione, mi sembra evidente”. E’ quanto afferma in una intervista alla Stampa, il leader del M5s e titolare della Farnesina, Luigi Di Maio. Alla domanda se il Pd in questa battaglia sia con i 5Stelle, risponde: “Su questo il governo è compatto e se qualcuno la pensa diversamente aspetto di ascoltare le loro motivazioni, sono curioso. Qui il punto è che non bisogna aver paura di combattere un colosso, lo Stato va protetto e la regola chi sbaglia paga deve valere per tutti”.

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Come funzionano e quanto pesano le cinque nuove tasse del governo

Plastic e sugar tax sono le più chiacchierate. E partiranno da luglio e ottobre. Ma con l'anno nuovo bisognerà fare i conti anche con le imposte su auto aziendali, sigarette fai da te e giochi. La scheda.

La parte “dare” è legata all’impatto che alcune tasse avranno sul costo dei prodotti, come la sugar tax sulle bibite. La parte “avere” sarà sotto forma di bonus befana e lotteria degli scontrini, che garantiranno il rimborso di una quota degli acquisti fatti con carta di credito. Sono i provvedimenti più “pop” di manovra e dl fisco, quelli che avranno un effetto facilmente constatabile sui portafogli: cinque nuove tasse e il cosiddetto piano “cashless”.

PLASTIC TAX DA LUGLIO E SUGAR TAX DA OTTOBRE

Oltre alla sugar e alla plastic, il primo capitolo comprende le tasse sulle auto aziendali, quella sulle cartine per le sigarette fai da te e quella sui giochi. La sugar tax e la plastic tax hanno praticamente monopolizzato il dibattito politico. In un primo momento, le bozze della manovra prevedevano che entrassero in vigore a gennaio. La tassa sulla plastica, da applicare sugli imballaggi monouso, era fissata a un euro al chilogrammo. Quella sullo zucchero, che grava sulle bevande analcoliche, a 10 centesimi al litro. Alla fine, la prima è stata ridotta a 45 centesimi ed entrerà in vigore a luglio. La seconda è rimasta tale e quale come ammontare, ma è slittata a ottobre.

AUTO AZIENDALI, DALLA STRETTA ALLA RIMODULAZIONE

C’è poi il fringe benefit, cioè il ‘peso’ in busta paga delle auto aziendali. Dopo un batti e ribatti all’interno della maggioranza di governo, dalla stretta ipotizzata in un primo momento si è passati a una rimodulazione, che azzera di fatto il maggior gettito atteso dallo Stato. La revisione della tassazione sui mezzi aziendali si è trasformata quindi in un incentivo all’acquisto di mezzi “green”. Le nuove disposizioni si applicheranno infatti solo ai nuovi contratti e prevedono che l’impatto delle auto ecologiche sugli stipendi scenda dal 30% al 25%, e che quello delle auto più inquinanti salga fino al 60%.

L’IMPOSTA PER I FUMATORI CHE USANO CARTINE E FILTRI

Un’altra tassa che potrebbe avere impatto diretto sui portafogli riguarda i fumatori. Non tutti, solo quelli che rollano le sigarette. L’imposta si applica alle cartine e ai filtri ed è di 0,0036 euro «per ciascun pezzo contenuto nella confezione destinata alla vendita»: quindi, una confezione da 50 cartine costerà 0,18 centesimi in più. Anche a giocare ci sarà un po’ meno gusto. La manovra prevede infatti che dal 15 gennaio il prelievo sulle vincite alle slot oltre i 200 euro salga da 12% al 20%. Per le lotterie istantanee, come i gratta e vinci, dal primo marzo il prelievo sulle vincite oltre 500 euro passerà dal 12% al 20%.

DA LUGLIO PARTE LA LOTTERIA DEGLI SCONTRINI

C’è però anche una lotteria che premia senza trattenere. È’ quella degli scontrini, che scatterà a luglio. I dettagli sono ancora da definire, ma dovrebbe prevedere estrazioni mensili, con premi da 10 mila euro, 30 mila euro e 50 mila euro e una annuale più consistente. Parteciperanno i consumatori che hanno fatto acquisti con carte e bancomat. Con il bonus befana, agli acquirenti verrà restituita, in un’unica soluzione, una quota delle spese fatte nell’anno precedente, sempre con carte o bancomat: «Credo che arriveremo a far trovare nei conti correnti fino a 2 mila euro», ha ipotizzato il premier Giuseppe Conte.

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Tra M5s e Pd è scontro aperto sul 5G e la Cina

Il ministro della Difesa dem Guerini mette in guardia l'alleato di governo dopo la relazione del Copasir sulla tecnologia cinese. Il pentastellato Patuanelli minimizza.

Si apre il fronte 5G tra gli alleati di governo M5s e Pd. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, invita a valutare «con attenzione» la relazione del Copasir che ha messo in guardia sui rischi che potrebbero derivare dall’ingresso delle aziende cinesi nella tecnologia per reti mobili di quinta generazione. In precedenza, il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, aveva invece rassicurato spiegando che la normativa varata «garantisce la sicurezza nazionale». Da tempo l’attivismo dei colossi delle tlc orientali Huawei e Zte in Europa è guardato con preoccupazione dall’amministrazione Trump, che ha esortato gli alleati a non fare entrare i cinesi in un settore così sensibile. Secondo Guerini – che da presidente del Copasir fino allo scorso settembre aveva seguito la partita 5G con una lunga serie di audizioni sul tema – il dibattito che si è sviluppato sul tema, anche a livello internazionale, «non può essere ignorato» e la questione va affrontata «con ancora più determinazione perché attiene alla sicurezza nazionale». L’Italia, ha ricordato, «ha certamente già affrontato il tema 5G. L’approvazione del perimetro di sicurezza cibernetica nazionale e l’estensione del golden power al 5G sono provvedimenti importanti e sostanziali per la sicurezza delle nostre infrastrutture strategiche. Tuttavia», ha sottolineato, «il Copasir, dopo un anno intenso di approfondimento e audizioni, ha evidenziato come sia comunque necessario tenere alta la guardia per limitare potenziali rischi. Sono indicazioni che vanno valutate con attenzione». Il ministro ha anche rilevato che il tema è stato ampiamente dibattuto in questi anche dalla Nato, contraria a condividere operazioni con Paesi che adottano tecnologie cinesi. E sulla dialettica M5s-Pd si infila il leader della Lega, Matteo Salvini. «Troppe cose», osserva l’ex vicepremier, «non tornano nei rapporti tra Movimento 5 stelle e Cina, a partire dal ministro Patuanelli che minimizza la relazione del Copasir sul 5G. Non permetteremo al governo sbarchi, tasse e manette di mettere ancora più in pericolo l’Italia». Mara Carfagna (Forza Italia) chiede al Governo di mettere «un argine al tentativo di colonizzazione cinese» ed «assumere una posizione chiara e condivisa sulla rete 5G, escludendo aziende che potrebbero mettere a rischio la sicurezza dei dati dei nostri concittadini e trovando rapidamente alternative praticabili. L’Italia non può rimanere indietro nello sviluppo tecnologico a causa dell’irresponsabilità, se non peggio, di Di Maio e Patuanelli». Per la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ci sono «molte cose da chiarire nel coinvolgimento di Casaleggio su una serie di questioni. Penso che la questione non sia affatto secondaria, per esempio, su tutto quello che riguarda anche i rapporti con la Cina, con il 5G, con Huawei. La sicurezza nazionale di uno Stato sovrano come l’Italia non può essere assoggettata agli interessi di qualche azienda legata ai ministri del governo».

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La manovra attesa al via libero definitivo della Camera

Appuntamento alle 18 per il voto conclusivo di Montecitorio. In una giornata campale per il governo, tra il Consiglio dei ministri e il vertice sui nodi del Milleproroghe.

Giornata di fuoco per il governo quella dell’antivigilia di Natale. L’appuntamento cruciale è fissato per le 18, quando alla Camera andrà in scena il voto destinato a dare il via libera definitivo alla legge di Bilancio. Subito dopo sono previsti, nell’ordine, un Consiglio dei ministri e un vertice con all’ordine del giorno il cosiddetto “salvo intese”, vale a dire tutti i nodi ancora aperti nel “decretone” Milleproroghe.

SUL TAVOLO LA REVOCA DELLE CONCESSIONI AUTOSTRADALI

Si tornerà sul tasto che ha innescato lo scontro nella riunione di governo dello scorso 20 dicembre: la revoca delle concessioni autostradali che ha avuto l’ok senza il voto delle due ministre renziane Teresa Bellanova e Elena Bonetti. Alcune limature sono state messe a punto dal ministero delle Infrastrutture, però il quadro d’insieme è chiuso. Va, invece. affrontato il piano di innovazione digitale della ministra pentastellata Paola Pisano che – secondo il compromesso proposto dal dem Dario Franceschini – dovrebbe avere comunque un “gancio” nel Milleproroghe: poi, in parlamento, si vedrà.

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Il governo alla prova del decreto intercettazioni

Le nuove norme saranno discusse nel vertice del 21 dicembre assieme al Milleproroghe con novità su class action e eco bonus.

Un decreto ad hoc per le intercettazioni in Consiglio dei ministri. Il governo ha deciso di non inserire le norme così delicate dal punto di vista politico giudiziairio nel Milleproroghe, anch’esso sul tavolo del Cdm di oggi. Tra le principali novità di quest’ultimo niente class action fino a ottobre, bonus per eco-scooter anche nel 2020 e altri 2 anni di sperimentazioni sugli animali per le droghe. Intanto il leader del M5s Luigi Di Maio ha dichiarato a Repubblica: «Questo governo deve andare avanti, senza indugi e polemiche. Chi rema contro, rema contro il Paese».

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Le cose da sapere in vista del viaggio di Luigi Di Maio in Libia

Il ministro degli Esteri arriva in un Paese dilaniato dalla guerra. Previsti bilaterali con Serraj e Haftar. E sul terreno si muovono anche Turchia e Libia. Lo scenario.

Il ministro degli Esteri Luigi di Maio è in Libia. A quanto si apprende, il titolare della Farnesina è atterrato nella mattinata del 17 dicembre a Tripoli dove vedrà Fayez al Sarraj, il vicepresidente del consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro degli Affari esteri Mohamed Siala e il ministro degli Interni Fathi Bashaga. Subito dopo si sposterà a Bengasi per incontrare Khalifa Haftar. Infine Tobruk, per vedere il presidente della Camera dei rappresentanti Aghila Saleh. Al centro dei colloqui il conflitto in corso, la conferenza di Berlino, il memorandum e altri temi centrali. L’ultima visita di un esponente di governo italiano in Libia fu quella del presidente del Consiglio il 23 dicembre dell’anno scorso, quando Conte si recò prima a Tripoli e poi a Bengasi.

UN CONTESTO DI GUERRA PERMANENTE

Sul terreno la tensione è alle stelle: per ore si sono rincorse indiscrezioni da fonti vicine ad Haftar, rilanciate anche dalla tv panaraba Al Arabiya ma non confermate, di un attentato a colpi di arma da fuoco contro il ministro dell’Interno libico Fathi Bashagha nella notte a Misurata, poi fotografato in mattinata sotto l’ombrellone di un caffè di Tripoli. La città a est della capitale, detta ‘la Sparta di Libia’ per la sua potenza militare che garantisce quasi la metà (7.500) dei miliziani impegnati nella difesa di Tripoli, ha annunciato «la dichiarazione dello Stato d’emergenza generale» e la volontà di mobilitare «tutte le proprie capacità» a sostegno di Sarraj e contro «il totalitarismo» incarnato da Haftar.

LA TENUTA DI MISURATA E L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA

Il sostegno di Misurata è la spiegazione più diffusa all’incapacità di Haftar di prendere Tripoli anche dopo aver annunciato, all’inizio di dicembre, lo scoccare dell’ “ora zero” della battaglia decisiva. In un conflitto già trasformatosi in una guerra per procura con l’impiego semi-segreto di forze di altri Stati, la possibilità di un coinvolgimento diretto turco si è fatta ancora più concreta con l’approvazione – da parte della Commissione Esteri del Parlamento di Ankara – della parte sulla “cooperazione militare” del memorandum d’intesa siglato a fine novembre dal presidente Recep Tayyip Erdogan con Sarraj. L’altro accordo invece, quello che stabilisce la controversa demarcazione dei confini marittimi tra i due Paesi, è già stato approvato dal Parlamento turco.

ANCHE L’EGITTO PRONTO A INTERVENIRE

In questo quadro il governo Sarraj ha dichiarato di considerare una «minaccia» di voler intervenire in Libia le frasi pronunciate domenica da Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano ha detto che l’Egitto «sarebbe dovuto intervenire direttamente in Libia» e che è «in grado di farlo», pur aggiungendo di «non averlo fatto perché il popolo libico non dimenticherebbe mai un intervento». Ancora prima della missione di Di Maio, la diplomazia internazionale si era mossa con una telefonata fra il presidente russo Vladimir Putin e la cancelliera tedesca Angela Merkel che hanno «sottolineato l’importanza di evitare un’ulteriore escalation» in Libia. «Solidarietà politica e comune visione in vicende come quelle che coinvolgono da troppo tempo la Libia sono indispensabili e sarebbero giovevoli», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia degli auguri al Corpo diplomatico.

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La sinistra stia alla larga dalla liaison tra Renzi e Salvini

Non ci sono le condizioni per un governo di tutti. Che richiederebbe una tregua inimmaginabile da parte del leader leghista. E porterebbe a un disastro peggiore di questo esecutivo con Di Maio.

Quando un partito che si appresta a vincere le elezioni politiche (secondo i sondaggi) propone agli altri partiti un governo di tregua diretto da un personaggio indiscutibile come Mario Draghi, si dovrebbe sviluppare una gran discussione. Invece accade che Matteo Salvini, su suggerimento di Giancarlo Giorgetti, proponga questo governo e quel primo ministro e nessuno ne parli tranne Matteo Renzi. Su quel “tranne Renzi”, anzi, si è sviluppato un retroscena secondo cui la proposta salviniana è il primo passo per una marcia di avvicinamento reciproca fra i due Matteo, i gemelli separati alla nascita. È probabile.

UNA LUNGA STORIA DI FALLIMENTI

Resta il fatto che la proposta di Salvini è caduta, finora, nel vuoto. Forse la ragione sta nel fatto che questo Paese ha discusso decine di volte di governo di emergenza o solidarietà nazionale o come diavolo volete chiamarli. Alcune discussioni, come quella sul compromesso storico, furono molto alte, altre dettero vita a piccolo cabotaggio parlamentare. Quasi sempre queste esperienze hanno fallito. La sinistra, che avrebbe potuto vincere le elezioni con Pier Luigi Bersani, fu costretta dal Quirinale a ingoiare il governo Monti che, con i suoi esodati e altre decisioni anti-popolari, fece perdere milioni di voti. Quindi, come si dice, “anche basta”. Basta governi di solidarietà nazionale. Tu vinci e governi e io mi ti oppongo fino a farti cadere.

Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno

C’è però un dato innegabile nella proposta di Giorgetti mal raccontata da Salvini ed è che la situazione italiana è effettivamente quella che richiederebbe la Grossa coalizione. Soprattutto lo richiederebbe lo spirito pubblico. E già qui ci scontriamo sulle ragioni per cui la Grossa coalizione non si può fare. Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede una tregua fra le parti, non una pace fra i partiti né la rinuncia alla propria identità e alla polemica fra i partiti, ma la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno. Il giorno che Salvini diventasse civile come una sardina, si ridurrebbe al 5%, cioè sarebbe un Renzi qualsiasi. È la fantasia della guerra civile che alimenta il suo successo oggi minacciato solo dal ritorno a casa della destra tradizionale che vede in Giorgia Meloni la leader dura che sognava.

UN GOVERNO CON SALVINI SAREBBE DISTRUTTIVO

Per la sinistra un governo con Salvini sarebbe distruttivo, peggio di questo governo con Luigi Di Maio. Il prezzo potrebbe essere pagato solo se ci fosse un vero breve programma e una intesa di ferro attorno a ciò che può fare Draghi senza che gli rompano i maroni. Sprecare una grande alleanza e un uomo come Draghi per i postumi di una serata in birreria non vale proprio la pena. Di più: quando si propone un governo di tutti, si propone una analisi della situazione e quello che si pensa debba diventare l’Italia nel caso di successo di questo governo. Solo così la proposta sarebbe credibile. Dire solo che c’è grande casino e quindi bisogna chiamare il pompiere Draghi pronti a incendiargli l’autobotte è pura follia. Se poi Renzi e Salvini vogliono una discussione o addirittura una esperienza di governo che li aiuti a vivere assieme, non cerchino scorciatoie. In fondo viviamo in tempi di amori liberali. Se si vogliono bene, si mettano assieme.

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Non solo cannabis light: la manovra esce col lifting

Il Senato approva la Finanziaria con 166 sì e 128 no. Che però è trasformata. Quindici norme stralciate, a partire dalla legalizzazione della canapa. E po i 3 miliardi in meno di tasse sul lavoro, ma anche plastic e sugar tax e nuove clausole Iva.

Il primo sì è finalmente arrivato. Il Senato ha dato il via libera alla fiducia sulla legge di bilancio con 166 voti favorevoli e 128 no. Gianluigi Paragone, del M5s, come annunciato ha votato no. Al momento della proclamazione del voto, la maggioranza in Aula ha applaudito.

LEGGI ANCHE: La manovra blindata approvata dal Senato

STRALCIATE IN EXTREMIS 15 NORME

A due mesi esatti dal Consiglio dei ministri che la varò, la manovra riceve il primo via libera parlamentare. Il Senato la approva con voto di fiducia dopo settimane assai turbolente, lo stralcio in extremis di 15 norme e una settantina di correzioni finali. Fa discutere la decisione di Elisabetta Casellati di dichiarare inammissibile la norma per legalizzare la cannabis leggera: il centrodestra la applaude, maggioranza e governo protestano e il M5s chiede le dimissioni da presidente del Senato. Il testo deve ora essere approvato dalla Camera blindato, senza più modifiche, per essere approvato a ridosso del Natale. Salvo imprevisti, la manovra non cambia più: passa senza la legalizzazione della canapa, con lo stop all’aumento dell’Iva, con un taglio da 3 miliardi delle tasse per i lavoratori, con plastic e sugar tax ma anche con una nuova tegola da 47 miliardi di aumenti di Iva e accise nel 2021 e nel 2022 che dovranno essere disinnescati.

SÌ CONVINTO DI PD E LEU, SALVINI CONTRO LO “STATO SPACCIATORE”

Il voto del Senato sulla manovra arriva con il “sì convinto” di Pd e Leu, con un sì con riserva di Iv e con un sì condito da qualche mal di pancia per i Cinque stelle: una manciata di senatori 5s fino all’ultimo si mostra in dubbio se partecipare al voto e Gianluigi Paragone vota no. In Aula il clima si surriscalda davvero solo a inizio di seduta, quando Casellati dichiara inammissibili 15 norme, tra cui quella introdotta da un emendamento M5s che avrebbe l’effetto di legalizzare la cannabis light. Il centrodestra applaude il presidente. La maggioranza protesta: «una scelta tecnica» perché le norme ordinamentali non possono andare in manovra, se questa misura per voi è importante fatevi un disegno di legge“, ribatte il presidente. “Ci tengo a ringraziarla ‘tecnicamente’ per aver evitato la vergogna dello Stato spacciatore”, sorride Matteo Salvini.

IL M5S CHIEDE LE DIMISSIONI DI CASELLATI

Dal governo il ministro Federico D’Incà protesta con garbo: «Rispetto la decisione ma sono amareggiato, non era una liberalizzazione ma una regolamentazione del mercato della canapa». Il capogruppo Pd Andrea Marcucci dice di «non capire» la scelta. Il M5s, con Giuseppe Brescia, chiede le dimissioni di Casellati. E per tutto il giorno i senatori continuano ad accapigliarsi sul tema. «Drogato!» urla Ignazio La Russa a un senatore M5s. Mentre Loredana De Petris sfida tutti i senatori del centrodestra a fare un test antidroga dopo le vacanze. Il viceministro 5s Stefano Buffagni sfida Salvini: «Facciamo il test, non solo sulla cannabis». Intanto però la norma salta. Il vaglio finale della Ragioneria dello Stato sul maxi emendamento su cui il governo mette la fiducia porta anche altre novità. Sono circa 70 le norme che vengono cambiate in extremis per errori di forma o mancanza di coperture. Salta il rinvio da luglio 2020 a gennaio 2022 della fine del mercato tutelato per l’energia e salta anche la sospensione del reddito di cittadinanza in caso di lavori brevi, così come l’estensione ai pediatri dei fondi per avere macchinari per gli esami in studio.

ZINGARETTI RIVENDICA: MANOVRA SALVA ITALIA

Nicola Zingaretti a nome del Pd mette l’accento su quanto di buono si è fatto: «È una manovra ‘Salva Italia‘ e il risultato sul piano economico è positivo: l’obiettivo, con fatica, è stato raggiunto ed è utile per chiudere una stagione e aprirne una che ridia speranza». Molto più critici i toni di Matteo Renzi, che prende la parola nell’Aula del Senato e – citando implicitamente una vecchia frase del premier Giuseppe Conte – dice che «non è stato un anno bellissimo». Poi annuncia già la prossima battaglia in Parlamento per abolire la sugar tax e la plastic tax (che è stata già ridotta e rinviata, portando alle casse dello stato non più 1 miliardo ma 140 milioni). Poi attacca:«Il 2020 è l’anno delle scelte: il governo deve cambiare passo». Per ora, denuncia dall’opposizione Emma Bonino: «Non c’è stata discontinuità: è una pseudofarsa indecorosa, come l’anno scorso fece il Conte 1, per rispetto del Parlamento non voto»

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Le tensioni nel governo sul salvataggio della Banca Popolare di Bari

Il giorno dopo la minaccia di rottura da parte di Italia viva, Conte prova a ricomporre il caso: «Non tuteleremo nessun banchiere». E spiega: «Faremo una sorta di Banca del Sud a partecipazione pubblica».

La tensione resta alta nella maggioranza, alle prese col salvataggio della Banca Popolare di Bari che ha innescato un’ulteriore frattura nei già fragili equilibri di governo. Il giorno dopo i toni forti utilizzati da Italia viva per stigmatizzare «il salvataggio dei banchieri» da parte di Movimento 5 stelle e Partito democratico c’è spazio per le mediazioni. E per il tentativo del presidente del Consiglio Giuseppe Conte di ridimensionare una questione che rischia seriamente di mettere a repentaglio la tenuta dell’esecutivo.

«NON TUTELEREMO NESSUN BANCHIERE»

«Non tuteleremo nessun banchiere», ha detto Conte nella conferenza stampa sui primi 100 giorni di governo nella Sanità, specificando che sulla Popolare di Bari «interverremo attraverso uno strumento nella pancia di Invitalia, Mediocredito Centrale. Cerchiamo di fare di necessità virtù. Assicureremo a Mediocredito centrale le necessarie risorse per poi, con un fondo interbancario, intervenire per rilanciare la Pop Bari. Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica». Il premier ha poi provato a smorzare le polemiche, sottolineando di aver chiarito la posizione di Italia viva sulla vicenda. «Nessuna tensione», ha detto, «abbiamo chiarito, con Marattin ci siamo anche sentiti al telefono».

«MASSIMA TUTELA PER I RISPARMIATORI»

Conte ha poi promesso la massima tutela per i risparmiatori. «Non resteremo mai indifferenti rispetto a una situazione critica di una banca, perché dietro ci sono 70 mila azionisti e tanti correntisti. C’è la massima tutela dei risparmiatori», c’è l’occasione di «approfittare per potenziare il sistema creditizio del Sud e per il rilanciare la Popolare di Bari».

SALVINI INVOCA UN COMITATO DI SICUREZZA NAZIONALE

Toni decisamente più emergenziali quelli utilizzati da Matteo Salvini. «Se vogliamo salvare l’Italia, fermiamoci e mettiamoci attorno a un tavolo con un comitato di salvezza nazionale», è stato l’appello lanciato dal leader della Lega. «Se salta la Popolare Bari, salta la Puglia e salta l’Italia. Stiamo vivendo un momento drammatico, non penso sia più il momento delle polemiche».

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Le ultime novità sulla manovra prima del voto di fiducia

Al Senato procede la discussione generale in vista del banco di prova atteso per il prossimo 16 dicembre. Intanto slitta al 2022 la fine del mercato tutelato per l'energia.

Ha preso il via nel pomeriggio la discussione generale sulla legge di Bilancio al Senato, destinata ad andare avanti fino alle 22 e a proseguire anche nella giornata di venerdì 13 dicembre. I lavori riprenderanno poi lunedì 16, quando verrà posta la questione di fiducia, con la prima “chiama” dei senatori prevista verso le 15.15.

LA FINE DEL MERCATO TUTELATO PER L’ENERGIA SLITTA AL 2022

Intanto, un subemendamento del Movimento 5 stelle approvato dalla commissione Bilancio del Senato prevede lo slittamento da luglio 2020 al primo gennaio 2022 della fine del mercato tutelato per l’energia. Si stabilisce anche che il Mise, sentita l’Autorità per l’energia (Arera) entro marzo stabilisca «modalità e criteri dell’ingresso consapevole» nel mercato libero dei clienti finali. Arriva anche una stretta sui fornitori di energia elettrica: entro marzo saranno ridefiniti i paletti per rientrare nell’elenco dei soggetti abilitati, «a tutela dei consumatori».

IN ARRIVO 150 MILIONI PER LE AREE DI CRISI, TRA CUI L’EX ILVA

In arrivo poi 150 milioni di euro in due anni, i primi 50 milioni già nel 2020, per le aree di crisi complessa, tra cui figura anche l’area di Taranto. È quanto prevede un emendamento dei relatori alla manovra corretto, anche in questo caso, da una subemendamento del M5s. Previsti anche 100 milioni l’anno per due anni per le agevolazioni per l’attrazione degli investimenti privati, con focus particolare sul Mezzogiorno. Arrivano poi 10 milioni nel 2020 e 90 nel 2021 per il Fondo Ipcei, che dà contributi alle imprese che partecipano al progetto europeo sulla microelettronica.

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