Gli Usa pronti ai negoziati con l’Iran

L'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell'Onu per scongiurare l'escalation.

Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».

LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN

Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni
contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana
vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.

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Iran e Libia, perché l’Italia rischia la crisi energetica

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.

DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ

Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.

Iran Libia crisi petrolio Putin Erdogan
Il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco President Recep Tayyip Erdogan discutono di Libia, Iran… e petrolio. GETTY.

LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ

I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere lo Stretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.

L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA

Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

Iran Libia crisi petrolio
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’omologo greco Kyriakos Mitsotakis discutono del gasdotto EastMed. GETTY.

L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO

Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal del greenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.

La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia

TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO

In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.

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In Iraq lanci di razzi nella zona delle ambasciate

Sono caduti nella Green zone della capitale Baghdad, l'area dove si trovano le ambasciate straniere tra cui quella americana.

Due razzi sono caduti sulla Green Zone di Baghdad, dove hanno sede diverse ambasciate tra cui quella americana. Lo rendono noto fonti della sicurezza. L’attacco è avvenuto quasi 24 ore dopo che Teheran ha lanciato missili nelle basi irachene che ospitano forze di coalizione americane, in risposta all’uccisione da parte degli Stati Uniti di Qasem Soleimani. Sono razzi Katyusha quelli caduti nella Zona Verde a Baghdad e, secondo quanto riferito dal Washington Post che cita le forze di sicurezza irachene, non ci sarebbero vittime. Secondo alcune fonti sarebbero tre i razzi che hanno colpito la capitale irachena.

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Perché l’attacco alle basi Usa può soddisfare sia Teheran sia Washington

Con l'operazione "Soleimani martire" l'Iran può sostenere di aver vendicato il suo generale. Ma per farlo non ha cavalcato l'effetto sorpresa. Trump può così vantarsi di essere uscito senza grosse perdite dal blitz. La de-escalation è a portata di mano. Ma si poggia su due condizioni.

La vendetta annunciata da Teheran per l’uccisione di Qassem Soleimani è arrivata nella notte. Una pioggia di missili ha colpito intorno all’1 e mezza dell’8 gennaio due basi americane in Iraq ad al-Asad ed Erbil, dove erano presenti anche 400 soldati italiani rimasti illesi.

L’1 e mezza: più o meno lo stesso orario in cui il drone Usa aveva ucciso il 3 gennaio il generale iraniano Qasem Soleimani all’aeroporto di Baghdad.

Una coincidenza, forse. Che però conferisce una forte connotazione simbolica all’operazione definita, non a caso, “Martire Soleimani“.

IL GIALLO SUL BILANCIO DELLE VITTIME

L’attacco secondo fonti iraniane avrebbe causato almeno 80 morti statunitensi. Bilancio al momento non confermato dal presidente Donald Trump che in un tweet invece ha dichiarato: «Tutto bene», ricordando come l’esercito Usa sia il «più potente e il meglio equipaggiato al mondo».

IL BELLICOSO KHAMENEI E IL DIPLOMATICO ZARIF

Dall’altra parte se l’ayatollah Ali Khamenei ha usato toni bellicosi – ha definito il raid uno «schiaffo in faccia agli americani, che però non è ancora abbastanza», aggiungendo che «la loro presenza, che è fonte di corruzione nella regione, deve finire» – e il ministro della Difesa, Amir Hatami ha messo in guardia: «Ci siamo vendicati, le prossime risposte saranno proporzionate a quello che faranno gli Usa», il titolare degli Esteri Javad Zarif ha scelto un profilo decisamente più diplomatico. In un tweet ha infatti messo in chiaro che Teheran ha «agito per legittima difesa contro un attacco terroristico», prendendo di mira «obiettivi legittimi secondo il diritto internazionale», nel rispetto dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.

«Non vogliamo un’escalation», ha aggiunto, «ma ci difenderemo contro ogni aggressione». Concetto ribadito dall’ambasciatore all’Onu, Majid Takht-e Ravanchi: «Non vogliamo la guerra, ma ci riserviamo il diritto all’autodifesa e prenderemo tutte le necessarie e proporzionate misure contro ogni minaccia o uso della forza».

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L’OPERAZIONE SOLEIMANI MARTIRE: PRIMO O ULTIMO ATTO?

Resta quindi da capire se l’operazione “Soleimani martire” sia l’ultimo atto dello scontro tra Usa e Iran o il primo capitolo di un nuovo conflitto nella regione. Di sicuro, secondo Michael Safi del Guardian, al momento sia Washington sia Teheran potrebbero uscire “vittoriose”: l’Iran, con il battage mediatico e social che ha accompagnato l’attacco, può sostenere di aver vendicato il suo generale. Per farlo, però, ha colpito due basi Usa che erano già ad alto livello di guardia. L’attacco insomma, secondo il Guardian, era ben calibrato per evitare alte perdite americane. Da parte sua gli Usa possono vantarsi di essere usciti dall’attacco iraniano sostanzialmente indenni, come ha dichiarato lo stesso presidente. In questo modo le due parti possono tranquillamente cominciare una de-escalation senza perdere la faccia.

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Possiamo tirare un sospiro di sollievo, dunque? Non esattamente visto che questo scenario poggia su due condizioni: che davvero non sia confermato il bilancio di Teheran e che Trump e i suoi falchi non siano tentati di rispondere ancora. E non solo su Twitter. Senza contare una eventuale reazione a catena nell’area. Un capo della forza paramilitare irachena filo-iraniana Hashed al Shaabi ha già invocato una «risposta irachena» all’attacco al generale Soleimani che sia forte come quella iraniana. In un tweet, Qaïs al-Khazali, da qualche giorno nella lista Usa dei ‘terroristi’, ha affermato che «la prima risposta iraniana all’assassinio del comandante martire Soleimani» è avvenuta. «È giunto il momento per la prima risposta irachena all’assassinio del comandante martire Mouhandis», ha aggiunto.

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Come l’Italia ha condannato il contrattacco dell’Iran

Il titolare della Farnesina Di Maio ha parlato di «atto grave» che «accresce la tensione». Mentre il ministro della Difesa Guerini ha chiesto «moderazione e prudenza» confermando che i militari italiani in Iraq stanno bene.

Alla fine la risposta dell’Iran all’uccisione di Soleimani è arrivata l’8 gennaio. Con il bombardamento delle basi americane in Iraq. Lì dove sono impegnati anche i militari italiani, che però non hanno subito dirette conseguenze. Come hanno preso la notizia i vertici politici del nostro Paese? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affidato il suo commento a Facebook: «Seguiamo con particolare preoccupazione gli ultimi sviluppi e condanniamo l’attacco da parte di Teheran. Si tratta di un atto grave che accresce la tensione in un contesto già critico e molto delicato».

«RISCHIO DI CELLULE TERRORISTICHE E MIGRAZIONI»

Il titolare della Farnesina nel suo post ha proseguito così: «Purtroppo è la storia che si ripete. Invitiamo entrambe le parti alla moderazione e alla responsabilità. La regione vive una instabilità da decenni, una nuova guerra spingerà la proliferazione di cellule terroristiche e di nuovi flussi migratori. Non è più accettabile tutto questo. Si apprenda dagli errori del passato e si torni al dialogo».

COALIZIONE INTERNAZIONALE DI CUI FA PARTE L’ITALIA

Poi ha espresso a nome del governo vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per il loro impegno: «È accaduto quello che temevamo. L’Iran ha risposto al raid Usa lanciando decine di missili contro le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Entrambe ospitano personale della coalizione internazionale anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia».

La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza


Il ministro della Difesa Guerini

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha ribadito che «la sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza, da parte mia e di tutte le istituzioni», sottolineando poi che fin dall’inizio dell’attacco iraniano alle basi statunitensi in Iraq la Difesa sta seguendo «la situazione e le evoluzioni con la massima attenzione». Guerini nel corso della notte ha sentito il comandante del contingente italiano, il generale Fortezza, che lo ha rassicurato sulle condizioni dei nostri militari.

GUERINI CHIEDE «MODERAZIONE E PRUDENZA»

«In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza», ha detto Guerini in un colloquio telefonico con il collega iracheno Al Shammari. E infine: «Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile, anche per non vanificare gli sforzi fino a oggi profusi».

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Come l’Italia ha condannato il contrattacco dell’Iran

Il titolare della Farnesina Di Maio ha parlato di «atto grave» che «accresce la tensione». Mentre il ministro della Difesa Guerini ha chiesto «moderazione e prudenza» confermando che i militari italiani in Iraq stanno bene.

Alla fine la risposta dell’Iran all’uccisione di Soleimani è arrivata l’8 gennaio. Con il bombardamento delle basi americane in Iraq. Lì dove sono impegnati anche i militari italiani, che però non hanno subito dirette conseguenze. Come hanno preso la notizia i vertici politici del nostro Paese? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affidato il suo commento a Facebook: «Seguiamo con particolare preoccupazione gli ultimi sviluppi e condanniamo l’attacco da parte di Teheran. Si tratta di un atto grave che accresce la tensione in un contesto già critico e molto delicato».

«RISCHIO DI CELLULE TERRORISTICHE E MIGRAZIONI»

Il titolare della Farnesina nel suo post ha proseguito così: «Purtroppo è la storia che si ripete. Invitiamo entrambe le parti alla moderazione e alla responsabilità. La regione vive una instabilità da decenni, una nuova guerra spingerà la proliferazione di cellule terroristiche e di nuovi flussi migratori. Non è più accettabile tutto questo. Si apprenda dagli errori del passato e si torni al dialogo».

COALIZIONE INTERNAZIONALE DI CUI FA PARTE L’ITALIA

Poi ha espresso a nome del governo vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per il loro impegno: «È accaduto quello che temevamo. L’Iran ha risposto al raid Usa lanciando decine di missili contro le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Entrambe ospitano personale della coalizione internazionale anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia».

La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza


Il ministro della Difesa Guerini

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha ribadito che «la sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza, da parte mia e di tutte le istituzioni», sottolineando poi che fin dall’inizio dell’attacco iraniano alle basi statunitensi in Iraq la Difesa sta seguendo «la situazione e le evoluzioni con la massima attenzione». Guerini nel corso della notte ha sentito il comandante del contingente italiano, il generale Fortezza, che lo ha rassicurato sulle condizioni dei nostri militari.

GUERINI CHIEDE «MODERAZIONE E PRUDENZA»

«In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza», ha detto Guerini in un colloquio telefonico con il collega iracheno Al Shammari. E infine: «Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile, anche per non vanificare gli sforzi fino a oggi profusi».

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La situazione della centrale nucleare in Iran dopo il terremoto

Preoccupazione per l'impianto atomico di Bushehr, vicino alla costa del Golfo, dove è stato avvertito un sisma di magnitudo 4.5. Epicentro a 17 chilometri a Sud-Est di Borazjan. Non si registrano notizie di danni o vittime.

La fine del mondo è qui? Dal Medio Oriente sono arrivate in sequenza notizie da scenario apocalittico: nel giorno della controffensiva lanciata da Teheran in risposta all’attacco americano, in Iran è precipitato un aereo ucraino poco dopo il decollo ed è stato pure registrato un terremoto di magnitudo 4.5.

PROFONDITÀ DI 10 CHILOMETRI

La preoccupazione è alta anche perché il sisma dell’8 gennaio ha colpito una zona del Paese vicina a un impianto nucleare. L’Istituto geofisico americano (Usgs) ha indicato che l’epicentro è stato localizzato a 17 chilometri a Sud-Est di Borazjan, a una profondità di 10 chilometri. Non ci sono notizie di danni o vittime.

L’UNICO IMPIANTO ATOMICO DEL PAESE

Il terremoto ha colpito un’area a meno di 50 km dall’impianto atomico iraniano di Bushehr, vicino alla costa del Golfo. Secondo l’agenzia di stampa Irna il sisma è stato avvertito proprio nella città che ospita l’unica centrale nucleare del Paese.

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Le condizioni dei soldati italiani impegnati in Iraq

Sono circa mille i nostri connazionali attivi sul territorio. Di questi 400 nella base di Erbil. Nessun ferito dopo l'attacco di Teheran. La scheda.

Sarebbero tutti in salvo i soldati italiani di stanza a Erbil dopo l’attacco contro la base di Ayn al-Asad in Iraq che ospita militari americani. Proprio a Erbil si trova una parte consistente dei circa mille nostri connzionali attualmente presenti in varie località dell’Iraq. In particolare, dal 2015 è attiva la task force Land composta da militari dell’esercito che hanno compiti di addestramento dei peshmerga, le forze di sicurezza curde.

SONO 400 GLI ITALIANI A ERBIL

I militari italiani presenti a Erbil sarebbero al momento circa 400, di cui 120 istruttori. Nessuno, è stato ribadito, avrebbe subito conseguenze dopo l’attacco. La task force land è inquadrata nel Kurdistan training coordination center (Ktcc), il cui comando è attribuito alternativamente per un semestre all’Italia e alla Germania: a esso contribuiscono nove nazioni, con propri addestratori (Italia, Germania, Olanda, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna, Ungheria, Slovenia e Turchia). Gli istruttori militari italiani addestrano i peshmerga in varie discipline: dalla formazione basica di fanteria all’uso dei mortai e dell’artiglieria, dal primo soccorso alla bonifica degli ordigni improvvisati.

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L’Iran ha bombardato due basi americane in Iraq

Almeno 80 morti. A Erbil i soldati italiani in salvo nei bunker. Atteso un discorso del presidente Trump alla nazione.

Almeno 80 morti. Sarebbe questo il primo bilancio dell’attacco missilistico compiuto nella notte tra il 7 e l’8 gennaio dall’Iran contro due basi in Iraq dove erano ospitati militari americani. È l’operazione ‘Soleimani Martire‘, per vendicare il generale ucciso dal raid Usa all’aeroporto internazionale di Baghdad.

Una pioggia di cruise e di missili balistici a corto raggio partita dal territorio iraniano e che si è abbattuta contro la base di al-Asad e contro quella di Erbil, come prima rappresaglia per l’uccisione del generale Qassem Soleimani da parte degli Usa. Secondo la tv di Stato iraniana, ci sarebbe stata anche una seconda ondata di attacchi.

Il personale del contingente militare italiano ad Erbil si è radunato in un’area di sicurezza e gli uomini si sarebbero rifugiati in appositi bunker. Risultano tutti illesi. Il Pentagono, in una nota, ha affermato che dopo aver messo al corrente dei fatti il presidente americano Donald Trump sta ancora valutando le conseguenze dell’offensiva.

Intanto a Washington si è riunito il consiglio per la sicurezza nazionale alla presenza del segretario di Stato Mike Pompeo e del numero uno del Pentagono Mark Esper. Da Teheran il corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane ha annunciato come “la feroce vendetta” per l’uccisione del generale Soleimani è iniziata e ha affermato che l’operazione iniziale si è conclusa con successo e che la base di al-Asad, contro cui sarebbero stati lanciati almeno 35 missili, “è stata completamente distrutta”.

L’Iran minaccia quindi “azioni ancor più devastanti” se gli Usa dovessero decidere di rispondere. “Se l’Iran dovesse essere attaccato sul suo territorio – avvertono le Guardie Rivoluzionarie – Dubai, Haifa e Tel Aviv verranno colpite in un terzo round di attacchi da parte dell’Iran”. Intanto volano le quotazioni del petrolio, balzato del 3,4% a 65 dollari, e dell’oro, a quota 1.600 dollari l’oncia ai massimi dal 2013.

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All’America non piace la guerra di Trump contro l’Iran

Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.

In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike al generale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.

DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»

L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».

ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD

Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.

STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO

Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.

Iran Soleimani Trump caos Usa
Americani contro la guerra all’Iran di Trump, Usa. (Getty).

NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA

L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».

LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE

Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».

Iran Soleimani Trump caos Usa
In Times Square, a New York, contro le guerre di Trump in Medio Oriente. GETTY.

DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI

La Germania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.

IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA

I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lo choc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.

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Le mosse della Russia alla luce della crisi tra Usa e Iran

Putin è volato a sorpresa in Siria per incontrare Assad. Un vertice di sicurezza prima dell'incontro ad Ankara con Erdogan. Così Mosca tenta di puntellare il Medio Oriente dopo la morte di Soleimani.

Nel pieno della crisi che ha investito il Medio Oriente dopo l’eliminazione da parte degli Usa del generale Qassem Soleimani, il presidente russo Vladimir Putin, a sorpresa, si produce in una sortita in Siria, dove ha incontrato il rais Bashar al-Assad. Un fuori programma che si è saldato con la visita prevista per l’8 gennaio a Istanbul – in agenda invece da tempo per tenere a battesimo il gasdotto TurkStream insieme al collega turco Recep Tayyip Erdogan – e che andrà ad aumentare il profilo di mediatore costruito sapientemente dallo zar nel corso dell’ultimo anno.

SUL TAVOLO LIBIA, SIRIA E QUESTIONE ENERGETICA

Il tema del gas, infatti, a questo punto resterà sullo sfondo e per forza di cose la geopolitica prenderà il sopravvento (benché lo scatto in avanti d’Israele, Cipro e Grecia per realizzare il condotto Eastmed, inviso alla Turchia e di certo non gradito da Mosca, va ad aggiungersi al delicato gioco di alleanze in corso nel Mediterraneo orientale). Putin ed Erdogan faranno così il punto della situazione e il Cremlino ha fatto sapere che a Istanbul «si discuterà dell’ulteriore sviluppo della cooperazione russo-turca e di temi internazionali rilevanti, inclusa la situazione in Siria e in Libia».

ANKARA E MOSCA SUI DUE FRONTI LIBICI

La Libia d’altra parte sembra essere il nodo più spinoso sul tavolo, dato che Mosca – pur sostenendo di aver sempre mantenuto rapporti equidistanti fra le parti – ha sostenuto Haftar, c’è chi dice con uomini e mezzi, mentre Ankara si appresta a inviare truppe per spalleggiare il governo di Tripoli. Insomma, se in Siria Putin ed Erdogan hanno trovato un accordo, in Libia rischiano di trovarsi su fronti contrapposti. La crisi siriana, poi, è tutt’altro che faccenda conclusa.

I RISCHI DEL CAOS IRANIANO SULLA SIRIA

L’Iran, terzo puntello della triplice alleanza per tenere in sella Assad (e suo alleato più convinto), ora si ritrova sotto tiro e una sua reazione scomposta potrebbe far saltare i difficili equilibri sperimentati sul campo. Putin, che in Siria visiterà non solo Damasco ma anche “altri siti” non meglio precisati, ha voluto sottolineare come nella capitale siriana «si possano notare, ad occhio nudo, segni di vita pacifica in ripresa». Traduzione: non si metta a rischio l’exit-strategy stilata sin qui per rimettere in piedi la Siria.

UN TOUR PER SONDARE GLI ANIMI

Ecco allora che la sortita dello zar appare come un tour a tappe forzate per sondare gli animi da vicino. Dopo Assad ed Erdogan, infatti, Putin vedrà anche Angela Merkel a Mosca l’11 gennaio appositamente invitata per parlare di «Siria, Libia e Ucraina». Altra mossa per mettere il colbacco sulla crisi mediorientale e mostrarsi come leader responsabile che tenta di risolvere i problemi invece di crearli.

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La sepoltura di Soleimani a Kerman e la vendetta ordinata da Khamenei

Folla oceanica nella città natale del generale ucciso dagli americani. La Guida suprema vuole un attacco diretto agli interessi statunitensi. E il parlamento iraniano stanzia 200 milioni di euro per le Forze al-Quds.

Una folla enorme si è radunata a Kerman, cittadina dell’Iran sud-occidentale, per la sepoltura del generale Qassem Soleimani. Come lunedì a Teheran, in occasione del corteo funebre in memoria dell’ufficiale.

Le cerimonie del 7 gennaio concludono i tre giorni di lutto nazionale proclamati dalla Guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, per la morte del comandante delle Forze al-Quds. A sostegno delle quali il parlamento iraniano ha stanziato 200 milioni di euro, da destinare agli agenti operativi all’estero entro due mesi.

L’Iran ritiene che «solo l’espulsione degli americani dalla regione» potrà vendicare l’assassinio di Soleimani. Ma secondo il New York Times lo stesso Khamenei avrebbe ordinato «un attacco diretto e proporzionato» agli interessi degli Stati Uniti, che dovrà essere condotto direttamente dalle forze armate iraniane.

Nel frattempo l’Iraq ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu di condannare formalmente il raid aereo americano, affinché «la legge della giunga» non domini le relazioni internazionali. Mentre la Germania ha annunciato il ritiro di parte delle sue truppe schierate nel Paese nell’ambito della della coalizione anti-Isis. Circa 30 soldati di stanza a Baghdad e Taji saranno «presto» trasferiti in Giordania e in Kuwait.

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Le minacce dell’Iran agli Usa durante i funerali di Soleimani

Milioni di persone in strada. Per dare l’ultimo saluto al generale Qassem Soleimani, per invocare giustizia e vendetta, per gridare..

Milioni di persone in strada. Per dare l’ultimo saluto al generale Qassem Soleimani, per invocare giustizia e vendetta, per gridare ancora una volta «morte all’America». Mentre il corteo funebre del comandante delle forze Quds raggiungeva Teheran, la capitale si riempiva di una folla eterogena, fatta di radicali e moderati, uniti per una volta nel dolore e nel rancore. Presenti anche esponenti di Hamas e della Jihad islamica, insieme all’ayatollah Ali Khamenei, guida Suprema dell’Iran, che in lacrime sul feretro del suo comandante ha guidato la preghiera.

La folla ha chiesto vendetta, sventolando immagini di Soleimani e del vice capo di Hash al-Shaabi, Abu Mahdi al-Muhandis, gridando slogan contro gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Israele. Soleimani era una figura che metteva d’accordo tutti, in Iran, e anche da morto continua a compattare il popolo, sebbene non manchino ancora le voci critiche nei suoi confronti. L’effigie del presidente Donald Trump è stata esposta in Enghelab Street con una corda al collo. Secondo Zeniab, figlia di Soleimani, le famiglie dei soldati statunitensi di stanza in Medio Oriente «dovrebbero aspettarsi la morte dei loro figli». Ali Akbar Vlayati, consigliere di Khamenei, ha promesso «un altro Vietnam» agli americani nel caso in cui non dovessero ritirare le loro forze dalla regione, confermando che «nonostante le vanterie dell’ignorante presidente degli Stati Uniti, l’Iran intraprenderà un’azione di ritorsione contro la stupida mossa degli americani che li farà pentire».

UNA LISTA COI PROSSIMI OBIETTIVI

Dopo i primi raid contro obiettivi americani in Iraq e il voto del parlamento di Baghdad a favore dell’espulsione delle truppe americane dal territorio nazionale, la preoccupazione a livello internazionale resta altissima. Il tabloid israeliano Yediot Ahronot ha pubblicato una lista delle più significative eliminazioni avvenute nella Regione negli ultimi anni, accompagnandola a un’altra coi nomi di chi potrebbe seguire il destino di Soleimani. Tra questi ultimi figurano Hassan Nasrallah (Hezbollah), Sallah al-Aruri e Mohammed Deif (Hamas), Ziad Nakhale (leader della Jihad islamica). Una lista che continua a gettare benzina sul fuoco dopo le minacce di Trump di colpire 52 siti in Iran.

ISRAELE CONVOCA IL CONSIGLIO DI SICUREZZA

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha convocato il Consiglio di difesa del governo per il pomeriggio del 6 gennaio, allo scopo di esaminare le ripercussioni dell’uccisione di Soleimani, mentre dall’Iran sono giunte negli ultimi giorni alcune minacce di ritorsione nei confronti di Israele. Di fronte alla delicatezza del momento, Netanyahu ha ordinato ai ministri di non esprimersi sugli ultimi sviluppi in Iran. Ma è stato lui stesso, nella seduta settimanale di governo tenutasi il 5 gennaio, a lodare Trump «per aver agito con determinazione, potenza e velocità» in questo frangente. Intanto ai confini Nord e Sud di Israele l’esercito mantiene uno stato di vigilanza, anche se negli insediamenti civili di frontiera la vita prosegue normalmente.

CONTE: «SERVE UN’AZIONE EUROPEA»

Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, intervistato da Repubblica, ha invocato un intervento comune europeo nella vicenda: «La nostra attenzione deve essere concentrata a evitare un’ulteriore escalation, che rischierebbe di superare un punto di non ritorno». Secondo Conte «è prioritario promuovere un’azione europea forte e coesa per richiamare tutti a moderazione e responsabilità, pur nella comprensione delle esigenze di sicurezza dei nostri alleati». E sui militari italiani nella regione, ha affermato che svolgono una funzione essenziale: «Faremo il possibile per garantirne la sicurezza». Posizione critica quella assunta dal governo tedesco nei confronti di Trump. Le sue minacce, dicono da Berlino, «non sono di grande aiuto».

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Le mosse di Iraq e Iran contro gli Usa dopo la morte di Soleimani

Baghdad e Teheran pronte a rispondere a Washington. La prima prepara una bozza contro Trump da presentare all'Onu. Mentre la Repubblica islamica è pronta a stracciare quello che resta dell'accordo sul nucleare. La situazione.

Iran e Iraq si dicono pronti a rispondere agli Stati Uniti dopo la morte del generale Qassem Soleimani. Mentre il feretro dell’ex comandnate delle forze Quds attraversa la Repubblica islamica per i tre giorni di lutto decisi dalla autorità, Teheran e Baghdad provano ad alzare la voce. Anche se Donald Trump ha già messo in chiaro che il Pentagono tiene il mirino 52 siti iraniani.

LA RABBIA DEI PARLAMENTARI IRANIANI

Mentre i Pasdaran hanno confermato di avere almeno 35 obiettivi Usa nel mirino, nella sessione parlamentare del 5 gennaio diversi deputati hanno chiesto una rappresaglia per le azioni di Washington, scandendo slogan come «Abbasso gli Usa», «Abbasso Israele», »Il martirio è il nostro onore». Lo speaker del parlamento, Ali Larijani, si è rivolto direttamente al capo della Casa Bianca, affermando: «Mr. Trump! Ascolta, questa è la voce della nazione iraniana». «Tutti i Paesi del mondo», gli ha fatto eco il ministro della Difesa Amir Hatami, «hanno la responsabilità di prendere posizione appropriata contro le mosse terroristiche degli Usa, se vogliono evitare che si ripetano atti odiosi e senza precedenti come l’uccisione del generale Soleimani».

VERSO UNO STRALCIO DELL’ACCORDO SUL NUCLEARE

Il Paese degli Ayatollah, in particolare, potrebbe far accelerare la sua completa uscita dall’accordo sul nucleare. Secondo l’agenzia Bloomberg entro il 6 gennaio Teheran deciderà se avviare una nuova fase della sua uscita. Si tratterebbe della quinta fase del disimpegno iraniano dall’accordo firmato nel 2015 con Unione europea, Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Questi ultimi ne sono già usciti due anni fa. «La decisione è già stata presa ma, considerata la situazione attuale, importanti cambiamenti saranno discussi in un importante incontro questa sera», ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri Abbas Mousavi.

ANCHE L’IRAQ PRONTO A CACCIARE GLI AMERICANI

Per gli Usa potrebbe però aprirsi un altro fronte, quello iracheno. Il governo di Baghdad ha infatti convocato l’inviato degli Stati Uniti nel Paese per protestare contro «la violazione della sovranità» compiuta con il raid che ha colpito ucciso il generale iraniano. Il ministero degli Esteri iracheno ha convocato l’ambasciatore americano Matthew Tueller e ha condannato i raid. «Sono stati una palese violazione della sovranità dell’Iraq», ha ribadito il ministero in una nota e «contraddicono le regole concordate nell’ambito delle missioni della coalizione internazionale». Intanto l’inviato iracheno alle Nazioni Unite ha presentato denuncia formale contro «gli attacchi americani».

HEZBOLLAH CHIEDE A BAGHDAD DI CACCIARE GLI AMERICANI

L’appello a cacciare il nemico americano è arrivato anche dal capo del movimento sciita libanese Hezbollah, Seyed Hassan Nasrallah, che ha rivolto un appello all’Iraq perché si liberi «dall’occupazione americana». «La nostra richiesta, la nostra speranza è che i nostri fratelli al parlamento iracheno adottino una legge per la fuoriuscita degli Stati Uniti dall’Iraq», ha dichiarato Nasrallah in un intervento alla tv.

LA COALZIONE ANTI-ISIS SOSPENDE LE OPERAZIONI IN IRAQ

Intanto la coalizione internazionale anti Isis ha intanto fatto sapere di aver sospeso tutte le operazioni nel Paese. In un comunicato la coalizione ha spiegato che gli attacchi contro i militari Usa impegnati nell’addestramento delle forze locali «ha limitato la nostra capacità di svolgere le nostre attività di formazione assieme ai nostri partner. Per questo abbiamo deciso di sospenderle».

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I funerali di Qassem Soleimani in Iran

È iniziato il lungo corteo funebre per l'ultimo saluto al generale ucciso in Iraq. Vie affollate nella città di Ahvaz. Poi domani il passaggio per la capitale fino alla sepoltura prevista per il 7 gennaio.

Una marea umana ha invaso le strade di Ahvaz per il primo corteo funebre in memoria del generale Qassem Soleimani, ucciso venerdì 3 gennaio in un raid americano in Iraq, nel primo di tre giorni di lutto proclamati in Iran. Al corteo la gente sventolava bandiere rosse, il colore del “sangue dei martiri”), verdi (il colore dell’Islam) e bandiere bianche decorate con slogan religiosi, oltre a ritratti del generale, piangendo e gridando «Morte all’America». La televisione di Stato ha trasmesso una diretta del corteo con lo schermo listato a lutto.

LEGGI ANCHE: Lo scambio di minacce tra Usa e Iran dopo la morte di Soleimani

CORTEO CON LE BARE LISTATE A LUTTO

Un camion ornato di fiori e coperto da un telo con disegnata la cupola della Roccia di Gerusalemme trasportava le bare di Soleimani e Abu Mehdi al-Mouhandis, capo militare iracheno filo-iraniano ucciso nella stessa azione, facendosi strada molto lentamente attraverso la folla venuta a piangere nel centro di Ahvaz, anche dalle città vicine, il comandante militare più amato dal popolo. Molti i ritratti, alzati dalla folla, del generale che comandava la forza Quds, l’unità delle Guardie rivoluzionarie per le operazioni all’estero.

IL LUNGO SALUTO A SOLEIMANI

L’agenzia semi-ufficiale Isna ha parlato di una quantità di partecipanti «innumerevole», l’agenzia Mehr, vicina agli ultra-conservatori, di un «numero incredibile» e la tv di Stato di una «folla gloriosa». Città nel sud-ovest dell’Iran con una folta minoranza araba, Ahvaz è la capitale del Khuzestan, una provincia martire della guerra Iran-Iraq (1980-1988), durante la quale la stella del generale iniziò a brillare. L’omaggio a Soleimani si ripeterà a Machhad, nel nord-est, a Teheran, tra il 6 e 6 gennaio, poi a Qom (nel centro del Paese), prima della sepoltura in programma per il 7 nella città natale del generale, Kerman, nel sudest.

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La situazione tra Iran e Usa dopo l’uccisione di Soleimani

Il Pentagono nega nuovi raid, ma manda 2.800 soldati in Medio Oriente. Teheran assicura di non volere una escalation, ma promette vendetta. Razzo su un aeroporto di Baghdad che ospita truppe americane.

Il Pentagono assicura che, almeno per il momento, non sono previsti altri raid aerei degli Stati Uniti contro le milizie filo-iraniane. Teheran da una parte, col suo ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, dichiara di non volere alcuna escalation, dall’altra, attraverso i Pasdaran e il presidente Rohani, manda chiari messaggi minacciosi all’America. E due razzi che colpiscono la superprotetta Green Zone di Baghdad, e la base aerea di Balad, che ospita truppe americane. Non vi sono al momento notizie di vittime.La situazione in Medio Oriente, nel giorno in cui il feretro dell’eroe nazionale iraniano Qassem Soleimani è sfilato per le vie di Baghdad accompagnato dalla folla che gridava «morte all’America», sembra quella di una pentola a pressione pronta a esplodere.

NUOVI SOLDATI AMERICANI

La sensazione, al di là delle parole, è che però tiri un deciso vento di guerra. Così gli Stati Uniti hanno deciso di inviare circa 2.800 soldati a protezione delle sedi diplomatiche e degli interessi Usa nell’area, i punti nevralgici più sensibili a una rappresaglia iraniana che è impossibile pensare non arrivi. D’altra parte l’ambasciata americana a Baghdad era già stata assaltata da migliaia di manifestanti pochi giorni prima dell’uccisione di Soleimani.

INCONTRO IRAN-QATAR

Intanto il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ricevuto a Teheran il suo omologo del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Zarif ha definito l’attacco Usa un «atto terroristico» che ha portato al «martirio» del comandante, ma ha anche aggiunto che «l’Iran non vuole tensioni nella regione, ed è la presenza e l’interferenza di forze straniere che causa instabilità, insicurezza e aumento della tensione nella nostra delicata regione».

IL QATAR PROVA A MEDIARE

Il Qatar, un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, ospita la più grande base militare di Washington in Medio Oriente , e Al-Thani ha definito la situazione nella regione «delicata e preoccupante» e ha invitato a trovare una soluzione pacifica che porti a una de-escalation. Il ministro del Qatar ha incontrato anche il presidente iraniano Hassan Rohani, che aveva giurato vendetta per il sangue di Soleimani. L’Arabia Saudita, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno interrotto ogni rapporto con il Qatar nel 2017, accusando Doha di appoggiare l’estremismo e promuovere legami con l’Iran, accuse che il Qatar ha sempre respinto.

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Nuovo raid Usa: «Ucciso un comandante delle milizie filo-Iran»

Lo riportano la tv di Stato irachena e fonti del Pentagono. Ma le Pmu smentiscono. Mentre a Baghdad in migliaia sfilano al grido di "Morte all'America".

Un nuovo raid statunitense in Iraq avrebbe ucciso un comandante del gruppo paramilitare filo-iraniano Hashed al Shaabi. Lo riportano la tv di Stato irachena e fonti del Pentagono a Newsweek, senza citare il nome del comandante preso di mira, che secondo l’emittente iraniana Press Tv sarebbe Shibl al Zaidi, leader delle Brigate Imam Ali, milizia che fa parte delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu) allineata con l’Iran. Le Pmu hanno però smentito in una nota che tra le vittime ci sia un loro comandante. L’attacco, avvenuto la sera del 3 gennaio nel Nord di Baghdad, ha colpito un convoglio provocando sei morti e tre feriti.

ANCHE IL PREMIER IRACHENO AL FUNERALE DI SOLEIMANI

Nella capitale irachena, il 4 gennaio, migliaia di persone hanno partecipato al corteo funebre del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso la notte del 3 gennaio da un raid Usa, gridando – tra la sua bara e quella del suo principale luogotenente in Iraq, Abu Mehdi al Mouhandis – “morte all’America”. Il corteo ha sfilato tra le vie del distretto di Kazimiya, dove si trova un santuario sciita. Al termine, nella zona verde di Baghdad si è tenuto un funerale nazionale ufficiale alla presenza di molti leader iracheni, incluso il primo ministro Adil Abdul-Mahdi. I resti di Soleimani saranno portati in Iran dopo la cerimonia.

TEHERAN ALL’ONU: «È TERRORISMO DI STATO»

Da Teheran, intanto, l’ambasciatore iraniano all’Onu, Takht Ravanchi, ha scritto una lettera al segretario generale Antonio Guterres e al collega del Vietnam Dang Dinh Quy, presidente di turno del Consiglio di Sicurezza, denunciando che «l’assassinio del generale Qassem Soleimani è un esempio evidente di terrorismo di Stato e, in quanto atto criminale, costituisce una grave violazione dei principi di diritto internazionale, compresi quelli stipulati nella Carta delle Nazioni Unite. Comporta quindi la responsabilità internazionale degli Usa».

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Perché le tensioni tra Usa e Iran possono rafforzare la Russia

Mosca non vuole l'escalation. E potrebbe ergersi a mediatore tra Washington e Teheran. Sfruttando il ruolo di pivot delle crisi mediorientali conquistato in seguito alla campagna siriana. Un ruolo che questa mossa di Trump contribuisce a rafforzare.

È esattamente il tipo di «azione sconsiderata» che la diplomazia di Mosca temeva da parte di un Donald Trump nervoso per l’impeachment e teso a rafforzare il suo gradimento interno anche con mosse imprevedibili sull’arena internazionale. Ora ci si aspetta una pericolosa escalation. La Russia potrebbe offrire la sua mediazione per frenarla.

«Consideriamo l’uccisione di Qassem Soleimani in seguito al raid missilistico Usa nelle vicinanze di Baghdad come un passo all’insegna dell’avventurismo che porterà a un aumento della tensione in tutta la regione», è stato il primo commento del ministero degli Esteri russo. Secondo il presidente della Commissione esteri del senato Konstantin Kosachev «si è realizzato lo scenario più pessimistico possibile». La conseguenza immediata sarà quella di «nuovi scontri fra gli americani e il radicalismo sciita in Iraq», ha detto Kosachev in un’intervista all’agenzia Ria Novosti. Sottolineando poi su Facebook che gli Usa «hanno bombardato» ogni speranza di un controllo sul programma nucleare iraniano, e che Teheran potrebbe ora andare avanti nella costruzione di armi nucleari «anche se prima non ne aveva l’intenzione».

Uno dei maggiori esperti russi di politica internazionale, Dmitri Trenin prevede un surriscaldamento: «L’uccisione di Soleimani non sarà un deterrente per l’Iran», ha scritto su Twitter. «Molto più probabilmente, intensificherà i conflitti nella regione, a partire dall’Iraq». Trenin nota come, dopo essersi sostanzialmente ritirato dai conflitti mediorientali, Trump ora rischi un coinvolgimento militare diretto in luoghi che per gli Usa hanno «meno significato di quanto lo avesse in passato».

LA COLLABORAZIONE MILITARE TRA IRAN E RUSSIA

Con l’Iran la Russia ha stabilito una stretta collaborazione militare fin dall’inizio del suo intervento in Siria a supporto del regime di Bashar al-Assad. Negli ultimi giorni dello scorso anno, i due paesi hanno effettuato manovre navali congiunte insieme alla Cina nell’Oceano Indiano e nel golfo di Oman. Nella guerra siriana, le truppe di Hezbollah armate e dirette da Teheran e la stessa Guardia Rivoluzionaria di cui fanno parte le forze speciali dell’unità Qods di cui il generale ucciso era al comando hanno combattuto sotto la copertura aerea fornita da Mosca. Soleimani era stato coinvolto in prima persona dagli esperti militari russi nella messa a punto delle operazioni. «È andato a più riprese sul fronte, per assicurare il coordinamento con gli alleati», ha confermato una fonte del ministero della Difesa russo al quotidiano Vedemosti.

È improbabile che si arrivi a una guerra su vasta scala, ma Teheran, oltre ad annullare ogni accordo sul suo programma nucleare, potrebbe per esempio reagire bloccando lo stretto di Hormuz

Fonti diplomatiche sentite dallo stesso giornale definiscono «imprevedibili» le conseguenze dell’uccisione di Soleimani: «È improbabile che si arrivi a una guerra su vasta scala, ma Teheran, oltre ad annullare ogni accordo sul suo programma nucleare, potrebbe per esempio reagire bloccando lo stretto di Hormuz». Nell’azione statunitense «non c’è una logica visibile». Secondo Maxim Shepovalenko, analista del think tank moscovita Cast e coautore del volume Persian Bastion sul potenziale militare dell’Iran,  gli Stati Uniti non possono certo illudersi che l’Iran non sia in grado di sostituire adeguatamente Soleimani, e l’obiettivo del raid è stato probabilmente quello di «dimostrare la forza di Trump sullo sfondo dell’impeachment».

L’ARMA DELLA DIPLOMAZIA

L’attacco americano all’aeroporto di Baghdad «non sposta niente nei rapporti tra la Russia e Teheran», dice a Lettera43 Nikolay Kozhanov, docente all’Istituto del Medio Oriente di Mosca. Nel caso di un conflitto aperto tra Usa e Iran, il Cremlino non potrebbe che appoggiare diplomaticamente e semmai con aiuti militari indiretti il partner persiano. Ma «non ha a disposizione le risorse che sarebbero necessarie per un vero e proprio coinvolgimento bellico». Quindi cercherà di arginare per quanto possibile l’escalation «perché non sarebbe in linea con gli interessi russi». Mosca, pur condannando sonoramente ogni azione di Washington contro Teheran,   potrebbe mediare «offrendo canali di comunicazione» per impedire il peggio, sfruttando il ruolo di pivot delle crisi mediorientali conquistato in seguito alla campagna siriana. Un ruolo che questa mossa di Trump potrebbe paradossalmente contribuire a rafforzare. 

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Com’è fatto il drone che ha ucciso Soleimani

Il velivolo, un MQ-9 Reaper, ha un'apertura alare di oltre 20 metri e supera i 400 km orari di velocità. È stato assistito da un MQ-1C Grey Eagle.

Con una gittata di 1.800 chilometri e la possibilità di raggiungere i 15 mila metri di altitudine l’MQ-9 Reaper, originariamente conosciuto come Predator B, è un drone sviluppato dalla statunitense General Atomics Aeronautical Systems (GA-ASI). È stato un velivolo di questo tipo, coadiuvato da un altro della stessa famiglia di Predator, a sparare quattro missili contro i due Suv su cui viaggiavano il generale iraniano Qassem Soleimani e altri alti ufficiali, da poco atterrati all’aeroporto internazionale di Baghdad con un volo di linea proveniente da Damasco.

Il drone – che costa circa dieci milioni di dollari, sensori compresi – è in dotazione da circa dieci anni anche all’Aeronautica Militare italiana, che lo usa disarmato, per compiti di sorveglianza e ricognizione. Uno di questi esemplari, utilizzato per la missione Mare Sicuro e appartenente al Gruppo velivoli teleguidati del 32/o Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Foggia), è precipitato lo scorso novembre in Libia per cause ancora non chiarite.

Questo tipo di drone, come si legge sul sito ufficiale dell’Aeronautica statunitense, è specializzato nel condurre offensive mirate, contro target specifici. Il primo prototipo si è alzato in volo nel 2001. «Data la sua lunga autonomia, i sensori a largo raggio, le componenti di comunicazione e le armi di precisione – spiega il sito – fornisce una capacità unica di eseguire attacchi contro obiettivi di alto valore». Ma l’aereo, con un’apertura alare di oltre 20 metri e una velocità superiore ai 400 km orari, garantisce elevate prestazioni anche nelle operazioni di pattugliamento, ricerca e soccorso, così come in quelle di intelligence, sorveglianza, acquisizione di bersagli e ricognizione.

Nell’attacco condotto contro il generale Soleimani, è stato coadiuvato anche da un altro drone, l’MQ-1C Grey Eagle, anch’esso facente parte del sistema Predator, che è composto essenzialmente da tre elementi: il velivolo; la stazione di controllo a terra, una vera e propria cabina di pilotaggio che grazie ad un collegamento satellitare può guidare l’aereo durante le operazioni anche a centinaia di chilometri di distanza; una stazione di raccolta dati, dove vengono analizzate in tempo reale le immagini ricevute dal velivolo e, attraverso un nodo di telecomunicazioni, ritrasmesse alle unità operative. È

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I rischi per i militari italiani all’estero dopo l’uccisione di Soleimani

Basi blindate e spostamenti limitati. Anche in patria innalzato il livello di vigilanza.

Il raid Usa in cui è rimasto ucciso il generale Qassem Soleimani espone a rischio anche i militari italiani schierati nelle aree in cui l’Iran potrebbe attuare la sua ritorsione e la Difesa innalza ovunque le misure di sicurezza dei contingenti, blindando le basi e limitando al minimo gli spostamenti. La decisione è dello stesso ministro Lorenzo Guerini, che da subito dopo l’attacco americano è in contatto continuo con il Coi, la struttura che gestisce tutte le operazioni fuori area, e con gli organismi di intelligence.

In queste ore l’allerta è ai massimi livelli. Anche per quanto riguarda il fronte interno, la vigilanza è altissima. Non vengono segnalate minacce specifiche, ma sono stati potenziati alcuni servizi di controllo, in particolare quelli su siti riconducibili agli interessi americani e iraniani in Italia, come le rappresentanze diplomatiche o le sedi delle compagnie aeree.

Il presidente del Copasir Raffaele Volpi si accinge a convocare i vertici dei servizi segreti per avere un quadro aggiornato della situazione. Le ragioni dei rischi cui è esposta l’Italia, li spiega il generale Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore della Difesa e dell’Aeronautica, un ufficiale che di crisi internazionali ne ha viste parecchie. “Per la prima volta – afferma il generale – target dei raid Usa è stato non un ‘semplice’ terrorista, ma ma un personaggio politico di altissimo spessore. Ed avere attaccato il livello politico dell’avversario vuol dire avere innalzato l’escalation ad un gradino dove non si era mai arrivati prima. E’ stata varcata la linea rossa e non sappiamo cosa c’è dietro”.

Secondo Camporini “è difficile dire cosa succederà ora, ma di sicuro l’Iran dovrà reagire, non può perdere la faccia. In che modo? Nei confronti delle truppe americane sul terreno, forse, ma le truppe Usa sono modeste. Oppure contro Israele, che è il principale alleato degli Stati Uniti nell’area. A questo riguardo ricordiamo che in Libano la situazione politica è a dir poco confusa, gli Hezbollah sono filo iraniani ed è ipotizzabile una ritorsione contro Israele che passa attraverso la ‘Linea blu’, dove sono schierati 12.000 uomini delle Nazioni unite e un migliaio di italiani che hanno il comando della missione. E poi non dimentichiamo che abbiamo 800 addestratori proprio in Iraq e 300 militari in Libia, dove c’è un nostro ospedale”.

Un altro generale, Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della Fondazione Icsa, condivide le preoccupazioni di Camporini. “Gli Usa con l’uccisione del generale Soleimani – afferma – hanno colpito un’icona, il simbolo della forza al servizio della teocrazia nata dalla rivoluzione. E’ uno step fondamentale e preoccupante di una escalation che dura da tempo e che si inserisce in un quadro già esplosivo con sullo sfondo la lotta secolare tra Iran ed Arabia Saudita, sciiti e sunniti”. “Si tratta – aggiunge – di un’ulteriore dissennata destabilizzazione dagli esiti incerti e senza apparente logica. Rabbia ed odio potrebbero essere difficilmente gestibili e le reazioni potrebbero essere di natura e dimensioni imprevedibili, anche per il nostro Paese”.

Al Coi, il Comando operativo di vertice interforze, cioè la struttura della Difesa che gestisce tutte le operazioni italiane all’estero, c’è un filo diretto con i contingenti potenzialmente più esposti. Subito dopo l’attacco è stato fatto un punto di situazione con il ministro Guerini e con il capo di Stato maggiore della Difesa, Enzo Vecciarelli, che si è concluso con la decisione di innalzare ovunque le misure di sicurezza e di limitare al minimo gli spostamenti al di fuori delle basi.

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Perché l’uccisione di Soleimani è un boomerang per gli Usa

Il generale era l’architetto degli equilibri in Libano, Iraq e Siria. E aveva trattato più volte con gli americani. Senza di lui in Iran e nella regione avranno mano libera gli ultraconservatori. Un rischio enorme, anche per i contingenti occidentali. Intervista a Nicola Pedde.

Un colpo grosso per le Presidenziali Usa del 2020, ma ben presto un altro boomerang in Medio Oriente per gli americani. L’omicidio mirato del generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq, da parte delle forze statunitensi che per decenni avevano negoziato (non solamente sull’Iraq) con lo stratega e comandante dei pasdaran, è per Donald Trump l’ultimo asso da calare nella campagna elettorale. «L’operazione può portare internamente dei vantaggi agli Stati Uniti, ma solo a breve termine e in particolar modo al presidente americano» spiega a Lettera43.it il direttore dell’Institute of global studies (Igs) Nicola Pedde, a lungo capo-analista della Difesa e tra i più profondi conoscitori dell’Iran

ASSIST AGLI ULTRACONSERVATORI

Per il resto la decapitazione dei vertici delle milizie sciite irachene, e prima di tutto l’uccisione della mente iraniana dietro le forze sciite sparse dal 1979 in Medio Oriente, crea – in un momento di grave vuoto politico a Baghdad – un vuoto organizzativo e militare «subito colmato da Teheran con un comandante più allineato con i vertici ultraconservatori dei pasdaran». A dispetto della retorica sull’ineffabile comandante che tutto o quasi poteva in Medio Oriente, «Soleimani era un pragmatico, non certo un radicale, abituato a trattare anche con gli Stati Uniti», precisa Pedde. Cade con lui un’architrave, a garanzia della «tenuta di Paesi chiave in Medio Oriente come l’Iraq e il Libano dove operano importanti contingenti italiani».

Iraq Iran morte Soleimani Usa Trump guerra
L’Iran sciita a lutto per la morte del generale Soleimani. GETTY.

DOMANDA. Soleimani, dal 1998 a capo delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione (pasdaran) è stato ucciso dopo una lunga coabitazione tra americani e iraniani in Iraq, i governi sciiti di Baghdad erano appoggiati da entrambi. Un atto di guerra di Trump?
RISPOSTA. La conseguenza è quella. Anche se certo l’Iran non potrà vendicarsi con un’aggressione diretta. Bensì con una guerra asimmetrica con gli Stati Uniti e con i suoi alleati regionali, radicalizzando ancor di più la contrapposizione. Così monterà l’antiamericanismo nel modo più violento possibile, e salterà la tenuta del Medio Oriente.

L’Iraq ha un premier dimissionario per le proteste popolari, esplose anche contro il legame politico e militare soffocante con Teheran. Trump avrà forse cercato di approfittare del momento di debolezza dell’Iran, per spezzare il predominio sciita nell’era post-Saddam.
Ma otterrà l’esatto opposto. Soleimani aveva costruito degli equilibri regionali non solo combattendo, ma trattando più volte anche con gli americani. Non era un estremista e non la pensava sempre come gli altri vertici dei pasdaran. La sua morte dà un grande vantaggio agli ultra-conservatori iraniani: tra i Guardiani della rivoluzione si consoliderà la loro linea, annullando ogni possibilità di dialogo.

All’azzardo di Trump ha contribuito l’escalation dell’ambasciata americana in Iraq, di regia iraniana?
Il climax di questi giorni a Baghdad, nel crescendo di ostilità riaperte dalla Casa Bianca con l’Iran, ha favorito il raid contro Soleimani. Che, attenzione, serve anche come vittoria mediatica per l’imminente campagna presidenziale di Trump. Internamente, come in Iran, il colpo porta vantaggi a Trump in risposta anche all’impeachment. Ma solo a breve termine.

La radicalizzazione andrà di pari passo con l’antiamericanismo, non solo in Iraq

Come nel 2003 contro Saddam Hussein, gli Stati Uniti seminano instabilità. Tanto più in territori appena liberati dai terroristi islamici, con pericolosi vuoti di potere e popolazioni martoriate.
Senza Soleimani si apre un vaso di Pandora in tutto il Medio Oriente, con rischi enormi. Intanto in Iraq l’uccisione nel raid anche di Abu Mahdi al Muhandis, leader degli Hezbollah iracheni, fa saltare la convivenza tra i militari americani e le milizie filo-iraniane. Quest’evoluzione pericolosissima trasforma la sicurezza irachena e più in generale la politica irachena.

GLI ITALIANI IN LIBANO

I contingenti Usa sono ormai sotto attacco anche delle milizie sciite, parte integrante della Difesa irachena,  che avevano lottato con loro contro l’Isis. Aumenteranno? L’Iraq si incendierà?
La radicalizzazione andrà di pari passo con l’antiamericanismo, e non solo in Iraq. Le architetture del generale Soleimani, per esempio attraverso le milizie e il partito politico Hezbollah, erano erano diventate fondanti anche in Libano.

Dove si è aperta un’altra grave crisi politica, a ridosso di Israele e della Siria dove gli Hezbollah siriani e iracheni dell’Iran hanno riconquistato i territori dall’Isis…
Territori, dall’Iraq al Libano, dove anche l’Italia ha uomini sul terreno, con contingenti importanti. Per i quali, vista la situazione, sarebbe opportuno il governo si ponesse qualche domanda.

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L’uccisione di Soleimani è un colpo al riformismo iraniano

L'attacco degli Usa spinge ulteriormente il Paese tra le braccia dei Pasdaran. Anche in vista delle elezioni per il rinnovo del parlamento. Dallo stretto di Hormuz all'Iraq: le possibili risposte di Teheran.

«Esportare la rivoluzione islamica ovunque, passando per Baghdad»: Qassem Soleimaini è, era, l’incarnazione di questa formidabile consegna, di questo ordine imperativo dell’ayatollah Khomeini del 1982. Le strategie di Soleimaini , la sua tattica, la sua rete personale di relazioni internazionali -a iniziare da un rapporto strettissimo con Vladimir Putin– si sintetizzano in quella consegna. E i suoi successi nell’allargare a tutto il Medio Oriente l’influsso e l’egemonia rivoluzionaria del khomeinismo, dal Mediterraneo sino ai confini del Pakistan sono stati enormi. Da quella consegna bisogna dunque ora partire per tracciare i possibili scenari della obbligata risposta iraniana alla sua clamorosa, geometrica, esecuzione.

A partire da un dato di fatto: l’Iran degli ayatollah, del “clero combattente”, l’Iran di quei Pasdaran che controllano direttamente il 40% dell’economia iraniana, è tenuto ora, innanzitutto di fronte a se stesso, a dare una risposta all’altezza dell’affronto, del danno immenso che ha subito. Deve dimostrare che l’atto di potenza -di onnipotenza- inferto dal “diavolo americano” sarà punito con pari o maggiore danno. E proprio Soleimaini ha messo a punto un formidabile dispiegamento di forza militare perfettamente adeguato a questa risposta, che può colpire da più fronti. Può colpire Israele con il lancio dei 15 mila missili a corto-medio raggio installati dai Pasdaran in Siria. Può bloccare -tentare di bloccare – con gli insidiosi barchini d’attacco lo stretto di Hormuz, la giugulare da cui passa il 40% del petrolio (anche saudita) del pianeta. Può incendiare con la Jihad islamica, al diretto comando di Teheran, il fronte di Gaza. Può rendere caldo, rovente, il confine tra Libano e Israele. Può infine, ma non per ultimo, anzi, continuare a sviluppare l’ultima strategia messa in atto da Soleimaini, che ha diretto e ordinato non a caso il recentissimo assalto all’ambasciata americana a Baghdad.

UNA ESCALATION ANNUNCIATA

Colpire dove si è stati colpiti è quasi una scelta obbligata e la crisi politica innescata dalle enormi manifestazioni anti sciite e anti iraniane delle ultime settimane in tutto l’Iraq offre ora a Teheran e ai Pasdaran l’occasione per perseguire due obiettivi contemporanei in quell’Iraq che Soleimaini considerava una provincia iraniana: vendicarsi dell’affronto subito colpendo duramente i militari americani -e i civili- sul suolo iracheno e contemporaneamente ribadire il comando politico assoluto e rigido della rivoluzione sciita sui destini di Baghdad, dell’Iraq. Le prossime ore saranno dunque cruciali in Iraq, come hanno ben compreso i vertici militari Usa che hanno deciso l’escalation dell’esecuzione di Soleimaini ben consci dell’enorme offesa inferta e quindi della certezza di una risposta iraniana simmetrica e parimenti -se non di più- violenta.

A Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla

Rimane lo stupore per l’assenso pieno dato da Donald Trump a questa mossa che ha una sola risposta logica -ammesso che Trump abbia una logica- nella scelta a freddo di sviluppare una campagna presidenziale all’insegna non più del rigido disimpegno militare all’estero sinora perseguito, ma del suo opposto, della risposta dura agli altrettanti duri attacchi degli ayatollah. Di un nuovo, intenso, impegno militare bellico degli Usa in Medio Oriente. Sia come sia, a Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla. Ma l’esecuzione di Soleimaini ha anche un risvolto immediato nella scena interna dell’Iran.

Qassem Soleimani.

Soleimaini infatti dentro i confini iraniani era il simbolo di quel assetto di “un Paese, due sistemi” che l’ayatollah Khomeini ha costruito ben prima di Deng Tsiao Ping in Cina. L’Iran infatti si regge sull’equilibrio tra due missioni: la prima, la più importante e strategica è, appunto, “esportare la rivoluzione islamica”. La seconda missione, parallela e subordinata alla prima e che con quella non deve interferire, è l’amministrazione di una normale politica interna basata sul welfare Islamico: la distribuzione immediata dei proventi del petrolio, sotto forma di reddito personale, a decine di milioni di iraniani. Le elezioni politiche e presidenziali iraniane riguardavano e riguardano solo il secondo ambito, tanto che spesso è stato possibile avere presidenti soi distant “riformisti”. Ma la strategia di fondo del regime iraniano era ed è “esportare la rivoluzione”, a Teheran non si è mai parlato di “rivoluzione in un Paese solo”. Per gli ayatollah messianici figli di Khomeini sarebbe un controsenso, un tradimento.

VERSO LE ELEZIONI LEGISLATIVE

Soleimaini era appunto il leader indiscusso e onnipossente della applicazione di questa strategia a cui tutto il “sistema Paese” iraniano è stato piegato; basti pensare che si calcola che le campagne dei Pasdaran in Iraq, Siria, Yemen, Libano e Gaza siano costate negli ultimi cinque anni non meno di 10 miliardi di dollari. Per questo è stata feroce nelle ultime settimane la repressione, sempre ad opera dei Pasdaran, delle enormi manifestazioni popolari che hanno scosso tutto l’Iran, che protestavano appunto contro gli enormi costi di quella “esportazione della rivoluzione”. Ora, con il Paese in guerra virtuale e materiale contro gli Usa, lo spazio politico per le proteste popolari iraniane si chiude. E questa chiusura si riverbererà sulle imminenti elezioni per il rinnovo del Majlis, il parlamento di Teheran. C’è da scommettere quindi che si imporranno i candidati legati ai Pasdaran (anche perché ad altri verrà semplicemente impedito di correre). Nel nome appunto del “martire” Qassem Soleimaini. Solo l’Europa continuerà a perdersi nell’illusione di un percorso riformista dell’Iran rivoluzionario. Questa illusione è ormai preclusa al popolo iraniano.

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Chi è Esmail Qaani, il generale che sostituirà Qassem Soleimani

L'Iran ha nominato il nuovo capo delle forze Quds. Meno carismatico del predecessore, l'ufficiale può però contare sull'esperienza militare e sul supporto dell'ayatollah Khamenei.

Il generale Esmail Qaani è stato nominato dalla Guida suprema Ali Khamenei nuovo comandante della Forza Quds dei Pasdaran dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani. Lo riferisce l’agenzia iraniana Irna. Qaani è stato finora il numero due di Soleimani. Già nel 2013, in un rapporto del think tank Aei, si faceva il nome di Qaani come possibile successore del generale, anche grazie al profondo legame con l’ayatollah Khamenei. L’ufficiale è sempre stato descritto come un uomo poco carismatico e meno illustre del predecessore. Ma allo stesso tempo gli è stata riconosciuta una certa capacità sul campo di battaglia.

LEGGI ANCHE: Chi era il capo delle forze Quds Qassem Soleimani

L’ASCESA NEI PASDARAN DOPO LA RIVOLUZIONE

Classe 1957, Qaani è entrato nei Pasdaran nel 1982, tre anni dopo la rivoluzione che cacciò lo Scià. Da quel momento è stato impegnato in tutti i fronti caldi del Paese nella regione. Negli Anni 80 è rimasto ferito durante la guerra tra Iran e Iraq mentre verso la fine del decennio è stato promosso a comandante della quinta divisione Nasr. Negli anni è stato attivo anche come agente nella repressioe – come nel caso delle sommosse contadine nel 1992 a Mashhad -, mentre a metà degli Anni 90 è diventato il capo dell’Ansar Corps, responsabile regionale per l’Afghanistan e il Pakistan. In quegli anni oltre a combattere i signori della droga che operavano lungo il confine, ha fornito supporto all’Alleanza del Nord in funzione anti talebana. Nel corso del decenni ha scalato altre posizioni fino a diventare il numero due di Soleimani. Non solo. Accanto all’attività di vice per le forze Quds è stato a capo della divisione di intelligence almeno fino al 2006, quando poi ha ricoperto solo il ruolo di capo in seconda.

IL TRAFFICO D’ARMI PER LE MILIZIE SOSTENUTE DA TEHERAN

Stando a diverse rilevazioni delle agenzie di intelligence, tra le operazioni più note condotte dal nuovo capo ci sarebbero quelle legate al supporto delle varie milizie sostenute dall’Iran in tutto il Medio Oriente. Qaani sarebbe infatti responsabile del traffico di armi e soldi verso gruppi armati in Afghanistan, Libano e Yemen. Tra il 2009 e 2012 l’ex vice di Soleimani ha preso parte a diversi viaggi diplomatici tra Venezuela, Bolivia, Brasile, Gambia e Senegal, come anche Iraq e Siria.

UN MILITARE ABILE, MA POCO CARISMATICO

Sempre secondo il rapporto dell’Aei, Qaani ha la stessa dote che ha reso celebre Soleimani: l’abilità di improvvisazione in scenari militari complessi. Tuttavia, non ha lo stesso carisma. Tanto era convincente e accalorato Soleimani nei suoi discorsi, tanto è freddo e impersonale Qaani. Gli stessi atteggiamenti allontanano i due capi: il vecchio generale era più diretto e chiaro, mentre il suo successore preferisce giri retorici e formule più burocratiche.

IL LEGAME SPECIALE CON KHAMENEI

Sia Soleimani che Qaani fanno parte dello stesso network, ma il secondo nel corso degli anni ha dimostrato di avere un forte legame con la massima guida spirituale del Paese, l’ayatollah Khamenei. I due condividerebbero amici comuni e un legame che affonda le radici nella guerra tra Teheran e Baghdad, anche grazie ad amici comuni nella fitta rete dei Pasdaran.

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Le reazioni internazionali dopo il raid Usa che ha uccso il generale Soleimani

Critiche da Iraq, Russia e Cina per la mossa di Washington. Mentre la Francia teme lo scoppio nuovo conflitto.

La preoccupazione più grande è per una nuova escalation che trascini Washington e Teheran verso la guerra. Potrebbero essere sintetizzate così le posizioni della comunità internazionale dopo l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani a Baghdad per mano di un raid americano.

LA FRANCIA: «ORA IL MONDO È PIÙ PERICOLOSO»

Per Parigi l’uccisione di Soleimani ha reso il mondo «più pericoloso», come affermato dal ministro francese per l’Europa, Amelie de Montchalin, in un’intervista alla radio Rtl. «Quello che vogliamo soprattutto è stabilità e de-escalation», ha affermato il ministro, aggiungendo che gli sforzi della Francia «in ogni parte del mondo mirano a creare condizioni di pace o almeno di stabilità». «Il nostro ruolo», ha concluso, «non è schierarci con una parte, ma parlare a tutti».

LONDRA: «IL CONFLITTO NON È NEI NOSTRI INTERESSI»

Su questa scia anche il Regno Unito, da sempre solido alleato degli Usa nella regione, ha espresso e sollecitato una ‘de-escalation’. «Abbiamo sempre riconosciuto la minaccia aggressiva posta dalla Forza Qods guidate da Qassem Soleimani», ha sottolineato in una nota il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab, «Dopo la sua morte, sollecitiamo tutte le parti ad una de-escalation. Un ulteriore conflitto non è nei nostri interessi».

ANCHE BERLINO TEME L’ESCALATION

Alla luce degli sviluppi della situazione, il governo tedesco, per bocca del portavoce della cancelliera Ulrike Demmer, si è inserito sulla stessa linea, esprimendo «preoccupazione» per il «pericoloso momento di escalation» in cui ci si trova, e sollecita «oculatezza e moderazione, per contribuire alla distensione» nella regione.

LA RUSSIA: «COSÌ AUMENTERANNO LE TENSIONI»

Secondo Mosca l’operazione di Washington accrescerà le tensioni in tutto il Medio Oriente. «L’uccisione di Soleimani è stato un passo avventuristico che accrescerà le tensioni in tutta la regione», hanno scritto le agenzie Ria Novosti e Tass citando il ministero degli Esteri. «Soleimani ha servito con devozione la causa per la protezione degli interessi nazionali iraniani. Esprimiamo le nostre sincere condoglianze al popolo iraniano».

LA CINA INVITA TUTTI ALLA CALMA, «SPECIALMENTE GLI USA»

Anche Pechino sceglie il basso profilo facendo appello alla calma e alla misura, da tutte le parti in causa «specialmente gli stati Uniti». «Facciamo appello alle parti coinvolte, specialmente gli Stati Uniti, affincheè si mantenga la calma e si eserciti la misura per evitare un’ulteriore escalation delle tensioni», ha detto il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Geng Shuang, durante un briefing con la stampa.

IRAQ PREOCCUPATO PER UN NUOVO CONFLITTO

Il primo ministro iracheno Adel Abdul-Mahdi ha definito la mossa americana come «un’aggressione contro l’Iraq». In un messaggio ufficiale ha inoltre avvertito che l’attacco determinerà «una pericolosa escalation» che «scatenerà una guerra devastante in Iraq e nella regione». Il premier ha poi sottolinato come Soleimani sia stato «uno dei principali simboli della vittoria contro i militanti dello Stato islamico».

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Chi era il generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso dal raid Usa

L'ufficiale a capo delle forze Quds era la punta di diamante delle operazioni di Teheran in tutto il Medio Oriente, dalla guerra civile siriana alla campagna irachena contro l'Isis. Ritratto del Rommel iraniano.

Il generale Qassem Soleimani, ucciso nella notte del 3 gennaio da un raid delle forze Usa a Baghdad, per anni è stato la punta di diamante delle operazioni internazionali dell’Iran. 62 anni, una barba corta sale e pepe, il generale era a capo delle forze Quds, il braccio armato dei guardiani della rivoluzione fuori dalla repubblica islamica, fin dal 1998. Soleimani veniva considerato da tutti, sostenitori e nemici, come uno degli strateghi migliori di tutto il Medio Oriente, che a partire dal 2013 si è reso protagonista di tutti gli interventi di Teheran nell’area, dalla Siria all’Iraq, passando per lo Yemen.

LA STRATEGIA PER SALVARE ASSAD DALLA CADUTA

Una delle missioni di maggior successo per l’ufficiale iraniano è stata sicuramente la Siria. Nel 2012 Teheran lo inviò a Damasco per aiutare il malconcio esercito siriano dilaniato dalle diserzioni conseguenti allo scoppio della guerra civile un anno prima. Dopo il suo intervento le sorti del conflitto sono via via cambiate. Ridefinita la strategia sul campo, ha fatto in modo da far entrare nel conflitto il gruppo armato libanese di Hezbollah aiutando l’Iran a diventare uno degli attori fondamentali della guerra civile. Non a caso in molti sostengono che nell’estate del 2006 il generale fosse in prima linea in Libano nel conflitto tra le milizie sciite e Israele. Una strategia che ha permesso al presidente Bashar al-Assad di rimanere al potere anche grazie alle amicizie dirette dello stesso Soleimani con funzionari e militari russi, intervenuti a sostegno del regime nell’autunno del 2015.

LA CAMPAGNA IRACHENA CONTRO L’ISIS

Nel 2014 quando la città irachena di Mosul cade nelle mani dell’Isis non fu solo l’aviazione americana a intervenire. Il generale nei giorni immediatamente successivi si recò in Iraq e negli anni seguenti guidò le operazioni delle milizie sciite irachene e iraniane sul campo per contenere prima l’avanzata dello Stato islamico e poi dare il via all’offensiva che ha liberato la città nell’estate del 2017. Oltre all’aspetto militare, però Soleimani era abile a intessere relazioni politiche. In Iraq più di qualcuno ha sottolineato che era solito incontrare in segreto gli esponenti dei vari partiti alimentando e modificando le traiettorie del potere di Baghdad. Ryan Crocker, ex ambasciatori americano in Afghanistan e Iraq, ha raccontato la sua esperienza alla Bbc: «I miei interlocutori iraniani erano molto: anche se avessero informato il ministero degli Esteri, alla fine sarebbe stato il generale Soleimani a prendere le decisioni».

UN MIX TRA BOND E ROMMEL

Nel corso degli anni Soleimani è stato dato per morto diverse volte. Nel 2006 riuscì a sopravvivere a un incidente aereo, nel 2012 scampò a un’attentato contro alcuni ufficiali siriani, mentre 2015 uscì indenne dai feroci combattimenti della battaglia Aleppo. Nel 2017 la rivista Time lo ha inserito tra le 100 persone più influenti del mondo e per l’occasione Kenneth Pollack, ex analista della Cia, disse di lui che per tutti gli «sciiti del in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga», in riferimento non solo alle campagne militari ma anche alla sua presenza sui social molto seguita. Molto amato in patria, Soleimani è stato più volte invocato come possibile candidato alle presidenziali del 2021, anche se lui stesso ha sempre ribadito di non volersi candidare.

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Raid Usa a Baghdad, ucciso il generale iraniano Soleimani

Nella notte le forse americane hanno bombardato l'aeroporto della capitale irachena uccidendo almeno otto persone tra le quali il capo delle forze Quds. Il Pentagono conferma l'attacco, voluto da Trump, e l'Iran minaccia ritorsioni. La situazione.

Le forze americane uccidono a Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani, una delle figure chiave dell’Iran, molto vicino alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e considerato da alcuni il potenziale futuro leader del Paese. Un raid, quello statunitense, condotto – secondo indiscrezioni – con un drone e ordinato da Donald Trump. Una mossa che rischia di far salire la già alta tensione fra Stati Uniti e Iran, ma anche in tutto il Medio Oriente.

Il generale Qasem Soleimani ucciso a Baghdad.

GLI USA CONFERMANO L’ATTACCO DIRETTO A SOLEIMANI

«Il generale Soleimani stava mettendo a punto attacchi contro diplomatici americani e personale in servizio in Iraq e nell’area», ha detto il Pentagono confermando il raid e assumendosene la responsabilità. «Il generale Soleimani e le sue forze Quds sono responsabili della morte di centinaia di americani e del ferimento di altri migliaia», ha aggiunto il Pentagono, precisando che il generale iraniano è stato anche il responsabile degli «attacchi contro l’ambasciata americana a Baghdad negli ultimi giorni». Il raid punta a essere un «deterrente per futuri piani di attacco dell’Iran. Gli Stati Uniti continueranno a prendere tutte le azioni necessarie per tutelare la nostra gente e i nostri interessi del mondo», ha messo in evidenza il Dipartimento della Difesa.

UCCISO IL NUMERO DUE DELLE FORSCE SCIITE IN IRAQ

L’attacco americano segue l’avvertimento lanciato dal ministro della Difesa, Mark Esper, dopo le tensioni degli ultimi giorni con ore e ore di guerriglia e diversi tentativi di penetrare il compound che ospita la sede diplomatica Usa nella capitale irachena, la cui torretta all’ingresso principale è stata data alle fiamme. La dichiarazione del Pentagono è arrivata dopo ore di confusione, fra voci che si rincorrevano e nessuna rivendicazione della responsabilità. Trump, avvolto nel silenzio, si è limitato a twittare una foto della bandiera americana prima che il ministero della Difesa uscisse alla scoperto. Quando la televisione irachena ha annunciato la morte del generale Soleimani si è iniziato a immaginare che gli Stati Uniti potessero essere dietro al raid, nel quale ha perso la vita anche Abu Mahdi al-Muhandis, il numero due delle Forze di mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi), la coalizione di milizie paramilitari sciite pro-iraniane attive in Iraq.

CONGRESSO NON INFORMATO DEL RAID

La Guardia Rivoluzionaria iraniana, confermando la morte di Soleimani, ha affrmato che il generale è stato ucciso da un attacco sferrato da un elicottero americano. Secondo le ricostruzioni iniziali, Soleimani e Mohammed Ridha, il responsabile delle public relation delle forze pro-Iran in Iraq, erano da poco atterrati all’aeroporto internazionale di Baghdad ed entrati in una delle due auto che li attendeva quando l’attacco è stato sferrato. L’attacco è seguito al lancio di tre razzi all’aeroporto che non causato alcun ferito. L’uccisione di Soleimani rischia di avere ripercussioni profonde nei rapporti tesi fra Washington e Teheran, in Medio Oriente ma anche negli Stati Uniti. Intanto per Trump si apre anche il fronte interno. Pare infatti che i parlamentari americani non siano stati avvertiti dell’attacco ordinato dal presidente, come reso noto in un comunicato il deputato democratico Eliot Engel. Il raid «ha avuto luogo senza alcuna notifica o consultazione con il Congresso», si legge nella nota.

FURIA TEHERAN: «È UN ATTO DI TERRORISMO»

La reazione iraniana è stata immediata, con Teheran che ha fatto sapere che ci saranno ritorsioni. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha parlato di «atto di terrorismo internazionale degli Stati Uniti» e definito il generale Soleimani come «la forza più efficace nel combattere il Daesh, Al Nusrah e Al Qaida». «Gli Stati Uniti», ha aggiunto, «si assumeranno la responsabilità di questo avventurismo disonesto». La guida suprema Khamenei ha chiesto tre giorni di lutto nel Paese affermando che l’uccisione raddoppierà la motivazione della resistenza contro gli Stati Uniti e Israele. «Gli iraniani e altre nazioni libere del mondo si vendicheranno senza dubbio contro gli Usa criminali per l’uccisione del generale Qassen Soleimani», ha tuonato il presidente iraniano Hassan Rohani. L’attacco, ha sottolineato, rafforza la determinazione dell’Iran di resistere e affrontare le eccessive richieste di Washington. «Tale atto malizioso e codardo è un’altra indicazione della frustrazione e dell’incapacità degli Stati Uniti nella regione per l’odio delle nazioni regionali verso il suo regime aggressivo».

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Stramaccioni lascia l’Iran e a Teheran scoppiano le proteste dei tifosi

Il tecnico ex Inter, grazie alla sentenza Fifa, ha rescisso il contratto con l'Esteghlal ed è rientrato in Italia. E per le strade della capitale la gente lo invoca: «È il nostro leader».

L’incubo di Andrea Stramaccioni in Iran è finito. Di allenatori che chiudono in anticipo la loro avventura calcistica ne esistono in ogni angolo del mondo, anche con la squadra al primo posto, come per l’Esteghlal del tecnico ex Inter.

PERSINO LA GENTE IN PIAZZA

Ma se tutto avviene a Teheran, a un italiano viene impedito di lasciare la Repubblica islamica dell’Iran e quando poi il contratto è rotto la gente scende in piazza e grida contro il ministero dello Sport, il contesto cambia. E spinge il ministero degli Esteri a contattare l’ambasciata italiana per calmare le acque nei giorni in cui l’Iran è scosso da altre rivolte.

Trattandosi di una società statale, probabilmente la situazione è diventata anche politica e questo dispiace


Andrea Stramaccioni

«Sono molto amareggiato: nessuno voleva finisse così», ha detto Stramaccioni al rientro a Roma, dopo una fuga da Teheran verso Istanbul con un volo privato. «L’affetto della gente di Teheran mi rimane sul cuore: trattandosi di una società statale, probabilmente la situazione è diventata anche politica e questo dispiace, perché il calcio deve essere soltanto una fonte di gioia. Noi, anche grazie all’aiuto dell’ambasciata, abbiamo fatto tutto il possibile».

I TIFOSI: «STRAMACCIONI È IL NOSTRO LEADER»

Parole che provano a gettare l’acqua sul fuoco, mentre a centinaia i tifosi si erano radunati sotto il ministero dello sport proprietario del club gridando «Stramaccioni è il nostro leader» e con foto del tecnico romano, e le autorità hanno invertito il campo della partita odierna col Paykan facendola giocare nello stadio Azadi di Teheran, quello dei rivali storici del Persepolis, per evitare problemi di ordine pubblico.

DALL’ENTUSIASMO ALL’INCUBO

Dopo la firma del contratto e l’entusiamo iniziale (Stramaccioni si era trasferito con tutta la famiglia) i primi segnali a fine agosto, quando Stramaccioni si è reso conto che il club aveva licenziato gli interpreti tanto da rendere quasi impossibile comunicare con i giocatori in farsi. Poi sono arrivati i primi mancati pagamenti e a settembre è arrivato una specie di “rapimento“: durante la pausa per le nazionali, Stramaccioni è stato infatti bloccato all’aeroporto, con il visto improvvisamente scaduto.

I PRIMI SUCCESSI SUL CAMPO

Da quel momento è iniziato l’intervento dell’ambasciata italiana. Nel frattempo l’ex tecnico dell’Inter ha preferito tenere un profilo basso non esasperando i toni anche perchè la situazione ha risvolti politici evidenti: il calcio è strumento di consenso nella Repubblica islamica, ma il successo che il suo lavoro ha poi ottenuto presso i tifosi della squadra ha impresso una nuova traiettoria agli eventi.

LA FIFA SCIOGLIE IL CONTRATTO

L’Esteghlal ha iniziato a vincere, diventando primo in classifica. Nel frattempo la famiglia del tecnico romano è riuscita a rientrare in Italia, mentre dalla Fifa è arrivato il contributo decisivo a sbloccare lo stallo. Il mancato pagamento degli stipendi ha spinto la Federazione a dichiarare non valido il contratto per inadempienza. A quel punto, con decorrenza 6 dicembre, Stramaccioni è risucito a liberarsi e a lasciare il Paese.

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Gli ultraconservatori cavalcano le proteste in Iran

I riformisti mollano Rohani dopo la repressione. E l'ala più oltranzista guadagna forza in vista delle Legislative a febbraio. Così l'autoritarismo vince sulle democrazie.

Non è secondario che nell’Iran sciita si voti a febbraio del 2020 per rinnovare il parlamento. Nella Repubblica islamica sono state appena stroncate le proteste di massa più grandi e violente del 1979: dalle testimonianze sfuggite al blocco della censura, centinaia di morti in pochi giorni, più delle circa 70 vittime (in 10 mesi) ricostruite nell’Onda verde del 2009. Migliaia gli arresti ammessi dalle autorità, chi ha mobilitato i cortei e dei loro famigliari sarebbero prelevati dalle forze di sicurezza dalle case porta a porta. Mentre in Iraq rivolte sanguinose scuotono santuari islamici come Najaf, a larga maggioranza sciita e storica influenza iraniana. Il Medio Oriente sciita, 40 anni fa mobilitato e tradito negli ideali democratici da Khomeini, tenta di rovesciare i regimi e i governi corrotti. Ma anche stavolta la repressione rafforza gli ultraconservatori in Iran e i militari iraniani approfittano delle turbolenze nell’area mediorientale. 

LA GRANDE MACCHIA DI ROHANI

Hassan Rohani è presidente dal 2013, grazie al consenso popolare degli alleati riformisti con i leader agli arresti domiciliari dalle proteste del Movimento verde contro il governo Ahmadinejad.  L’avvitamento economico – per le durissime sanzioni americane di Donald Trump – aggrava la crisi finanziaria di mese in mese, alimentando le contestazioni: già di per sé un guaio per lo schieramento di Rohani. I morti, i feriti, gli arresti e l’oscuramento per giorni di Internet e delle reti telefoniche (quest’ultimo disposto proprio da Rohani, si è scritto, in capo al Consiglio nazionale di sicurezza) macchiano il suo governo più del governo Ahmadinejad. Fuori dall’Iran nessuno sa quello che è davvero successo durante i disordini di metà novembre, alcuni racconti raccolti dalle Ong sono sconvolgenti. Ma a Teheran, a proposito di Legislative, ne ha un’idea anche qualche parlamentare. In una mozione urgente si chiede una commissione d’inchiesta sulle uccisioni e sugli arresti. 

Iran rivolte Iraq guerra pasdaran
Le rivolte nella città santa sciita di Najaf, in Iraq. GETTY.

MOUSAVI CONTRO KHAMENEI

Rohani sta perdendo tutti i voti dei riformisti. Il leader dell’Onda verde Mir Hossein Mousavi, costretto a casa con la moglie dal 2011, raramente parla in pubblico anche se da quest’anno gli è stato dato un cellulare e può guardare alcuni canali tivù. Ma quest’autunno ha fatto uscire su Internet frasi lapidarie contro la guida suprema iraniana Ali Khamenei: «Nel 1978 gli assassini erano i rappresentanti e gli agenti di un regime non religioso, mentre i cecchini del novembre 2019 sono i rappresentanti di un governo religioso. Allora il comandante in capo era lo scià, oggi è la guida suprema che ha autorità assoluta». Dal Majlis, il parlamento iraniano, la deputata riformista Parvaneh Salahshouri ha denunciato vittime adolescenti tra i morti nelle ultime proteste. E chiede sia fatta luce «sulle notizie unilaterali e umilianti diffuse dalla tivù sui manifestanti, arrabbiati e frustrati da numerosi problemi economici». Sulle reti di Stato le autorità hanno ammesso «spari ai teppisti facinorosi».

Il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran anche in Iraq

VOTO BOICOTTATO A FEBBRAIO

Le masse sono pronte a disertare il voto il 21 febbraio. Un boicottaggio che farà vincere gli ultraconservatori, i referenti politici dell’apparato di sicurezza in testa alla repressione. In prospettiva anche alle Presidenziali del 2021. Tanto più che a Rohani l’opposizione rinfaccia da sempre l’accordo sul nucleare con gli Usa, affossato da Trump ma mai decollato neanche con Barack Obama a livello economico. Mentre il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran iraniani anche in Iraq: dalle informazioni dell’intelligence americana le forze all’estero dei guardiani della rivoluzione di Khamenei hanno trasportato un arsenale di missili balistici in Iraq, approfittando della confusione e dei rinforzi chiesti dal governo amico di Baghdad. L’effetto paradossale della guerra americana a Saddam Hussein è stata, come per le sanzioni di Trump agli ayatollah, la penetrazione politica e militare dell’Iran nell’Iraq. Come già in Libano e in Siria.

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Paramilitari sciiti in Iraq, alle porte di Mosul. GETTY.

L’ARSENALE DI MISSILI IN IRAQ

Dal 2003 le milizie sciite irachene (cosiddette Forze di mobilitazione popolare) dei cecchini che sparano sui manifestanti sono state costruite e armate dai pasdaran. Mentre i marines addestravano l’esercito iracheno depurato dai quadri di Saddam Hussein, i governi filosciiti che si sono succeduti a Baghdad – pilotati dagli americani quanto dall’Iran – permettevano la proliferazione di paramilitari che sta prendendo il sopravvento. In Iraq i miliziani sciiti controllano strade, ponti, infrastrutture. Dove nell’ultimo anno, a un ritmo crescente, avrebbero fatto passare in segreto missili iraniani a medio raggio (circa 1000 km) che possono raggiungere Israele. O colpire i contingenti americani nel Paese, come i cinque razzi piovuti sulla base Usa di Ayn al Asad con oltre la metà dei marines in Iraq. Armi balistiche sofisticate, capaci di cambiare traiettoria e di sviare gli scudi aerei. Come è avvenuto lo scorso settembre con l’attacco alle raffinerie saudite.

Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31 del Paese, inclusa la città santa di Mashad

LE RIVOLTE NELLE CITTÀ SCIITE

Un missile, per l’intelligence Usa, partito dall’Iran e virato poi a Nord sul Golfo persico. Per i fortini in Libano, Siria e Iraq, e per sempre nuovi e potenti armamenti, la Repubblica islamica investe miliardi dai budget statali prosciugati dal blocco dell’export e dall’inflazione rampante. In Iraq mancano i servizi e il territorio, da Nord a Sud, è devastato da attentati e guerre. Le proxy war in Medio Oriente dell’Iran logorano milioni di civili. Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31, inclusa la città santa di Mashad. In Iraq si sono rivoltati i santuari dei pellegrinaggi sciiti di Kerbala e Najaf: un duro colpo, il doppio assalto al consolato iraniano di Najaf è un attacco anche simbolico dal cuore degli sciiti. Non a caso, a parole in Iraq i religiosi sciiti si schierano «contro la corruzione» con  i manifestanti. Ma a maggior ragione l’Iran aumenta i presidi militari e anche di religiosi in Iraq. E come in Siria, è ancora l’autoritarismo a vincere.

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L’Iran “riformista” delle forche ha mostrato il suo vero volto

Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iran. Ma il regime change per ora è una chimera.

Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da una protesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.

Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.

Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.

L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA

Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.

L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele

L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gaza su Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.

Le proteste in Iraq.

L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.

NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI

Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.

Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie

Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.

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I leader delle proteste in Iran saranno impiccati

Lo scrive il quotidiano conservatore Kayhan, molto vicino alla Guida suprema Ali Khamenei.

I leader delle proteste contro il rincaro della benzina in corso dal fine settimana in Iran verranno impiccati. Lo sostiene il quotidiano conservatore Kayhan, molto vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, citando fonti giudiziarie, secondo cui i dimostranti sarebbero stati pagati per «creare il caos».

CONTESTATO IL CRIMINE DI RIVOLTA ARMATA CONTRO LA REPUBBLICA ISLAMICA

Il crimine che verrà contestato ai manifestanti, sottolinea il giornale, è noto come Baghi, cioè rivolta armata contro le autorità e i principi del sistema della Repubblica islamica. «Un gruppo di leader dei disordini, che sono stati recentemente arrestati, ha confessato di essere stato incaricato di creare il caos e danneggiare e incendiare le proprietà pubbliche e avevano armi, coltelli e maschere. I colpevoli hanno anche detto di aver ricevuto in cambio denaro e la garanzia di poter lasciare il Paese se fossero stati identificati», aggiunge Kayhan.

La calma è tornata nel Paese e la magistratura sarà dura nell’affrontare e punire presto i rivoltosi

Gholamhossein Esmaili, portavoce della magistratura di Teheran

Secondo il portavoce della magistratura di Teheran, Gholamhossein Esmaili, un «gran numero» di persone, ritenute responsabili di «sabotaggi e disordini» durante le proteste, è stato identificato e verrà arrestato. Esmaili ha aggiunto che tra i ricercati ci sono anche persone accusate di aver inviato video delle manifestazioni a media stranieri. «La calma è tornata nel Paese e la magistratura sarà dura nell’affrontare e punire presto i rivoltosi», ha assicurato il portavoce, invitando la popolazione a fornire informazioni utili a trovare i sospetti.

L’AGENZIA FARS: «UCCISI TRE MEMBRI DELLE FORZE DI SICUREZZA»

Nella notte del 19 novembre, almeno tre membri delle forze di sicurezza iraniane sono stati accoltellati a morte da un gruppo di “rivoltosi” a Ovest della capitale Teheran, secondo l’agenzia Fars, vicina ai Pasdaran. Si tratta di un membro delle Guardie della rivoluzione islamica e di due esponenti delle milizie volontarie Basij. Sale così ad almeno quattro il numero degli agenti di sicurezza uccisi dall’inizio delle manifestazioni in decine di città, il 15 novembre. I manifestanti uccisi sarebbero invece almeno 12, ma secondo informazioni non verificabili di gruppi di attivisti il bilancio effettivo di vittime sarebbe di oltre 40.

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