Secondo l’Abi le banche hanno ridotto i crediti deteriorati del 60% in 4 anni

L'associazione presieduta da Patuelli stima che il totale dei Non performing loans (Npl) alla fine dell'anno sarà sotto gli 80 miliardi, contro gli 84 di giugno e i 197 miliardi di fine 2015.

L‘associazione bancaria italiana ha stimato una riduzione dei crediti deteriorati in pancia alle banche italiane pari al 60% in quattro anni. Secondo la stima dell‘Abi, emersa durante la conference call sul rapporto stilato con Cerved sulla riduzione del tasso di deterioramento del
credito delle imprese, il totale dei Non performing loans (Npl) alla fine dell’anno sarà sotto gli 80 miliardi, contro gli 84 di giugno e i 197 miliardi
di fine 2015. Il processo, è stato spiegato, «è stato favorito dalle operazioni di cessione e dal calo dei flussi di nuovi crediti deteriorati».

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I testimonial delle banche sanno cosa pubblicizzano?

Tanti personaggi di cultura, spettacolo e sport sono chiamati a fare spot per brand o prodotti finanziari. Senza pensare agli effetti della cattiva reputazione di alcuni istituti di credito coinvolti in scandali e default. Questione di etica, troppo spesso trascurata.

Mi sono sempre chiesto, guardando gli spot pubblicitari di banche e società finanziarie, quanto e cosa sapessero di quell’azienda o di quel prodotto i personaggi del mondo della cultura, informazione, spettacolo e sport chiamati a fare i testimonial. Probabilmente nulla. Come la maggior degli italiani, tra l’altro, che in termini di informazione e cultura finanziaria sono tra i meno preparati rispetto ai cittadini dell’Unione europea e in generale di altri Paesi avanzati.

SPESSO AVVIENE UNA SIMBIOSI TRA BRAND E PERSONAGGIO

Una cosa è certa: il testimonial viene scelto per rappresentare un brand. Il marchio, a cui si associa il personaggio-persona fisica che lo pubblicizza, deve rispecchiarsi nel testimonial e viceversa. Si assiste, molto spesso, a una simbiosi tra brand e persona. Talmente forte che i contratti che di solito regolano questo tipo di pubblicità possono prevedere clausole e obblighi comportamentali che devono essere rispettati dal testimonial anche nella vita privata. Perché il personaggio famoso ha delle responsabilità ben precise che riguardano anche la vita privata, nei confronti dei suoi fan e del brand che pubblicizza.

NEI CONTRATTI CI SONO PURE CLAUSOLE MORALI

All’interno dei contratti ci sono molto spesso anche le cosiddette clausole morali. In altri termini la celebrity ha l’obbligo, per esempio, di mantenere nella vita privata comportamenti eticamente corretti oppure di non rilasciare dichiarazioni che in un certo qual modo possano incidere negativamente sulla reputazione dell’azienda.

I TESTIMONIAL SI TUTELANO DALLA BAD REPUTATION DI UNA BANCA?

Ma, in termini di responsabilità, è garantita la reciprocità? Cioè i vip si sono mai preoccupati di tutelarsi dai rischi derivanti dalla bad reputation del brand bancario o del prodotto finanziario? Sono convinto che il simpaticissimo Nino Frassica non sia assolutamente consapevole del fatto che, pubblicizzando una carta di credito revolving (carta Easy di Compass) stia spingendo i cittadini ignari verso un certo tipo di prodotto (tasso medio circa 16%; soglia usura del 24%) e in una spirale di pagamenti imposti prima di poter sancire la chiusura del debito.

PROPAGANDA CHE ARRIVA ANCHE DALL’INFORMAZIONE

Non solo, ma nei miei 22 anni di permanenza in quel sistema mi sono spesso imbattuto in famosi e gloriosi personaggi del mondo dell’informazione che partecipavano, retribuiti profumatamente, a convention aziendali dove si magnificavano i comportamenti virtuosi del management (di banche poi coinvolte in scandali e default). Ho ascoltato peana che la propaganda della Romania di Ceausescu al confronto sembrava ridicola.

NON BASTA L’ONESTÀ, SERVE ANCHE L’ETICA

Quello che stona, però, è che poi molti personaggi spesso vanno in televisione a fare i moralizzatori del sistema-Paese nel rispetto di una etica dei comportamenti che riguarda però… sempre gli altri. Etica, che parolone. E soprattutto che abuso improprio nel nostro Paese. Spesso confusa con il concetto di onestà. Senza voler scomodare filosofi e sacre scritture, forse è il caso di ricordare semplicisticamente che una persona onesta è «quella che non ruba» mentre una persona orientata a vivere secondo principi etici è «quella che non solo non ruba, ma che se vede un altro rubare lo denuncia». Intendendo come denuncia anche la capacità di dire no a un’agenzia pubblicitaria.

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Di Maio dice che Lannutti non guiderà la commissione banche

Luigi Di Maio ha confermato che il senatore grillino ha deciso di fare un «passo di lato» rinunciando alla presidenza. In pole per sostituirlo Maniero e Ruocco.

«Oggi ho incontrato il senatore Elio Lannutti e mi ha detto che non voleva essere un alibi per non far partire la commissione Banche, per questo ha deciso di fare un passo di lato». L’annuncio è arrivato dal ministro degli Esteri, e leader del M5s, Luigi Di Maio, ospite della puntata di Porta a porta. La nomina del senatore grillino aveva fatto scoppiare diverse polemiche. Da un lato c’era chi lo attaccava per vecchi post antisemiti, dall’altro chi evidenziava come il figlio fosse un dipendente della Banca popolare di Bari, salvata recentemente da un intervento del governo.

IN TESTA RUOCCO E MANIERO

Di Maio ha poi ribadito che «la presidenza della commissione spetta al M5s», e che per il dopo Lannutti c’erano in lizza per la presidenza «Alvise Maniero e Carla Ruocco». In generale il ministro ha confermato che presto ci sarà una svolta: «Nei prossimi giorni», ha spiegato, «individueremo un nome l’importante è che la Commissione parta».

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Tutti i guai di Lannutti, il candidato grillino alla commissione banche

I post antisemiti e complottisti, il figlio assunto alla Popolare di Bari: perché Lannutti è diventato un impresentabile per la commissione banche.

Come la volpe e l’uva, adesso che il suo nome è di fatto impresentabile, dice che lui alla Commissione banche nemmeno ci voleva andare. E però è stato solo il 17 dicembre quando è emerso che il figlio era stato assunto dalla popolare di Bari, che Elio Lannutti, il senatore M5s paladino dei consumatori divenuto noto per post antisemiti e complottisti, ha spiegato che non ambiva all’incarico. Ma, contemporaneamente, che non ha nessuna intenzione di farsi da parte.

LEGGI ANCHE: Chi è Lannutti, il senatore dei post sui savi di Sion

«FACEVO IL TIFO PER PARAGONE»

«Alla commissione banche io non mi volevo neppure candidare: me lo hanno chiesto, io facevo il tifo per Paragone! Ma poi, con le procedure del M5S, mi hanno scelto. Dunque io sono il candidato del M5S e confermo che non farò nessun passo indietro», ha dichiarato spiegando che «chi spacca non sono io ma chi non voterà la mia persona».

Il senatore Elio Lannutti durante un dibattito parlmentare a Palazzo Madama. ANSA/ANGELO CARCONI

DI PIETRO A FARGLI DA AVVOCATO

«Non mi ritiro dalla corsa alla presidenza della commissione banche. Fin quando non mi chiederanno di lasciare io sono il candidato», ha ribadito Lannutti, dopo la notizia che suo figlio Alessio lavora alla Banca Popolare di Bari. «Io non ho mai voluto denunciare nessun collega, ma ora ho affidato la tutela del mio onore ad Antonio Di Pietro e ad Antonio Tanza, presidente dell’Adusbef», ha spiegato. «Cosa significa che mio figlio lavora in banca? Dov’è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!», ha detto dopo aver incontrato a Roma sia il fondatore del Movimento Cinque stelle Beppe Grillo che l’ex leader di Italia dei valori Antonio Di Pietro.

Antonio Di Pietro e Elio Lannutti escono dall’hotel Forum, dopo aver incontrato Beppe Grillo, Roma 17 dicembre 2019. ANSA / ALESSANDRO DI MEO

«QUESTA È MACCHINA DEL FANGO»

Questa si chiama macchina del fango, Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato”. Lei si deve occupare di banche quando suo figlio lavora alla Popolare di Bari: non c’è conflitto di interessi? “Ma lui lavora come impiegato”. Lei potrebbe avere un occhio di favore nei confronti della popolare di Bari anche per il fatto che suo figlio lavora come impiegato. “E dov’è il conflitto di interessi? Non esiste, è l’ennesima macchina del fango. Con grande rammarico ma ora ci saranno denunce penali e civili nei confronti di colleghi per questa campagna diffamatoria»”, conclude

MORANI: «SI RITIRI E CI TOLGA DALL’IMBARAZZO»

Contro la sua candidatura si erano espressi sia esponenti di ItaliaViva come Luigi Marattin che del Partito democratico Alessia Morani. «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo», ha dichiarato pubblicamente l’esponente dem.

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Le vere cause della bancarotta della Popolare di Bari

Parlare di «fallimento della logica di mercato» è un controsenso: il crack è arrivato, come sempre, per colpa di chi ha agito al di fuori delle regole della compravendita. E di chi gli ha permesso di farlo.

Da Taranto a Bari ci sono meno di 90 chilometri. Due città colpite duramente da vicende economiche rilevanti: la crisi Ilva, con annessa questione spegnimento altiforni da parte di ArcelorMittal e Banca Popolare di Bari di cui Bankitalia ha dovuto avviare (l’ennesimo) commissariamento.

IL PROBLEMA NON È IL MERCATO

Il commento che si sente più spesso fare, quando assistiamo a una bancarotta, è che si tratta di un «fallimento della logica di mercato». Un ragionamento che parla direttamente ad un ventre ferito, lacerato da una ferita fresca che reclama una cura, ma si tratta di un ragionamento che è un vero controsenso. La logica di mercato è tale proprio perché prevede che le cose che non funzionano falliscano. «Follow the money» si ripete più volte nel film Tutti gli uomini del presidente, che racconta – tra l’altro – il mestiere del giornalismo investigativo, un processo lungo e noioso pieno di vicoli ciechi e compiti monotoni, ma che risulta necessario per non delegare ai lettori l’intero percorso.

UNA CRISI CHE ARRIVA DA LONTANO

La situazione della Banca Popolare di Bari era critica da molto tempo, almeno dal 2010 quando iniziarono a girare insistenti voci sull’utilizzo delle sue risorse; non era buona nemmeno quando lo Stato le chiese di intervenire in “salvataggio” di Banca Tercas (Cassa di Teramo), la quale – va ricordato – fu fatta acquisire dalla Pop Bari quando era già in amministrazione controllata, ma nonostante il regime di commissariamento era riuscita comunque a generare esigenze di bilancio.

IL VALORE DELLE AZIONI DETERMINATO DALLA BANCA STESSA

Esigenze che la Popolare di Bari ha “risolto” come molte altre volte (e come molte altre banche: Pop Bari è infatti la dodicesima banca italiana che salta dal 2015), facendosi sottoscrivere nuove azioni da correntisti ignari o con operazioni “baciate” (sottoscrizione di azioni in contropartita a finanziamenti offerti dalla banca stessa), tutte pratiche realizzabili solo “grazie” al fatto che le azioni della banca non sono quotate, non hanno un prezzo di mercato e ai correntisti veniva così comunicato il “valore” delle azioni determinato dalla banca stessa. Esattamente come fecero le banche Venete a loro tempo.

LO SCHEMA RICORRE DI BANCA IN BANCA

A conferma di ciò, il caso Banca Etruria è emblematico: visto che la banca era quotata, invece di raccogliere sottoscrittori sulle azioni, venivano emesse obbligazioni non quotate e fatte sottoscrivere agli ignari clienti della banca stessa. Lo schema è ricorrente: l’abuso verso i correntisti si è perpetrato sempre e solo attraverso gli strumenti non di mercato. Quando Pop Bari ha usato strumenti di mercato, emettendo prestiti obbligazionari subordinati, si sono trovati sottoscrittori di dubbia identità come veicoli di diritto maltese della cui consistenza patrimoniale nulla si sa.

INACCETTABILE L’INDIGNAZIONE DELLA POLITICA

È normale che il comune cittadino “scopra” ora, con l’annuncio del decreto da parte del governo, che la Banca Popolare di Bari entri a far parte dell’elenco delle banche fallite, molto meno normale (anzi inaccettabile) che i protagonisti della politica facciano i consueti proclami e “J’accuse”. Sono tanti e di vario colore i governi che abbiamo avuto dal 2010, nessuno ha mai voluto fare qualcosa sulle banche che sono poi fallite.

LO SCARICABARILE DI CHI GOVERNA

Ogni governo spera che il cerino rimanga in mano a qualcun altro (il che offre anche l’opportunità di denunciare, dall’opposizione, lo scandalo), ma questo accade perché il consenso popolare premia questi comportamenti. La Banca Popolare di Bari è stata esentata dall’adeguarsi alle regole imposte per le Popolari, che le obbligava a trasformarsi in SpA. La bancarotta della banca pugliese, come quella delle banche venete, non è il fallimento della logica di mercato, ma il fallimento di chi ha agito al di fuori del perimetro delle regole di mercato. E l’ha fatto perché gli è stato permesso di farlo.

LE SOLUZIONI NON RISOLVONO MAI LE CAUSE

Ancora oggi, alla dodicesima banca dell’elenco, la soluzione che viene proposta è un misto di statalismo, interventismo, idee come la creazione di una banca d’investimenti pubblica per il Sud, tutto ignorando deliberatamente che l’efficacia delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno si è dimostrata nulla, se non addirittura negativa, trascurando che il caso di Tercas ci ha già insegnato che una banca commissariata può continuare ad allargare il buco che si è scavata. Invochiamo l’intervento di uno Stato risolutore, come se gli organismi pubblici di vigilanza fossero al di sopra di ogni dubbio.

NON LASCIARE AL MANAGEMENT LA POSSIBILITÀ DI AGIRE FUORI DAL MERCATO

Quella che emerge, in questa vicenda, è l’ennesima richiesta di un risolutore che si faccia carico dei problemi e li possa sgarbugliare. Ma ciò che ha permesso il realizzarsi di questo ennesimo caso che coinvolge correntisti, risparmiatori, dipendenti e contribuenti, è la facoltà data al management di agire al di fuori della disciplina di mercato. La confusione che viene alimentata è fra le vicende delle persone coinvolte e le regole di sistema: dietro l’intento nobile di voler proteggere le persone dagli eventi, si nasconde la mancata assunzione di responsabilità, e promettere come soluzione l’intervento pubblico per sterilizzare gli effetti della logica di mercato è, nella migliore delle ipotesi, l’errore del medico clemente che – nella vecchia massima – fa la piaga purulenta.

LE LEZIONI DELLA STORIA E LE RESPONSABILITÀ DEI SINGOLI

La Storia ci ha già insegnato che quando un lato del mondo aspettava da Mosca l’indicazione di quanto grano seminare perché tutte le informazioni e le decisioni erano accentrate, un’altra parte del mondo consentiva ad ognuno di provare a fare ciò che riteneva, assumendosene benefici e rischi. Uno dei due sistemi ha dovuto cedere il passo all’altro, riconoscendogli maggiore efficienza, riconoscendogli il ruolo di miglior generatore e distributore di prosperità. Ragionare di quale sistema sia migliore su base aggregata è diverso dal discutere degli alti e bassi del destino di singoli individui, ma un’offerta politica sana e affidabile si occuperebbe di presentare proposte per generare e distribuire prosperità e benessere, cercando – con i dovuti ammortizzatori – di tutelare le persone che vivono delle difficoltà, anziché sfruculiarle per cavare consenso dai loro drammi personali.

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Il piano del governo per salvare la Banca Popolare di Bari

Un miliardo di fondi dallo Stato tramite Invitalia e la creazione di un polo creditizio tra banche popolari del Sud. Alle 21 il cdm.

Il salvataggio della Popolare di Bari sarà l’occasione per la creazione di un polo creditizio tra alcune banche popolari, una ‘Banca del Sud’ in grado di fare massa per il rilancio dell’economia meridionale. Il decreto messo a punto dal governo prevede l’attribuzione di fondi fino ad un miliardo ad Invitalia, che li girerà alla sua controllata Mediocredito Centrale attraverso un aumento di capitale. Sarà quest’ultima, poi, ad entrare nel capitale della Popolare di Bari: un ingresso azionario che sarà affiancato dal ricorso allo strumento ‘privato’ messo in campo dal sistema bancario, cioè dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd).

IL BRACCIO OPERATIVO DI INVITALIA

Il provvedimento d’urgenza predisposto dal ministero dell’Economia non parla e non cita mai la Popolare di Bari, anche se è chiaro che è stato proprio il precipitare degli eventi, con il commissariamento dell’istituto, a spingere i ministri a riunirsi di domenica. L’impegno economico è diretto a Invitalia, controllata al 100% dal ministero dell’Economia, che sempre di più si trasforma nel braccio operativo pubblico della politica economica e industriale del Paese, una sorta di nuova Iri.

Nell’infografica realizzata da Centimetri la scheda della Banca popolare di Bari. ANSA/CENTIMETRI

Il disegno tracciato punta al sostegno del sistema del credito del Sud, che richiede la presenza di intermediari focalizzati sul territorio in grado di aiutare le famiglie e favorire la crescita delle imprese meridionali. Le risorse previste, per ora, arrivano ad un miliardo, cioè all’importo che è stato identificato come quello necessario per ricapitalizzare la Popolare di Bari e garantire la liquidità dell’istituto. Ma non è escluso che possa servire meno. Molto dipende dalle esigenze che emergeranno dalle verifiche che stanno compiendo i commissari e dall’intervento del Fitd, che riunirà il comitato di gestione il 18 dicembre e il consiglio il 20 dicembre, mercoledì e venerdì.

L’OPERAZIONE SULLO STAMPO DI CARIGE

Al momento l’ipotesi economica punta su intervento del Fondo Interbancario da 500 milioni, al quale si affianca l’apporto dello stesso peso del Mediocredito centrale. Per questo già lunedì un Cda di Invitalia potrebbe ‘girare’ alla sua controllata Mediocredito i primi 500 milioni, attraverso un aumento di capitale e questo a sua volta acquistare le azioni – a 2,38 euro nell’ultima quotazione – della Popolare di Bari. L’operazione segue la falsa riga di quella Carige e trova precedenti anche in Germania e Francia, tanto da non temere rilievi dell’Ue. E punta ad aggregare anche altri intermediari. Si guarda per questo alla partecipazione di altre banche popolari del Sud per realizzare un polo creditizio meridionale che raggiunga una massa tale da diventare un volano per la crescita del Mezzogiorno.

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Perché il Mes rischia di mandare l’Italia in Serie B

La riforma del fondo salva-Stati crea un'Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell'Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull'unione bancaria. I no degli esperti.

Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE

Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».

L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA

La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Draghi
Il tedesco Klaus Regling, a capo del Mes, nel 2014 con l’allora capo della Bce, Mario Draghi. (Getty).

PIÙ VULNERABILI AI MERCATI

Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.

CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI

Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».

I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES

Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.

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Christine Lagarde, nuova presidente della Bce, con il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. (Getty).

CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA

Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».

Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes


Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche

I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP

Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-in obbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».

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La Popolare di Bari punta a un piano per il salvataggio prima di Natale

Proseguono incontri e contatti con investitori istituzionali.

Un piano di salvataggio prima di Natale. È questo l’obiettivo della Banca popolare di Bari, che per raddrizzare la propria situazione patrimoniale – le perdite del primo trimestre 2019 ammontano a 73 milioni di euro – ha chiesto aiuto al Fondo interbancario di tutela dei depositi, cui si dovrebbe affiancare la controllata statale Mediocredito centrale nell’ambito di un intervento che potrebbe valere circa un miliardo di euro.

DUE SETTIMANE DECISIVE

Il gruppo pugliese ha confermato che il programma di incontri e contatti con investitori istituzionali, finalizzato al rafforzamento patrimoniale, «prosegue intensamente». Si punta quindi a pervenire «entro le prossime due settimane all’approvazione di un piano industriale e patrimoniale concordato tra le parti».

LE POSSIBILI AGGREGAZIONI

Al salvataggio potranno contribuire anche gli incentivi fiscali per le aggregazioni societarie tra imprese del Sud, introdotti con il decreto crescita ma che necessitano di provvedimenti attuativi. La banca auspica quindi che la definizione operativa degli incentivi «possa avvenire a breve, nel rispetto delle normative comunitarie». Alla Popolare di Bari risanata potrebbero aggregarsi la Popolare di Puglia e di Basilicata e la Banca popolare pugliese, ma anche la Banca Regionale di Sviluppo, la Banca del Sud e la Popolare Vesuviana.

DISCONTINUITÀ E RINNOVAMENTO

L’istituto afferma inoltre di aver avviato, a partire da agosto 2019, un «processo di discontinuità e di profondo rinnovamento», che avrebbe posto le basi per «la stabilizzazione dei requisiti patrimoniali e il rilancio della redditività operativa». Un percorso che viene definito «importante per l’intera economia del Mezzogiorno e quindi per l’intero sistema-Paese». Ma ancora non è chiaro quale sarà il prezzo del salvataggio per gli azionisti e per i titolari di obbligazioni.

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La Popolare di Bari punta a un piano per il salvataggio prima di Natale

Proseguono incontri e contatti con investitori istituzionali.

Un piano di salvataggio prima di Natale. È questo l’obiettivo della Banca popolare di Bari, che per raddrizzare la propria situazione patrimoniale – le perdite del primo trimestre 2019 ammontano a 73 milioni di euro – ha chiesto aiuto al Fondo interbancario di tutela dei depositi, cui si dovrebbe affiancare la controllata statale Mediocredito centrale nell’ambito di un intervento che potrebbe valere circa un miliardo di euro.

DUE SETTIMANE DECISIVE

Il gruppo pugliese ha confermato che il programma di incontri e contatti con investitori istituzionali, finalizzato al rafforzamento patrimoniale, «prosegue intensamente». Si punta quindi a pervenire «entro le prossime due settimane all’approvazione di un piano industriale e patrimoniale concordato tra le parti».

LE POSSIBILI AGGREGAZIONI

Al salvataggio potranno contribuire anche gli incentivi fiscali per le aggregazioni societarie tra imprese del Sud, introdotti con il decreto crescita ma che necessitano di provvedimenti attuativi. La banca auspica quindi che la definizione operativa degli incentivi «possa avvenire a breve, nel rispetto delle normative comunitarie». Alla Popolare di Bari risanata potrebbero aggregarsi la Popolare di Puglia e di Basilicata e la Banca popolare pugliese, ma anche la Banca Regionale di Sviluppo, la Banca del Sud e la Popolare Vesuviana.

DISCONTINUITÀ E RINNOVAMENTO

L’istituto afferma inoltre di aver avviato, a partire da agosto 2019, un «processo di discontinuità e di profondo rinnovamento», che avrebbe posto le basi per «la stabilizzazione dei requisiti patrimoniali e il rilancio della redditività operativa». Un percorso che viene definito «importante per l’intera economia del Mezzogiorno e quindi per l’intero sistema-Paese». Ma ancora non è chiaro quale sarà il prezzo del salvataggio per gli azionisti e per i titolari di obbligazioni.

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Banche tradizionali, il vostro tempo è ormai giunto al termine

Gli istituti di credito classici ascoltano più il loro management che i clienti. Così le nuove realtà fin-tech stanno guadagnando terreno conquistando la fiducia dei risparmiatori.

Le banche hanno perso il loro capitale di fiducia ma continuano a immaginare (basta guardare gli spot pubblicitari) «un mondo che non c’è» basato sui residui deliri di onnipotenza o, peggio ancora, su incompetenze e scarsa visione strategica.

Secondo il Barometro della fiducia di Edelman, la più grande società di consulenza in comunicazione e relazioni pubbliche a livello globale, la fiducia negli istituti finanziari è la più bassa registrata se paragonata ai livelli di fiducia di tutti gli altri settori di business.

Tuttavia, secondo una ricerca, fornitaci in anteprima, condotta da Trustpilot, la piattaforma di recensioni più influente al mondo, il settore del fin-tech costituisce un’eccezione. Più del 40% degli intervistati, infatti, ritiene che le aziende di questa branca del settore finanziario siano «altamente affidabili». Il motivo è semplice: queste attività nate in tempi più recenti non si portano dietro lo stesso pesante bagaglio delle aziende finanziarie tradizionali.

L’ASCOLTO DEL CLIENTE, LA COSA PIÙ IMPORTANTE

La sfida per queste giovani aziende è, dunque, quella di mantenere e rafforzare la fiducia dei clienti. E per questo la riprova sociale è per loro un fattore essenziale. Ma esiste un altro fattore determinante per queste start-up e scale-up: ascoltano il cliente. L’importanza dell’esperienza del cliente è tale da pesare più dell’innovazione agli occhi dei manager di aziende fin-tech.

Per un cliente di una banca sembra che non sia più importante esibire il libretto di assegni di Unicredit o di Deutsche Bank per accreditarsi con gli stakeholders

Secondo un sondaggio effettuato dalla società di ricerca e consulenza London Research, quasi la metà di esse (il 46%) è, infatti, dell’idea che ciò che realmente fa la differenza per il proprio business sia la qualità dell’esperienza del cliente, rispetto al 38% che ritiene «il prodotto/l’innovazione» il fattore più importante, solitamente visto come la stessa ragion d’essere di una startup.

L’esperienza del cliente è, inoltre, ritenuta significativamente più importante della notorietà del brand (7%), della reputazione online (5%) e del prezzo (4%). Per un cliente di una banca sembra quindi che non sia più importante, così come avveniva nel secolo scorso, esibire il libretto di assegni di Unicredit o di Deutsche Bank per accreditarsi agli occhi dei propri stakeholders, in primis i fornitori.

SUPERARE LE BANCHE TRADIZIONALI OFFRENDO SERVIZI NUOVI

Eppure i ragionamenti che fanno i giovani manager delle fin-tech sono di una linearità logica che accentuano ancor di piu l’arretratezza e l’obsolescenza del management delle banche tradizionali. Non sono sicuramente filantropi ma hanno capito che le start-up e le scale-up necessitano di trarre profitto dalla qualità dell’esperienza del cliente per ragioni di marketing. E da cio che dice effettivamente il cliente e non ciò che, nelle indagini di customer satisfaction delle banche tradizionali, gli si fa dire.

Sembra che la rassicurazione più efficace per i consumatori sia quella data dalle recensioni positive e dai punteggi alti lasciati dai clienti

La ricerca mostra, infatti, che più di un terzo delle aziende che hanno partecipato al sondaggio (35%) reputa le recensioni positive «fondamentali» perché un cliente potenziale si trasformi in un cliente effettivo e il 47% le ritiene «importanti». Non fanno altro che trarre buon uso dell’insoddisfazione del cliente legata ai metodi tradizionali di operare delle banche “classiche”, usandola come opportunità per mettere in buona luce la propria attività.

Nonostante le aziende fin-tech possano sempre evidenziare il fatto di operare in un settore altamente regolato, sembra che la rassicurazione più efficace per i consumatori sia quella data dalle recensioni positive e dai punteggi alti lasciati dai clienti che già si affidano a loro. Nel frattempo, dopo Facebook con la sua moneta (Libra), dal 2020 Google offrirà anche il suo conto corrente chiamato Cache. I mostri stanno arrivando e, citando simpaticamente Pippo Baudo, «io lo avevo detto cinque anni fa» (Io so e ho le prove – Chiarelettere, ottobre 2014) e qualche illustre professore di finanza (e anche qualche illustre giornalista) arricciava il naso disgustato da tanto catastrofismo.

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La banche minacciano di non comprare più Btp se cambiano le regole del Mes

Il presidente dell'Abi, Antonio Patuelli, avverte il governo sulle modifiche fondo salva-Stati europeo.

Le banche italiane sono pronte alla “rivolta” se le regole del Mes, il fondo salva-Stati europeo, dovessero cambiare.

Il presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi), Antonio Patuelli, non ha usato mezzi termini: «Noi siamo liberi di comprare titoli sovrani, non abbiamo un vincolo di portafoglio e in questa fase abbiamo circa 400 miliardi di debito pubblico italiano».

Il problema è che «cosa fa la Repubblica per tutelare il debito pubblico, non si tratta di debito delle banche. Se le condizioni relative al debito pubblico si alterano, o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscono sinistri, è chiaro che le banche sottoscriveranno meno debito pubblico, non compreremo più» Btp.

All’approvazione definitiva della riforma del Mes manca ancora una riunione dei capi di governo europei fissata a dicembre, poi toccherà al parlamento portare avanti il processo di ratifica. Alcuni Paesi nordici dell’area euro hanno chiesto con insistenza di modificare le cosiddette clausole di azione collettiva (Cac), che definiscono le procedure in caso di ristrutturazione di un debito sovrano dell’area euro.

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Banche, per chi suona il valzer delle fusioni

Occhi puntati sul mondo delle Popolari. Per adesso di nozze tra BancoBpm e Ubi, a parte aperture a mezzo stampa, non se ne parla. Più probabile un matrimonio della seconda con Bper. Mentre i dipendenti di Credito Valtellinese si aspettano una mossa da Crédit Agricole.

Chi sarà ad aprire le danze del risiko bancario nel 2020? È la domanda che circola nelle sale operative dove per ora i broker si accontentano di scommettere su fusioni di piccolo-medio taglio. Sotto ai riflettori sono in particolare le mosse di quel mondo Popolare che deve trovare un nuovo centro di gravità permanente magari dando vita al terzo polo del credito in Italia. Per adesso di nozze tra il BancoBpm e Ubi, a parte aperture a mezzo stampa tese più a vedere l’effetto prodotto che ad avviare negoziati concreti, non se ne parla. Più probabile sembra, invece, un matrimonio tra Bper e Ubi con a fare da sensale la Unipol (primo azionista della Popolare emiliana) di Carlo Cimbri. In generale, ha detto l’ad del gruppo assicurativo di via Stalingrado lo scorso 8 novembre, «non potremo che favorire strutture più grandi, più solide e più performanti di quelli attuali». 

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ATTESA AL CREDITO VALTELLINESE

Nel frattempo, però qualcosa potrebbe muoversi anche lungo la strada tra l’Emilia-Romagna e l’alta Lombardia. Nelle filiali del Credito Valtellinese, infatti, i dipendenti sono sempre più convinti che la loro banca finirà prima poi nella rete dei francesi del Crédit Agricole che hanno già la Cariparma. E che del Creval sono già azionisti con una quota del 5% oltrechè partner bancassicurativi. Da Parigi hanno sempre smentito («potremmo salire leggermente, fino a poco meno del 10%», perché l’obiettivo è «la partnership, non il controllo», aveva detto un anno fa il Ceo dell’Agricole, Philippe Brassac) ma il vento potrebbe essere cambiato. 

MANDARINI PER BAZOLI

Per Giovanni Bazoli la Cina è più vicina. Il 12 novembre, in qualità di presidente della Fondazione culturale Cini, il banchiere bresciano ha accolto a Venezia il finanziere cinese Eric Li, fondatore e managing partner di Chengwei Capital e amministratore fiduciario del China Institute della Fudan University. Li è uno dei nuovi Amici di San Giorgio, la “creatura” della Cini che raccoglie soggetti disposti a investire nel suo funzionamento con un impegno triennale e rinnovabile, di 100 mila euro annui. Ad accompagnare Li da Bazoli è stato un amico di vecchia data di entrambi ovvero l’ex premier Romano Prodi, che con la Cina ha da sempre rapporti consolidati e che è anche presidente onorario del Taihu World Cultural Forum, il consesso internazionale legato proprio allo sviluppo dei temi culturali lanciato da qualche anno dalla Cini. Il nuovo sponsor orientale può di certo dare sostegno alla Fondazione che già può contare sui contributi di soggetti privati istituzionali, come Intesa Sanpaolo, Cariplo e Generali. Ed Eni.

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Banche, in 10 anni il numero di sportelli in Italia si è ridotto del 20%

Su scala europea la diminuzione sale fino al 27%. E non mancano gli effetti sull'occupazione. Nel nostro Paese il numero di addetti si è ridotto del 6,7%.

Tra il 2008 e il 2018 il sistema bancario europeo è “dimagrito” di circa un quarto: le filiali si sono ridotte del 27% (65 mila unità in meno). L’Italia non ha fatto eccezione: in un decennio il numero di sportelli bancari è diminuito di circa il 20%. È quanto è emerso dal nuovo numero dell’Osservatorio monetario, curato dal laboratorio di analisi monetaria dell’università Cattolica e diretto da Angelo Baglioni, docente di Economia monetaria nella facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative.

IL NUMERO DI ADDETTI RIDOTTO DEL 6,7% IN TALIA

Questa “cura dimagrante” non poteva non avere effetto sull’occupazione. Guardando al settore finanziario nel suo complesso (che comprende banche, assicurazioni e attività ausiliarie) il numero di addetti si è ridotto del 5,2% in Europa e del 6,7% in Italia. Se all’inizio del decennio la causa principale di questo ridimensionamento poteva essere individuata nella crisi finanziaria esplosa nel 2007-2008, che ha imposto una drastica ristrutturazione del settore alla ricerca di un taglio dei costi, negli anni più recenti il fenomeno va ricondotto prevalentemente ai mutamenti tecnologici in atto, che rendono obsoleta la rete di filiali tradizionali. L’accesso ai servizi finanziari avviene sempre di più tramite i canali digitali, rendendo così sempre meno necessario disporre di una capillare rete di sportelli al dettaglio.

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Anche la finanza può venire travolta dal climate change

Uno studio dimostra che i cambiamenti climatici influiscono negativamente sui bilanci delle istituzioni finanziarie, a partire dalle banche. Che spesso non calcolano correttamente i rischi correlati agli investimenti che fanno.

Avete mai chiesto, e ne avreste diritto, alla vostra banca: «Ma a chi presti i miei risparmi? Dove vanno a finire i soldi che io deposito presso di te?».

Provate a farla perché se il vostro istituto di credito finanzia aziende che svolgono attività inquinanti potrebbero essere a rischio i vostri risparmi.

Lo tsunami che si sta abbattendo sul mondo della finanza è molto meno metaforico di quel che si pensa.

L’ALLARME DI NATURE CLIMATE CHANGE

Secondo uno studio pubblicato su Nature climate change da quattro ricercatori italiani che lavorano presso il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), l’Rff-Cmcc european institute on economics, la Scuola superiore sant’Anna, l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano, il rischio climatico influisce negativamente sui bilanci delle istituzioni finanziarie e, pertanto, può essere rilevante per la stabilità finanziaria, in particolare se il mondo della finanza non calcola correttamente i rischi correlati.

I danni alle infrastrutture causati da eventi catastrofici come frane e alluvioni e il calo di produttività delle imprese potrebbero far impennare i fallimenti delle banche

In altri termini i cambiamenti climatici rischiano di minare la stabilità del sistema finanziario su scala globale. Vi starete chiedendo: ma in che modo i rischi fisici di catastrofi ambientali da economici, sociali e poi geopolitici possono diventare finanziari? Partiamo dalla base: le imprese devono ripensare il loro modo di fare business e orientare le loro azioni verso un’economia a basse emissioni di gas (in particolare il carbonio) che sono estremamente dannosi per l’intero ecosistema.

Ma ciò risulta una sfida tutt’altro che semplice perché richiede investimenti che il sistema finanziario, per la crisi strutturale che attraversa e per la cecità del proprio management, non è in grado di sostenere. Di conseguenza i danni alle infrastrutture causati da eventi catastrofici come frane e alluvioni e il calo di produttività delle imprese potrebbero far impennare i fallimenti delle banche (da +26% fino a +248%), mentre il salvataggio di quelle insolventi costerebbe ai governi circa il 5-15% del Pil all’anno, con un’esplosione del debito pubblico che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100.

TRA LE BANCHE ITALIANE QUASI NESSUNO VALUTA IL RISCHIO AMBIENTALE

Ma cosa stanno facendo le banche, soprattutto del nostro Paese, per salvaguardarsi da un rischio di perdite che tra qualche decennio possono diventare non assicurabili? Quali strategie (!!!) stanno producendo per ridurre l’esposizione nei confronti delle imprese ad alta intensità di carbonio? Nulla o quasi. In base alla mia esperienza diretta sul mercato italiano, al momento nel nostro Paese una sola banca, tralaltro di piccole dimensioni (Banca popolare etica), sta investendo in tal senso concretamente e non con protocolli ed elaborazioni di mission che servono solo a garantire una reputazione di facciata.

Le visioni strategiche delle banche solo concentrate sul breve periodo, all’insegna del “vediamo di tirare avanti ancora un po’”

In questa banca, per esempio, la valutazione del rischio creditizio nei confronti delle imprese e dei privati è effettuata anche da «valutatori sociali», che verificano tralaltro l’impatto ambientale del processo produttivo o commerciale dell’impresa nonché il rischio collegato all’erogazione di un mutuo per l’acquisto di un immobile in aree vulnerabili a inondazioni, incendi o uragani. Per il resto, visioni strategiche solo concentrate sul breve periodo, all’insegna del “vediamo di tirare avanti ancora un po’” .

E i regolatori finanziari, oltre alle necessarie analisi e studi effettuati al riguardo, che ruolo stanno avendo per sollecitare, se non imporre, strategie di mitigazione di tali rischi e adattamento veloce ad un contesto davvero preoccupante? Perché non obbligare (non suggerire) le banche ad adottare sistemi di credit rating che tengano conto di una valutazione ambientale di chi richiede un finanziamento? Forse solo perché, in tal modo, la loro fine sarebbe solo anticipata.

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