Yemen, 8 mila civili uccisi dalle bombe fabbricate (anche) in Italia

Il dato, reso noto da Oxfam, si riferisce agli ultimi quattro anni. Tra i principali fornitori di armi, anche Usa, Francia e Gran Bretagna.

Il conflitto regionale in Yemen ha causato in più di quattro anni circa 100 mila vittime, di cui 20 mila solo quest’anno. Lo ha denunciato il 28 novembre Oxfam, organizzazione umanitaria internazionale che da decenni lavora nel martoriato Paese arabo.

BOMBE FABBRICATE IN GRAN PARTE IN GB, USA, FRANCIA, IRAN E ITALIA

Dal 2015, secondo Oxfam, sono stati uccisi 12 mila civili, 8 mila dei quali hanno trovato la morte a causa di raid aerei sauditi, con bombe fabbricate in gran parte in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Iran e Italia.

Dall’inizio del conflitto in oltre un caso su tre l’uso di armi esplosive ha ucciso una donna o un bambino, vittime ‘collaterali’ di raid aerei o bombardamenti via terra

Oxfam

In Yemen sono in corso da anni diversi conflitti intrecciati fra loro e che coinvolgono attori locali accanto a potenze regionali e internazionali. La guerra a cui si riferisce l’ultimo rapporto di Oxfam è quella combattuta dal 2015 dalla Coalizione araba a guida saudita contro gli insorti Houthi, vicini all’Iran. In questo quadro, secondo Oxfam, «dall’inizio del conflitto in oltre un caso su tre l’uso di armi esplosive ha ucciso una donna o un bambino, vittime ‘collaterali’ di raid aerei o bombardamenti via terra che colpiscono aree popolate, campi profughi, scuole e ospedali».

IL NUMERO DI CIVILI UCCISI È AUMENTATO DEL 25% NEGLI ULTIMI TRE MESI

Secondo l’organizzazione internazionale, negli ultimi tre mesi il numero dei civili uccisi è aumentato del 25%. Dall’inizio del 2019 sono oltre 1.100 i civili uccisi, 12 mila dal 2015. E per Oxfam di questi 12 mila, 8 mila (67%) sono stati causati da raid aerei della Coalizione a guida saudita. «Bombardamenti che vedono l’utilizzo di armi prodotte in gran parte in Gran Bretagna, Usa, Francia, Iran e Italia».

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La pace in Yemen non è più un miraggio

A un anno dal cessate il fuoco tra i ribelli Houthi e le forze militari del governo yemenita, qualcosa sta cominciando a cambiare nel Paese mediorientale. Anche grazie una differente strategia dell'Arabia saudita, che sta favorendo il processo di de-escalation del conflitto.

All’incirca un anno fa la comunità internazionale fu attraversata da un moto di speranza per le confortanti notizie che stavano giungendo da Stoccolma dove si stava perfezionando un accordo di cessate il fuoco tra i ribelli Houthi e le forze militari del governo yemenita sostenute dalla coalizione araba a guida saudita.

Si parlò allora di un primo significativo passo in direzione della fine di una guerra che aveva già provocato decine di migliaia di morti, oltre 2 milioni di sfollati e un disastro umanitario di spaventose dimensioni.

Punti nevralgici dell’accordo erano stati, allora, la liberazione dei porti sul mar Rosso di Salif, Ras Issa e soprattutto di Hodeida, un vero e proprio polmone di sopravvivenza per gli yemeniti dall’occupazione delle milizie degli Houthi e una serie di misure di confidence building tra cui lo scambio di migliaia di prigionieri.

Ci sono voluti mesi e mesi – di fatto il vero ritiro dai porti è iniziato solo nel maggio del 2019 – prima che l’accordo facesse emergere risultati significativi. E ciò per la complicità di un contesto di grande complessità sul quale ha influito anche il riaccendersi del terrorismo – sia di Al Qaeda che dell’Isis – che continuava e continua a trovarvi utile concime per le sue radici stragiste. Contesto che d’altra parte si è reso anche più problematico per il progressivo sfilarsi dalla coalizione anti-Houthi di parte dei suoi componenti e che ha segnato un serio vuoto con l’abbandono del campo da parte dei sudanesi (circa 10 mila uomini) con la svolta rivoluzionaria che ha portato alla destituzione del presidente Omar al Bashir e, soprattutto, con lo scontro che ha visto contrapposte le forze militari del presidente Abd Rabu Mansur Hadi con quelle dei separatisti del Sud (Stc); le prime sostenute dall’Arabia Saudita e le ultime dagli Emirati, a loro volta preziose alleate di Riad contro gli Houthi. e la conseguente occupazione di Aden da parte dello Stc.

L’IMPORTANTE INTESA DEL 5 NOVEMBRE

Un bel pasticcio anche perché dilatatosi ad altre tribù e ad altri gruppi regionali. C’erano sufficienti ragioni insomma per indurre Riad a ricalibrare l’impegno a sostenere in via esclusiva (ed escludente) il presidente Hadi, rifugiato in Arabia Saudita, e a mantenere la forza dell’unione con gli Emirati. E in tale contesto a orientarsi rapidamente verso un orizzonte strategico disegnato dall’assoluta necessità di sgomberare il campo da quella che rischiava di essere una “guerra civile minore all’interno della guerra civile maggiore”. Non è stato affatto agevole ma in qualche modo l’obiettivo è stato raggiunto con un’intesa – il cosiddetto accordo di Riad – siglata il 5 novembre dopo la ripresa del controllo di Aden. Un’intesa molto significativa perché ha previsto l’inclusione del movimento separatista nel governo yemenita e quello delle milizie del Sud sotto l’autorità dei ministri dell’Interno e della Difesa.

L’IMPENNATA DELLO SCONTRO

Non è stato agevole perché ha di fatto sanzionato una sorta di supremazia dell’Arabia Saudita che potrebbe essere messa in discussione se non si realizza anche l’altra parte della guerra civile. E non lo è stato perché è maturato in concomitanza – e forse anche grazie – all’impennata dello scontro con gli Houthi. Mi riferisco a quella serie di “incidenti” occorsi a danno di petroliere saudite e soprattutto al pesante attacco di settembre, con droni e missili ai due siti petroliferi sauditi dell’Aramco, rivendicato proprio dagli Houthi ma difficilmente dissociabile da una responsabilità iraniana.

L’Arabia Saudita ha dato l’impressione di essere propensa a cambiare logica e ad accettare che i nodi della guerra siano anche legati a fattori come l’eccesso di autoritarismo di Hadi

Al di là dell’intenso dibattito sull’effettiva responsabilità di questi atti, è pur vero che Riad ha condannato questo «vero e proprio atto di guerra» assumendo anche toni minacciosi, ma è altrettanto vero che tutto si è fermato a livello verbale, quasi a dimostrazione della sua impotenza di fronte alla dura constatazione della sua vulnerabilità. E dunque del rischio di esporsi, contrattaccando, a una spirale conflittuale dagli esiti perniciosi visti i limiti del loro ombrello protettivo. In quel clima ha avuto la funzione di un suggerimento da non lasciar cadere la dichiarata disponibilità degli Houthi a interrompere gli attacchi sul territorio saudita – una sorta di tregua insomma – se anche Riad si fosse impegnata a fare altrettanto su quello yemenita. E, di conseguenza di ridare ossigeno al processo di de-escalation del conflitto, ormai auspicabile anche da parte degli Houthi dopo tanti anni di guerra impantanata, di stallo militare superabile solo con la politica e con i crediti acquisiti con l’accordo di Stoccolma e i segnali derivanti dall’accordo di Riad.

IL NODO DELLA CONDIVISIONE DEL POTERE

L’Arabia Saudita ha dato cioè l’impressione – anzi, più che l’impressione – di essere propensa a cambiare logica, approccio e ad accettare che i nodi della guerra siano anche legati ad altri fattori come l’eccesso di autoritarismo di Hadi, come del suo predecessore, alla diffusa corruzione e al ruolo denegato agli Houthi di una reale partecipazione alla gestione del governo del Paese e, forse, anche a fattori precedenti la spinta conflittuale iraniana. Questa sua propensione era implicita nell’intesa con le forze separatiste del Sud che aveva in qualche modo indicato la rotta da seguire nel senso di una condivisione di questo potere di governo su cui portare anche Hadi, chiamato a riprendere posto ad Aden. Tutto ciò con l’implicito corollario di una sorta di garanzia tutelare esercitata dalla Casa reale saudita per la quale lo Yemen resta più che mai un tassello di fondamentale importanza per la sua sicurezza e stabilità. Superfluo sottolineare come questo processo negoziale con gli Houthi molto sottotraccia, ora in Oman, sia soltanto all’inizio e possa deragliare, ma la prospettiva di una correzione degli errori del passato rappresenta un segno incoraggiante.

L’EMBLEMATICO DISCORSO DEL RE SALMAN

Intanto il primo ministro sta rientrando in Yemen (Aden, capitale provvisoria) con i colleghi delle Finanze, dell’Educazione, delle Telecomunicazioni in adempimento dell’accordo siglato con i separatisti del Sud in vista di un ritorno istituzionale del Paese ad una relativa normalità. Martin Griffiths, l’Inviato speciale delle Nazioni Unite, non ha mancato di manifestare espressioni di incoraggiamento e l’auspicio che la fine del conflitto possa maturare nei primi mesi del 2020. Ed è significativo che nel discorso annuale di fronte al parlamento saudita (Shoura Council) lo stesso re Salman abbia fatto esplicito riferimento ai colloqui di pace in corso e abbia nel contempo sollecitato l’Iran, alle prese con i drammatici sviluppi delle manifestazioni di protesta che lo stanno attraversando, ad abbandonare l’ideologia espansionistica che ha fatto tanto male, ha sottolineato, al suo stesso popolo.

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