Come l’Italia ha condannato il contrattacco dell’Iran

Il titolare della Farnesina Di Maio ha parlato di «atto grave» che «accresce la tensione». Mentre il ministro della Difesa Guerini ha chiesto «moderazione e prudenza» confermando che i militari italiani in Iraq stanno bene.

Alla fine la risposta dell’Iran all’uccisione di Soleimani è arrivata l’8 gennaio. Con il bombardamento delle basi americane in Iraq. Lì dove sono impegnati anche i militari italiani, che però non hanno subito dirette conseguenze. Come hanno preso la notizia i vertici politici del nostro Paese? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affidato il suo commento a Facebook: «Seguiamo con particolare preoccupazione gli ultimi sviluppi e condanniamo l’attacco da parte di Teheran. Si tratta di un atto grave che accresce la tensione in un contesto già critico e molto delicato».

«RISCHIO DI CELLULE TERRORISTICHE E MIGRAZIONI»

Il titolare della Farnesina nel suo post ha proseguito così: «Purtroppo è la storia che si ripete. Invitiamo entrambe le parti alla moderazione e alla responsabilità. La regione vive una instabilità da decenni, una nuova guerra spingerà la proliferazione di cellule terroristiche e di nuovi flussi migratori. Non è più accettabile tutto questo. Si apprenda dagli errori del passato e si torni al dialogo».

COALIZIONE INTERNAZIONALE DI CUI FA PARTE L’ITALIA

Poi ha espresso a nome del governo vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per il loro impegno: «È accaduto quello che temevamo. L’Iran ha risposto al raid Usa lanciando decine di missili contro le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Entrambe ospitano personale della coalizione internazionale anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia».

La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza


Il ministro della Difesa Guerini

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha ribadito che «la sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza, da parte mia e di tutte le istituzioni», sottolineando poi che fin dall’inizio dell’attacco iraniano alle basi statunitensi in Iraq la Difesa sta seguendo «la situazione e le evoluzioni con la massima attenzione». Guerini nel corso della notte ha sentito il comandante del contingente italiano, il generale Fortezza, che lo ha rassicurato sulle condizioni dei nostri militari.

GUERINI CHIEDE «MODERAZIONE E PRUDENZA»

«In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza», ha detto Guerini in un colloquio telefonico con il collega iracheno Al Shammari. E infine: «Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile, anche per non vanificare gli sforzi fino a oggi profusi».

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Come l’Italia ha condannato il contrattacco dell’Iran

Il titolare della Farnesina Di Maio ha parlato di «atto grave» che «accresce la tensione». Mentre il ministro della Difesa Guerini ha chiesto «moderazione e prudenza» confermando che i militari italiani in Iraq stanno bene.

Alla fine la risposta dell’Iran all’uccisione di Soleimani è arrivata l’8 gennaio. Con il bombardamento delle basi americane in Iraq. Lì dove sono impegnati anche i militari italiani, che però non hanno subito dirette conseguenze. Come hanno preso la notizia i vertici politici del nostro Paese? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affidato il suo commento a Facebook: «Seguiamo con particolare preoccupazione gli ultimi sviluppi e condanniamo l’attacco da parte di Teheran. Si tratta di un atto grave che accresce la tensione in un contesto già critico e molto delicato».

«RISCHIO DI CELLULE TERRORISTICHE E MIGRAZIONI»

Il titolare della Farnesina nel suo post ha proseguito così: «Purtroppo è la storia che si ripete. Invitiamo entrambe le parti alla moderazione e alla responsabilità. La regione vive una instabilità da decenni, una nuova guerra spingerà la proliferazione di cellule terroristiche e di nuovi flussi migratori. Non è più accettabile tutto questo. Si apprenda dagli errori del passato e si torni al dialogo».

COALIZIONE INTERNAZIONALE DI CUI FA PARTE L’ITALIA

Poi ha espresso a nome del governo vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per il loro impegno: «È accaduto quello che temevamo. L’Iran ha risposto al raid Usa lanciando decine di missili contro le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Entrambe ospitano personale della coalizione internazionale anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia».

La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza


Il ministro della Difesa Guerini

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha ribadito che «la sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza, da parte mia e di tutte le istituzioni», sottolineando poi che fin dall’inizio dell’attacco iraniano alle basi statunitensi in Iraq la Difesa sta seguendo «la situazione e le evoluzioni con la massima attenzione». Guerini nel corso della notte ha sentito il comandante del contingente italiano, il generale Fortezza, che lo ha rassicurato sulle condizioni dei nostri militari.

GUERINI CHIEDE «MODERAZIONE E PRUDENZA»

«In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza», ha detto Guerini in un colloquio telefonico con il collega iracheno Al Shammari. E infine: «Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile, anche per non vanificare gli sforzi fino a oggi profusi».

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Vertice a sorpresa tra Di Maio e Zingaretti

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi. Sul tavolo i prossimi obiettivi di governo.

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi tra il leader del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Stando a quanto si legge in una nota congiunta degli staff dei due leader, nel corso del colloquio si è parlato della situazione politica generale e si è fatto un primo confronto sul percorso da avviare per definire i prossimi obiettivi di governo. Il clima è stato definito come molto positivo e costruttivo.

UN GENNAIO DI FUOCO PER IL GOVERNO

Per il governo, il mese di gennaio si annuncia pieno di insidie e sfide delicate, in un contesto appesantito dalle tensioni interne al Movimento 5 stelle. Il 20 gennaio è previsto il voto della Giunta per l’Immunità del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini nell’ambito del caso Gregoretti; voto da cui la maggioranza potrebbe uscire non così compatta, specie alla luce delle riserve di Italia viva. Sei giorni più tardi, sono in agenda le elezioni regionali in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna, dove un risultato negativo del Pd potrebbe avere effetti pesanti sul governo. Da non sottovalutare anche il dibattito sulla prescrizione, con le tensioni tra M5s e Italia viva.

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Il caso Paragone spacca un M5s in agonia

Il senatore espulso è pronto a dare battaglia pure in Tribunale. E Di Battista lo appoggia. Potrebbe essere l'ultimo atto disgregatore di una formazione politica in crisi di identità e nei consensi, che ha perso per strada 17 parlamentari.

Il senatore Gianluigi Paragone, espulso dal «nulla» che secondo lui è diventato il Movimento 5 stelle, è pronto a dare battaglia anche in Tribunale. E il Movimento stesso, ormai in agonia per la crisi di identità e nei consensi, stavolta rischia davvero l’implosione. Prima le dimissioni natalizie del ministro Lorenzo Fioramonti, passato al gruppo Misto; poi le polemiche sui mancati rimborsi; infine la “cacciata” di Paragone, “reo” di aver votato contro la manovra e di predicare un ritorno alle origini che piace molto ad Alessandro Di Battista.

PARAGONE L’ARCIGRILLINO

Nel mirino ci sono i vertici, a partire da Luigi Di Maio, e i meccanismi che finora hanno garantito la sua leadership. «Farò ricorso e se mi gira mi rivolgerò anche alla giustizia ordinaria, per far capire l’arbitrarietà delle regole», ha detto Paragone in un video postato su Facebook a meno di 24 ore dall’espulsione decretata dal Collegio dei Probiviri. I pentastellati, per l’ennesima volta, si sono spaccati. E Dibba non solo ha difeso il presunto colpevole, ma lo ha addirittura incoronato «infinitamente più grillino di tanti altri». Accanto al senatore espulso si è schierata anche l’ex ministra Barbara Lezzi, che ha lodato l’autonomia di pensiero del collega dissidente e ha attacca il M5s che «espelle gli anticorpi». Poco dopo il suo post è stato condiviso dal senatore Mario Giarrusso, che ha già attaccato frontalmente Di Maio sul tema dei rimborsi, sostenendo di non averli pagati perché ha dovuto provvedere alle «spese legali legate alla sua attività politica», invitando il capo politico a dare lui le dimissioni.

IL M5S HA PERSO PER STRADA 17 PARLAMENTARI

Non mancano nemmeno quanti hanno scelto di posizionarsi contro Paragone, non perdonando all’ex conduttore televisivo soprattutto il giudizio tranchant sul «nulla» in cui si sarebbe degradato il sogno di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Di Maio stesso gli ha risposto su Facebook, pur se indirettamente: «In appena 20 mesi abbiamo già approvato 40 provvedimenti. Niente male per un Movimento per la prima volta al governo, no?». Di fatto, però, con l’ultima ‘cacciata’ sono 17 i parlamentari che il M5s ha perso per strada dall’inizio della legislatura, ossia dal 23 marzo 2018. Tra loro, 11 gli espulsi mentre tre senatori sono passati direttamente alla Lega (Francesco Urraro, Stefano Lucidi e Ugo Grassi), oltre al recentissimo addio di Fioramonti che è andato al Misto.

L’INDIGESTA ALLEANZA CON IL PD

Su Paragone, nessuna sorpresa. l’ex direttore della Padania non ha mai digerito l’alleanza con il Pd e mai l’ha nascosto. A parole, con toni sempre più accesi, e nei fatti con il voto. Da sempre contrario allo scudo penale ad ArcelorMittal per l’Ilva, a dicembre aveva votato ‘no’ anche alla risoluzione di maggioranza sul fondo salva-Stati. Fino al colpo di grazia del no alla manovra. Lui si difende appellandosi alla forza rivoluzionaria del Movimento che rischia di sparire: «Possiamo litigare con qualche collega, ma il grosso, fuori nel Paese, crede che ci sia ancora bisogno di una forza che dica che ci sono delle ingiustizie. Questa era la forza dei Cinque Stelle».

IL RITORNO ALLE ORIGINI E CHI POTREBBE INCARNARLO

Un approccio che ha subito trovato la sponda di Di Battista e di quanti nel M5s guardano a lui per una nuova leadership: «Non c’è mai stata una volta che non fossi d’accordo con Paragone. Vi esorto a leggere quel che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell’ultima campagna elettorale che ho fatto». Paragone ringrazia e rafforza l’asse: «Ale rappresenta quell’idea di azione e di intransigenza che mi hanno portato a conoscere il Movimento: stop allo strapotere finanziario, stop con l’Europa di Bruxelles. Io quel programma lo difendo perché con quel programma sono stato eletto».

GLI ULTIMI DIFENSORI DI DI MAIO

Il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, ribatte: «Se ci definisci il nulla, perché rimanevi nel nulla prima di essere espulso?». Mentre Paola Taverna usa il sarcasmo: «Ehi Gianluigi, a quando il nuovo libro con tutte le rivelazioni?». Toni duri anche dal vice presidente del Parlamento europeo, Fabio Castaldo: «Criticare le scelte operate a livello nazionale è un conto, ma dare del nulla a chi ha lottato, a chi si è sacrificato per un sogno, è per me inaccettabile. Se questo è quello che intendeva, dovrebbe scusarsi». Luigi Gallo, altro M5s tra i più fedeli e presidente della commissione Cultura della Camera, rilancia: «Sarebbe bello interrogarsi su quello che ha fatto Paragone in due anni da parlamentare. Il nulla cosmico».

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Continua lo scontro tra Fioramonti e il M5S sui rimborsi

L'ex ministro dell'Istruzione ribadisce le sue critiche al sistema delle restituzioni. Il Movimento minaccia sanzioni ed espulsioni. Ipotesi però poco concreta.

È alta tensione all’interno del Movimento Cinque Stelle sul tema dei rimborsi, al centro del dibattito pentastellato dopo il clamoroso addio di Lorenzo Fioramonti al governo e le sue frizioni con i vertici dello stesso Movimento. L’ex ministro dell’Istruzione ha ribadito le sue critiche al sistema delle restituzioni a carico dei parlamentari Cinque Stelle di parte dei loro emolumenti. Su questo punto – scrive su Facebook – c’è «il risentimento dei parlamentari e l’imbarazzo dei gruppi dirigenti per un sistema gestito da una società il cui ruolo rimane a tutti poco chiaro». Pronta la replica dei vertici del Movimento che, attraverso il blog delle Stelle, lanciano una sorta di ultimatum a chi non restituisce: «Per coloro che dopo il 31 dicembre saranno ancora in ritardo si attiveranno i Probiviri», spiega il post. Difficile, tuttavia, che l’avvertimento abbia affetto. Anche perché, nei gruppi del M5S, il nodo delle restituzioni unisce malpancisti di varia origine.

Gli esperti di comunicazione mi hanno spiegato che alle fake news non si replica, perché rischi di dare la notizia due…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Saturday, December 28, 2019

FIORAMONTI: «METODO FERRAGINOSO E POCO TRASPARENTE»

Sui rimborsi, Fioramonti parla di «metodo farraginoso e poco trasparente con cui si gestiscono le nostre restituzioni». Ma l’ex ministro va oltre, lanciando un appello ai capigruppo 5S per chiedere loro di «chiarire la situazione», perché, aggiunge, «gli attacchi di questi giorni nei miei confronti sono davvero inaccettabili». E infine rimarca: «Le mie posizioni si conoscevano benissimo quando, a Settembre, venni nominato Ministro. Ed erano note anche quando tutti si congratulavano con me, per il lavoro svolto e per chiedermi di non mollare». Parole che per ora si infrangono sul muro dei vertici del Movimento e di Luigi Di Maio. «A partire dal mese di novembre tutti i parlamentari in ritardo con le rendicontazioni e le relative restituzioni sono stati raggiunti da mail per ricordare loro gli impegni giuridici e morali assunti, all’atto della candidatura con il M5S», ricorda il post.

DIFFICILE CHE SI ARRIVI A SANZIONI O ESPULSIONI

Detto questo, chi conosce bene le dinamiche interne al Movimento fa notare che l’ipotesi di sanzione o addirittura di espulsione ai danni dei morosi sia poco concreta. Il team di legali che coadiuva il Movimento da settimane sta studiando modalità e tempistiche di eventuali azioni. Ma la strada è in salita. L’adesione alla regola delle restituzioni è basata sì su un contratto, ma sottoscritto volontariamente, per cui difficilmente la violazione di tale impegno può portare in qualche modo a reali sanzioni giudiziarie. Né, in questo momento, a Di Maio preme procedere con nuove espulsioni, dando così una sponda preziosa a chi medita di uscire dal Movimento.

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Di Maio insiste: «Nel 2020 stop ad Autostrade, concessioni affidate a Anas»

Il leader del M5s nega che il costo dell'operazione possa essere di 23 miliardi: «Un'enorme sciocchezza»

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è tornato a dare battaglia sul nodo delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia. «Nel 2020, una delle prime cose da inserire nella nuova agenda di governo dovrà essere la revoca delle concessioni ad Autostrade, con l’affidamento ad Anas e il conseguente abbassamento dei pedaggi autostradali. Le famiglie delle vittime del Ponte Morandi aspettano una risposta. E noi gliela daremo.
Non solo a loro, ma a tutto il Paese», ha scritto su Facebook il leader
del M5S Di Maio. Il ministro ha anche definito una «enorme sciocchezza» il fatto che la revoca costi 23 miliardi allo Stato.

Il messaggio postato da Luigi Di Maio il 27 dicembre ANSA / Facebook

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L’endorsement di Di Maio alle Sardine

«Bella piazza, sarebbe bello lavorare insieme», ha detto il leader del M5s dopo la manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma. E sulla Popolare di Bari dice: «Va nazionalizzata».

Alla fine le Sardine si sono prese anche piazza San Giovanni a Roma, luogo storico della sinistra, stipate a decine di migliaia. Più di 100 mila per gli organizzatori. Un terzo circa, per la questura. E proprio le Sardine sono uno dei due argomenti principali di una lunga intervista di Luigi di Maio al Corriere. «Bella piazza, si può lavorare insieme», ha detto il ministro degli Esteri. «Ogni nostra convergenza è sempre sul programma. Ma facciamo così: per ipotesi, sarebbe bello lavorare insieme su ambiente, giustizia, diritti sociali, lavoro, casa e aiuto alle persone in difficoltà».

SULLA POPOLARE DI BARI: «COMMISSIONE D’INCHIESTA SULLE BANCHE»

Invece della Popolare di Bari, ultima patata bollente finita sul tavolo del Governo, Di Maio pensa che vada «nazionalizzata». «Se una banca fallisce», ha spiegato il capo politico del M5 sempre al Corriere, «non è colpa dei risparmiatori. La solidità del sistema è fondamentale, ma se ci sono manager che hanno prestato soldi allo scoperto, devono pagare. Il tempo del silenzio è finito», sostiene. E sulla necessità di salvare prima i risparmi di 70 mila famiglie, ha osservato: «Possiamo fare tutte e due le cose: avviare in Consiglio dei ministri il procedimento che metta agli atti i nomi di chi ha ricevuto soldi allo scoperto, facendo chiarezza sui legami politici locali, e contestualmente mettere al riparo i risparmi. E bisogna far partire la commissione d’inchiesta sulle banche». Se lo Stato – ha aggiunto – «deve mettere soldi per salvare i conti correnti, dobbiamo fare in modo che quella banca sia nazionalizzata. Il nostro progetto è la banca pubblica degli investimenti». E in merito al decreto: «Daremo due risposte, una ai mercati, l’altra ai cittadini».

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Di Maio non vede che Tripoli sta per cadere in mano russa

La crisi libica mette in risalto tutta l'inadeguatezza del ministro degli Esteri. Troppo preso dalle grane interne al M5s per accorgersi che l'Italia si sta condannando all'ininfluenza.

L’inesperienza e l’insipienza di Luigi di Maio – e del premier Giuseppe Conte – hanno ormai espulso l’Italia da un qualsiasi ruolo nella crisi libica. Il ministro degli Esteri infatti si muove all’insegna di un dogma: «Non esiste soluzione militare: rinnoviamo l’impegno dell’Italia per una soluzione pacifica». Ma il punto è che invece proprio la soluzione militare si sta imponendo con l’imminente conquista armata di Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar. L’allarme non è nostro, ma è stato lanciato con toni drammatici dallo stesso inviato dell’Onu Ghassam Salamé che ha dato per certa la caduta di Tripoli, non grazie alla abilità militare di Haftar (che non ha mai vinto né una guerra né una battaglia), ma come conseguenza ovvia della decisione strategica della Russia di Vladimir Putin di gettare nella battaglia attorno alla capitale libica la potente forza d’urto di 1.400-2.000 mercenari della Organizzazione Wagner –una macchina da guerra efficientissima- che stanno facendo capitolare le difese delle milizie di Misurata.

L’ANNUNCIO DI ERDOGAN E LA MINACCIA DI HAFTAR

L’imporsi imminente di una drammatica soluzione militare è tale che immediata e speculare è stata la reazione del presidente turco Tayyp Erdogan che ha annunciato che –su richiesta del governo legittimo di Fayez al Serraj– è pronto a inviare a Tripoli una forza di 5 mila militari per garantirne la difesa. Il governo di al Serraj ha immediatamente accolto con favore questa opzione. Anche Haftar ha preso sul serio questa opzione, tanto che ha minacciato «di affondare tutte le navi turche che portino soldati in Libia». Tuoni crescenti di guerra. Dunque, lo stallo della guerra civile libica che dura da anni, ha avuto una improvvisa accelerazione bellica dovuta alla decisione di Putin di applicare il “modulo ucraino”: un forte e determinante impegno militare russo affidato non già a truppe regolari (come in Siria), ma grazie agli “uomini verdi”, ex membri delle Forze speciali russe –formidabili combattenti reduci dal conflitto ceceno- inquadrati in una organizzazione privata, ma funzionale alla politica di Putin e coordinata col Cremlino.

DI MAIO SI GUARDA BENE DAL VOLARE A MOSCA E AD ANKARA

Il governo italiano non ha minimamente preso atto di questo drammatico cambiamento di scenario e ha rifiutato di compiere l’unica mossa indispensabile se vuole continuare a giocare in Libia: un intervento diplomatico diretto sulla Russia (e sulla Turchia). Ma Di Maio –preso come è dalle grane interne al M5s– si guarda bene dal volare a Mosca e ad Ankara. Pure, vi sarebbe un ampio spazio di manovre diplomatica per il nostro Paese. Putin ed Erdogan, infatti, hanno ampiamente dimostrato in Siria che –pur con interessi a volte divergenti- sono in grado di mediare le proprie strategia. Sono in contatto telefonico sulla crisi libica e si apprestano ad un vertice l’8 gennaio. L’Italia ha (avrebbe) tutti i titoli per inserirsi in questa dinamica di trattativa su Tripoli. Ma dà segno di non essersi nemmeno accorta che la propria visione del conflitto è scaduta, che i vertici non servono a nulla quando è la forza delle armi che determina i rapporti di forza. Un esempio raro e drammatico di dilettantismo.

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Nel M5s anche Castaldo contro Di Maio sul listino bloccato

Il vicepresidente del parlamento Ue Castaldo, capo delegazione del M5s in Europa, contro il leader i suoi "facilitatori". E cioè la segreteria del M5s, di cui sei membri scelti direttamente dal ministro degli Esteri.

Dopo le fuoriuscite di Lucidi e Grassi, i due senatori che sono passati alla Lega, il M5s prova a cambiare pagina con il voto su Rousseau di quella che in altri partiti si sarebbe chiamata segreteria. Ma quel voto è un prendere o lasciare comprese le sei persone scelte direttamente dal capo politico Luigi Di Maio. Un metodo che non è piaciuto affatto a un nome che nel movimento sta acquisendo sempre più peso cioè quel Fabio Massimo Castaldo eletto vice presidente del parlamento europeo e che guida il gruppo grillino che a Bruxelles ha segnato il divorzio dalla Lega votando a favore della commissione di Ursula Von der Leyen.

Fabio Massimo Castaldo durante il convegno ”Open Democracy ? Democrazia in rete e nuove forme di partecipazione cittadina”, organizzato dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati presso la Sala Mappamondo, 18 aprile 2016 a Roma. ANSA/FABIO CAMPANA

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«Una scelta d’ampia incoerenza: #iodicono alle liste bloccate!». Così in un post il vicepresidente M5s del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo commenta il voto in blocco su Rousseau del listino dei cosiddetti facilitatori nazionali scelti dal capo politico del Movimento Luigi Di Maio. «La trovo una scelta ampiamente incoerente: abbiamo portato avanti per anni la battaglia a favore delle preferenze nella legge elettorale, abbiamo combattuto sempre contro i listini bloccati e imposti dall’alto, e ora poniamo i nostri attivisti davanti a un voto del genere?», ha chiesto. «Credo che non sia affatto corretto presentare un listino bloccato e dare la possibilità di votare solamente Si o No all’intera lista: si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Mi sembra non solo incoerente, ma anche limitante», ha scritto su Fb, Castaldo protestando sulla scelta di far semplicemente ratificare dalla rete i sei facilitatori M5S scelti dal capo politico.

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio.

Il ragionamento del vicepresidente del parlamento europeo prosegue: «Si sceglie, infatti, una squadra di 18 persone che affiancherà il capo politico del Movimento nei processi decisionali e nelle scelte programmatiche. In questo percorso «sei facilitatori sono indicati direttamente dal capo politico, con funzioni estremamente rilevanti, e oggi si vota anche per confermare o declinare tale scelta». Nel listino, sottolinea l’eurodeputato, ci sono nomi «diversi di assoluto valore per competenze, capacità e impegno dimostrato in questi anni. Ma in tutta franchezza non posso tacere sul fatto che ci sia un problema non tanto di merito, sul quale non voglio esprimermi per non influenzare in alcun modo il vostro giudizio». «Si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Svolgeranno funzioni molto diverse gli uni dagli altri, pertanto il voto avrebbe dovuto essere sulla competenza dei singoli» sostiene. Il problema, invece, è «di metodo. E per questo vorrei porre una riflessione a tutti noi attivisti».

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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M5s, Lombardi: «Da Di Maio vorrei meno tweet e più mediazione»

La capogruppo pentastellata alla Regione Lazio a SkyTg24 critica l'atteggiamento del capo politico troppo «muscolare».

Luigi Di Maio, sempre più isolato all’interno del M5s, lo ha negato con insistenza: l’idea che il M5s voglia fare cadere il governo «è una sciocchezza», ha ribadito il 6 dicembre a Radio Capital. «Lo abbiamo fatto nascere noi, altrimenti non lo facevamo partire». Eppure le acque pentastellate restano increspate.

LOMBARDI DIFENDE IL GOVERNO CON IL PD

Sabato a lanciare la frecciata quotidiana all’indirizzo del ministro degli Esteri e capo politico del M5s è stata Roberta Lombardi. «Io so che Di Maio sta cercando di porre all’attenzione del governo dei punti di vista tipici del M5s ma preferirei ci fosse molto meno la ricerca del tweet e molto più la voglia di conciliare punti di vista diversi che però hanno pari dignità e devono trovare una forma di mediazione», ha detto la capogruppo pentastellata alla Regione Lazio ospite de L’intervista di Maria Latella su Skytg24. Insomma l’atteggiamento di Di Maio «è quello del capo politico di una forza che sta cercando di mantenere la propria identità all’interno del governo ma», ha messo in chiaro, «lo fa in una modalità molto muscolare che non condivido, preferirei che fosse più mediata».

LOMBARDI: «DIAMO UN’OPPORTUNITÀ A QUESTO PAESE»

Alla domanda su cosa pensi Di Maio di questo governo, Lombardi ha risposto in pieno stile pentastellato delle origini. «Io vengo da una scuola del M5s dove quello che interessa non è l’opinione del singolo. Sono stata uno degli sponsor di questo governo perché ho detto che c’è la possibilità di fare delle cose bene insieme. Diamo un’opportunità a questo Paese, adesso questo governo deve continuare a essere utile». Del resto, ha ricordato la capogruppo 5 stelle alla Pisana, anche il garante Beppe Grillo ha sempre detto che «ci sono dei temi» su cui Pd e M5s possono trovare un punto di accordo. Come M5s, ha aggiunto, «abbiamo fatto un investimento su questo governo perché volevamo fare delle cose utili per il Paese. Quindi sicuramente questo modo continuo di porre dei distinguo, anche semplificando il messaggio politico alla ricerca sempre del titolo o dell’agenzia che ti ponga più in evidenza, è stancante», ha messo in chiaro Lombardi.

«NESSUNA DEROGA SUL SECONDO MANDATO»

Sulla regola del secondo mandato la «rompiscatole» (come lei stessa si definisce) Lombardi ha puntato i piedi. Anche se si tratta di Virginia Raggi. «Nessuna deroga per nessuno. Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni, anzi un ricambio generazionale è sano e salutare», ha detto l’ex parlamentare M5s.

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I temi al centro dell’incontro fra Di Maio e Lavrov

Il ministro degli Esteri ha chiesto all'omologo russo di rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano. E sulla Libia ha invitato Mosca ad agire nell'alveo della Conferenza di Berlino.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha incontrato a Roma Sergej Lavrov, capo della diplomazia russa. Tanti i temi al centro del bilaterale: dalla guerra in Libia alle sanzioni che l’Unione europea ha imposto alla Russia, passando per le contromisure di Mosca che hanno colpito, tra le altre cose, anche le esportazioni italiane di parmigiano reggiano.

ITALIA PREOCCUPATA PER L’ESCALATION MILITARE IN LIBIA

«Questo confronto conferma l’importanza della Russia per l’Italia come interlocutore fondamentale», ha detto Di Maio nella conferenza stampa finale, «ho rappresentato al ministro Lavrov le nostre preoccupazioni per l’intensificarsi della guerra civile in Libia, ribadendo che per noi non esiste una soluzione militare».

SUL CAMPO INTERESSI DIVERGENTI

Mosca, tuttavia, appoggia il generale Khalifa Haftar e sarebbe presente sul campo con alcune migliaia di mercenari: una scelta opposta rispetto a quella fatta da Roma, che al contrario sostiene il governo del premier Fayez al-Serraj. In Libia, ha detto non a caso Di Maio, ci sono «troppe interferenze, mentre ogni iniziativa dovrebbe entrare nell’alveo della Conferenza di Berlino. Non perché ci sia una presunzione di superiorità europea, ma perché se tutti sono impegnati a lavorare sul cessate il fuoco è importante non promuovere fughe in avanti».

LA STOCCATA DI LAVROV ALLA NATO

Lavrov, intervenendo ai Med Dialogues, non ha risparmiato una stoccata all’Alleanza atlantica: «In Libia la Nato ha svolto un’avventura pericolosa, che ha avuto un impatto negativo sull’economia del Paese. Solo con un dialogo inclusivo e internazionale si potrà risolvere la crisi. Plaudiamo all’iniziativa della cancelliera Merkel, che ha organizzato la Conferenza di Berlino per proseguire quella di Parigi e quella di Palermo» Ma la Conferenza di Berlino «ci ha meravigliato perché non sono state invitate le parti libiche e i Paesi vicini, quindi in questo senso è stata un’occasione persa. Spero che in futuro vengano fatti passi in avanti con un approccio più inclusivo».

UNA «RIFLESSIONE POLITICA» SULLE SANZIONI EUROPEE

Quanto alle sanzioni europee in risposta alle azioni russe contro l’integrità territoriale dell’Ucraina, Di Maio ha detto che l’Italia «si muove nel solco dell’Unione europea», ma vuole «promuovere una riflessione politica che preveda gli effetti sulle nostre aziende delle sanzioni e delle contromisure russe».

IL DOSSIER PARMIGIANO

Allo stesso tempo «servono passi avanti sugli accordi di Minsk, fondamentali per riuscire a scongelare la situazione». Il titolare della Farnesina ha quindi chiesto a Lavrov di «rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano», perché a suo giudizio «non rientrano nei parametri di quelle ideate nei confronti dell’Unione europea». Una mossa spendibile anche in ottica elettorale, visto che in Emilia-Romagna si vota il 26 gennaio. Il leader del M5s ha infine annunciato che a luglio sarà in Russia per ricambiare la visita diplomatica e per partecipare all’Innoprom, la fiera sulla tecnologia.

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I temi al centro dell’incontro fra Di Maio e Lavrov

Il ministro degli Esteri ha chiesto all'omologo russo di rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano. E sulla Libia ha invitato Mosca ad agire nell'alveo della Conferenza di Berlino.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha incontrato a Roma Sergej Lavrov, capo della diplomazia russa. Tanti i temi al centro del bilaterale: dalla guerra in Libia alle sanzioni che l’Unione europea ha imposto alla Russia, passando per le contromisure di Mosca che hanno colpito, tra le altre cose, anche le esportazioni italiane di parmigiano reggiano.

ITALIA PREOCCUPATA PER L’ESCALATION MILITARE IN LIBIA

«Questo confronto conferma l’importanza della Russia per l’Italia come interlocutore fondamentale», ha detto Di Maio nella conferenza stampa finale, «ho rappresentato al ministro Lavrov le nostre preoccupazioni per l’intensificarsi della guerra civile in Libia, ribadendo che per noi non esiste una soluzione militare».

SUL CAMPO INTERESSI DIVERGENTI

Mosca, tuttavia, appoggia il generale Khalifa Haftar e sarebbe presente sul campo con alcune migliaia di mercenari: una scelta opposta rispetto a quella fatta da Roma, che al contrario sostiene il governo del premier Fayez al-Serraj. In Libia, ha detto non a caso Di Maio, ci sono «troppe interferenze, mentre ogni iniziativa dovrebbe entrare nell’alveo della Conferenza di Berlino. Non perché ci sia una presunzione di superiorità europea, ma perché se tutti sono impegnati a lavorare sul cessate il fuoco è importante non promuovere fughe in avanti».

LA STOCCATA DI LAVROV ALLA NATO

Lavrov, intervenendo ai Med Dialogues, non ha risparmiato una stoccata all’Alleanza atlantica: «In Libia la Nato ha svolto un’avventura pericolosa, che ha avuto un impatto negativo sull’economia del Paese. Solo con un dialogo inclusivo e internazionale si potrà risolvere la crisi. Plaudiamo all’iniziativa della cancelliera Merkel, che ha organizzato la Conferenza di Berlino per proseguire quella di Parigi e quella di Palermo» Ma la Conferenza di Berlino «ci ha meravigliato perché non sono state invitate le parti libiche e i Paesi vicini, quindi in questo senso è stata un’occasione persa. Spero che in futuro vengano fatti passi in avanti con un approccio più inclusivo».

UNA «RIFLESSIONE POLITICA» SULLE SANZIONI EUROPEE

Quanto alle sanzioni europee in risposta alle azioni russe contro l’integrità territoriale dell’Ucraina, Di Maio ha detto che l’Italia «si muove nel solco dell’Unione europea», ma vuole «promuovere una riflessione politica che preveda gli effetti sulle nostre aziende delle sanzioni e delle contromisure russe».

IL DOSSIER PARMIGIANO

Allo stesso tempo «servono passi avanti sugli accordi di Minsk, fondamentali per riuscire a scongelare la situazione». Il titolare della Farnesina ha quindi chiesto a Lavrov di «rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano», perché a suo giudizio «non rientrano nei parametri di quelle ideate nei confronti dell’Unione europea». Una mossa spendibile anche in ottica elettorale, visto che in Emilia-Romagna si vota il 26 gennaio. Il leader del M5s ha infine annunciato che a luglio sarà in Russia per ricambiare la visita diplomatica e per partecipare all’Innoprom, la fiera sulla tecnologia.

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Perché sulla prescrizione Di Maio e il governo si giocano il futuro

Trovare un'intesa o far crollare tutto: giustizia decisiva per le sorti dei giallorossi. E anche per quelle del capo M5s: in caso di elezioni sarebbe sostituito da Di Battista. Ma tra paletti renziani e scenari di asse Pd-Forza Italia l'accordo sembra lontano.

La prescrizione potrebbe essere la miccia accesa per far deflagrare il governo. La preoccupazione rimbalza da Palazzo Chigi alle Camere, attraversando le segreterie dei partiti. È il tema su cui Luigi Di Maio manifesterà le reali intenzioni sull’alleanza con Partito democratico e Italia viva. Nei fatti può tirare la corda fino a spezzarla, senza che nessuno gli possa rinfacciare alcunché: la cancellazione della prescrizione è una misura bandiera del Movimento 5 stelle.

BONAFEDE IN PRIMA FILA

Fonti della maggioranza osservano: «Nessuno potrà polemizzare sulla prescrizione. Nemmeno i suoi più tenaci detrattori». Di sicuro al fianco di Di Maio c’è il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha voluto questo provvedimento quando era al governo con la Lega e che lo sta difendendo anche dai rilievi del Pd.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all’epoca del governo gialloverde con la Lega di Matteo Salvini.

ATTESO UN GESTO DI CHIAREZZA DAI CINQUE STELLE

Dunque se il numero uno della Farnesina vuole davvero far cadere il Conte II ha l’occasione giusta: quasi irripetibile. Al contrario se dovesse mostrare disponibilità a trovare un’intesa, allora agli alleati arriverebbe un messaggio chiaro: la volontà, nonostante tutto, di proseguire con il governo. Insomma, sulla prescrizione è atteso il gesto di chiarezza invocato da più parti, qualunque sia la direzione.

DI MAIO PERÒ RISCHIA ANCHE LA SUA FINE POLITICA

La partita presenta un alto coefficiente di rischio per Di Maio: la fine di questo esecutivo sarebbe in pratica la fine della sua parabola politica. Una prescrizione delle sue ambizioni. La coalizione con i dem è tuttora sponsorizzata da Beppe Grillo: resta convinto che il Conte II sia un’opportunità per il M5s. La sola idea di staccare la spina fa virare i suoi umori verso il nero. E chissà che l’Elevato, come si è proclamato l’ex comico, in caso di crisi di governo non decida di avviare “il processo” di destituzione del capo politico, raccogliendo tutti i malumori nel Movimento. Che sono tanti e solidi, come testimonia il costante sbandamento dei gruppi parlamentari.

DA ESCLUDERE UN RITORNO CON LA LEGA

Di Maio dovrebbe avere un piano B da tirar fuori come un coniglio dal cilindro per garantirsi un futuro politico. Neppure nella più incallita professione di ottimismo può immaginare di tirare dritto, come se nulla fosse, di fronte all’eventuale showdown che porterebbe il Paese alle elezioni. Perché non ci sono altre strade percorribili. Il remake dell’alleanza con la Lega è impraticabile per varie ragioni. Prima di tutto i gruppi parlamentari del M5s sono nettamente contrari a un ritorno al passato; inoltre Matteo Salvini non avrebbe alcun motivo per tornare indietro.

DI BATTISTA PRONTO A DIVENTARE NUOVO UOMO IMMAGINE

E infine il Quirinale ha fatto filtrare più volte l’orientamento: dopo il Conte II è quasi impossibile pensare che possano esserci altri esecutivi in questa legislatura. Quindi resta solo lo scenario elettorale e l’ipotesi del tandem con Alessandro Di Battista: l’ex deputato sarebbe l’uomo immagine con il capo politico a fare da regista alle spalle. Ma si torna al punto di partenza: è una sfida spericolata, che finge di non considerare gli effetti del trauma di una rottura. E che ignora il calo nei sondaggi.

di maio di battista prescrizione
Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista. (Ansa)

M5S CONTRO I «PALETTI RENZIANI»

Guarda caso, però, proprio Di Battista è tornato a pestare duro sulla cancellazione della prescrizione, rinsaldando la ritrovata intesa con il leader del Movimento. «I politici del Pd, che osano mettere a rischio questa norma di civiltà, dovrebbero avere il coraggio di andare dai familiari dei morti di Casale Monferrato, guardarli negli occhi e imbastire le ormai ventennali supercazzole sul tema», ha attaccato ricordando le vittime dell’Eternit e parlando poi di «pali renziani» all’interno del Pd.

CONTE, FIUTATA L’ARIA, VUOLE MEDIARE

Praticamente in contemporanea Di Maio ha evocato un Nazareno 2.0 sulla Giustizia, una rinnovata intesa PdForza Italia, sfoderando il lessico marcatamente ostile ai dem. Giuseppe Conte ha fiutato l’aria ed è intervenuto dicendosi di sicuro che sarà «trovata una soluzione». Le ostilità sono aperte e la tensione è troppo alta: per questo il presidente del Consiglio ha cercato di stemperare la polemica.

IL PD OSSERVA E NON FA PASSI INDIETRO

A Largo del Nazareno, intanto, non c’è alcuna intenzione di giocare al ruolo di “responsabili” a ogni costo. Sul tema della prescrizione men che meno. Il segretario Nicola Zingaretti ha lanciato avvertimenti chiari: c’è stato il tweet di Pierluigi Castagnetti, figura molto vicina al Quirinale, sulla chiusura del sipario di questo esecutivo, poi l’intervista di Goffredo Bettini, in estate grande tifoso del “governo di legislatura” con il Movimento, che ha avvertito come la pazienza stia per finire. A seguire le dure prese di posizione dei capigruppo di Camera e Senato, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, che hanno vestito i panni delle colombe durante la nascita del Conte II. Ma anche loro sono irritati. Segnali di fumo non trascurabili. Per il momento la linea politica è quella di osservare cosa accade nel Movimento, senza cedere, cercando di comprendere il progetto di Di Maio. Che continua a muoversi su un filo.

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E ora serve un bel “vaffa” di Zingaretti a Di Maio

Farsi imbottigliare dalle stupidaggini del M5s, che continua a guardare verso destra, è un errore fatale. Meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri.

La cronaca politica propone due domande: ma che cosa vogliono Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? Ovvero vogliono qualcosa? L’unica cosa chiara è che i due baciati in fronte da Beppe Grillo hanno il terrore di finire male.

Per loro finire male significa uscire dall’orbita reale, per l’uno, potenziale per l’altro, del governo. E oggi l’orbita del governo ruota attorno a Salvini-Meloni.

L’altra paura è che hanno la matematica certezza che se non fanno ammuina il loro movimento arriva alle elezioni “sminchiato”, quindi con pochi voti e probabilmente senza quelli che potrebbero eleggere l’uno e l’altro o l’uno o l’altro.

DI MAIO E DI BATTISTA CONTINUANO A GUARDARE A DESTRA

Era sembrato, nelle scorse settimane, che Beppe Grillo riuscisse a portare i pentastellati fuori dall’attrazione pericolosa della destra. Grillo aveva addirittura immaginato di progettare cose in comune con il Pd. Di Maio e Di Battista, e forse Casaleggio, hanno detto di “sì”, ma si sono mossi lungo la strada opposta. Nessuno di noi sa se Matteo Salvini e soprattutto la sua temibile competitrice Giorgia Meloni vorranno aggregare questi due giovani cadaveri della politica nel governo che faranno dopo le elezioni, tuttavia Di Maio e Di Battista, fedeli figli di cotanti padri di destra, cercano da quelle parti la soluzione che li porti ad una più che dignitosa sopravvivenza economica.

Quando cadrà il governo Conte sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto

Il dramma dei cinque stelle, nati sulla base di una cultura che definimmo populista, di decrescita felice, di guerra alla democrazia rappresentativa, è che oggi sono il nulla assoluto. Da quelle parti ci sono solo “no”, sulle cose che capiscono, e ancora “no” su quelle che non capiscono. E tutto ciò accade mentre gran parte del loro elettorato è scappato e altro andrà via quando cadrà il governo Conte e sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto, una sistemazione, una cosa per campare. Sta arrivando il momento in cui la voracità della destra riuscirà a cancellare l’episodio grillino.

LA SINISTRA DEVE MOLLARE IL M5S PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Chi di noi analizzò il fenomeno dei cinque stelle non in base alla composizione sociale ma in relazione alla cultura che esprimevano e alla direzione di marcia che avevano preso, non sono sorpresi né dalla svolta a destra né dalla loro prossima fine. Questo non vorrà dire che il sistema politico si sistemerà. La pattuglia grillina nel prossimo parlamento, a meno che non vengano fatti fuori Di Maio e i suoi e che Di Battista vaghi a fare niente per il mondo, sarà il più massiccio episodio di ascarismo parlamentare. «Accattataville».

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano.

Salvini dovrà far digerire ai suoi il ritorno dei traditori, per giunta statalisti. La Meloni non li ha mai sopportati. Resta la sinistra che tarda a comprendere che farsi imbottigliare dalle stupidaggini di Di Maio e Salvini su un fondo salva Stati che quei due conoscevano e che, lo vogliano o no, ci sarà, è un errore, meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri. Perché l’unica campagna elettorale che si può fare richiede di rubare alle sardine il tema della civiltà politica e alla destra “sovranista e antitaliana” la questione dell’onore della patria che la destra attuale vorrebbe nuovamente serva di una potenza straniera.

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Di Maio fa il pompiere sul Mes

Il leader del M5s dopo il gelo con il premier: «Ho sentito Conte e siamo in piena sintonia». Ma l'asse con Di Battista preoccupa il Pd. Occhi puntati sul ministro Gualtieri, che all'Eurogruppo tratterà modifiche alla riforma del fondo salva-Stati.

Negoziare all’Eurogruppo e con i leader europei, ottenere almeno un rinvio della firma del Meccanismo europeo di stabilità.

Per raffreddare gli animi in Senato ed evitare che l’11 dicembre una spaccatura della maggioranza apra una crisi politica. Il rischio c’è, affermano dal Pd, anche perché il gruppo M5s è spaccato e imprevedibile. In più, preoccupa l’asse di Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista contro la riforma del fondo salva-Stati: «Il M5s è l’ago della bilancia, decidiamo noi».

Il ministro degli Esteri invia un segnale distensivo: «Conte l’ho sentito due ore fa e siamo in piena sintonia, sia sul Mes sia sul tema della prescrizione», ha detto a Di Martedì su La7. Ma i dem non si fidano e le fibrillazioni preoccupano anche Italia viva.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

Nelle prossime ore gli occhi saranno tutti puntati sul ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che all’Eurogruppo tratterà con gli alleati europei sul Mes. In discussione non c’è l’impianto del Meccanismo, ma regolamenti secondari ancora oggetto di negoziato. In più, in una “logica di pacchetto”, si avvierà la trattativa sull’Unione bancaria, che è ancora a una prima stesura: il ministro, come più volte affermato, dirà che l’Italia si oppone al meccanismo – sostenuto dalla Germania ma per noi svantaggioso – che punta a ponderare i titoli di Stato detenuti dalle banche sulla base del rating dei singoli Paesi.

LA FIRMA DEL MES NON PRIMA DI FEBBRAIO

Anche Conte, nei suoi colloqui a margine del vertice Nato di Londra, discuterà del “pacchetto” europeo con gli altri leader, a partire da Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Ma è il fattore tempo quello su cui il governo spera di far leva, nell’immediato. La firma del Mes, anche per ragioni tecniche, non dovrebbe arrivare prima di febbraio. Da quel momento i singoli Paesi dovranno ratificare il trattato. La speranza è che i dubbi emersi anche in Francia e fattori come la crisi di governo a Malta possano spingere la lancetta un po’ più in là.

LA DIFFICILE RICERCA DI UN’INTESA IN PARLAMENTO

Negoziazioni nell’ambito del “pacchetto” Ue e rinvii saranno la leva sulla quale si cercherà di plasmare un’intesa di maggioranza sulla risoluzione che dovrà essere votata l’11 dicembre in Parlamento, alla vigilia della partecipazione di Conte al Consiglio europeo. «Sono legittime diverse sensibilità», dichiara il premier cercando di placare gli animi e assicurando che «l’ultima parola spetta al Parlamento» e che «lavoriamo per rendere questo progetto utile agli interessi dell’Italia».

BASTA UNA MANCIATA DI VOTI PER METTERE IN CRISI IL GOVERNO

Da Bruxelles, però, Matteo Salvini incalza e rilancia Mario Draghi come candidato al Colle: «Il trattato non è emendabile, bisogna bloccarlo. Conte ha lo sguardo di chi ha paura e scappa». Lega e Fratelli d’Italia non faranno sconti in Aula. Ed è in Aula che può scoppiare l’incidente. Perché, spiegano fonti dem dal Senato, è impossibile prevedere i comportamenti dei senatori M5s (Paragone e Giarrusso già si sono smarcati). I “contiani” lavorano a un’intesa, ma basta una manciata di voti a far andare in minoranza il governo. Di qui il pressing su Di Maio perché lavori per compattare le truppe su una posizione unica e chiara in asse con il governo. Il M5s sta lavorando a una risoluzione di maggioranza, a partire dalle proprie posizioni. Ma i dem non sono disposti a cedere. Per chiudere, servirà probabilmente un nuovo vertice di maggioranza. Ma, come emerge da un incontro di Italia viva con Conte, i punti di divergenza sono tanti e il clima sempre più agitato.

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Nel M5s Di Battista in soccorso di Di Maio contro il Mes

Dopo il gelo con Conte, il capo politico grillino rialza la testa: «Si firma tutto il pacchetto del Salva-Stati. Saremo noi a decidere se e come passa». E Dibba approva sui social. Ma il Pd: «Non è un governo monocolore». Salvini: «Trattato non emendabile, da bloccare».

Nel day after sul Mes Luigi Di Maio ha provato a rialzare la testa. Dopo l’informativa alle Camere, il gelo col premier Giuseppe Conte e il clima da separati in casa nel governo, con lo spauracchio della crisi che riaffiora costantemente, il capo politico del Movimento 5 stelle è intervenuto su Facebook: «Conte ha detto che tutti i ministri sapevano di questo fondo. Sapevamo che il Mes era arrivato a un punto della sua riforma, ma sapevamo che era all’interno di un pacchetto, che prevede anche la riforma dell’unione bancaria e l’assicurazione sui depositi. Per il M5s queste tre cose vanno insieme e non si può firmare solo una cosa alla volta».

DI BATTISTA: «COSÌ NON CONVIENE ALL’ITALIA»

Col ministro degli Esteri si è schierato anche un altro “big” grillino, Alessandro Di Battista, lui che è stato “accusato” di voler spostare il M5s verso destra proprio assieme a Di Maio. E in un commento social Dibba ha appoggiato la linea del capo: «Concordo. Così non conviene all’Italia. Punto».

DI MAIO: «SIAMO L’AGO DELLA BILANCIA»

Di Maio tra le altre cose ha spiegato che «il M5s dice che c’è una riforma in corso, prendiamoci del tempo per fare delle modifiche che non rendano questo fondo un pericolo. Siamo al governo. Questo significa che abbiamo la possibilità, ma anche la responsabilità, di agire per migliorare le cose». E infine: «Il M5s continua a essere ago della bilancia. Decideremo noi come e se dovrà passare questa riforma del Mes».

MA IL PD LO FRENA: «NON È UN GOVERNO MONOCOLORE»

Non ha proprio la stessa idea degli equilibri di maggioranza il capogruppo del Partito democratico al Senato, Andrea Marcucci. Che intervistato da La Stampa sui pericoli di rottura ha detto: «Inutile ignorare i rischi, io però scommetto sul buon senso». E con Di Maio cosa sta accadendo? «Avute le necessarie spiegazioni dal premier sull’iter del provvedimento, si ravveda. Se non lo facesse, sarebbe chiamato a trarne le conseguenze sulla vita del governo», ha risposto Marcucci, ricordando che «il M5s non è alla guida di un monocolore, questo è un governo di coalizione, dove le posizioni di tutta la maggioranza devono essere tenute in considerazione».

SALVINI: «DA BRUXELLES DICONO CHE IL TRATTATO È CHIUSO»

Dal centrodestra Matteo Salvini ha tenuto la sua linea parlando da Bruxelles: «La nostra posizione è quella dei cinque stelle, il trattato così come è non è accettabile, va visito, ridiscusso, ridisegnato, emendato, che è l’esatto contrario di quello che arrivava da Bruxelles dicendo il pacchetto è chiuso. Mi sembra che il premier abbia diversi problemi, non lo invidio».

Siamo contro le modifiche, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto


Matteo Salvini

Poi ha chiuso ulterioremente ogni margine di trattativa: «Noi non abbiamo cambiato posizione rispetto a sette anni fa, eravamo contro allora e siamo contro le modifiche oggi, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto. Quando parlavo di emendabilità riportavo le parole del vice capogruppo dei cinque stelle Silvestri che esprimeva tutti i suoi dubbi alla Camera. Per noi è una esperienza chiusa, che non è utile né modificare né ripetere».

«NESSUNO MI HA MOSTRATO IL TESTO CON LE MODIFICHE»

Prima, su Rai Radio1 a Radio anch’io, aveva detto: «Stiamo parlando di un trattato che coinvolge 124 miliardi di euro degli italiani con delle regole di distribuzione e di prestito a decenni che in questo momento andrebbero ad avvantaggiare il sistema economico e bancario tedesco. Nessuno mi ha mai fatto vedere il testo delle modifiche di questo trattato. Io non ho mai letto il testo ed è grazie a noi che ne stiamo parlando altrimenti Conte e Gualtieri non sarebbero mai venuti in Aula. Il parlamento deve poter intervenire su quel testo».

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Caos M5s, Di Maio isolato anche dai fedelissimi

Il partito naviga a vista. Anche gli uomini più vicini al capo politico sono preoccupati per la tenuta del governo. Il riavvicinamento alla linea barricadera di Di Battista basterà per restare a galla?

Un uomo solo al comando. Ma in questo caso non è Fausto Coppi e c’è veramente poco di epico. Si tratta infatti di Luigi Di Maio.

Il capo politico M5s è in una condizione di crescente isolamento: addirittura i fedelissimi cominciano a manifestare un certo scetticismo sulle fughe in avanti del ministro degli Esteri. Soprattutto quando filtra l’ipotetica rottura con il Partito democratico.

I MESSAGGI DI BONAFEDE

«Non mi piace questo continuo riferimento a far saltare il governo. Noi siamo al governo per lavorare per i cittadini. Ciascuno si prende le responsabilità politiche delle proposte che porta avanti», ha scandito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lanciando un messaggio al Pd (contro le ipotesi di rotture definitive sulla prescrizione), affinché Di Maio intendesse.

Luigi Di Maio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (Getty).

In alcune situazioni, come sullo scudo penale per l’ex Ilva, il capo politico ha pubblicamente evocato la crisi. Altre volte è stata una voce del sen fuggita, e raccolta come indiscrezione, salvo poi essere smentita. Comunque un modo per inviare segnali di fumo ai suoi e agli alleati. E alimentare sospetti.

LEGGI ANCHE: Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

I MALESSERI DI SPADAFORA

La presa di posizione di Bonafede non è passata inosservata. Il Guardasigilli è un fedelissimo del leader che ha voluto confermarlo in via Arenula durante la formazione del Conte II, sfidando le resistenze del Pd. Se uno come lui dissente dalla linea della “minaccia al governo” è una spia che si accende. Le sue affermazioni fanno da sponda alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico, che qualche giorno fa ha invitato a far lavorare il parlamento fino al 2023. Dando una prospettiva di legislatura, l’opzione che preferisce. Un malessere simile è vissuto dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, grande sponsor del Conte II e considerato consigliere molto ascoltato da Di Maio.

Luigi Di Maio con Vincenzo Spadafora.

«Ho ascoltato con attenzione e sono rimasto molto affascinato dal racconto dell’astronauta Maurizio Cheli e ci ho trovato molte analogie con la politica di oggi», ha detto Spadafora il 28 novembre, come riportato dalla Dire. «Per esempio è vero che non puoi scegliere sempre con chi lavorare, che devi saper sopportare delle situazioni difficili e, come sullo Shuttle, è vero che basta premere il pulsante sbagliato per far esplodere tutto. Mi sembra un po’ la situazione in cui ci troviamo anche oggi col governo».

ALLA CAMERA IL M5S ANCORA SENZA GUIDA

Per molti ministri sembra il remake del film visto con il Conte I, quello con Matteo Salvini che minacciava un giorno sì e l’altro pure la fine dell’esecutivo. In un clima del genere anche il sottosegretario alla presidenza, Riccardo Fraccaro, appare in difficoltà. Da sempre è considerato un punto fermo del Movimento a trazione dimaiana, alfiere del taglio del numero dei parlamentari: il capo politico ha fatto di tutto pur di averlo a Palazzo Chigi, compresa la minaccia di far saltare la trattativa (già allora) per la nascita del governo. Così il sottosegretario resta prudente, fedele alla linea, annotando però il malcontento generale. A cominciare dall’insofferenza dei parlamentari: l’elezione del capogruppo alla Camera è diventata una telenovela che va avanti da ottobre, quando Francesco D’Uva ha lasciato l’incarico. L’unica certezza è che il prossimo presidente dei deputati avrà posizioni divergenti dalla leadership. Nell’ultima votazione si sono sfidati Davide Crippa e Riccardo Ricciardi, entrambi non proprio etichettabili come fedelissimi di Di Maio. Intanto c’è il concreto rischio di affrontare passaggi delicati a Montecitorio, dal dibattito sul Mes alla Legge di Bilancio, senza una guida riconosciuta.

Beppe Grillo con Luigi Di Maio in un fermo immagine tratto dal Blog delle Stelle.

DI MAIO E LA RITROVATA (E FORZATA) INTESA CON DI BATTISTA

La situazione non è tornata serena nemmeno dopo l’incontro tra Di Maio e il garante Beppe Grillo. Il faccia a faccia non ha prodotto i risultati auspicati. Appena sono finiti il video e le foto di rito, tutto è tornato in un magma indistinto. Così il ministro degli Esteri, avvertito l’isolamento politico, è stato tentato dal ritorno al passato, alla linea barricadera delle origini. In questa ottica viene letta la ritrovata intesa con Alessandro Di Battista, per cui l’alleanza con il Pd resta il male assoluto. Ed ecco che è stata sposata la strategia di attacco sulle concessioni ad Autostrade, sull’Europa matrigna, che mette sul tavolo il Mes, sulla sfida a Matteo Renzi per il caso Open e la questione delle fondazioni

I RIPOSIZIONAMENTI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO

Continui sommovimenti che preoccupano. «Da noi non esistono correnti», giurano nel M5s. Ed è una realtà: le correnti vere hanno comunque una struttura, dei punti di riferimento. In questo caso è tutto insondabile. Un esempio è il caso del senatore Gianluigi Paragone: sembrava diventato arcinemico di Di Maio, per la sua ostilità all’intesa con i dem. La rinnovata comunanza di vedute con Di Battista modifica però il posizionamento rispetto alla leadership pentastellata. Certo, esiste un’ala riconducibile a Fico, capitanata dal deputato Luigi Gallo, ma non si può definire una rete organizzata. Talvolta, specie sulla riorganizzazione del M5s, le posizioni incrociano quelle dei frondisti, gli ex ministri ed ex sottosegretari che masticano amaro per aver perso il posto al governo. Ma che a differenza di Fico non sono proprio entusiasti del governo con Pd, LeU e Italia Viva. Così diventa difficile avere una mappa chiara degli interlocutori anche per i dem. 

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (Ansa).

SUGGESTIONE PATUANELLI

Di Maio, nel suo essere uomo solo al comando, è inevitabilmente sotto pressione. Tanto che circolano ipotesi di una sostituzione con il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, l’uomo delle emergenze. Da capogruppo al Senato ha risposto colpo su colpo alla Lega, quando l’alleanza era agli sgoccioli, tenendo unito il gruppo. Adesso ha sul tavolo questioni scottanti, come l’ex Ilva e Alitalia, senza subire ricadute di immagine. È pur vero che Patuanelli ha bollato come «gossip» l’ipotesi della sua ascesa alla leadership. Ma non è un mistero che molti, soprattutto i parlamentari, vorrebbero affidargli una nuova emergenza. Il destino del Movimento 5 stelle.

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Di Maio e Di Battista non vanno a destra, sono di destra

Per Repubblica i due leader pentastellati stanno riportando il Movimento vicino ai sovranisti. La verità è che sono politici senza arte né parte in cerca di sopravvivenza.

Repubblica annuncia che Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista «riportano a destra il M5s». Ohibò! Siamo di fronte a un evento epocale e inaspettato! Vediamo come possiamo reggere l’effetto d’annuncio di questa rivelazione. Possiamo sopportare il peso e il dolore di questa notizia solo facendo solo affidamento su alcuni dati della realtà.

Il primo è che Di Maio e Di Battista “sono” di destra. Lo sono per tradizione familiare. Di Battista ha il papà più fascista che ci sia in giro, non è una colpa, semmai è divertente leggere le sue dichiarazioni che fanno apparire Alessandra Mussolini una radical chic. Il secondo è che Di Maio e Di Battista senza Matteo Salvini non sarebbero diventati l’uno vice-primo ministro, l’altro l’eterna promessa dei pentastellati con viaggi pagati per scrivere reportage fra i più buffi dell’editoria mondiale.

Terzo perché il mare di cazzate che i due riescono a dire nel corso di una stessa giornata si regge solo se è diretto verso una base talmente arrabbiata e di destra da non badare a quello che i capi dicono, facendosi bastare i loro improperi. Quarto perché i due ragazzi hanno famiglia, Di Battista ha addirittura un figlio, e pensano all’avvenire e come tanti, pure i giornalisti clintoniani, hanno in mente che, per sopravvivere, bisogna patteggiare anzitempo con il vincitore annunciato, cioè quel genio di Matteo Salvini (prosit).

L’ELETTORATO DI DESTRA DEL M5S È GIÀ PASSATO ALLA LEGA

Vanno a destra? Sono di destra. Il loro problema è la somma di più inciampi che troveranno sulla strada. Il primo è che l’elettorato di destra del M5s se ne è già andato. Se non ci fosse Beppe Grillo a salvarlo, Di Maio starebbe già per strada con una busta di plastica in attesa del ritorno dall’Iran di Di Battista.

Salvini ha una politica di accoglienza dei rottami dell’establishment che è l’opposto di quella che usa verso i poveri migranti

Il secondo è che Salvini ha una politica di accoglienza dei rottami dell’establishment che è l’opposto di quella che usa verso i poveri migranti: cioè prende tutto, non bada alla loro storia, alla fedina penale, alla caratura elettorale. Però persino per il leader della Lega è difficile imbarcare questi due personaggi che nel momento cruciale della sua vita politica, approfittando di una sua sbornia estiva, l’hanno scaricato come una escort.

Il contratto di governo tra M5s e Lega che diede vita al governo Conte 1 (foto Claudio Furlan/LaPresse).

Il terzo è che l’elettorato leghista profondo non va molto per il sottile e si becca tutto in vista della vittoria che porterà alla famosa presa del potere, ma Di Maio e Di Battista sono i rappresentanti di quello Stato spendaccione e anti-industriale che ai padroncini del Veneto e della Lombardia fanno venire il sangue alla testa.

DI MAIO E DI BATTISTA DIVENTERANNO PERSONAGGI DA ROTOCALCO

La conclusione di queste considerazioni è che la notizia non c’è, ma ha fatto bene l’erede di Ezio Mauro (quanto ci manchi!) a darla. Per una ragione. La sinistra deve cercare, visto che si è imbarcata nell’avventura del Conte 2, di trarre più sangue dalle rape di questo governo, ma deve soprattutto armarsi per il futuro, per rendere onorevole la sconfitta e prepararsi, nei mesi successivi a un governo di destra che Salvini porterà rapidamente al crollo, a ereditare il consenso di delusi e di chi con i nuovi movimenti sposterà la pubblica opinione civile italiana.

Senza Grillo Di Maio e Di Battista sono due poveri disgraziati in cerca di sopravvivenza.

Di Maio e Di Battista sono stati inventati da Grillo. Senza Grillo sono due poveri disgraziati in cerca di sopravvivenza. Già li vedo gli articoli dei rotocalchi su di loro, fra qualche anno, quando con foto e pezzi di colore racconteranno le miserie di due che erano arrivati al successo e l’hanno sprecato.

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La visita di Grillo all’ambasciata cinese e l’imbarazzo del governo

Dopo l'incontro del fondatore del M5s con Li Junhua nella sede diplomatica di Pechino a Roma erano arrivate critiche e domande da parte di Lega e Pd. Il ministro degli Esteri nonché capo politico grillino Di Maio alla Camera: «Non è andato a nome dell'esecutivo. Non siamo tenuti a risponderne».

Una visita che non è certo passata inosservata. Finendo per imbarazzare il governo. Beppe Grillo all’ambasciata cinese di Roma: l’incontro datato 23 novembre si è portato dietro diverse polemiche politiche. Tanto da costringere l’esecutivo a una spiegazione ufficiale in parlamento.

FACCIA A FACCIA DI OLTRE DUE ORE E FOTO SU FACEBOOK

I fatti: il fondatore e guru del Movimento 5 stelle ha trascorso oltre due ore sabato nella sede diplomatica del quartiere Parioli e la sera prima a cena aveva avuto un incontro con l’ambasciatore di Pechino Li Junhua.

Un piacevole incontro ieri con l'Ambasciatore della Cina Li Junhua. Gli ho portato del pesto e gli ho detto che se gli…

Posted by Beppe Grillo on Sunday, November 24, 2019

Nulla di particolarmente segreto, visto che Grillo ha pubblicato una foto su Facebook a testimoniare il faccia a faccia. Con questo commento ironico: «Un piacevole incontro con l’ambasciatore della Cina Li Junhua. Gli ho portato del pesto e gli ho detto che se gli piacerà dovrà avvisarmi in tempo perché sarei in grado di spedirne una tonnellata alla settimana, sia con aglio che senza, per incoraggiare gli scambi economici!».

IL BLOG CHE NEGA LA REPRESSIONE SUGLI UIGURI

Ma in un momento di gravi tensioni tra Cina e Hong Kong, e nei giorni in cui il Blog di Grillo ha sposato la propaganda di Pechino negando la repressione degli uiguri, diversi politici hanno chiesto chiarimenti.

È andato là a parlare di cosa? Di business di telecomunicazione, di internet, di 5G, di piattaforma Rousseau, di via della Seta?


Matteo Salvini

Il leader della Lega Matteo Salvini in diretta Facebook non si è lasciato sfuggire l’occasione di attaccare gli ex alleati: «Sono democratico e ognuno è libero di incontrare chi vuole, ma vi sembra normale che un capo politico come Grillo, in un momento in cui ci sono tanti dossier economici aperti, vada a incontrare una-due-tre volte l’ambasciatore cinese?». Poi l’ex ministro dell’Interno si è chiesto: «È andato là a parlare di cosa? Di business di telecomunicazione, di internet, di 5G, di piattaforma Rousseau, di via della Seta? E poi parlano di conflitti d’interessi degli altri».

QUARTAPELLE (PD): «INQUIETANTE DA CHI ERA PRO TIBET»

Lia Quartapelle, capogruppo del Partito democratico in commissione Esteri, in un’intervista a La Stampa a proposito della situazione di Hong Kong aveva detto: «C’è questa novità inquietante di Grillo che pare addirittura sposare la posizione cinese. Anche io sono stata in ambasciata e ho espresso la mia preoccupazione per Hong Kong. La cosa bizzarra è che Grillo ci sia andato due volte e non abbia rilasciato dichiarazioni. Lui, che un tempo era pro Tibet e anche pro uiguri, adesso non dice nulla. Comunque il problema non è lui, la politica si fa nelle sedi istituzionali».

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Lia Quartapelle del Pd. (Ansa)

Non spetta al governo rispondere di questo tipo inviti di esponenti della società civile nelle sedi diplomatiche


Luigi Di Maio

E nella sede istituzionale della Camera Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ma anche capo politico del M5s fondato da Grillo, ha detto rispondendo a una domanda durante il Question time: «Il signor Grillo ha ricevuto un invito dell’ambasciatore cinese, ed è andato non rappresentando il governo». Di Maio ha aggiunto che «non spetta all’esecutivo rispondere di questo tipo inviti di esponenti della società civile nelle sedi diplomatiche, che peraltro avvengono regolarmente non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi».

DI MAIO A SALVINI: «E LE SUE VISITE IN RUSSIA?»

Alla trasmissione Agorà invece Di Maio aveva replicato così a Salvini: «Capita spesso che un ambasciatore voglia incontrare una personalità italiana. Perché scandalizza questa visita di Grillo quando non c’è alcuna possibilità che lui sia andato a portare la pozione del governo italiano. Piuttosto sono rimasto colpito dalle visite di Salvini in Russia».

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Di Maio prova a ripartire dalla riforma della giustizia

Il leader del M5s incalza il Pd sulla prescrizione: «Possiamo fare questo passo insieme». Ma la trattativa non è ancora finita. All'orizzonte ci sono le Regionali: in Calabria potrebbe tornare in campo Callipo, in Emilia-Romagna liste in alto mare.

Luigi Di Maio prova a riscrivere la sua agenda di capo politico del M5s dopo il faccia a faccia con Beppe Grillo. Il garante pentastellato ha chiesto un forte rilancio della maggioranza sull’azione del governo. E così Di Maio, in piena crisi di leadership, mentre da una parte fa partire il difficile confronto sul territorio per le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, dall’altra mette sul tavolo i desiderata del Movimento per l’esecutivo.

In cima alla lista c’è il cavallo di battaglia per eccellenza del M5s, la riforma della giustizia, a partire dalla prescrizione. Le modifiche su quest’ultimo punto sono già state approvate con la legge che ha inasprito le pene per i reati di corruzione, la cosiddetta spazzacorrotti. Previsto il blocco dei tempi dopo il primo grado di giudizio, con entrata in vigore dal primo gennaio 2020. Il Pd, tuttavia, finora si è opposto, chiedendo prima che la riforma del processo penale velocizzi la durata dei procedimenti. La trattativa tra dem, renziani e il ministro Alfonso Bonafede non è ancora finita.

«Questo governo può davvero cambiare le cose. Ma le parole non bastano, servono i fatti», ha scritto Di Maio su Facebook, lanciando un monito proprio al Pd. Ai partner di governo viene chiesto di «andare avanti, non indietro». E di non comportarsi come Matteo Salvini, visto che a battersi contro quella che viene definita una norma «di assoluto buon senso» in prima fila ci sono Lega e Forza Italia.

LEGGETE E CONDIVIDETE! SULLA PRESCRIZIONE E SU UN PAESE CHE DEVE ANDARE AVANTI (E NON INDIETRO)Vittime di disastri,…

Posted by Luigi Di Maio on Monday, November 25, 2019

LEGGI ANCHE: Luciano Violante sui veri problemi della giustizia italiana

Di Maio incassa la sponda del premier Giuseppe Conte, che ha sottolineato come la riforma della giustizia non solo figuri nei punti programmatici della maggioranza, ma sia anche «fortemente voluta dal presidente del Consiglio». Ovvero da lui stesso. Il Pd, per il momento, non ha replicato ufficialmente. Ma fonti dem vicine al dossier tendono a considerare l’uscita di Conte come un segnale della volontà del premier di farsi carico di una mediazione.

IL PD STORCE IL NASO

Il Pd, com’è noto, chiede l’introduzione di limiti alla durata dei processi, una sorta di prescrizione processuale. E interpreta il post di Di Maio come una provocazione demagogica, che semplifica eccessivamente la questione mentre le parti stanno cercando di raggiungere una sintesi. Di Maio ha rilanciato anche sulla revoca delle concessioni ad Autostrade per l’Italia («Bisogna muoversi») e sul carcere per i grandi evasori. Ma all’orizzonte ci sono le Regionali del 26 gennaio 2020.

IL REBUS DELLE REGIONALI IN EMILIA-ROMAGNA E CALABRIA

Mentre in Calabria si vocifera di un possibile ritorno in campo dell’imprenditore del tonno Pippo Callipo, in Emilia-Romagna la partita si fa sempre più complicata. Il capo politico del M5s ha incontrato a Bologna gli eletti e gli attivisti, per cercare di trovare una soluzione all’impasse che si è aperta dopo il voto su Rousseau che ha sconfessato Di Maio e ha detto sì alla presentazione delle liste. Ma sia in Calabria, sia in Emilia-Romagna i pentastellati sono divisi. Il deputato “ortodosso” Giuseppe Brescia ha chiesto, assieme all’ex deputata Roberta Lombardi, di rimettere ai voti dei soli iscritti emiliani e calabresi la scelta di come andare al voto: «Non escluderei di tornare su Rousseau per chiedere agli attivisti se preferiscono vederci correre da soli oppure alleati con il Pd», ha detto Brescia.

TEMPO FINO AL 4 DICEMBRE PER LE CANDIDATURE

La vicepresidente della Camera, Maria Elena Spadoni, non concorda: «Penso che sia ormai troppo tardi per aprire a qualsiasi tipo di alleanza, oltretutto non prevista dal nostro statuto», alludendo evidentemente anche alla possibilità di optare per il voto disgiunto, al M5s e al candidato governatore del Pd. Con una presa d’atto finale: «In Emilia i nostri attivisti e consiglieri comunali da anni fanno battaglie contro il Pd. Nessuno dal territorio ha mai aperto ad alleanze». Nell’attesa, il Movimento ha comunque avviato la ricerca dei candidati governatori attraverso le cosiddette “regionarie”: chi intende proporsi avrà tempo fino al 4 dicembre. Sapendo che, come previsto dallo statuto, «il capo politico, sentito il garante», avrà la facoltà di esprimere un eventuale parere vincolante negativo.

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Caro Pd, è il momento di prendere sul serio Grillo

Sarebbe un errore chiudere la porta al M5s. Il cofondatore cerca di salvare la propria creatura e la sua disperazione può offrire la possibilità di un dialogo difficile ma molto utile.

Beppe Grillo ancora una volta tiene in piedi Luigi Di Maio e soprattutto lo costringe a mantenere in vita l’alleanza con il Pd, anzi gli suggerisce di dar vita a un progetto comune. Gli interventi tampone del padre fondatore ormai non si contano più e a stento riescono a impedire il crollo di una baracca che, nelle mani di Di Maio e di Casaleggio junior, appare sempre più destrutturata.

LA CRISI DEL GRILLISMO

La crisi del grillismo è evidente ed è stata prevedibile (e prevista). Il successo elettorale con le responsabilità di governo ha fatto venir fuori l’amalgama mal riuscito del blocco elettorale pentastellato, la fragilità del gruppo dirigente, l’incauta alleanza con il vorace Matteo Salvini che se li è mangiati pezzo dopo pezzo durante il primo governo Conte. L’autogol estivo del capo della Lega ha dato al Movimento 5 stelle la possibilità di un nuovo inizio che è stato accolto di malagrazia da Di Maio, vedovo inconsolabile della destra e soprattutto prigioniero di Salvini. 

GLI SFORZI DI GRILLO E TRAVAGLIO

In questi mesi molti elettori di destra dei 5 stelle se ne sono andati con il capo della Lega ed è facile ipotizzare che quelli rimasti siano in gran parte “nativi” 5 stelle o elettori di sinistra giunti al grillismo per protesta verso la leadership del Pd e dei partiti affini. Questa situazione, per tanti aspetti disperata, avrebbe dovuto condurre Di Maio e gli altri a fare di necessità virtù, invece la leadership 5 stelle ha continuato ad accontentarsi della rendita di posizione, via via più ridotta, garantita dal governo e dalla guida del Movimento sperando nello “stellone”. Solo i due padri fondatori, Beppe Grillo e Marco Travaglio, hanno cercato di far quadrare il cerchio spingendo quel che resta del movimento a una solida alleanza con la sinistra e soprattutto a una riaffermata opposizione a Matteo Salvini.

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELLA SINISTRA

A sinistra la discussione sui 5 stelle non è mai terminata anche se sarebbe più opportuno dire che non è mai iniziata. L’unico punto di analisi che i leader di sinistra più dialoganti hanno è la presenza nel grillismo di una base elettorale popolare con molti contatti con il vecchio popolo della sinistra. Osservazione intelligente ma culturalmente poverissima. Hanno ignorato invece l’aspetto programmatico che sorreggeva questo movimento, la sua logica antipartitica, il suo rifiuto della democrazia, la predilezione per il putinismo, l’amore per la decrescita infelice con la distruzione di fabbriche, come si è visto con l’atteggiamento tenuto sull’Ilva di Taranto. Insomma la massiccia presenza di popolo nei 5 stelle, peraltro espressione politica del potere giudiziario, non faceva sorgere una piattaforma di sinistra, ancorchè azzardata.

I GRILLINI VANNO SFIDATI SUI PROGRAMMI

Ora la situazione sta cambiando. Il popolo in gran parte se ne è andato, le posizioni più stupide nel movimento sono flebili, si fanno pressanti le richieste perché quel che resta dei 5 stelle apra un dialogo in profondità con la sinistra. Accettare o rifiutare? Sarebbe un errore rifiutare. È evidente che lasciati da soli i 5 stelle moriranno nel giro di una o due tornate elettorali. Ma nessuno di noi sa dove finiranno quei voti. Mi sembra difficile immaginare che, sic et simpliciter, tornino o vengano per la prima volta a sinistra. Perché questo “miracolo” si compia è necessario un atteggiamento con i 5 stelle che li sfidi sui programmi nel quadro di una ipotesi di alleanza non più solo anti-salviniana. È necessario che il gruppo dirigente del Pd legga meno i giornali e i post sui social dei più noti giornalisti dell’Espresso-Repubblica o di quelli, i cerchiobottisti, che da anni inseguono la chimera di una formazione destra-sinistra che non c’è mai stata né mai ci sarà.

IL PD SI COMPORTI DA PARTITO SERIO

La sinistra deve avere una propria strategia che significa chiedere un dialogo sulla base di punti irrinunciabili sia di carattere politico-istituzionale sia di carattere programmatico. Niente da inventare. Ci sono in tutti i documenti e in tutte le interviste che i leader del Pd o affini hanno fatto in questi due anni. Servirebbe solo comportarsi da partito serio e seriamente prendere in parola, per la prima volta, Beppe Grillo. La sua disperazione nel tentativo finale di salvare la propria creatura può consegnare la possibilità di un dialogo difficile ma, se serio, molto utile. Matteo Renzi non ci sta? Vada con Salvini.

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Caro Pd, è il momento di prendere sul serio Grillo

Sarebbe un errore chiudere la porta al M5s. Il cofondatore cerca di salvare la propria creatura e la sua disperazione può offrire la possibilità di un dialogo difficile ma molto utile.

Beppe Grillo ancora una volta tiene in piedi Luigi Di Maio e soprattutto lo costringe a mantenere in vita l’alleanza con il Pd, anzi gli suggerisce di dar vita a un progetto comune. Gli interventi tampone del padre fondatore ormai non si contano più e a stento riescono a impedire il crollo di una baracca che, nelle mani di Di Maio e di Casaleggio junior, appare sempre più destrutturata.

LA CRISI DEL GRILLISMO

La crisi del grillismo è evidente ed è stata prevedibile (e prevista). Il successo elettorale con le responsabilità di governo ha fatto venir fuori l’amalgama mal riuscito del blocco elettorale pentastellato, la fragilità del gruppo dirigente, l’incauta alleanza con il vorace Matteo Salvini che se li è mangiati pezzo dopo pezzo durante il primo governo Conte. L’autogol estivo del capo della Lega ha dato al Movimento 5 stelle la possibilità di un nuovo inizio che è stato accolto di malagrazia da Di Maio, vedovo inconsolabile della destra e soprattutto prigioniero di Salvini. 

GLI SFORZI DI GRILLO E TRAVAGLIO

In questi mesi molti elettori di destra dei 5 stelle se ne sono andati con il capo della Lega ed è facile ipotizzare che quelli rimasti siano in gran parte “nativi” 5 stelle o elettori di sinistra giunti al grillismo per protesta verso la leadership del Pd e dei partiti affini. Questa situazione, per tanti aspetti disperata, avrebbe dovuto condurre Di Maio e gli altri a fare di necessità virtù, invece la leadership 5 stelle ha continuato ad accontentarsi della rendita di posizione, via via più ridotta, garantita dal governo e dalla guida del Movimento sperando nello “stellone”. Solo i due padri fondatori, Beppe Grillo e Marco Travaglio, hanno cercato di far quadrare il cerchio spingendo quel che resta del movimento a una solida alleanza con la sinistra e soprattutto a una riaffermata opposizione a Matteo Salvini.

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELLA SINISTRA

A sinistra la discussione sui 5 stelle non è mai terminata anche se sarebbe più opportuno dire che non è mai iniziata. L’unico punto di analisi che i leader di sinistra più dialoganti hanno è la presenza nel grillismo di una base elettorale popolare con molti contatti con il vecchio popolo della sinistra. Osservazione intelligente ma culturalmente poverissima. Hanno ignorato invece l’aspetto programmatico che sorreggeva questo movimento, la sua logica antipartitica, il suo rifiuto della democrazia, la predilezione per il putinismo, l’amore per la decrescita infelice con la distruzione di fabbriche, come si è visto con l’atteggiamento tenuto sull’Ilva di Taranto. Insomma la massiccia presenza di popolo nei 5 stelle, peraltro espressione politica del potere giudiziario, non faceva sorgere una piattaforma di sinistra, ancorchè azzardata.

I GRILLINI VANNO SFIDATI SUI PROGRAMMI

Ora la situazione sta cambiando. Il popolo in gran parte se ne è andato, le posizioni più stupide nel movimento sono flebili, si fanno pressanti le richieste perché quel che resta dei 5 stelle apra un dialogo in profondità con la sinistra. Accettare o rifiutare? Sarebbe un errore rifiutare. È evidente che lasciati da soli i 5 stelle moriranno nel giro di una o due tornate elettorali. Ma nessuno di noi sa dove finiranno quei voti. Mi sembra difficile immaginare che, sic et simpliciter, tornino o vengano per la prima volta a sinistra. Perché questo “miracolo” si compia è necessario un atteggiamento con i 5 stelle che li sfidi sui programmi nel quadro di una ipotesi di alleanza non più solo anti-salviniana. È necessario che il gruppo dirigente del Pd legga meno i giornali e i post sui social dei più noti giornalisti dell’Espresso-Repubblica o di quelli, i cerchiobottisti, che da anni inseguono la chimera di una formazione destra-sinistra che non c’è mai stata né mai ci sarà.

IL PD SI COMPORTI DA PARTITO SERIO

La sinistra deve avere una propria strategia che significa chiedere un dialogo sulla base di punti irrinunciabili sia di carattere politico-istituzionale sia di carattere programmatico. Niente da inventare. Ci sono in tutti i documenti e in tutte le interviste che i leader del Pd o affini hanno fatto in questi due anni. Servirebbe solo comportarsi da partito serio e seriamente prendere in parola, per la prima volta, Beppe Grillo. La sua disperazione nel tentativo finale di salvare la propria creatura può consegnare la possibilità di un dialogo difficile ma, se serio, molto utile. Matteo Renzi non ci sta? Vada con Salvini.

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Come è andato l’incontro tra Di Maio e Beppe Grillo

La riunione tra il leader e il guru del M5s finisce in distensione: «Siamo d'accordo su tutto», dice il ministro. E Beppe lo conferma ma aggiunge: «Sarò più presente per aiutarlo».

Perfettamente allineati, fiducia reciproca confermata. O almeno così dicono. L’incontro tra Luigi Di Maio e Beppe Grillo, tenutosi a Roma, all’hotel Forum, si è concluso dopo un’ora e mezza. «Siamo d’accordo su tutto, abbiamo smentito le leggende metropolitane di questi giorni», ha detto Di Maio prima di partire per la Sicilia, dove riprenderà il tour cominciato il 22 novembre. E Grillo ha speso parole di elogio per il leader del Movimento da lui fondato e di cui si fa garante: «Lavora 25 ore al giorno e non può essere sostituito per nessuna ragione, anzi va sostenuto». Poi però ha aggiunto una postilla: «Io ci sarò di più e gli darò una mano». Se non è commissariamento, poco ci manca. «Una persona deve poter decidere e fare scelte importanti. Un referente ci vuole», ha aggiunto Grillo all’interno di una nota diramata dopo l’incontro.

NUOVO CONTRATTO DI GOVERNO

I due hanno discusso del nuovo corso governativo del M5S. «Non possiamo essere gli stessi di prima, dobbiamo guardare avanti con grande entusiasmo», hanno sottolineato Di Maio e Beppe Grillo, convenendo sull’ipotesi di avanzare la proposta di un nuovo contratto di governo «a partire da gennaio» per finalizzare «progetti ambiziosi e di alto livello, con lo scopo di intervenire su tematiche fondamentali del nostro Paese e non solo come il clima, salario minimo, il reddito universale, l’intelligenza artificiale, l’energia, le infrastrutture». Secondo il capo politico e il garante, «il mondo è già cambiato», questo «è un momento di grande entusiasmo» e il futuro bisogna progettarlo insieme.

GRILLO: «SERVE EUFORIA»

«È un momento magico. Noi non possiamo continuare a fare dei Facebook in cui si dice questo qua non va bene. Adesso le cose devono essere chiare, il capo politico è lui, quindi non rompete i coglioni perché sennò ci rimettiamo tutti», ha poi ribadito Beppe Grillo in un video con Di Maio pubblicato su Facebook. «Siamo in un momento di caos, ma il caos è nella nostra natura, è nel caos che vengono fuori le belle idee. Il discorso è che non possiamo essere gli stessi, pensare come eravamo. Noi eravamo meravigliosi. Ma dobbiamo essere straordinariamente euforici», ha aggiunto. Grillo ha poi parlato delle elezioni in Emilia-Romagna: «Ci andiamo per beneficenza. Come dai un euro a uno non puoi dare un piccolo voto anche a noi per beneficenza? Così magari facciamo da tramite tra una destra un po’ pericolosetta e una sinistra che si deve formare anche lì», ha detto. Con la sinistra, però, c’è l’idea di continuare a collaborare per «progetti alti, bellissimi. Sui trasporti, su come costruire le cose, su cosa è la città… È un momento magico».

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Di Maio chiude ancora al Pd in vista delle Regionali

Il leader del Movimento 5 stelle torna a parlare il giorno dopo la decisione di correre in Emilia- Romagna e Calabria presa su Rousseau. «Andiamo soli, ma non è un voto di fiducia sul governo».

Nessuna alleanza col Partito democratico, al massimo un apparentamento con le liste civiche. Lo ha ribadito ancora una volta Luigi Di Maio, capo politico del Movimento 5 stelle all’indomani della votazione sulla piattaforma Rousseau che ha certificato la partecipazione del Movimento alle Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, sconfessando di fatto la linea dettata dal leader.

«NON È UN VOTO DI FIDUCIA SUL GOVERNO»

«Evidentemente andiamo da soli in quelle regioni», ha detto Di Maio rispondendo ai cronisti, prima di aggiungere che l’appuntamento in Emilia-Romagna non costituisce «un voto di fiducia sul governo: nessun partito deve farsi pendere da questa teoria, perché è sbagliato». «Col voto di ieri il M5s ci ha detto a Roma c’è il governo, ma sul territorio c’è il movimento», ha poi proseguito Di Maio. «Non possiamo asservire il M5s alle logiche del governo». E ancora, a difesa di Rousseau: «Senza gli attivisti che votano e chi lavora sul territorio noi non saremo a Roma, nell’Europarlamento e nei Consigli regionali».

DI MAIO SULLA GRATICOLA

Le acque all’interno del Movimento restano agitate. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico invita a un «momento di riflessione rispetto all’organizzazione, ai temi e all’identità», Roberta Lombardi e Nicola Morra criticano duramente il modello del capo politico singolo sottolineando la necessità «di gestire il Movimento in maniera più collegiale e plurale». Non a caso Di Maio ha convocato una assemblea dei deputati pentastellini mercoledì 27 novembre. A buttare acqua sul fuoco circa un’eventuale sostituzione di Di Maio al vertice è intervenuto il garante Beppe Grillo, arrivato a Roma: «Il M5s si è biodegradato? Ormai siete voi i comici!», ha tagliato corto.

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Rousseau ha deciso che il M5s correrà in Emilia-Romagna e Calabria

Dalle 12 alle 20 gli iscritti erano chiamati a esprimersi sull'opportunità o meno per il Movimento di presentarsi ai due appuntamenti elettorali. Polemiche per il quesito.

Il Movimento 5 stelle presenterà le sue liste alle Regionali in Emilia-Romagna e Calabria. È questo l’esito della consultazione sulla piattaforma online Rousseau che si è svolta nella giornata del 21 novembre. Una giornata vissuta tra polemiche sulla votazione attraverso la quale gli iscritti erano chiamati a decidere se il M5s dovesse correre oppure no ai due appuntamenti. Per quel che riguarda la consultazione del prossimo 26 gennaio, in particolare, la spaccatura della base era parsa evidente, col quesito attorno al quale era già sorta più di una critica. Alla fine Sono state espresse 27.273 preferenze su un totale di 125.018 aventi diritto al voto. Il ‘no‘ – che per come era stato espresso il quesito referendario significava sì alle liste – ha ottenuto 19.248 voti attestandosi al 70,6%; il ‘sì’, invece, si è fermato a 8.025 preferenze, rappresentando il 29,4% degli aventi diritto al voto.

SCONFITTA LA LINEA DETTATA DA DI MAIO

Luigi Di Maio, ai microfoni de L’aria che tira, su La 7, aveva spiegato:  «Di solito preferisco non votare, ma chiedere al M5s quale sia la direzione da prendere. Gli uomini soli al comando diventano dei palloni e poi scoppiano. Io credo che le decisioni importanti vanno prese con gli iscritti. I più grandi errori li ho commesso scegliendo da solo». Più tardi, però, non aveva esitato ad ammettere: «Sicuramente il Movimento è in un momento difficoltà e lo ammetto prima di tutto io. C’è bisogno di mettere a posto alcune cose».

POLEMICHE PER IL QUESITO ORIENTATO

Decisamente più esplicita era stata la maggioranza dei militanti emiliani, che aveva chiesto espressamente di votare ‘no’ al quesito su Rousseau. Silvia Piccinini, consigliera regionale del M5s in Emilia-Romagna, aveva definito «una presa in giro inaccettabile e un’umiliazione» il voto con un quesito «orientato».

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Mes, Salvini chiede a Conte di riferire e il M5s richiama Di Maio

I deputati pentastellati domandano al capo politico un vertice di maggioranza. E la Lega va all'attacco del governo: «Le precisazioni di Palazzo Chigi sono ancora più preoccupanti».

Prosegue la polemica sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), il tassello della riforma dell’Eurozona voluto soprattutto dai Paesi del Nord e che prevede una ristrutturazione per i debiti pubblici troppo elevati. Il 19 novembre sono stati i deputati della commissione finanze del Movimento 5 stelle a prendere posizione, richiamando all’ordine il loro capo politico Luigi Di Maio, promosso intanto ministro degli Esteri.

Italian Foreign Minister Luigi Di Maio delivers brief remarks to members of the news media after the Meeting of Small Group of the Global Coalition to Defeat ISIS (ISIL), at the State Department in Washington, DC, USA, 14 November 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

«Il parlamento aveva dato un preciso mandato al presidente del Consiglio. La discussione sul Mes deve essere trasparente, il parlamento non può essere tenuto all’oscuro dei progressi nella trattativa e non è accettabile alcuna riforma peggiorativa. Oggi è chiaro, invece, che la riforma del Mes sta andando proprio nella direzione che il parlamento voleva scongiurare. Chiediamo al capo politico di far convocare un vertice di maggioranza, perché sul Mes noi non siamo d’accordo», hanno affermato in una nota i deputati M5s della commissione Finanze.

SALVINI: «CONTE RIFERISCA IN PARLAMENTO»

E su Facebook ha preso la palla al balzo il leader dell’opposizione Matteo Salvini: «Conte subito in parlamento a dire la verità, il Sì alla modifica del Mes sarebbe la rovina per milioni di italiani e la fine della sovranità nazionale». Poco prima il presidente della Commissione bilancio della Camera, il leghista Claudio Borghi, aveva commentato le precisazioni del governo sulla riforma. Palazzo Chigi ha infatti spiegato che il pacchetto sarà votato a dicembre e che il parlamento ha diritto di veto. «Le precisazioni di Palazzo Chigi sul Mes non hanno chiarito un bel nulla. Anzi, hanno aumentato la preoccupazione. Come si fa a dire che il parlamento potrà esprimersi “in sede di ratifica”? Il testo è ormai pubblico e l’Italia doveva e deve opporsi prima, in sede di Eurogruppo e Consiglio. Perché non l’ha fatto a fronte di un testo che comporta “rischi enormi” (parole del governatore di Bankitalia)?», ha detto Borghi.

L’ACCUSA DI BORGHI: «SCUDO PER IL MES E NOI NON COINVOLTI»

«Conte», ha proseguiuto Borghi, «ha spiegato al M5s che questo trattato – al quale lui, contrariamente al mandato, non si è opposto – include l’immunità totale da qualsiasi forma di processo giudiziario (articoli 32 e 35)? Il governo toglie l’immunità all’Ilva per darla al Mes? Perché poi Palazzo Chigi afferma che la riforma è stata discussa con i “presidenti di commissione competenti”, quando invece il sottoscritto – essendo il presidente di commissione competente per la Camera – a giugno non ha avuto il piacere di incontrare in proposito il presidente del Consiglio? Non sono permaloso. Basta che il presidente Conte dica chiaro e tondo che l’Italia non approverà mai la riforma del Mes per fugare qualsiasi dubbio. Attendiamo con fiducia queste semplici parole», ha concluso.

IL 27 NOVEMBRE GIÀ IN CALENDARIO L’AUDIZIONE DI GUALTIERI

Fonti del ministero dell’Economia hanno spiegato che «il ministro Roberto Gualtieri ha inviato il 7 novembre al presidente della Commissione Finanze Alberto Bagnai la richiesta di essere audito in merito alla riforma del Mes, della quale è stata programmata la firma in dicembre sulla base dell’intesa raggiunta dal Consiglio europeo nello mese di giugno. L’audizione è stata calendarizzata per il 27 novembre».

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Anche Di Maio sfratta la Trenta

L'ex ministra della Difesa non ha intenzione di mollare la casa in centro a Roma: «Ho una vita di relazioni ora». Una giustificazione risibile che non fa che irritare ancora di più il capo politico del M5s: «Inaccettabile. Questa storia fa arrabbiare i cittadini».

L’ex ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, si difende sulla vicenda della casa a Roma ottenuta quando faceva parte del governo e riassegnata al marito militare, il capitano maggiore dell’esercito Claudio Passarelli.

Secondo il Corriere della Sera, che per primo ha dato la notizia, il grado di Passarelli non giustificherebbe l’assegnazione di un appartamento di primo livello come quello in questione. La casa – 180 metri quadri – si trova a San Giovanni, zona centrale della Capitale, ma la coppia risulta già titolare di un’altra abitazione al Pigneto, sempre a Roma, intestata solo all’ex ministra.

Il 18 novembre il leader del M5s, Luigi Di Maio, ha attaccato pubblicamente Trenta ai microfoni di Rtl: «Questa cosa dal mio punto di vista non è accettabile. Ha smesso di fare la ministra due mesi fa e ha avuto il tempo per lasciare la casa, è bene che ora la lasci. Se il marito in quanto militare ha diritto a un alloggio, può fare domanda e lo otterrà. Ma questa cosa fa arrabbiare i cittadini e anche noi, perché noi siamo quelli che si tagliano gli stipendi».

L’EX MINISTRA NON MOLLA

Intervistata sempre dal Corriere della Sera, l’interessata non sembra però affatto intenzionata a mollare il colpo: «Sono molto arrabbiata, questa storia mi porterà dei danni. È evidente che ormai sono sotto attacco». A suo giudizio la casa romana al centro delle polemiche «ormai è stata assegnata a mio marito e in maniera regolare, per quale motivo dovrebbe lasciarla?». L’uomo «ha la residenza nella sua città dove ha una casa, ma ha diritto ad avere l’alloggio dove lavora». E in quanto «aiutante di campo di un generale», egli «può avere quell’appartamento».

VITA NUOVA, CASA NUOVA

«Non credo proprio che si tratti di un privilegio», prosegue Trenta, «perché io l’appartamento lo pago e lo pago pure abbastanza». Quanto alle caratteristiche della casa, il prestigio sarebbe in qualche modo “giustificato” dal fatto che ancora oggi la famiglia Trenta fa «una vita completamente diversa». Una vita «di relazioni» e «di incontri» che evidentemente, in base al suo ragionamento, necessitano di ampi spazi nel centro di Roma. Al Pigneto, invece, «si spaccia droga e la strada non ha vie d’uscita».

TRENTA DECISA A RESTARE, ANCHE NEL M5S

La presa di posizione di Di Maio non pare preoccupare l’ex ministra: «Gli ho spiegato che tutto è stato fatto correttamente, quando l’incarico di mio marito sarà terminato lasceremo la casa». Lei stessa resterà nel M5s? Anche su questo punto, Trenta è sicura: «Ho chiesto di essere una dei 12 facilitatori. Ci rimarrò di sicuro».

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Di Maio tra taglio delle tasse e sintonia col Pd

Rimandare lo ius soli e tagliare le tasse. Sono le due “priorità” di Luigi Di Maio in vista dei prossimi..

Rimandare lo ius soli e tagliare le tasse. Sono le due “priorità” di Luigi Di Maio in vista dei prossimi lavori del governo. Il ministro degli Esteri, ospite di Rtl, ha parlato a tutto tondo delle prossime mosse del governo e dei rapporti non semplici con il Partito democratico.

SINTONIA CON CONTE SUL TAGLIO DELLE TASSE

Per quanto riguarda la partita della manovra, che sta affrontando il passaggio parlamentare, il leader grillino si è limitato a dire di sostenere le posizioni del premier Conte sulla pressione fiscale: «Sento di poter accogliere l’appello del presidente consiglio, che ha detto: dobbiamo fare di più sull’abbassamento tasse, è un obiettivo ambizioso però io ci sto», ha spiegato Di Maio. «Dobbiamo ridurre le tasse aumentando il taglio degli sprechi, oggi pomeriggio ho una riunione con i ministri del movimento, abbiamo delle idee da mettere sul tavolo».

«BENE IL LAVORO IL PD, MA RIMANDIAMO LO IUS SOLI»

Per quanto riguarda il rapporto coi dem il titolare della Farnesina ha spiegato che «stiamo lavorando bene sui punti concreti come la legge di bilancio, abbiamo mantenuto la promessa di non aumentare l’iva, tolto il superticket, aumentiamo un pochino il netto in busta paga. Quando si tratta di affrontare temi concreti il governo provvede e anche i gruppi parlamentari stanno lavorando bene». Dove però manca l’intesa è lo ius soli: «Chiaro che abbiamo l’Italia sott’acqua, a causa del dissesto idrogeologico, il problema dei cambiamenti climatici e la corruzione, un’emergenza come la questione Ilva…in questo momento se sento che rilanciano temi» come lo ius soli «credo di avere il diritto di essere sconcertato perché la priorità è l’emergenza dei lavoratori che rischiano di perdere posto. Lo Ius soli non è neanche nel programma di governo», ha tagliato corto.

«MAI PIÙ UN CONTRATTO CON LA LEGA»

Di Maio ha poi chiarito quanto conti un “contratto di governo“: «è più efficace, anche con il Pd siamo forze che hanno storie diverse, il contratto ti permette di scrivere cosa fare e cosa no», in particolare rispondendo ad una domanda sulla formula del contratto di governo stilato con il leader della Lega Matteo Salvini. Con il quale però Di Maio ha assicurato di aver chiuso l’esperienza politica: «Nella vita come in politica io mi fido fino a prova contraria: l’8 agosto è arrivata la prova di slealtà nei confronti del paese, la prova è arrivata e con me ha chiuso».

INACCETTABILE CHE TRENTA MANTENGA LA CASA

Di Maio ha affrontato anche un’altra grana, tutta interna al M5s, quella della casa dell’ex minitra Elisabetta Trenta: «Questa cosa dal mio punto di vista non è accettabile, ha smesso di fare la ministra due mesi fa, ha avuto il tempo per lasciare la casa, è bene che ora la lasci e se il marito in quanto militare ha diritto ad un alloggio può fare domanda e lo otterrà. Questa cosa fa arrabbiare i cittadini e anche noi perché siamo quelli che si tagliano gli stipendi».

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