La vera minaccia è la politica dei Mastrolindo

Slogan, promesse irrealizzabili, jingle. Da Berlusconi a Salvini, Di Maio e Renzi, i leader sono pubblicitari pronti a offrire soluzioni in stile Trivago o Facile.it. Ma così il disastro è dietro l'angolo.

La democratizzazione del desiderio. Ovvero tutti hanno diritto a tutto. Cose serie e frivole, bisogni e sogni allo stesso modo. Perché l’erba voglio oggi cresce dappertutto e con una velocità che riesce addirittura a divorare se stessa. Desiderare il desiderio è diventato perfino più importante dell’oggetto desiderato

DESIDERI ILLIMITATI, RISORSE LIMITATISSIME

Chi ricorda «Il tuo prossimo desiderio» (spot dell’Ariston) oggi fa i conti con una realtà in cui non si fa in tempo a soddisfarne uno che ce ne sono altrettanti, se non di più, che attendono soddisfazione.

Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

Certo per la società dei consumi – ha scritto John Seabrook in Nobrow: The Culture of Marketing, the Marketing of Culture – «nulla potrebbe essere più minaccioso del fatto che la gente si dichiarasse soddisfatta di quel che ha». Però è drammatico, per riprendere alcune considerazioni della volta scorsa, che i desideri siano diventati illimitati, che tutto sia desiderabile e teoricamente ottenibile. Senza curarsi, anche distrattamente, se si hanno le indispensabili risorse economiche, ma anche intellettuali, culturali, professionali.

DALLA INSODDISFAZIONE SI GENERA IL POPULISMO

Perché l’inevitabile scarto fra desiderio e realtà, mediamente grande per tutti, è generatore alla lunga di una profonda insoddisfazione sociale. Della quale i populisimi, variamente espressi nel mondo occidentale, ne sono l’espressione aggiornata. Con il loro carico di protesta, rabbia, ribellismo che si gonfiano fino a esplodere nei confronti di tutto ciò che viene identificato come responsabile delle promesse mancate, dei desideri inevasi, delle attese frustrate. Ciò che qui interessa però è come abbiamo potuto ridurci così. Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

SIAMO SOMMERSI DA SPOT

La risposta è presto detta. Sono stati i pubblicitari e la pubblicità a ridurci così. Ma senza poteri occulti che hanno tramato e senza un disegno ideologico o una pianificata strategia. La circonvenzione d’incapaci – noi tutti – è avvenuta quasi spontaneamente, con tanta più forza persuasiva quanto più quella ideologia ha lavorato instancabilmente. Entrando in tutte le trame del vivere quotidiano, installandosi al centro del sistema massmediale, estendendo il paesaggio pubblicitario nei tanti modi oggi osservabili guardandosi intorno, camminando per la città, spostandosi in metro, muovendosi in auto.

La pubblicità non è né di sinistra né di destra. È la neutralità che la rende efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe

Ovunque si sia o si vada non manca mai un’immagine o un messaggio promozionale. Siamo letteralmente sommersi dalla pubblicità. Si stima che veniamo raggiunti in media da 3.000 messaggi al giorno. Ma non ci facciamo più caso. Perché quest’azione di avvolgimento e coinvolgimento è avvenuta in modo dolce. È partita da lontano, ha lavorato per anni, giorno per giorno, Come la goccia che scava il sasso ci siamo alla fine convinti che «Impossible is nothing» (Adidas) e che «Per tutto il resto c’è Mastercard».

LA PUBBLICITÀ È NEUTRALE E PER QUESTO EFFICACE

La pubblicità si è installata al centro del sistema, senza resistenze, se non timide nei decenni 60 e 70 di contestazione del sistema consumistico. Perché come tutte le ideologie forti, funziona non venendo percepita come tale. Nel pensiero corrente la pubblicità non è né di sinistra né di destra e nemmeno di centro. È la neutralità che la rende comunicazione efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe. D’altra parte è stata ed è proprio la politica, se non la prima, la più grande vittima della pubblicità. Al punto di arrivare a identificarsi con essa. Assumendone stile e modalità comunicativa, facendone proprie strategie e tecniche persuasive. In ossequio al principio che in pubblicità non bisogna dirle giuste ma bene. E che spararle grosse non solo si può ma si deve.

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Dal momento che un annuncio non ha alcun obbligo di verità: è comunicazione non informazione. Peraltro a chi interessa, ammesso sia verificabile, se «Scavolini è la cucina più amata dagli italiani»? Ciò che conta, come dicono i pubblicitari, è che si fissi il concetto, che passi il messaggio

FORZA ITALIA, LA SOTTOMISSIONE DELLA POLITICA ALLA RECLAME

Questo processo di sovrapposizione e nel contempo di sottomissione della politica alla pubblicità ha in Italia una data ufficiale: la nascita di Forza Italia, il partito creato dal nulla, modellato su Publitalia e impostosi alle prime elezioni nelle quali si presentò forte di una campagna pubblicitaria sulle reti Mediaset che per pressione, ovvero numero di spot trasmessi nei 40 giorni di campagna elettorale (1.127 con punte di 61 al giorno) era un’assoluta novità; che equiparava il partito di Silvio Berlusconi ai brand del largo consumo. Il promesso «nuovo miracolo italiano» si impose all’attenzione dei consumatori/elettori con forza persuasiva simile a «Se non ci fosse bisognerebbe inventarla» (Nutella) e «Dove c’è Barilla c’è casa». 

SI È IMPOSTA LA LOGICA ALLA «O COSÌ O POMÌ»

Ciò che però va sottolineato non è il carattere imbonitorio del messaggio politico, nel momento in cui diventa tout court pubblicitario, ma il fatto che promettere miracoli, palingenesi della domenica, risoluzione di problemi ed emergenze epocali è diventato normale. Credibile, evidentemente, per gli elettori/consumatori. Ma alla lunga deleterio e distruttivo per l’intera società. In primo luogo perché si è imposta la logica semplificatoria della pubblicità, che non conosce mezze misure: «O così o Pomì».

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La personalizzazione e l’attuale leaderismo che ne conseguono s’accompagnano alla speculare scomparsa dei partiti come portatori di visioni collettive e concezioni condivise del mondo e della società. Ora ogni partito è il suo leader. Che la canta e la suona come vuole. O meglio che se la twitta e se la posta (a pagamento), con propensione personalistica massima nel caso di Matteo Salvini e della Lega. Sull’account personale da marzo a ottobre sono stati spesi 161.608 mila euro, in quello del partito 845.

PROMESSE ROBOANTI E DIETROFRONT SDOGANATI

L’incrudelimento del confronto politico è causa ed effetto dell’esagerato aumento di tono delle promesse, tanto roboanti e giocate sull’emozione anziché sulla ragione, da colpire nell’immediato, a caldo, ma da svanire velocemente. È così che, annunciata la cancellazione della povertà per decreto o l’abolizione delle accise sulla benzina, si può senza pudore alcuno contraddirsi o addirittura smentirsi. Dimenticarsi delle promesse fatte. Ma non di aizzare i propri gruppi d’acquisto e fan club. Perché la pubblicità non conosce, né riconosce smentite o contraddizioni. Per dirla in pubblicitariese «mente sapendo di mentine».

BASTA CON I CAPITAN FINDUS E I MASTROLINDO

Ora cambiare registro, smettere con la politica del «pulito sì, fatica no», e ritornare a promesse realistiche, sarebbe auspicabile. Sommamente. Però non è all’ordine del giorno. Pensare che basti proibire la pubblicità della politica, come ha annunciato Twitter, è una pia illusione. Anche perché Facebook non lo farà. Allo stato attuale sarebbe già un risultato se si facesse strada, almeno, la consapevolezza che più la politica diventa annuncio, teatrino in streaming, offerta di soluzioni in stile Trivago o Facile.it, più il disastro si avvicina.

Non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia «non è come il vino che invecchiando migliora»

Però non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia, con le sue libertà e difese dei diritti civili e personali, «non è come il vino che invecchiando migliora». Lo scrive l’ultimo numero di The Economist citando una ricerca apparsa sull’American Political Science Review che ammonisce «a non dare per scontata la democrazia». Che anzi, in Italia, è più che mai in pericolo se i vari Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Matteo Renzi continuano a travestirsi da Capitan Findus, Omino Bianco e Mastrolindo.

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