Israele, la palude fino a marzo 2020 (e oltre?)

Il primo pensiero, nella disillusione, corre al portafoglio. In Israele per le terze Legislative anticipate in un anno si bruceranno..

Il primo pensiero, nella disillusione, corre al portafoglio. In Israele per le terze Legislative anticipate in un anno si bruceranno altri milioni di dollari. Centinaia, per un campagna elettorale che il 2 marzo 2020 riprodurrà con ogni probabilità lo stallo del 9 aprile e del 17 settembre 2019. Altre settimane di caccia alle streghe da una parte, e di mobilitazione infuocata ad personam dall’altra. Di parti politiche che difficilmente si salderanno insieme. Sarà un altro referendum contro Benjamin “Bibi” Netanyahu: il primo ministro più longevo – e ostinato – di Israele che non si fa da parte a dispetto dei processi. Anzi proprio a causa di essi, e per l’incapacità degli oppositori di tradursi in alternativa politica. Per i quasi 6 milioni di elettori israeliani qualcosa di mai visto prima. Per ritmo di chiamate al voto e per prosciugamento della politica.

CAMPAGNA DI PROMESSE E FANGO

Yair Lapid, della coalizione Blu e bianco, ha invitato a «tenere lontano i bambini dalla campagna dell’odio, della violenza e del disgusto in televisione». Nelle ultime settimane si sono susseguiti gli incontri tra la sua lista centrista e il Likud di Netanyahu per un’intesa di governo mancata, prima dello scioglimento del parlamento. L’unica possibilità di evitare le urne era una grande coalizione tra le due grandi forze testa a testa – ma senza maggioranza -, posto che Lapid e il coleader Benny Gantz possono unire la Lista degli arabi-israeliani e l’ultradestra sionista di Avigdor Lieberman contro Netanyahu, ma mai in un loro governo. Così falliti i tentativi del Likud, e poi di Blu e bianco, di formare un esecutivo la sera del 10 dicembre Netanyahu, Lapid e il generale Gantz ancora si scapicollavano in tivù. A giurare la loro volontà eterna di mettere in piedi un governo di unità nazionale. E di non sperperare altri soldi pubblici

Israele terze elezioni 2020 Netanyahu
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) in campagna per le Legislative del 2020. GETTY.

I BLUFF DI NETANYAHU E GANTZ

Il premier e leader conservatore avrebbe chiamato a raccolta i suoi legali, valutando la possibilità di non cercare l’immunità sui tre procedimenti penali (per corruzione, frode e abuso d’ufficio) che lo riguardano. Dato che il nodo per un esecutivo bipartisan con Blu e bianco era la sua testa da premier. A meno che, era filtrato negli ultimi giorni, lo stesso non rinunciasse allo scudo legale (automatico per i parlamentari, non per i primi ministri in Israele) e sottinteso a ogni legge ad personam sulla giustizia nella nuova Legislatura. Gantz e Lapid avrebbero aperto in questo senso, come tentativo estremo: il massimo che potevano concedere senza «rinunciare ai principi fondamentali» che li avevano «portati in politica». A condurre due campagne sull’impresentabilità di Netanyahu. Non se ne è fatto ben presto di nulla: quantomeno “Bibi” bluffava, e forse non soltanto lui.

Queste terze elezioni hanno tre sole ragioni: corruzione, frode e abuso d’ufficio

Biano e blu

SUBITO IN CORSA ELETTORALE

Alla mezzanotte dell’11 dicembre, termine ultimo per approvare un nome di premier condiviso, la Knesset si è sciolta, deliberando come ultimo e indispensabile atto nuove elezioni il 2 marzo prossimo. Poche ore prima dal Likud era arrivato l’annuncio di primarie il 26 dicembre, per ricompattare il partito su Netanyahu leader. E ancora premier: da “Bibi” nessuna comunicazione sull’attesa rinuncia alla sua richiesta di immunità in parlamento. In compenso, mentre i deputati erano riuniti per indire l’ennesimo voto, Netanyahu assente rilanciava sui social l’imperativo a «vincere e vincere bene» contro la «cospirazione di Ganz e dei leader arabi a forzare per il voto». È già campagna elettorale, anche a Blu e bianco sono ripartiti alla carica sulle «sole tre ragioni per queste terze elezioni, trasformate da una festa per la democrazia a un momento di vergogna: corruzione, frode e abuso d’ufficio».

Israele terze elezioni 2020 Netanyahu
Il leader israeliano della coalizione Blu e bianco Benny Gantz. GETTY.

A MONTE ANCHE I PIANI DI LIEBERMAN

Non sbaglia – per una volta – Lieberman, l’ex ministro della Difesa arcinemico di Netanyahu e causa un anno fa della caduta del governo, quando rinfaccia ai leader del Likud (32 seggi) e a Blu e Bianco (33 seggi) di «non aver mai voluto davvero un governo di unità». E di aver portato Israele a «nuove elezioni inutili» con una «battaglia dell’ego in corso da mesi». Lieberman avrebbe voluto un governo di larghe intese – senza Netanyahu premier – tra le due principali forze, appoggiato esternamente dalla sua lista laica e ultranazionalista (otto seggi). Ma a patto che fosse tenuta fuori dal nuovo esecutivo la destra ultraortodossa (Shas e Giudaismo unito nella Torah), contraria alla leva obbligatoria chiesta insistentemente da Lieberman anche per gli ultraortodossi. Causa, questa, delle sue dimissioni da ministro, insieme alle campagne mancate su Gaza e al  suo odio per Netanyahu.

“BIBI” ARRETRA ANCORA, MA NON CEDE

Lieberman pregusta da un pezzo la caduta in disgrazia del premier dal 2009. Al terzo voto in un anno non ha perso l’occasione per scagliarsi contro di lui («io ho valori, tu solo interessi») in un velenoso post su Facebook. Ma la sua architettura non poteva compiersi: il Likud fatica non poco a disfarsi di “Bibi”, e di riflesso degli ultraortodossi alleati negli ultimi governi. Al netto di contestatori in ascesa come l’ex ministro Gideon Saar, corso a sfidare Netanyahu alle primarie, il consenso per il leader appare solido tra i conservatori . E gli ultraortodossi sono utili a Netanyahu come ministri e deputati per far passare leggi ad personam. Ne ha disperatamente bisogno: l’esecutivo ad interim che si trascina da un anno non ha i deputati per ottenere l’impunità. E “Bibi” ci spera, nonostante tutto: negli ultimi sondaggi Gantz e Lapid sono avanti a 37 seggi (33 il Likud), ma la maggioranza è lontana. Come gli elettori.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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Netanyahu è stato incriminato per corruzione

Il premier a processo per una delle tre inchieste che lo riguardano. È la prima volte che un primo ministro viene accusato di questo reato in Israele.

Il procuratore generale Avichai Mandelblit ha deciso di incriminare per corruzione Benjamin Netanyau in una delle tre inchieste in cui il premier israeliano è coinvolto. Confermate anche le accuse di frode e abuso di ufficio. Le inchieste sono il Caso 1000 (regali da facoltosi uomini di affari) e 2000 (rapporti con l’editore di Yediot Ahronot Arnon Mozes) con frode e abuso di ufficio, mentre per il Caso 4000 (affaire Bezez-Walla) oltre la frode e l’abuso di ufficio c’è anche la corruzione.

PRIMO PREMIER ACCUSATO DI CORRUZIONE IN ISRAELE

È la prima volta nella storia di Israele che un premier in carica è accusato di corruzione. Su tutte le reti nazionali sono in corso edizioni speciali di notiziari sulla vicenda.

LE LACRIME DI COCCODRILLO DI GANTZ

«Un giorno triste per lo Stato di Israele», ha scritto su Twitter il leder centrista Benny Gantz, maggiore rivale di Netanyahu, commentando l’incriminazione.

«È una giornata dura e triste per il popolo israeliano e per me personalmente» ha detto il procuratore generale, «ho deciso con cuore pesante, ma in piena coscienza. Questo era il mio dovere di fronte ai cittadini».

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L’Iran “riformista” delle forche ha mostrato il suo vero volto

Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iran. Ma il regime change per ora è una chimera.

Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da una protesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.

Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.

Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.

L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA

Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.

L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele

L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gaza su Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.

Le proteste in Iraq.

L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.

NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI

Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.

Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie

Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.

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Gantz non riesce a formare un governo: Israele ancora verso il voto

Dopo i tentativi di Netanyahu di trovare una maggioranza, vanno a vuoto anche quelli del rivale del partito Blu Bianco.

Sono falliti i tentativi di Avigdor Lieberman (leader del partito di destra Israel Beitenu) di dar vita a un «governo unitario nazionale e liberale» con il Likud di Benjamin Netanyahu e con i centristi di Benny Gantz, leader di Blu Bianco. Lo ha affermato Lieberman alla Knesset osservando che «a causa della loro mancanza di leadership, esiste il rischio di nuove elezioni». Nella notte tra il 20 e il 21 novembre scade il termine massimo per il premier incaricato Gantz di annunciare la formazione di un governo.

LIEBERMAN CONTRO NETANYAHU E GANTZ

Lieberman ha polemizzato sia con Netanyahu, il quale «non ha voluto separarsi dal blocco dei partiti ortodossi e messianici» sia con Gantz «il quale non ha accettato il tracciato indicato dal presidente Reuven Rivlin» per superare il blocco fra Likud e Blu Bianco. Lieberman ha rilevato che la situazione si è fatta adesso particolarmente preoccupante «a causa delle due sfide con cui Israele deve misurarsi: quella della sicurezza e quella economica». Lieberman ha inoltre accusato i deputati della Lista araba unita di essere «una quinta colonna» nel Paese e ha messo in guardia dal rafforzamento di correnti anti-sioniste che a suo parere si avverte anche nei partiti degli ebrei ortodossi.

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Gantz non riesce a formare un governo: Israele ancora verso il voto

Dopo i tentativi di Netanyahu di trovare una maggioranza, vanno a vuoto anche quelli del rivale del partito Blu Bianco.

Sono falliti i tentativi di Avigdor Lieberman (leader del partito di destra Israel Beitenu) di dar vita a un «governo unitario nazionale e liberale» con il Likud di Benjamin Netanyahu e con i centristi di Benny Gantz, leader di Blu Bianco. Lo ha affermato Lieberman alla Knesset osservando che «a causa della loro mancanza di leadership, esiste il rischio di nuove elezioni». Nella notte tra il 20 e il 21 novembre scade il termine massimo per il premier incaricato Gantz di annunciare la formazione di un governo.

LIEBERMAN CONTRO NETANYAHU E GANTZ

Lieberman ha polemizzato sia con Netanyahu, il quale «non ha voluto separarsi dal blocco dei partiti ortodossi e messianici» sia con Gantz «il quale non ha accettato il tracciato indicato dal presidente Reuven Rivlin» per superare il blocco fra Likud e Blu Bianco. Lieberman ha rilevato che la situazione si è fatta adesso particolarmente preoccupante «a causa delle due sfide con cui Israele deve misurarsi: quella della sicurezza e quella economica». Lieberman ha inoltre accusato i deputati della Lista araba unita di essere «una quinta colonna» nel Paese e ha messo in guardia dal rafforzamento di correnti anti-sioniste che a suo parere si avverte anche nei partiti degli ebrei ortodossi.

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Chi sono e a chi fanno comodo i terroristi di Jihad islamica

Gli estremisti della Striscia di Gaza sono manovrati da Teheran per destabilizzare Tel Aviv. Che a sua volta li sfrutta per indebolire Hamas. Gli unici sconfitti, così, sono i palestinesi.

Follow the rockets, segui i razzi. La crisi nella Striscia di Gaza è esplosa in settimane cruciali per i governi che, direttamente o indirettamente, sono coinvolti nello scontro. Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che dal 2007 si spartiscono conflittualmente il controllo nell’ordine dell’enclave e dei territori della Cisgiordania, concertano per tornare al voto insieme dopo anni, a febbraio 2020. In Israele si tenta fino all’11 dicembre di formare un governo, finora invano, pena la chiamata straordinaria, per la terza volta da aprile 2019, degli elettori alle urne. L’Iran, attore esterno-chiave, deve fronteggiare le improvvise rivolte a catena nei Paesi che di fatto controlla: l’Iraq e, attraverso il partito e le milizie di Hezbollah, anche il Libano ormai. Al centro del triangolo tra Israele, Palestina e Iran ci sono i razzi dei terroristi di Jihad islamica.

IL SEGNALE DI “BIBI”

L’attacco mirato israeliano che all’alba del 12 novembre ha ucciso a Gaza il capo militare di Jihad islamica della zona Nord della Striscia, Baha Abu al Ata (considerato la mente degli ultimi attacchi contro Israele) e la moglie, ha avuto il disco verde a orologeria del premier israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu mentre il rivale Benny Gantz tenta a fatica di comporre una maggioranza. È assai probabile che, come già “Bibi”, fallisca nell’impresa: trovare la quadra per un appoggio esterno della Lista unita araba sarà molto più difficile, dopo le centinaia di razzi piovuti su Israele in rappresaglia, e dopo gli oltre 30 morti tra i palestinesi per la risposta israeliana. Per Ganz sarà imbarazzante continuare a trattare, per la Lista araba quasi impossibile. Tanto più che Ganz per i palestinesi è l’ex comandante delle guerre su Gaza.

Gaza crisi Jihad islamica Israele Palestina
Il comandante di Jihad islamica Baha Abu al Ata, ucciso da Israele nella Striscia di Gaza. GETTYT.

L’ARSENALE DI JIHAD ISLAMICA

Con l’omicidio di al Ata (e poche ore dopo da quello dell’altro comandante Moawad al Ferraj) in compenso Netanyahu ha dato un segnale forte a chi, nel suo elettorato, vorrebbe un’altra guerra contro la Striscia, e da tempo lo taccia di mollezza verso gli aggressori. Quest’anno i razzi di Jihad islamica hanno lambito Tel Aviv, beffando lo scudo antimissile. La guerra si è evitata perché anche Hamas ha cambiato strategia: per Israele il pericolo più grande ora viene dal movimento estremista minore, ma più direttamente manovrato dall’Iran. Fondato nel 1981, Jihad islamica è addestrata, finanziata e armata dai pasdaran con un arsenale che gli israeliani stimano aver raggiunto la portata di quello di Hamas: gran parte dei razzi sono piccoli e autoprodotti, ma alcuni percorrono 50 miglia. Non per niente il 12 novembre un missile israeliano ha colpito, ferendolo, anche un capo militare di Jihad islamica in Siria.

Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen

LA GUERRA PER PROCURA IRANIANA

Akram al Ajouri, considerato l’anello tra Jihad islamica e l’Iran, è di base in un quartiere di Damasco. Altri esponenti del movimento (terroristico anche per gli Usa, l’Ue e gli altri alleati occidentali) vivono a Beirut, in Libano. I quadri vanno in visita a Teheran, hanno incontrato il presidente iraniano Hassan Rohani, più volte il suo ministro degli Esteri Javad Zarif e i vertici dei pasdaran. Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen: una tattica che aumenta l’instabilità e le divisioni tra palestinesi, ma cementa l’influenza di Teheran e la sua pressione ai diretti confini con Israele, come in Libano con gli Hezbollah. La teocrazia sciita, in questo momento debole in Iraq, può così anche rilanciare la sua propaganda di difensore della Palestina in Medio Oriente.

Gaza crisi Jihad islamica Israele Palestina
Gli ultimi raid israeliani nella Striscia di Gaza. GETTY.

LE DIVISIONI TRA I PALESTINESI

In verità a rimetterci più di tutti dalle proxy war sono come sempre i palestinesi. Anche Hamas, presa dalla gestione politica ed economica della Striscia (pessima quanto si vuole ma una realtà), non può più barricarsi nell’intransigenza della guerra a Israele: l’apertura concreta alle prime elezioni dallo scontro con Fatah è un’altra spina nel fianco per Netanyahu. L’iniezione mensile di milioni di dollari dal Qatar – permessa da Israele – alla Striscia è un compromesso accettato dagli islamisti anche a scopo elettorale, per allentare il blocco e migliorare le condizioni di vita dei due milioni di gazawi. Un piano di de-escalation sabotato sistematicamente da Jihad islamica, che dalla comoda collocazione all’opposizione attrae in compenso le frange più estreme e violente dei miliziani di Hamas.

L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica

LA MIOPIA DI ISRAELE

Con loro un popolo di delusi, non a torto, della “politica” è richiamato dal movimento armato anti-sistema, soprattutto tra i giovani. Jihad islamica è anche il grimaldello dell’Iran per ridurre il margine di manovra sui palestinesi dell’Egitto (con gli Stati Uniti, mediatore delle crisi di Gaza con tutti i gruppi estremisti), diventato una sponda di Israele e degli arcinemici sauditi. Se il tentativo di organizzare le Legislative, e poi le Presidenziali, nei territori occupati e nella Striscia naufragherà, a gioirne saranno tanto gli israeliani quanto gli iraniani. L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica. Ma Jihad islamica è un danno anche per Israele: alla fine dei conti, di questo passo a vincere davvero la guerra dei razzi sarà solo l’Iran.

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Caro Israele, gli omicidi mirati non sono da Stato democratico

È davvero arduo accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da Tel Aviv, che ha sempre fatto una bandiera della sua democraticità.

Il cessate il fuoco concordato tra la Jihad islamica e Tel Aviv con la mediazione dell’Egitto e dell’inviato delle Nazioni Unite deve essere accolto positivamente anche se nessuno può davvero sperare che da quest’intesa possa innescarsi un processo di strutturale de-escalation e quindi di stabilizzazione.

Del resto, si attende ancora la conferma dell’intesa proprio da parte israeliana che peraltro penso non mancherà seppure con qualche distinguo che, c’è da augurarsi, non riguardi la parte relativa all’impegno che sarebbe stato preso da Tel Aviv di non ricorrere più agli omicidi mirati.

Questi, che altri chiamano azioni di killeraggio, non sono a mio avviso accettabili; non lo sono rispetto all’esigenza proclamata della prevenzione di atti di terrorismo, soprattuto se se pianificati da mesi come nel caso in esame. Non lo sono neppure se autorizzati all’unanimità dal governo in ragione della «bomba ad orologeria» che sarebbe stata pianifica dalla Jihadh islamica né se collocati nel perimetro scivoloso della cosiddetta «guerra asimmetrica» che la Jihad islamica sta conducendo.

ISRAELE SI SENTE LIBERO DI UCCIDERE E SI VANTA DELLA SUA DEMOCRAZIA

È davvero arduo infatti accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da uno Stato che si definisce – e viene riconosciuto come tale – democratico. E soprattutto da uno Stato come Israele che fa una bandiera della sua democraticità anche per marcare la differenza esistente, proprio su questo terreno, con i Paesi vicini. Intendiamoci, da questo giudizio non discende neppure la più tenue legittimazione dei lanci delle decine, decine e decine di missili effettuati per ritorsione da parte da parte delle Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad Islamica.

Bibi Netanyahu, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz, aveva nominato a sorpresa, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova Destra Natali Bennett

Una ritorsione del tutto prevedibile da parte di un’organizzazione terroristica che si serve anche dei morti, oltre 30, caduti sotto il fuoco israeliano a fronte delle decine di feriti provocati dai suoi missili in terra israeliana. Prevedibile e certamente messa in conto anche da parte israeliana che evidentemente riteneva di poterne pagare un prezzo sopportabile. Da Bibi Netanyahu in primis che, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz – al quale resta solo una settimana per raggiungere il traguardo – aveva nominato a sorpresa, poche ore prima, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova DestraNatali Bennett, affrettatosi ad annunciare misure speciali di sicurezza.

Il cratere formato da un missile.

Poi ha deciso l’intervento missilistico nel convincimento che avrebbe ottenuto il placet del presidente e l’allineamento al suo fianco dello stesso Benny Gantz che non ha esitato ad affermare che il suo partito porrà sempre la sicurezza dei cittadini prima di qualunque cosa. Non sfugge infatti che con queste operazioni – che Netanyahu ha inteso saldare con un dichiarato, complementare intervento da terra, aria e mare – ha voluto dare un significativo segnale politico al Paese; segnale irrobustito dal messaggio che il bersaglio di Tel Aviv era solo la Jihadh e non Hamas che ha in quest’ultimo un concorrente temibile e che sembra mostrare sensibilità ai contatti propiziati anche dal Cairo per ottenere concessioni da Israele e, complessivamente, un abbassamento della conflittualità.

LA TREGUA RIMANE FRAGILISSIMA

Nello stesso tempo Netanyahu ha inteso inviare un inequivoco segnale anche a Teheran, sponsor della Jiadh islamica sia nella striscia di Gaza sia in Siria con l’altro attentato nel quale si è peraltro mancato il bersaglio principale, in un momento in cui l’Iran incontra difficoltà a sostenere i suoi proxies nella regione ma con i quali non intende allentare la presa. E proprio da Teheran che per bocca di Abbas Mousavi, il portavoce del ministero degli Esteri, è venuta la reazione più forte, non solo con la condanna degli attacchi missilistici, bollati come veri e propri crimini di guerra, ma anche con il vigoroso appello alla necessità che Tel Aviv sia perseguita e punita nei tribunali internazionali e con una dura critica «al silenzio e all’inazione» delle organizzazioni e della comunità internazionale contro l’aggressione e gli atti terroristici del regime sionista. Il tutto assortito dell’elogio dell’eroica resistenza del popolo palestinese contro gli «usurpatori».

Il raid israeliano un crimine contro il nostro popolo a Gaza

Abu Mazen, presidente della Palestina

Scontata a questo riguardo la reazione del presidente palestinese Abu Mazen che da Ramallah, in Cisgiordania, ha definito il raid israeliano «un crimine contro il nostro popolo a Gaza», così come la denuncia turca dell’aggressione israeliana. E per contro il sostegno bipartisan espresso nei riguardi Tel Aviv da parte americana (segnatamente da Mike Pence e da Joe Biden) mentre la Ue si è limitata a invitare le parti al contenimento mentre, curiosamente, si pubblicizzava la decisione di imporre la pertinente etichetta sui prodotti provenienti dai territori occupati; decisione avversata da Tel Aviv e naturalmente salutata con favore da parte palestinese (e non solo) come un passo importante nella direzione giusta.

Truppe israeliane.

La tregua raggiunta nelle ultime 24 ore è fragile e non solo perchè il suo annuncio è stato accompagnato da una serie di violazioni da una parte e dall’altra ma anche perché la Jihadh islamica è etero-diretta e non è detto che Teheran voglia favorire un percorso suscettibile di favorire la politica di contrasto israeliano ai proxies iraniani nel quadrante regionale che va da Gaza, per l’appunto, al Libano e alla Siria. Così come non è scontato che Netanyahu non abbia nei suoi calcoli altre azioni di forza. Penso che in ogni caso il bilancio dell’operazione – che è costata 34 morti, e solo da parte palestinese, mentre da parte israeliana si lamentano solo 63 feriti – non rappresenti un incoraggiamento alla pace.

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L’Iran e i suoi missili dietro l’attacco da Gaza su Israele

È la Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani a definire la strategia degli attacchi e a rifornire di razzi la Jihad islamica palestinese. Un'azione che rischia di riportare la guerra nella Striscia.

Jihad islamica, agli ordini diretti dell’Iran, sta sommergendo il Sud di Israele di razzi diretti da Gaza contro la popolazione civile.

Questa aggressione a freddo a Israele si inserisce non sulle tensioni israelo-palestinesi (è in atto da mesi a Gaza una tregua funzionante tra Hamas e Gerusalemme) ma nella politica di attacco che l’Iran sta dispiegando da tre anni in qua (dopo gli sciagurati accordi sul nucleare voluti da Barack Obama) installando in Siria, in Libano e a Gaza non meno di 3 mila ogive missilistiche e razzi destinati alla «Entità Sionista».

Una politica di usura aggressiva da tutti i territori confinanti con Israele a Nord, a Est e a Sud, che risponde alla strategia degli ayatollah di preparare e avvicinarsi all’obiettivo strategico principale della rivoluzione iraniana, ribadito anche dalla cosiddetta “ala riformista” di Teheran: «Cancellare Israele dalla faccia della terra».

LEGGI ANCHE: Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

CENTINAIA DI RAZZI DA GAZA VERSO ISRAELE

La gravità di questi attacchi proditori è tale che lo stesso coordinatore speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio oriente, Nickolay Mladenov, lo ha nettamente condannato: «Il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro centri abitati è assolutamente inaccettabile e deve cessare immediatamente. Non ci può essere giustificazione per gli attacchi contro i civili».

Una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore

Più di 400 razzi sono stati lanciati tra martedì 12 e mercoledì 13 novembre da Gaza verso i centri abitati delle cittadine israeliane di Ashkelon e Sderot, il 90% sono stati intercettati dal sistema anti missile israeliano Iron Dome e non si registrano al momento vittime, ma una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore, mentre si trovava in un rifugio.

HAMAS È ESTRANEA ALL’AGGRESSIONE

Il lancio di razzi era iniziato venerdì 8 novembre e la reazione di Israele è stata immediata: con missili guidati ha ucciso lunedì 11 nella sua abitazione a Gaza il capo della Jihad islamica della zona Nord di Gaza Au al Atta e martedì un altro dirigente, Moawad al Ferraj. È fondamentale notare che Hamas, che governa e controlla la Striscia, è estranea a questa demenziale aggressione contro Israele (nulla, dal punto di vista militare, ma devastante per gli israeliani delle zone colpite dal punto di vista umano) che è invece opera della Jihad islamica, un gruppo che è alle dirette dipendenze della Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani comandata dal generale Ghassem Suleimaini. Gli stessi Pasdaran riforniscono tramite il Sinai questi razzi, tutti di fabbricazione iraniana, alla Jihad islamica. Israele ha risposto a questa ennesima – e del tutto gratuita – aggressione con bombardamenti di sedi della Jihad islamica nella Striscia che a mercoledì 13 novembre hanno fatto 23 morti tra i suoi militanti.

LA PAURA DI UNA NUOVA GUERRA NELLA STRISCIA

Naturalmente, la preoccupazione maggiore è che questa aggressione irano-palestinese a Israele inneschi una nuova guerra a Gaza, ma Hamas, a oggi, ha dato segno di non avere intenzione di fare saltare la tregua siglata con Israele con la mediazione egiziana e anche se non fa nulla per impedire alla Jihad islamica di continuare la sua provocazione, anche se la “copre” politicamente, si è ben guardata dal fare atti di aggressione diretta contro Israele.

Un dimostrante palestinese.

Il governo israeliano ha per ora preso atto della prudente posizione di Hamas e non ha colpito nessun suo obiettivo a Gaza. Ma la situazione è sul filo del rasoio. Naturalmente, tutte le forze politiche israeliane hanno dato il pieno appoggio alla risposta decisa dal governo – incluse le uccisioni mirate dei dirigenti della Jihad islamica – ma è evidente il riflesso di queste tensioni nella difficile fase della formazione di un governo a Gerusalemme affidata al generale Benny Gantz, dopo il fallimento del tentativo di Bibi Netanyhau.

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Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

Stop a raid e lanci di razzi dopo la mediazione di Onu ed Egitto. Nella notte nuovo bombardamento di Tel Aviv contro un miliziano della Jihad islamica. E il bilancio delle vittime sale a 34 morti. La situazione.

Pare essere tornata la calma lungo la Striscia. Grazie a una mediazione dell’Egitto è stato infatti raggiunto un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Gaza.

L’intesa è stata confermata anche dalla Jihad islamica. Un suo portavoce, Mussab al-Breim, ha confermato che l’accordo è entrato in vigore nella mattinata del 14 novembre. «L’occupazione (Israele, ndr) ha accettato le condizioni dettate dalla resistenza», ha affermato.

Luce verde alla tregua anche dall’esercito israeliano che ha confermato la fine all’operazione “Cintura nera“, nome in codice con cui le forze armate hanno definito lo scontro di questi giorni. L’esercito ha poi sottolineato di aver raggiunto i suoi obiettivi sferrando «un duro colpo» alla Jihad islamica e alle sue capacità belliche. Ora, ha aggiunto il portavoce militare, citato dai media, il focus sarà rivolto al nord alle minacce degli alleati dell’Iran.

DECISIVA LA MEDIAZIONE DI EGITTO E ONU

L’inviato delle Nazioni Unite nell’area, Nickolay Mladenov ha spiegato che «L’Egitto e l’Onu hanno lavorato duramente per prevenire che la più importante escalation dentro e fuori Gaza arrivasse ad una guerra». Secondo Mladenov «le prossime ore e giorni saranno critiche». «Tutti», ha aggiunto su Twitter, «devono mostrare massimo controllo e fare la loro parte per impedire un bagno di sangue. Il Medio Oriente non ha bisogno di nuove guerre».

TOLTE RESTRIZIONI IN ISRAELE

Tutte le aree di Israele, ad eccezione delle aree attorno alla Striscia, possono tornare alla vita normale e sono ritirate le restrizioni sulle scuole, sugli assembramenti e sulle zone di lavoro. Lo ha annunciato il Fronte del Comando interno di Israele dopo il cessate il fuoco raggiunto tra le parti.

ULTIMI RAID NELLA NOTTE: UCCISE SEI PERSONE

Nella notte un nuovo raid aereo israeliano ha ucciso sei componenti di una famiglia nel centro della Striscia. La radio al-Aqsa di Hamas ha riferito che le vittime includono genitori e figli. Testimoni nella città di Deir al-Balah affermano di aver sentito due esplosioni, seguite dal suono delle sirene delle ambulanze. Secondo la radio militare israeliana, Ramsi Abu Malhus, il capo della famiglia rimasto ucciso a Deir el-Balah, era il comandante dei lanciatori di razzi della Jihad islamica nel settore centrale della Striscia di Gaza. «Negli ultimi giorni, come in passato, aveva partecipato attivamente ai lanci di razzi verso Israele«, ha aggiunto l’emittente.

34 MORTI DALL’INIZIO DEI RAID

Sale così a 34 il numero di palestinesi uccisi nell’escalation della violenza tra Israele e Gaza iniziata con l’uccisione di un comandante della Jihad islamica palestinese con un raid aereo martedì 12 novembre. Tra i morti ci sono 16 miliziani e almeno una donna e tre minori. Secondo il ministero della sanità di Gaza citato dall’agenzia Wafa, il numero dei feriti è di 113.

SIRIENE D’ALLARME LUNGO LA STRISCIA

Nel corso della mattinata le sirene di allarme sono risuonate in Israele, in una località vicina a Gaza. Nonostante il cessate il fuoco annunciato, cinque razzi sono stati lanciati verso le zone sud di Israele dove poco prima sono risuonate le sirene di allarme. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui due dei razzi sono stati intercettati dall’Iron Dome.

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Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

Stop a raid e lanci di razzi dopo la mediazione di Onu ed Egitto. Nella notte nuovo bombardamento di Tel Aviv contro un miliziano della Jihad islamica. E il bilancio delle vittime sale a 34 morti. La situazione.

Pare essere tornata la calma lungo la Striscia. Grazie a una mediazione dell’Egitto è stato infatti raggiunto un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Gaza.

L’intesa è stata confermata anche dalla Jihad islamica. Un suo portavoce, Mussab al-Breim, ha confermato che l’accordo è entrato in vigore nella mattinata del 14 novembre. «L’occupazione (Israele, ndr) ha accettato le condizioni dettate dalla resistenza», ha affermato.

Luce verde alla tregua anche dall’esercito israeliano che ha confermato la fine all’operazione “Cintura nera“, nome in codice con cui le forze armate hanno definito lo scontro di questi giorni. L’esercito ha poi sottolineato di aver raggiunto i suoi obiettivi sferrando «un duro colpo» alla Jihad islamica e alle sue capacità belliche. Ora, ha aggiunto il portavoce militare, citato dai media, il focus sarà rivolto al nord alle minacce degli alleati dell’Iran.

DECISIVA LA MEDIAZIONE DI EGITTO E ONU

L’inviato delle Nazioni Unite nell’area, Nickolay Mladenov ha spiegato che «L’Egitto e l’Onu hanno lavorato duramente per prevenire che la più importante escalation dentro e fuori Gaza arrivasse ad una guerra». Secondo Mladenov «le prossime ore e giorni saranno critiche». «Tutti», ha aggiunto su Twitter, «devono mostrare massimo controllo e fare la loro parte per impedire un bagno di sangue. Il Medio Oriente non ha bisogno di nuove guerre».

TOLTE RESTRIZIONI IN ISRAELE

Tutte le aree di Israele, ad eccezione delle aree attorno alla Striscia, possono tornare alla vita normale e sono ritirate le restrizioni sulle scuole, sugli assembramenti e sulle zone di lavoro. Lo ha annunciato il Fronte del Comando interno di Israele dopo il cessate il fuoco raggiunto tra le parti.

ULTIMI RAID NELLA NOTTE: UCCISE SEI PERSONE

Nella notte un nuovo raid aereo israeliano ha ucciso sei componenti di una famiglia nel centro della Striscia. La radio al-Aqsa di Hamas ha riferito che le vittime includono genitori e figli. Testimoni nella città di Deir al-Balah affermano di aver sentito due esplosioni, seguite dal suono delle sirene delle ambulanze. Secondo la radio militare israeliana, Ramsi Abu Malhus, il capo della famiglia rimasto ucciso a Deir el-Balah, era il comandante dei lanciatori di razzi della Jihad islamica nel settore centrale della Striscia di Gaza. «Negli ultimi giorni, come in passato, aveva partecipato attivamente ai lanci di razzi verso Israele«, ha aggiunto l’emittente.

34 MORTI DALL’INIZIO DEI RAID

Sale così a 34 il numero di palestinesi uccisi nell’escalation della violenza tra Israele e Gaza iniziata con l’uccisione di un comandante della Jihad islamica palestinese con un raid aereo martedì 12 novembre. Tra i morti ci sono 16 miliziani e almeno una donna e tre minori. Secondo il ministero della sanità di Gaza citato dall’agenzia Wafa, il numero dei feriti è di 113.

SIRIENE D’ALLARME LUNGO LA STRISCIA

Nel corso della mattinata le sirene di allarme sono risuonate in Israele, in una località vicina a Gaza. Nonostante il cessate il fuoco annunciato, cinque razzi sono stati lanciati verso le zone sud di Israele dove poco prima sono risuonate le sirene di allarme. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui due dei razzi sono stati intercettati dall’Iron Dome.

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Cosa succede tra Gaza e Israele dopo l’esecuzione di Abu al-Ata

Tensione alle stelle tra Tel Aviv e i membri della Jihad Islamica dopo la morte del comandante delle brigate al-Quds. Oltre 200 razzi verso i territori, mentre l'esercito rinforza il confine lungo la Striscia. E Hamas resta in attesa.

Alta tensione in Medio Oriente. L’uccisione nella mattinata del 12 novembre da parte di Israele del comandante militare della Jihad Islamica a Gaza, Baha Abu al-Ata, responsabile di lanci ripetuti di razzi le passate settimane verso lo Stato ebraico, ha immediatamente riacceso il conflitto con la Striscia.

Subito dopo, e per tutta la giornata, oltre 200 razzi sono piovuti su Israele, con le sirene di allarme risuonate anche a Tel Aviv e nel centro del Paese, aeroporto compreso. In serata il bilancio a Gaza era di 10 morti nella Striscia – inclusi Baha Abu al-Ata e sua moglie Asma – e 45 feriti nei raid israeliani contro i miliziani. Raid poi ripresi in serata.

In Israele, dove circa il 90% dei missili è stato intercettato dal sistema di difesa Iron Dome, si contano decine di feriti per le cadute mentre la gente correva nei rifugi. Lo scontro in atto, la Jihad è appoggiata dall’Iran, è il più grave da mesi e gli esiti non sono prevedibili.

LA MINACCIA DI NUOVI ATTENTATI

Da segnalare infatti che la scorsa notte, quasi in contemporanea con i fatti di Gaza, un altro comandante della Jihad Islamica, Akram Ajuri, è stato oggetto a Damasco di un attacco che la stampa siriana ha attribuito agli israeliani. «Israele», ha detto il premier Benyamin Netanyahu al termine di una riunione del Consiglio di difesa, «non vuole un’escalation ma farà tutto il necessario per difendersi. Occorre avere pazienza e freddezza». Poi ha denunciato che «Baha Abu al-Ata era il principale organizzatore di terrorismo a Gaza. Stava per organizzare nuovi attentati. Era una bomba in procinto di esplodere».

LA RABBIA PALESTINESE PRONTA A ESPLODERE

Da parte sua la Jihad, subito dopo l’uccisione di Al-Ata, ha annunciato che la sua reazione «farà tremare l’entità sionista». «Israele», ha accusato Ziad Nahale, uno dei leader della fazione, «ha oltrepassato tutte le linee rosse. Reagiremo con forza». Mentre da Ramallah, in Cisgiordania, il presidente palestinese Abu Mazen ha bollato l’azione di questa mattina come «un crimine israeliano contro il nostro popolo a Gaza».

NUOVI RINFORZI ISRAELIANI LUNGO IL CONFINE

Israele – che ha inviato al confine con la Striscia rinforzi di mezzi blindati, di unità di fanteria e anche ufficiali della riserva – al momento sembra voler tenere fuori dallo scontro Hamas, che pure governa l’enclave palestinese. Per questo ha fatto sapere ai suoi comandanti che se non si unirà al fuoco della Jihad, non colpirà i suoi obiettivi. Ma il leader Ismail Haniyeh ha garantito che «la politica israeliana delle esecuzioni mirate non avrà successo». Le prossime ore saranno dunque decisive per capire se il conflitto si allargherà, mentre l’Egitto sta mediando con l’obiettivo di riportare la calma.

VITA SOSPESA PER GLI ABITANTI DI GAZA

A Gaza intanto la popolazione si è chiusa nelle abitazioni e le strade sono piombate nel buio a causa delle ripetute interruzioni di elettricità. Di fronte ai panifici si sono viste code di persone accorse a fare scorte nella preoccupazione che un’escalation militare con Israele sia questione di ore. Mentre in Israele il Comando militare ha dato disposizioni alla gente di seguire le istruzioni impartite e di stare vicino ai rifugi. Le zone intorno alla Striscia, con in testa Sderot, sono martellate dai razzi e in molte cittadine non lontano dal confine e vicino a Tel Aviv domani le scuole rimarranno chiuse. L’Ue ha affermato che «il lancio di missili sulle popolazioni civili è totalmente inaccettabile e deve immediatamente cessare» e che «una rapida e completa de-escalation è necessaria per salvaguardare la vita e la sicurezza dei civili palestinesi e israeliani».

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La Corte Ue impone l’etichetta sui prodotti dei territori occupati da Israele

I giudici di Lussemburgo hanno stabilito in una sentenza che gli alimenti originari da insediamenti israeliani in Cisgiordania devono recare l'indicazione «di tale provenienza».

L‘etichetta che indichi se i prodotti vengono dai Territori palestinesi occupati da Israele e dalle colonie che Tel Aviv ha creato in Cisgiordania. La corte di Giustizia Ue del Lussemburgo ha stabilito infatti in una sentenza che gli alimenti originari dei territori occupati dallo Stato di Israele «devono recare l’indicazione del loro territorio di origine accompagnata, nel caso in cui provengano da un insediamento israeliano all’interno di detto territorio, dall’indicazione di tale provenienza».

RISCHIO È TRARRE IN INGANNO I CONSUMATORI

La Corte ha scritto che «il Paese di origine o il luogo di provenienza di un alimento deve essere indicato qualora l’omissione di una simile indicazione possa indurre in errore i consumatori, facendo pensare loro che tale alimento abbia un paese di origine o un luogo di provenienza diverso dal suo paese di origine o dal suo luogo di provenienza reale». L’indicazione, in sostanza, «non deve essere ingannevole».

«I TERRITORI HANNO DIVERSO STATUS»

I giudici, secondo una nota diffusa dalla stessa corte, hanno precisato che «il fatto di apporre su alcuni alimenti l’indicazione secondo cui lo Stato di Israele è il loro ‘paese d’origine’, mentre tali alimenti sono in realtà originari di territori che dispongono ciascuno di uno statuto internazionale proprio e distinto da quello di tale Stato, che sono occupati
da quest’ultimo e soggetti a una sua giurisdizione limitata, in quanto potenza occupante ai sensi del diritto internazionale umanitario, rientrerebbe nella fattispecie delle indicazioni ingannevoli. O, secondo le parole della Corte, trarrebbe «in inganno» i consumatori europei.

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