Gli Usa pronti ai negoziati con l’Iran

L'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell'Onu per scongiurare l'escalation.

Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».

LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN

Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni
contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana
vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.

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Come la crisi iraniana sta spaccando la politica Usa

Le divisioni tra i falchi. Le divergenze nel Partito repubblicano e in quello democratico. I dissidi tra Casa Bianca e Pentagono. Le tensioni con Teheran allargano la faglia tra pro e anti Trump.

La crisi iraniana, esplosa dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani, sta producendo profonde spaccature in seno alla politica statunitense. Le varie fazioni che si stanno creando attorno a questo spinoso dossier non sono poche. La maggior parte dei repubblicani si è schierata dalla parte di Donald Trump. A sostenere il presidente in questo delicato frangente sono soprattutto i falchi del partito. All’indomani dell’attacco missilistico iraniano contro le due basi americane in Iraq, il senatore della Florida, Marco Rubio, ha dichiarato che il presidente ha gestito la faccenda «molto bene», aggiungendo: «Gli Stati Uniti erano ben preparati per questo tipo di attacco e non hanno bisogno di affrettarsi per decidere la risposta appropriata». Una posizione in buona sostanza condivisa anche dal senatore del South Carolina, Lindsey Graham, che ha definito l’aggressione iraniana «un atto di guerra». Riferendosi all’uccisione di Soleimani, l’ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha invece affermato: «Le uniche persone che piangono la scomparsa di Soleimani sono i nostri leader democratici e i candidati presidenziali democratici».

Va tuttavia notato che il fronte dei falchi non appare del tutto coeso e che può, almeno in generale, essere diviso in due parti. Se è infatti possibile scorgere una frangia più moderata che, con Graham, invoca un’azione ferma (volta a “ristabilire la deterrenza” contro l’Iran), è presente anche una fazione molto più agguerrita che chiede di andare ben oltre. In questo senso, non bisogna trascurare la posizione dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che – qualche giorno fa – si è augurato che l’uccisione di Soleimani possa costituire il primo passo per arrivare a un cambio di regime in Iran. Una prospettiva, quest’ultima, che Trump non ha mai mostrato di apprezzare e lo stesso Graham – nelle scorse ore – ha ribadito che il presidente non auspica un simile obiettivo. Se dunque il fronte dei falchi non appare del tutto compatto, neppure il Partito Repubblicano si è interamente schierato con Trump sul dossier iraniano.

NON TUTTO IL PARTITO REPUBBLICANO STA CON TRUMP

Per quanto minoritaria, la frangia dei libertarian (di tendenze storicamente isolazioniste) non ha gradito troppo l’eliminazione di Soleimani. Qualche giorno fa, il senatore del Kentucky Rand Paul ha dichiarato che Trump avrebbe «ricevuto cattivi consigli» sulla sua decisione di uccidere il generale iraniano: non è del resto un mistero che Paul sia sempre stato abbastanza favorevole ad intraprendere azioni diplomatiche per appianare le divergenze geopolitiche tra Washington e Teheran. L’amministrazione Usa, dal canto suo, ostenta al momento compattezza. La sintonia tra il presidente e il segretario di Stato, Mike Pompeo, sembra forte. Tutto questo, nonostante l’episodio della lettera, circolata due giorni fa, su un eventuale ritiro delle truppe americane dall’Iraq possa suggerire la presenza di qualche dissidio tra la Casa Bianca e il Pentagono.

L’INVERSIONE DI ROTTA DELLA WARREN

Ancora più articolata (e confusa) rispetto alla situazione nel Gop risulta quella tra i democratici: soprattutto se si guarda ai principali candidati alla nomination. L’estrema sinistra si è mostrata sin da subito molto critica nei confronti dell’uccisione del generale, con il senatore del Vermont Bernie Sanders che ha definito l’accaduto un «assassinio» che potrebbe condurre gli Stati Uniti verso una nuova «disastrosa guerra in Medio Oriente».  Più controversa la posizione di Elizabeth Warren. Il giorno dell’uccisione di Soleimani la senatrice del Massachusetts aveva postato un primo tweet in cui, pur denunciando la possibilità di un conflitto, definiva il generale iraniano un «assassino». Qualche ora dopo, in seguito alle critiche ricevute su Twitter da attivisti di area liberal, ha in parte cambiato linea, sostenendo che Trump abbia «assassinato un alto funzionario militare straniero» e ritenendo inoltre il presidente responsabile dell’acuirsi delle tensioni con Teheran.

Più “istituzionali” si sono mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg

L’inversione di rotta non è passata inosservata e ha messo in luce le difficoltà della Warren a barcamenarsi tra le istanze più a sinistra dell’elettorato americano e quelle dell’establishment del Partito Democratico (cui la senatrice non è così estranea come spesso vorrebbe far ritenere). Più “istituzionali” si sono invece mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg: i due hanno affermato che Soleimani era un nemico dell’America ma non hanno comunque perso occasione per criticare Trump. Biden ha accusato il presidente di aver gettato un candelotto di dinamite in una polveriera, sostenendo che la Casa Bianca non disporrebbe di adeguate strategie mediorientali. Buttigieg, dal canto suo, ha criticato Trump per aver ordinato l’eliminazione del generale senza chiedere l’autorizzazione del Congresso.

L’INIZIATIVA DELLA SPEAKER PELOSI

E proprio quest’ultima accusa ha fatto breccia in gran parte dell’Asinello negli ultimi giorni. Lunedì scorso, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato l’introduzione di una risoluzione per limitare il potere del presidente sul dossier iraniano: una risoluzione che – ha scritto in una lettera la Pelosi – «riafferma le responsabilità di supervisione da lungo tempo assunte dal Congresso, imponendo che se non verrà intrapresa alcuna ulteriore azione congressuale, le ostilità militari dell’amministrazione nei confronti dell’Iran cesseranno entro 30 giorni». L’argomento, che può avere una sua validità tecnica in astratto, risulta tuttavia debole in concreto, alla luce del fatto che Barack Obama nel 2011 ordinò l’intervento in Liba, aggirando completamente l’autorità del Campidoglio. Resta tuttavia il fatto che, con ogni probabilità, la leadership dell’Asinello è intenzionata a dare battaglia su questo fronte. Magari intersecando il tutto con la partita dell’impeachment.

I (PRESUNTI) LEGAMI CON L’IMPEACHMENT

A questo proposito, c’è chi sostiene che il presidente avrebbe ordinato l’uccisione di Soleimani proprio per fronteggiare al meglio il processo di messa in stato d’accusa (che dovrebbe celebrarsi questo mese al Senato). L’interpretazione risulta tuttavia abbastanza inconsistente: Trump non aveva infatti bisogno di uccidere il generale per ottenere l’appoggio dei falchi alla Camera alta (sono mesi che, per esempio, Graham sta sostenendo il presidente su questo fronte). Inoltre, anche in termini di opinione pubblica, il consenso verso l’impeachment era già progressivamente scemato tra novembre e dicembre. Discorso simile vale poi per chi dice che Trump ha agito in ottica prettamente elettorale. È vero che secondo un recentissimo sondaggio di Morning Consult il 47% degli intervistati si è detto favorevole all’eliminazione di Soleimani (mentre solo il 40% ha manifestato contrarietà). Ma è altrettanto vero che difficilmente gli americani voteranno a novembre del 2020 pensando all’uccisione del generale iraniano. 

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All’America non piace la guerra di Trump contro l’Iran

Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.

In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike al generale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.

DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»

L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».

ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD

Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.

STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO

Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.

Iran Soleimani Trump caos Usa
Americani contro la guerra all’Iran di Trump, Usa. (Getty).

NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA

L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».

LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE

Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».

Iran Soleimani Trump caos Usa
In Times Square, a New York, contro le guerre di Trump in Medio Oriente. GETTY.

DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI

La Germania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.

IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA

I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lo choc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.

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Perché vanno ascoltate le parole rivoluzionarie del cardinal Zuppi

In un'epoca caratterizzata dal furore di irresponsabili, Trump in testa, l'arcivescovo di Bologna propone un nuovo umanesimo. Base per una nuova politica.

Le parole di guerra che leggiamo o ascoltiamo in questi giorni lasciano annichiliti. L’Iran minaccia vendette sanguinose e Donald Trump, autore di questa crisi, parla di risposte militari che investiranno anche i luoghi d’arte, e, temo, di culto, in ogni caso «sproporzionate». Da anni non sentivamo da un leader di un Paese d’Occidente parole tanto infuocate e irresponsabili. Ovviamente Matteo Salvini è d’accordo con lui. In molti di noi si riaffaccia l’anti-americanismo degli anni del Vietnam a cui bisogna resistere perché non possiamo fare a meno dell’America, anche se oggi è piccola cosa, priva di egemonia, ridotta e isterica potenza militare guidata da un uomo senza qualità.

IL MONDO È IN MANO AL FURORE DI IRRESPONSABILI

L’ansia maggiore sta nella sensazione che nessuno di noi possa fare alcunché per proteggere il mondo dal furore di irresponsabili. Ci è capitato di vivere in questa stagione della storia in cui mancano personalità mondiali, a parte papa Francesco, e proliferano mezze calzette con troppo potere. Eppure non è vero che non si possa fare nulla. Non c’è ovviamente un gesto che può fermare questa corsa alla guerra mondiale, quella guerra mondiale «a pezzettini» come la definì il pontefice alcuni anni fa. Viviamo in un Paese che rifiuta di assumere un ruolo di pace e che rischia di essere diretto da uomini di guerra.

BISOGNA CREARE GRANDI MOVIMENTI CONTRO L’ODIO

Eppure noi sappiamo, perché è la storia del mondo che ce lo dice, che lo sviluppo di solidi movimenti di pace, che la rinascita di una opinione pubblica responsabile potranno fare il miracolo se le giovani generazioni ne diventeranno protagoniste. Oggi un movimento di pace non può esser sospettato di parteggiare per una parte contro un’altra. Il mondo non solo non è diviso in due ma la competizione vede contrapposti vecchi imperi, imperi che rinascono, e rinascenti suggestioni imperiali. Oggi scendere in campo ha il vantaggio di apparire ingenui, insospettabili, non strumentalizzabili. Si tratta di creare grandi movimenti contro l’odio. Se le ho capite bene,  anche le Sardine hanno questo come obiettivo, ma serve di più.

LA LEZIONE DEL CARDINALE DI BOLOGNA

Vorrei suggerire a chi mi legge un libro fondamentale scritto dal cardinale di Bologna, con il collega Loreno Fazzini, Matteo Maria Zuppi che su questo tema ci ha donato riflessioni importanti. Il libro non è riassumibile. Ogni frase vale come un suggerimento, come una esperienza di vita di un sacerdote che è stato sulla strada per tanti anni e che per anni con la comunità di Sant’Egidio si è occupato di mettere pace in Paesi come il Mozambico. Scrive monsignor Zuppi: «Per non odiare, ovvero sentirsi veramente amati, è necessario e indispensabile esser credenti, o meglio, cristiani?». Ecco la risposta: «Penso che sia una alleanza tra i credenti, quando prendono sul serio il Vangelo, e quanti non rinunciano alla sfida di restare umani anche in tempi difficili, animi nobili e alti, che per questo non cedono all’odio in nome dell’Umanità stessa».

VERSO UN NUOVO UMANESIMO

È l’idea di un nuovo umanesimo che comprenda tutte le fedi e anche chi non ha fede a illuminare l’ispirazione del cardinale Zuppi e a dargli la suggestione che si possa creare un movimento di pace che sia incentrato sul rifiuto dell’odio. Scrive ancora Zuppi: «Quante vite hanno rovinato l’isolamento dell’io e la schiavitù dell’io. Un’antropologia moderna, che proietta giudizi negativi sugli altri per proteggere se stessi, promette l’infinito e crea una vita dimezzata».

IL MALE DELL’ADORAZIONE DI SÉ

Zuppi affronta anche un tema che fu centrale nella riflessione degli «atei devoti» negli anni ratzingeriani, la critica del relativismo, e dice che «bisogna scoprire il valore positivo di un innovativo relativismo, cioè l’abbandono della assolutizzazione di sé per rendersi disponibili alla relazione…Ma vorrei usare questa parola popolare, relativismo, per cambiarne, prima o poi, il significato. Dobbiamo lottare in tanti modi contro il rischio di una idolatria che ci imprigiona: l’adorazione di sé, come fosse una divinità da servire e alla quale sacrificarsi. E contemporaneamente lottare contro la caduta di senso del limite, perché si fa fatica a contrastare una soggettività per la quale qualunque atto diventa lecito in base al principio della libertà dell’io, senza la considerazione del bene e dei rischi comuni. Relativizzare il sé e aprirci agli altri, non può, invece, che liberarci, sollevarci, calmarci, e orientare le nostre risorse interiori, dando senso al tutta la nostra esistenza. Ci aiuta e ricentrare davvero il nostro sé, il nostro essere».

SOLO L’AMORE PUÒ CONTRASTARE LA PAURA

E poi un concetto fondamentale: «La paura è un segnale che ci rende consapevoli di un pericolo. È una spia importante, un indicatore che occorre prendere in considerazione, e non ignorare per spavalderia, per leggerezza, per presunzione. È importante, quindi, prendere con serietà la paura, ma poi occorre contrastarla con l’unico atteggiamento capace di superarla: l’amore. Se la paura decide per noi diventa rabbia, rivalsa, diffidenza o aggressività. Contrastiamo la paura, invece, anzitutto aprendoci all’amore perché questo genera una forza inaspettata, nuova e creativa, che ci rende capaci di cose grandi».

LA DIFFERENZA SOSTANZIALE TRA BUONO E BUONISTA

Il cardinale ha scritto così un manifesto per il “buonismo”? Zuppi è schietto, e persino eccessivamente franco, come il suo papa e dice: «Buonismo è fermarsi ad una buona azione che serve a te e non a chi sta male, è credere di far pace con la propria coscienza solo per un buon sentimento di attenzione all’altro, come se volere bene non comportasse farsi carico. I cristiani sono i primi a non trovarsi bene nella casa dei buonisti. Il samaritano è buono, non buonista….La compassione che lui vive, e che siamo chiamati a sperimentare anche noi, è quella che si fa carico, fino a cercare di risolvere il problema della persona sofferente….Il buonismo non risolve, si compiace troppo di sé, non si misura con la fatica della ricerca di soluzioni». Il libro di Zuppi (Odierai il prossimo tuo, editore Piemme) è una miniera di pensieri forti qui solo in parte riassunti. Mi interessa solo che chi mi legge, e leggerà il libro, immagini che si può non stare inerti di fronte alle brutture del mondo, ma che si può iniziare la grande rivoluzione contro l’odio. Assumendo il bene degli altri come realizzazione di sé, si può creare la via maestra per un nuovo umanesimo e quindi per una nuova politica.

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La situazione tra Iran e Usa dopo l’uccisione di Soleimani

Il Pentagono nega nuovi raid, ma manda 2.800 soldati in Medio Oriente. Teheran assicura di non volere una escalation, ma promette vendetta. Razzo su un aeroporto di Baghdad che ospita truppe americane.

Il Pentagono assicura che, almeno per il momento, non sono previsti altri raid aerei degli Stati Uniti contro le milizie filo-iraniane. Teheran da una parte, col suo ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, dichiara di non volere alcuna escalation, dall’altra, attraverso i Pasdaran e il presidente Rohani, manda chiari messaggi minacciosi all’America. E due razzi che colpiscono la superprotetta Green Zone di Baghdad, e la base aerea di Balad, che ospita truppe americane. Non vi sono al momento notizie di vittime.La situazione in Medio Oriente, nel giorno in cui il feretro dell’eroe nazionale iraniano Qassem Soleimani è sfilato per le vie di Baghdad accompagnato dalla folla che gridava «morte all’America», sembra quella di una pentola a pressione pronta a esplodere.

NUOVI SOLDATI AMERICANI

La sensazione, al di là delle parole, è che però tiri un deciso vento di guerra. Così gli Stati Uniti hanno deciso di inviare circa 2.800 soldati a protezione delle sedi diplomatiche e degli interessi Usa nell’area, i punti nevralgici più sensibili a una rappresaglia iraniana che è impossibile pensare non arrivi. D’altra parte l’ambasciata americana a Baghdad era già stata assaltata da migliaia di manifestanti pochi giorni prima dell’uccisione di Soleimani.

INCONTRO IRAN-QATAR

Intanto il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ricevuto a Teheran il suo omologo del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Zarif ha definito l’attacco Usa un «atto terroristico» che ha portato al «martirio» del comandante, ma ha anche aggiunto che «l’Iran non vuole tensioni nella regione, ed è la presenza e l’interferenza di forze straniere che causa instabilità, insicurezza e aumento della tensione nella nostra delicata regione».

IL QATAR PROVA A MEDIARE

Il Qatar, un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, ospita la più grande base militare di Washington in Medio Oriente , e Al-Thani ha definito la situazione nella regione «delicata e preoccupante» e ha invitato a trovare una soluzione pacifica che porti a una de-escalation. Il ministro del Qatar ha incontrato anche il presidente iraniano Hassan Rohani, che aveva giurato vendetta per il sangue di Soleimani. L’Arabia Saudita, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno interrotto ogni rapporto con il Qatar nel 2017, accusando Doha di appoggiare l’estremismo e promuovere legami con l’Iran, accuse che il Qatar ha sempre respinto.

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Gli Stati Uniti di Trump hanno le forze spaziali

Inaugurato dal presidente e dalla first lady il nuovo corpo militare dedicato alla guerra nello spazio.

L’esercito degli Stati Uniti guarda allo spazio ed è pronto alla sua conquista, letteralmente. Il presidente Donald Trump ha ufficialmente inaugurato la sera del 20 dicembre la Us Space Force cioè le nuove forze spaziali americane, un nuovo corpo militare – si tratta del primo in più di settant’anni dedicato alla conquista e alla difesa spaziale.

«LA SUPERIORITÀ NELLO SPAZIO È VITALE»

«Lo spazio è il nuovo dominio mondiale di combattimento in guerra e tra le gravi minacce alla nostra sicurezza nazionale la superiorità americana nello spazio è assolutamente vitale», ha sottolineato il presidente Usa, in visita al nuovo corpo militare assieme alla first lady Melania Trump.

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Perché l’impeachment di Trump è un problema per la Russia

I media di Stato esultano, ma nella diplomazia serpeggia preoccupazione. Perché l'assedio del Congresso rende il presidente Usa imprevedibile. E riacutizza i sentimenti anti-russi nella politica d'Oltreoceano. Il racconto da Mosca.

Mentre sui media di Stato i guerrieri della propaganda del Cremlino si compiacciono del caos politico che regna a Washington, nelle stanze del potere di Mosca se ne è parecchio preoccupati.

Il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov, durante una riunione tenutasi nel giorno in cui la Camera Usa ha messo in stato d’accusa il presidente Donald Trump, ha detto ai suoi consiglieri che il processo di impeachment sta creando «estreme difficoltà» nei già tesi rapporti con la controparte americana. «Riferendo degli incontri avuti con lo stesso Trump e con il Segretario dI Stato Mike Pompeo il 10 dicembre, il ministro ha sottolineato che i vertici dell’amministrazione americana sono così distratti dalla procedura di impeachment e dalla situazione politica interna da non essere in grado di concentrarsi sulle relazioni con Mosca in modo positivo», dice a Lettera43 il direttore del Consiglio russo per gli affari internazionali (Riac) Andrey Kortunov, che ha partecipato a quella riunione. «Certamente al ministero degli Esteri non si è contenti della situazione», spiega Kortunov.

L’attuale debolezza interna rende gli Stati Uniti «imprevedibili, inaffidabili e anche pericolosi»

Andrey Kortunov, Consiglio russo per gli affari internazionali

Il maggior timore è che il presidente Usa, «spinto dal nervosismo per l’impeachment, al fine di migliorare la sua posizione sul fronte domestico possa decidere qualche azione sconsiderata in politica estera ai danni della Russia». L’attuale debolezza interna rende gli Stati Uniti «imprevedibili, inaffidabili e anche pericolosi».

PER MOSCA L’IMPEACHMENT RIACUTIZZA I SENTIMENTI ANTI-RUSSI

Il problema, dicono i diplomatici di Mosca, è che la procedura di impeachment ha riacutizzato i sentimenti anti-russi nella politica americana: il pasticcio della telefonata di Trump al presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato collegato dal fronte anti-Donald alle interferenze russe nelle elezioni Usa del 2016; l’ Ucraina viene di nuovo identificata, a Capitol Hill e sui media, come una vittima dell’orso russo a cui si deve assicurare aiuto e protezione. Tutto questo proprio quando un’attenuazione delle tensioni con l’Occidente, grazie all’apertura del presidente francese Emmanuel Macron e alla ripresa del dialogo con Kiev, faceva intravedere la possibilità di un ritiro delle sanzioni contro la Russia, e sembrava rendere di nuovo perseguibile quel “big deal” con gli Usa che resta un obiettivo strategico di Putin. Aspettative accantonate, almeno finché la situazione a Washington non sarà più chiara e stabile.

Donald Trump e Vladimir Putin.

Intanto, le accuse di contiguità con Putin alla radice dei guai del presidente americano, e che paradossalmente stanno procurando qualche mal di testa a Mosca, vengono celebrate nei talk show televisivi pro-Cremlino della tivù russa. Uno dei conduttori più popolari, Vladimir Solovyev, si riferisce ironicamente al presidente Usa come al «nostro Ivan Ivanovich», con tanto di patronimico alla russa. E sottolinea «nostro», l’aggettivo che i cantori del regime usavano per la Crimea al tempo dell’annessione. Il messaggio è che Trump ha messo in crisi il sistema politico di Washington indebolendo gli Usa, e che più deboli sono gli Usa meglio è per la Russia.

LA VOCE DELLA PROPAGANDA

Un simile concetto viene espresso in modo più sofisticato in un editoriale dell’agenzia di stampa governativa Ria Novosti: «La conseguenza più importante dell’intera “operazione impeachment” è che chi l’ha iniziata ha involontariamente lavorato nell’interesse della Federazione Russa, e lo ha fatto in modo incredibilmente efficace», si legge nell’articolo, a firma dell’economista e blogger Ivan Danilov. Secondo cui dalla vicenda esce «completamente distrutto» il sistema istituzionale statunitense costruito sulle regole dettate dai padri fondatori. Tanto che nel conflitto politico in corso «i sostenitori di entrambi i partiti sognano di eliminare fisicamente gli oppositori, non più considerati concittadini e nemmeno essere umani». E così la stessa politica Usa «ha fenito per «firmare una sentenza di condanna per il Paese».

E QUELLA DELLA DIPLOMAZIA

«È davvero necessario tracciare una linea netta tra la propaganda e l’operatività politica», nota Kortunov riguardo alla retorica utilizzata dai media di stato russi nel coprire l’impeachment di Trump. «La propaganda fa il suo lavoro nel creare la narrativa di una Russia come Paese migliore rispetto agli Stati Uniti divisi e instabili. Così i cittadini possono dire: “siamo un’isola felice di stabilità in questo mondo volatile”, e anche se sanno che questa stabilità la si potrebbe anche chiamare estagnazione hanno qualcosa di cui esser soddisfatti. Ma sul piano operativo ho la netta impressione che i responsabili della politica estera russa preferirebbero trovarsi di fronte a un America meno imprevedibile». È la bipolarità che contraddistingue molti aspetti della Russia putiniana. Anche in questa caso, ne è la sintesi lo zar. Che ufficialmente si attiene alla linea ufficiale della non interferenza e della volontà di lavorare con qualsiasi presidente gli americani decidano di scegliersi, e poi – a impeachment inoltrato – difende a spada tratta Trump, definisce inventate le accuse e prevede pubblicamente l’esito del processo nel Senato di Washington.

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La lotta non è più di classe, ma tra generazioni

I sintomi si sono visti nelle elezioni britanniche. Ma presto contageranno (acuendosi) gli altri Paesi occidentali. L'analisi.

«Dato che esistono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero anche esistere politici onesti» (Dario Fo). «Ogni cuoca dovrebbe imparare a reggere lo Stato» (Vladimir Lenin). Due citazioni estreme, ma che ben riassumono spirito e stato dell’arte della politica attuale. Un po’ ovunque agitata da leader divisivi, arroganti, presuntuosi. Talmente eccessivi nei loro comportamenti pubblici da riuscire, per colmo di paradosso, ad apparire normali. Scorrono le immagini di Donald Trump che twitta insulti e rabbia da impeachment, di Boris Johnson che fa jumping in un luna park, di Silvio Berlusconi che alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa sembra Maurizio Crozza. Ma in assoluto l’immagine più desolante, per me almeno, è del ministro degli Esteri Luigi Di Maio alle prese con l’aggravarsi della crisi libica e l’intervento di Russia e Turchia nel conflitto. Qui anche la classica casalinga di Voghera capisce che il cuoco non è assolutamente all’altezza. Riuscite a immaginare il capo politico dei grillini che fronteggia Tayyip Erdogan e Vladimir Putin? Non vi viene da rimpiangere l’astuzia levantina di Giulio Andreotti?

NELLA MENTE DELL’OPINIONE PUBBLICA

Sono però sociologiche e non politiche le questioni che voglio affrontare e che scaturiscono dall’evidente contraddizione, manifestata dalla nostra classe politica, fra principi e azioni, fra richiami teorici alla coerenza e alla fedeltà (di partito) puntualmente smentiti dalla realtà. Una contraddizione questa che fa malauguratamente parte del patrimonio politico nazionale, ma che deve fare i conti, si spera fortunatamente, come dirò in seguito,con avvenimenti nuovi, veloci e imprevedibili. Ma facciamo alcuni esempi di giornata. Matteo Salvini che twitta il benvenuto ai tre senatori transfughi dal M5s, dimentico, come gli viene subito ritwittato e ricordato, che due anni fa auspicava l’inserimento nella costituzione del vincolo di mandato.

Il senatore Gian Luigi Paragone che vota no alla finanziaria, ma invocando la fedeltà al programma elettorale dei 5 Stelle. I deputati di Forza Italia che chiedono invece il referendum, dopo avere nei giorni scorsi votato la riduzione del numero dei parlamentari. Però il meglio del peggio, ossia il pessimo, lo offrono i due ex alleati Salvini-Di Maio che ora si insultano. Anche se è il leghista la dissociazione fatta persona, visto che lo si dà in avvicinamento all’altro Matteo (Renzi) e favorevole a un governo di grande coalizione guidato dal sino a ieri odiato banchiere europeista Mario Draghi. L’interrogativo più pertinente non riguarda la pena e il danno che l’attuale classe politica italiana procura al Paese, perché ormai sono conclamati, bensì l’atteggiamento delle opinioni pubbliche, dei gruppi sociali e anche dei rispettivi sostenitori ed elettori. Visto che su di esso sembra non avere effetto alcuno questa deplorevole e generalizzata abitudine a dire una cosa, pensarne un’altra e farne una diversa.

LA STANCHEZZA DIETRO UN’INDIFFERENZA MANIFESTA

A promettere fedeltà al partito o agli alleati e poi tradirli alla prima occasione utile, così come rinfacciare alla parte avversa, quando si è all’opposizione, un comportamento istituzionale scorretto, salvo poi praticarlo, una volta passati al governo. Come è puntualmente accaduto con la soppressione del dibattito parlamentare in occasione della recente legge finanziaria. Credo che sull’indifferenza dei cittadini-elettori a cambiare giudizio di fronte a scelte politiche incoerenti o infedeli giochi la stanchezza e il fastidio. Ma anche l’imporsi di un’adessitudine o presentismo famelico che cancella sia il futuro sia il passato. Internet e il web sono stati e sono un potente azzeratore di memoria. Ma della memoria a breve, perché quella remota, anche per reazione a un presente che comunque non piace, si attiva con i colori e la forza della nostalgia.

L’apparente dejà vu è preso all’interno di una struttura sociale nuova e di un contesto tecnologico totalmente diverso

Quasi nessuno credo ricordi il ministro Franco Frattini o di cosa sia stata ministra Maria Elena Boschi. Tutti però ci troviamo a rimpiangere i leader di un tempo quasi remoto: Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante, Aldo Moro. Perfino Winston Churchill viene scomodato per confronti fuori tempo e fuori luogo. Ma comunque denotativi di una generalizzata tendenza a correre velocissimi in ogni ambito, non solo in politica. Però con la testa girata all’indietro. «A tutta velocità guardando lo specchietto retrovisore», ha scritto il sociologo Th. Eriksen in Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica. È la nostalgia del buon tempo che fu e della “buona politica “, rivendicata dal movimento delle Sardine, che alimenta questa ambivalenza? Certamente sì. Ma c’è anche molto di nuovo in questo riproporsi, peraltro ciclico, di corsi e ricorsi. Il fatto fondamentale che l’apparente dejà vu è preso all’interno di una struttura sociale nuova e di un contesto tecnologico totalmente diverso.

IL WEB RIDISEGNA RAPPORTI E RELAZIONI

Il fascismo non tornerà, perlomeno nelle forme che abbiano conosciuto, non tanto perché lo scrive Vespa, ma perché i media di riferimento non sono più la radio e il cinematografo bensì il web. Che ridisegna rapporti e relazioni. Per molti aspetti inediti, anche quando sembrano riproporre vecchi schemi. Un mix di edito e inedito, di confermativo e sorprendente, di passato che ritorna e futuro che ricomincia, che emerge nitidamente dalle recenti elezioni nel Regno Unito. Gli inglesi che con il loro voto hanno espresso nostalgia per l’Inghilterra imperiale, che però non c’è più, hanno nello stesso tempo indicato, sia pure inconsapevolmente, che il trionfo delle piazze virtuali, ovvero la trasformazione esclusiva della politica in tweet e streaming su Facebook, è di là da venire. Nel contempo che il trionfo di Johnson segnala un inedito assoluto: non è più la lotta di classe il motore del confronto e scontro politico, bensì il conflitto fra generazioni.

IL CASO DELLE ELEZIONI NEL REGNO UNITO

Jeremy Corbyn ha infatti strabattuto il rivale sul web, ma ha rimediato la peggiore sconfitta elettorale dal 1935. Il Labour ha vinto su Internet, facendo uso di meme, post virali su Facebook e video che hanno attirato l’attenzione degli elettori. I fan di Corbyn sono stati molto più coinvolti sui social media rispetto a quelli di Johnson, e i video dei laburisti contro i conservatori hanno ottenuto milioni di visualizzazioni. Ma ciò non si è tradotto in voti, e i Tory hanno conquistato 364 seggi contro i 203 di Labour. Questo risultato costringe tutti a rifare i conti digitali con la politica. E a riconsiderare il ruolo e il potere delle piazze reali, che date per morte, si riscoprono improvvisamente, come l’ascesa del movimento delle Sardine, vitali, attuali. Capaci di indicare nuove traiettorie e dinamiche alla dialettica sociale e alla lotta politica. Che, come mostra l’analisi del recente voto britannico di Yougov, sembra spostarsi dal piano degli interessi di classe a quelli di età.

Il labour di Corbyn ha infatti stravinto nella fascia 18-24 anni e prevalso in quella 25-49, ma straperso in quelle 50-64 e oltre i 65. È molto probabile che questo scontro fra generazioni sia destinato, a breve, a generalizzarsi e acuirsi in tutti i Paesi dell’Occidente sviluppato. Quelli del welfare generoso con i pensionati. Ma non più sostenibile e ancor meno accettabile per un numero crescente di giovani. Che sono scesi in piazza e intendono continuare a farlo. Perchè, come hanno scritto a Repubblica i quattro promotori delle Sardine, «siamo stati per troppo tempo sdraiati».

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L’impeachment non scalfirà Trump ma era una questione di valori

Il Senato repubblicano salverà il presidente dalla messa in stato d'accusa. Eppure bisognava farlo: per difendere la democrazia contro la corruzione. C'entrano giustizia, etica e morale. Un giorno l'America si libererà di questo despota senza scrupoli.

Dopo Andrew Jackson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, Donald J. Trump è il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti a essere messo in stato d’accusa: il Congresso ha votato per l’impeachment. Benché sia un’accusa estremamente grave, starà al Senato decidere se le sue azioni sono gravi abbastanza da rimuoverlo dalla sua posizione di presidente. Se dovesse succedere, cosa molto improbabile, la presidenza passerà al vicepresidente Mike Pence. Insomma, gli americani passerebbero dalla padella alla brace.

THE DONALD CONTINUERÀ A ESSERE POPOLARE

Alla fine, dunque, chi ha vinto? C’è chi pensa che malgrado tutto, Trump e i repubblicani ne escano vincitori: dopo tutto l’economia sta andando molto bene e il tasso di approvazione di Trump non è cambiato di molto durante questo periodo. I repubblicani potrebbero passare come i vincitori perché malgrado la gravità dell’impeachment, il presidente ne uscirà senza nessun danno permanente: continuerà a essere popolare tra i suoi fedeli come lo era all’inizio di questo processo.

IL SISTEMA NON FUNZIONA A DOVERE

Inoltre, in questi mesi è riuscito a raccogliere milioni di dollari per la campagna elettorale per la presidenza del 2020, presentandosi come vittima del complotto democratico che dall’inizio della sua candidatura ha cercato di cacciarlo. Immaginiamo l’inimmaginabile: nel 2020 Trump viene rieletto. Sicuramente cadrà ancora nella trappola della disonestà, come ha fatto in questi anni decine di volte. Cosa succederà a quel punto? Ci potrà essere un altro tentativo di impeachment nei suoi confronti? Probabilmente no. Insomma, malgrado la sua dimostrabile corruzione, finora il sistema, creato apposta per prevenire azioni corrotte, non è stato in grado di funzionare come avrebbe dovuto. Non con Trump.

PELOSI POTREBBE PROLUNGARE L’ATTESA

E i democratici? Malgrado un quasi sicuro insuccesso al Senato, forse hanno ancora una carta da giocarsi. Potrebbero non consegnare i documenti necessari al Senato per procedere fino a quando i repubblicani concordano nel condurre un vero processo, con tanto di testimoni, cosa che per adesso rifiutano di fare. L’impeachment, dunque, potrebbe rimanere irrisolto per molto tempo: non scade. Nancy Pelosi, per ora, non ha commentato se deciderà di seguire questa possibilità, ma se scegliesse di farlo la conclusione dell’impeachment potrebbe diventare molto lunga, addirittura oltrepassare la data delle elezioni.

I DEM HANNO DIFESO LA COSTITUZIONE AMERICANA

I dem sono stati assaliti da insulti, attacchi alla loro integrità e trattati come bugiardi dai repubblicani, eppure tutto questo non li ha intimiditi. Hanno mantenuto la loro calma, la loro professionalità e sono andati avanti, come richiesto dalla Costituzione. Come tutti i rappresentanti del Congresso, hanno giurato che avrebbero difeso la Costituzione a spada tratta. E così hanno fatto: hanno deciso di prendere la strada di giustizia, etica e morale che il loro ruolo richiede. Sanno bene che al prossimo giro, e cioè durante le discussioni in Senato, di maggioranza repubblicana, le probabilità che il presidente sia rimosso dal suo ruolo sono molto basse, anzi inesistenti. Ma almeno sanno che in coscienza hanno mantenuto fede ai valori che rendono questa una democrazia: hanno scelto la strada della giustizia a quella della corruzione.

L’ERA DEL DESPOTA SENZA SCRUPOLI FINIRÀ

Hanno detto e ripetuto che nessuno, neanche il presidente, è al di sopra della legge, e che la Costituzione è nata dal desiderio non essere mai guidati da sovrani. Durante il suo discorso conclusivo Adam Schiff, a capo della Commissione Giustizia del governo, invoca uno dei principali redattori della Costituzione, Alexander Hamilton. Nel 1792 fu lungimirante quando mise in guardia gli americani sulla possibilità, un giorno, di essere guidati da un uomo senza scrupoli, despota, capace di imbarazzare il governo, pronto a tutto pur di mantenere il suo potere. Quando questo succederà, continua Hamilton, marcherà la fine della democrazia e il ritorno alla monarchia. Direi, caro Alexander, che quel despota senza scrupoli è arrivato e non ha nessuna intenzione di andarsene. Faremo di tutto per liberarcene.

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Come funziona il processo di impeachment al Senato

La messa in stato d'accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge, passaggio per passaggio.

Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.

Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:

1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).

2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.

3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.

4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.

5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono i loro punti di vista sul caso.

6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.

7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.

8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.

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Come funziona il processo di impeachment al Senato

La messa in stato d'accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge, passaggio per passaggio.

Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.

Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:

1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).

2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.

3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.

4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.

5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono i loro punti di vista sul caso.

6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.

7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.

8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.

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Come l’impeachment mette il turbo alla campagna elettorale di Trump

O con lui o contro di lui: la contrapposizione aiuta i repubblicani nella corsa alle Presidenziali 2020. The Donald pronto alla grande battaglia mediatica. Mentre i dem restano senza leader carismatici. E quattro di loro si sfilano dall'incriminazione.

«L’assalto all’America». «Una vergogna e una disgrazia per il Paese». Anzi di più, un «colpo di Stato» della «sinistra radicale dei democratici nullafacenti». Nei 45 tweet scaricati a caratteri cubitali sul web al via libera all’impeachment della Camera, a Donald Trump è bastato scrivere «pregate per me» perché il repubblicano Barry Loudermilk, deputato per lo Stato della Georgia, lo paragonasse a Gesù: «Nel processo farsa di Ponzio Pilato gli furono concessi più diritti di quanti i democratici non ne abbiano lasciati al presidente americano», ha commentato. La potenza di fuoco del tycoon contro la «messinscena» e la «follia politica assoluta» contro di lui – terzo presidente degli Stati Uniti con l’onta del processo al Senato – è l’arma migliore dei repubblicani per le Presidenziali del 2020.

THE DONALD FISSO AL CENTRO DELL’ATTENZIONE

Si può dire che la corsa di Trump al secondo mandato sia scattata con i 230 sì dei deputati democratici «consumati dall’odio» all’incriminazione per abuso di potere del presidente della (197 i no). Dal 19 dicembre tutta la campagna elettorale del 2020 per la Casa Bianca sarà incentrata sulla «minaccia costante per la sicurezza nazionale», come ha definito Trump la presidente della Camera Nancy Pelosi. Per la controparte, il presidente è il più perseguitato dai nemici democratici. L’inquilino della Casa Bianca più eccentrico della storia degli Usa sarà in ogni caso al centro dell’attenzione, e tutto il resto in secondo piano. Anche come presidente, dal 2017 Trump ha brillato solo per pressapochismo e megalomania: se c’è una cosa che sa far bene, l’unica, è insomma mettersi in mostra.

FARLO MARTIRE È STATO UN REGALO

Anche nella campagna del 2016 il tycoon dell’Apprentice vinse grazie alla spregiudicatezza nella comunicazione: la competizione è il suo ambiente ideale. Farlo martire dell’impeachment è, anche per alcuni democratici, il regalo più grande che gli si potesse fare. Non a caso i repubblicani puntano ad aprire e chiudere il processo al Senato (a maggioranza repubblicana) prima possibile, tra gennaio e febbraio 2020, in modo da procedere come vincitori nella corsa contro il «partito dell’odio». Mentre Trump, che quando ne vale la pena rilancia sempre la posta, vorrebbe trascinare l’impeachment di alcuni mesi, citando in Senato come testimoni proprio Hunter Biden e il padre Joe. Cioè lo sfidante dem alle Presidenziali e la famiglia cuore delle accuse dell’impeachment

Alla Camera i dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani

LO SCONTRO AIUTA I REPUBBLICANI

Imbastire una campagna mediatica e svergognare i democratici è il programma elettorale di Trump. Un terreno molto scivoloso per i democratici: la stessa ex first lady di Barack Obama, Michelle, è parecchio scettica sulla scelta di Pelosi – pressata dalla maggioranza dei democratici alla Camera – di avviare l’impeachment. Alla votazione, i deputati dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani che, seppur da sempre in diversi perplessi verso il loro ultimo presidente, hanno fatto tutti quadrato su Trump: un altro vantaggio del clima di contrapposizione creato. Tre deputati democratici si sono invece sfilati dal sì alla prima accusa di abuso di potere, due di loro anche dalla seconda per ostruzionismo al Congresso; un terzo dem dalla seconda accusa.

PER QUALCHE DEM È UN’ESAGERAZIONE

I dissidenti si contano sulle dita: non abbastanza per intaccare la maggioranza semplice che bastava per l’impeachment, ma niente affatto edificanti. Jeff Van Drew, dem per il New Jersey, è stato molto franco: «Così le chance di Trump alle Presidenziali del 2020 si alzano ancora». E dirlo da democratico proprio non aiuta. Un altro campanello d’allarme è il no di Collin Peterson, moderato, rappresentante del Minnesota nel 2016 andato a Trump, sconfitto in passato dai repubblicani: ebbene per Peterson «Trump non ha commesso alcun crimine». Quanti la pensano come lui nel Minnesota, e prima del voto il 3 novembre 2020 oscilleranno tra democratici e repubblicani? L’ex soldato d’élite Jared Golden, deputato per il Maine, ritiene per esempio esagerata l’accusa di ostruzionismo, e non quella di abuso di potere.

Impeachment Trump Usa Presidenziali 2020
Tulsi Gabbard, democratica filorussa, con Bernie Sanders alla campagna presidenziale del 2016. (Getty).

GABBARD, LA DEMOCRATICA PIÙ AMATA DAL CREMLINO

Un’astensione molto imbarazzante, per i democratici privi di un leader carismatico, è arrivata (su entrambi e capi di accusa) dalla giovane deputata e militare Tulsi Gabbard, eletta alle Hawaii. Figlia di un repubblicano, ex soldatessa in Iraq, per welfare e istruzione universali, prima super delegata donna a sostenere Bernie Sanders nel 2016, Gabbard è considerata una stalinista tra i dem: pro Bashar al Assad in Siria, filorussa in politica estera, ora isolata anche nella sinistra radicale per l’impeachment, il soldato Gabbard corre da solo. Ma soprattutto, come ha annunciato, correrà per una nomination alle Presidenziali del 2020. Di lei Hillary Clinton aveva detto che la Russia sta facendo tra i dem quello che fece con Trump tra i repubblicani, aprendo una lite prima con l’interessata poi con Sanders.

PELOSI LEADER SOLO PERCHÉ È L’ANTI-TRUMP

Tutte queste divisioni indeboliscono i democratici. Mentre il Gran old party (Gop) si stringe attorno al corpo estraneo di Trump. È significativo che tra i dem emerga come leader solo la 79enne speaker della Camera: non perché prima donna e prima italo-americana a presiedere l’assemblea legislativa degli Usa, non perché deputata democratica di più alto grado mai ammessa nei Comitati di intelligence, non perché tra le donne dem – insieme a Clinton e Michelle Obama – con più accesso alle informazioni sulla Difesa e sulla Sicurezza nazionale – e tanto meno perché sfidante alle Presidenziali. Pelosi non è candidata alla Casa Bianca né lo è mai stata, è leader perché ha mosso l’impeachment a Trump. Una retorica che, finora, negli States non ha spostato consensi dai repubblicani ai democratici.

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Le reazioni internazionali dopo l’impeachment contro Donald Trump

Il mondo sovranista si stringe intorno al presidente Trump dopo la messa in stato d'accusa. Putin: «Solo accuse inventate». E Salvini parla di una sinistra globale che «vuole sovvertire la volontà popolare».

L’internazionale sovranista si muove in difesa di Donald Trump, dopo il via libera della Camera dei Rappresentati all’impeachment. Il presidente russo Vladimir Putin, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha toccato brevemente il caso sottolineando che la messa in stato d’accusa «si basa su accuse inventate e il Senato respingerà le imputazioni contro il presidente americano». «È estremamente difficile», ha aggiunto il capo del Cremlino, «che i repubblicani tolgano la carica di presidente a un rappresentante del loro stesso partito per motivi che sono assolutamente inventati».

ANCHE SALVINI CORRE IN DIFESA DI TRUMP

In Italia intanto è corsa a destra per dare il proprio sostegno al tycoon. Matteo Salvini, che dovrà fronteggiare la Giunta per le Immunità sul caso Gregoretti, ha espresso tutto il suo sostegno a Trump e vedendo nei due casi un certo parallelismo: «Mal comune e mezzo gaudio», ha detto in una conferenza stampa alla Camera, «Evidentemente c’è una reazione al sistema politico mediatico e giudiziario, non solo in Italia: pensiamo agli Usa, coi risultati economici della presidenza Trump che sta ottenendo dati alla mano… C’è un Presidente che deve passare le sue giornate preoccupandosi di difendersi da un impeachment che lo vedrebbe come traditore del popolo… Evidentemente in giro per il mondo a sinistra c’è qualcuno che usa qualsiasi arma per sovvertire la volontà popolare».

MELONI ESPRIME SOLIDARIETÀ VIA TWITTER

Appoggio sovranista via Twitter anche dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Negli Usa una sinistra perdente e incapace di dare risposte tenta di salire al potere rovesciando con ogni mezzo chi è stato eletto e sta ottenendo risultati straordinari. La sinistra è uguale in tutto il mondo. Solidarietà e sostegno a Donald Trump e al popolo americano».

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Le reazioni internazionali dopo l’impeachment contro Donald Trump

Il mondo sovranista si stringe intorno al presidente Trump dopo la messa in stato d'accusa. Putin: «Solo accuse inventate». E Salvini parla di una sinistra globale che «vuole sovvertire la volontà popolare».

L’internazionale sovranista si muove in difesa di Donald Trump, dopo il via libera della Camera dei Rappresentati all’impeachment. Il presidente russo Vladimir Putin, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha toccato brevemente il caso sottolineando che la messa in stato d’accusa «si basa su accuse inventate e il Senato respingerà le imputazioni contro il presidente americano». «È estremamente difficile», ha aggiunto il capo del Cremlino, «che i repubblicani tolgano la carica di presidente a un rappresentante del loro stesso partito per motivi che sono assolutamente inventati».

ANCHE SALVINI CORRE IN DIFESA DI TRUMP

In Italia intanto è corsa a destra per dare il proprio sostegno al tycoon. Matteo Salvini, che dovrà fronteggiare la Giunta per le Immunità sul caso Gregoretti, ha espresso tutto il suo sostegno a Trump e vedendo nei due casi un certo parallelismo: «Mal comune e mezzo gaudio», ha detto in una conferenza stampa alla Camera, «Evidentemente c’è una reazione al sistema politico mediatico e giudiziario, non solo in Italia: pensiamo agli Usa, coi risultati economici della presidenza Trump che sta ottenendo dati alla mano… C’è un Presidente che deve passare le sue giornate preoccupandosi di difendersi da un impeachment che lo vedrebbe come traditore del popolo… Evidentemente in giro per il mondo a sinistra c’è qualcuno che usa qualsiasi arma per sovvertire la volontà popolare».

MELONI ESPRIME SOLIDARIETÀ VIA TWITTER

Appoggio sovranista via Twitter anche dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Negli Usa una sinistra perdente e incapace di dare risposte tenta di salire al potere rovesciando con ogni mezzo chi è stato eletto e sta ottenendo risultati straordinari. La sinistra è uguale in tutto il mondo. Solidarietà e sostegno a Donald Trump e al popolo americano».

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Donald Trump è stato messo sotto Impeachment

La Camera ha approvato i due capi di imputazione contro il presidente con poche defezioni. Furiosa la reazione di Trump che in un comizio in Michigan attacca: «Vogliono annullare le elezioni».

Agognava di finir nei libri di scuola come un presidente migliore di Abramo Lincoln. Invece Donald Trump è entrato nella storia indossando gli umilianti panni del terzo presidente Usa messo in stato d’accusa con la procedura di impeachment. Prima di lui sono finiti a giudizio solo Andrew Johnson nel lontano 1868 e Bill Clinton nel 1998. Entrambi sono stati assolti in Senato, come succederà con ogni probabilità in gennaio anche al tycoon, che conta sulla granitica maggioranza repubblicana nella camera alta del parlamento. Richard Nixon invece si dimise nel 1974 prima di essere imputato.

LEGGI ANCHE: Perchè l’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

MOZIONE VOTATA DOPO UN DIBATTITO DURATO ORE

Due i capi di imputazione: abuso di potere per le pressioni su Kiev per far indagare il suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e ostruzione del Congresso per aver bloccato testimoni e documenti. Il voto della Camera è arrivato dopo settimane di aspre polemiche e dopo un lungo, a tratti velenoso dibattito in un ramo del Congresso saldamente controllato dai democratici. Alcuni repubblicani sono arrivati a paragonare l’indagine di impeachment all’attacco di Pearl Harbor o alla crocefissione di Cristo, sostenendo che Ponzio Pilato si è comportato meglio con Gesù. Alla fine i due articoli sono stati approvati rispettivamente con 230 e 229 voti, tutti dem tranne tre contrari. Compatto invece il no del Grand Old Party.

La prima pagina della risoluzione contro Donald Trump.

SI PREPARA LA BATTAGLIA AL SENATO

Ma ora si apre un nuovo fronte di guerra: dopo il voto la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato che i due articoli non saranno inviati al Senato finchè non ci saranno garanzie di un processo giusto in quel ramo del Congresso, finora negate a suo avviso dalle mossa del leader dei senatori Mitch McConnell, che è andato alla Casa Bianca per coordinare le strategie e affermato che non sarà un giudice imparziale. Nel giorno più buio della sua presidenza, il tycoon ha aspettato la votazione prima twittando nel bunker della Casa Bianca e poi tenendo un comizio in Michigan, Stato cruciale per la sua rielezione. È li che ha saputo la notizia ma ha reagito come sempre attaccando, osannato dalla folla che gridava «altri quattro anni».

I democratici stanno cercando di annullare il voto di decine di milioni di patrioti americani

Donald Trump

LA FURIA DI TRUMP: «VOGLIONO ANNULLARE LE ELEZIONI»

«Non abbiamo fatto nulla di sbagliato. Abbiamo l’appoggio del partito repubblicano», ha esordito. «Dopo tre anni di caccia alle streghe, bufale, vergogne, truffe, i democratici stasera stanno cercando di annullare il voto di decine di milioni di patrioti americani», ha denunciato, accusando l’opposizione di «abuso di potere». «Questo è il primo impeachment dove non c’è un reato», ha incalzato, convinto che sarà un «suicidio politico» per i dem. E ha vantato l’unità del partito: «Non abbiamo perso neanche un voto dei repubblicani e tre democratici hanno votato con noi». La sua bestia nera resta Nancy Pelosi, cui alla vigilia del voto aveva inviato un’infuocata lettera di sei pagine accusandola di aver «dichiarato guerra aperta alla democrazia americana» con la «crociata» di un impeachment che è «un fazioso e illegale colpo di stato».

LA SPEAKER DELLA CAMERA PELOSI: «NON AVEVAMO ALTRA SCELTA»

Una lettera «ridicola» e «triste», ha replicato la Pelosi, ammonendo che «se consentiamo ad un presidente, qualsiasi presidente, di proseguire su questa strada, diremo addio alla repubblica e buongiorno al presidente re». La speaker democratica ha rincarato la dose aprendo il dibattito alla Camera. «Trump non ci ha dato altra scelta. Il presidente ha violato la costituzione e resta una costante minaccia per la sicurezza del nostro Paese e l’integrità delle nostre elezioni», ha denunciato, dopo aver letto accanto ad un tricolore americano il Pledge of Allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti.

La prima pagina dle New York Times del 19 dicembre 2019

UN PAESE SPACCATO SULL’IMPEACHMENT

Nel frattempo davanti a Capitol Hill centinaia di attivisti manifestavano a sostegno dell’impeachment, dopo gli oltre 600 tra raduni e marce in varie città di tutti i 50 Stati Usa, a partire da New York. «Che atroci bugie. Questo è un assalto all’America e al partito repubblicano», le ha risposto su Twitter il tycoon, che mira a galvanizzare la sua base e a trasformare l’impeachment in un boomerang politico contro i democratici. I sondaggi mostrano un Paese spaccato a metà sulla messa in stato d’accusa ma nel frattempo il gradimento del presidente sembra salire, stando all’ultimo sondaggio di Gallup: dal 39% di quando è iniziata l’indagine all’attuale 45%.

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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Quali sono le tappe per la procedura di impeachment di Trump

Dopo l'ok della commissione Giustizia, settimana prossima la Camera (a maggioranza dem) dovrebbe mettere il presidente in stato d'accusa. A gennaio il processo in Senato, dove è previsto che la maggioranza repubblicana lo scagioni.

Dopo l’ok della commissione Giustizia al voto sull’impeachment, sarà l’aula della Camera la settimana prima di Natale a decidere se mettere o meno Donald Trump in stato di accusa. Alla House of Representatives è necessario il 50% più uno di voti favorevoli per far proseguire la procedura. Considerato che i dem hanno la maggioranza alla camera bassa, il via libera è quasi scontato.

AL SENATO UN VERO E PROPRIO PROCESSO

A quel punto la palla passa al Senato, dove l’impeachment si configura come un vero e proprio processo al presidente in parlamento. Alla fine del dibattimento, con tanto di testimonianze e arringhe, si avrà il voto finale. Per far decadere il capo di Stato sono necessari due terzi dei voti, ma visto che il Senato è a maggioranza repubblicana è altamente improbabile che Trump perda la battaglia finale. Il processo si terrà a gennaio, un mese prima dell’inizio delle primarie.

La Casa Bianca ha fatto sapere che non parteciperà ad un procedimento che ritiene «infondato e illegittimo». La strategia di Trump e del suo partito sembra chiara: negare ogni accusa e trasformare il processo in una zuffa politica montando un ring da pugilato al Senato per un contro processo ai Biden. Il presidente sta già preparando il terreno insieme al suo avvocato personale Rudy Giuliani, che è andato in Ucraina per raccogliere informazioni sull’ex vicepresidente e su suo figlio nonostante sia emerso nell’indagine di impeachment come l’uomo chiave incaricato dal tycoon della campagna di pressione su Kiev.

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Questi repubblicani senza senso della nazione si meritano Trump

Difendono strenuamente il loro leader dall'impeachment nonostante sia il peggior presidente della storia degli Stati Uniti. I democratici ai tempi della messa in stato d'accusa di Clinton erano stati più severi.

Credo di essere una delle poche persone ad aver ascoltato tutte le testimonianze date sia alla Commissione di Intelligence che a quella di Giustizia riguardo l’impeachment di Donald Trump. Come è ormai noto, gli articoli sono due: abuso di potere e ostruzione al Congresso.

UNA DIFESA SCONTROSA E MALEDUCATA

Fino alla fine, i democratici hanno mostrato un rigore e un’organizzazione nello spiegare con più dettagli possibili gli eventi che hanno portato alla decisione di messa in stato d’accusa del presidente americano, mentre i repubblicani, che non sembrano interessati ai fatti ma alle teorie complottistiche, non hanno mai perso occasione di pretendere in modo scontroso e maleducato di spiegare l’innocenza del loro leader. La frase che hanno pronunciato più spesso è la seguente: «Da quando Trump è stato eletto, i democratici hanno fatto di tutto per dargli l’impeachment».

L’AMMINISTRAZIONE PIÙ CORROTTA DI SEMPRE

Hanno ragione, ma è anche vero che nella storia degli Stati Uniti non c’è stata amministrazione più corrotta e azioni fatte dal presidente così scandalose. È stato accusato di aver accettato soldi illeciti da Paesi esteri (vietato dalla Costituzione), di avere un conflitto di interessi tra la sua posizione di potere e il suo business, che ha tentato più volte di promuovere (vietato dalla Costituzione), ostruzione alla giustizia, associazione con gruppi neo nazisti, e di promozione dell’odio, è tutt’ora indagato per possibili azioni illecite finanziarie.

DAGLI IMMIGRATI ALL’FBI, QUANTE MACCHIE PER DONALD

Ma non solo: ha pubblicamente insultato l’Fbi, gli immigrati messicani («Sono tutti spacciatori e vengono qui a violentare le nostre donne!»), ha incarcerato migliaia di bambini ai confini con il Messico, separandoli dalle loro famiglie. Per non parlare della sua amministrazione: molti sono stati accusati di corruzione, alcuni (compreso il suo ex avvocato Cohen) sono ancora in carcere. Tutto questo per dire che i repubblicani hanno ragione a dire che si sta cercando di fermare Trump dall’inizio del suo mandato, ma anche che qualche ragione per farlo mi sembra che ci sia.

Donald Trump.

LA “PISTOLA FUMANTE” C’È ECCOME

Un’altra frase che i repubblicani insistono a ripetere è che «There is no smoking gun!». Non capisco davvero a cosa si riferiscano: più della famosa telefonata tra Trump e Volodymyr ZelenskyI have a favor, though»), più che le decine di testimonianze date da esperti, spesso repubblicani, che confermano la tesi che Trump ha abusato del suo potere, negando l’aiuto finanziario all’Ucraina e l’invito alla Casa Bianca del neopresidente in cambio di un aiuto politico per denigrare il suo rivale alla presidenza per il 2020, più che prendere atto del fatto che la Casa Bianca abbia negato accesso a documenti importanti e a testimoni, cosa serve ai repubblicani per capire che la smoking gun è davanti ai loro occhi?

TRA I DEM ALMENO C’ERA DELUSIONE PER CLINTON

Eppure nessuno di loro ha mostrato di essere amareggiato, deluso, perplesso dei comportamenti del loro beniamino. Durante l’ultimo iter per l’impeachment di Bill Clinton, per esempio, molti democratici avevano a gran voce condiviso la loro delusione nei confronti delle azioni del presidente, anche se non tutti pensavano che una reazione tanto grave come l’impeachment fosse necessaria. I repubblicani che appoggiano Trump (tutti) devono andare alle elezioni per il Senato tra qualche anno, e non vogliono certo contrariare il presidente pubblicamente, per paura di perdere il loro potere, visto che il tycoon in certi ambienti è, malgrado tutto, ancora molto popolare. Così hanno deciso di farlo perdere a istituzioni di importanza vitale per la democrazia americana come il Congresso.

SENZA SENSO PER IL BENE DELLA NAZIONE

A volte mi viene da pensare che forse queste persone, che non sono in grado di mettere il bene della nazione davanti al loro potere, si meritino un presidente come il loro: una persona che da subito si è sentita al di sopra della giustizia, e che passerà alla storia come il peggior presidente americano. Indagato, corrotto e, lasciatemelo dire, ignorante come una capra.

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Le due accuse a Trump nel processo per l’impeachment

Al presidente statunitense sono contestati l'abuso di potere e l'ostruzione al Congresso. Entro il 15 dicembre il voto in commissione Giusizia, la settimana successiva quello alla Camera. Ma lo scoglio principale è il Senato.

Abuso di potere e ostruzione al Congresso: sono questi i due “articoli” che saranno messi al voto per l’impeachment del presidente statunitense Donald Trump nella vicenda dell’Ucrainagate. Lo ha annunciato il presidente della commissione Giustizia Jerrold Nadler, sostenendo che il presidente ha messo se stesso davanti al Paese minacciandone la sicurezza, corrompendo le elezioni e violando la costituzione. Secondo l’accusa, Trump avrebbe fatto pressioni su Kiev affinché venissero avviate indagini su Hunter Biden, figlio di Joe, candidato democratico alle prossime elezioni. L’obiettivo di Trump, che a queste indagini avrebbe condizionato gli aiuti militari Usa all’Ucraina, sarebbe stato quello di danneggiare il suo maggior rivale al voto del 2020.

SCHIFF (COMMISSIONE INTELLIGENCE): «CI SONO PROVE SCHIACCIANTI»

Gli articoli contestati al presidente Usa sono stati annunciati in una conferenza stampa a Capitol Hill introdotta dalla speaker Nancy Pelosi, che ha parlato di un «giorno solenne». «Il presidente Trump ha usato il potere del suo ruolo contro un Paese straniero per corrompere le nostre prossime elezioni», ha poi rincarato la dose Pelosi via Twitter, «è una continua minaccia per la nostra democrazia e la nostra sicurezza nazionale».

Alla conferenza stampa erano presenti anche i presidenti delle altre cinque commissioni della Camera che hanno partecipato all’indagine di impeachment, tra cui Adam Schiff (commissione Intelligence), che ha ripercorso le fasi della vicenda dicendo che contro Trump «sono emerse prove schiaccianti». Di tutt’altro avviso la Casa Bianca, che in una nota ha commentato: «Non c’è alcuna prova di illeciti da parte del presidente. L’impeachment è un’ingiustizia e un inganno senza precedenti».

SUBITO IL VOTO IN COMMISSIONE, ENTRO NATALE QUELLO ALLA CAMERA

Dopo un dibattito interno non esente da contrasti, i dem hanno quindi deciso di limitare le accuse all’Ucrainagate, rinunciando a contestare l’ostruzione alla giustizia con gli episodi evidenziati nel rapporto Mueller sul Russiagate. La commissione Giustizia della Camera si riunirà ora entro il 15 dicembre per votare gli articoli dell’impeachment. Poi ci sarà il voto alla Camera in sessione plenaria, probabilmente entro Natale. Voto che dovrebbe passare. Più difficile, invece, quello decisivo al Senato, dove servono i voti favorevoli dei due terzi dell’Aula, a maggioranza repubblicana.

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Perché Trump alla fine resterà al suo posto

Dalle ultime deposizioni, repubblicani e democratici difficilmente troveranno una quadra per risolvere il nodo dell'impeachment. E così il rischio non è solo che il tycoon non lasci la Casa Bianca, ma che vinca anche le prossime elezioni.

Dopo avere ascoltato le ultime deposizioni al Congresso, ho avuto la netta sensazione che i democratici e i repubblicani non riusciranno mai a trovare dei punti in comune per risolvere questa grave crisi di governo. Giovedì Nancy Pelosi ha annunciato la messa in stato d’accusa del presidente da parte della Camera. «Se avete intenzione di mettermi in stato d’accusa, fatelo ora e velocemente, in modo che possiamo avere un processo giusto in Senato», ha risposto via Twitter Trump.

LE ACCUSE DI OSTRUZIONE ALLA GIUSTIZIA

Il giorno prima erano stati interpellati dalla commissione Giustizia alcuni dei più importanti giuristi esperti della Costituzione e la maggior parte di loro non ha avuto dubbi: le azioni di Donald Trump richiedono senza ombra di dubbio la più grave delle conseguenze: l’impeachment. «Se non si procede questa volta, allora non accadrà più per nessuno», ha sottolineato Michael Gerhardt, professore di diritto costituzionale all’Università della Carolina del Nord. Gerhardt ha ricordato il precedente di Richard Nixon. «Mentre Nixon non si presentò per quattro volte davanti al Congresso malgrado i mandati di comparizione, con Trump siamo a più di 10. Questo è un crimine punibile con l’impeachment: ostruzione alla giustizia».

IL PESO DEL KIEVGATE

Per non parlare del fatto, forse più grave, di aver messo i suoi interessi personali davanti a quelli della nazione, quando ha chiesto un ‘favore’ al neo presidente ucraino in cambio di 400 milioni di dollari in aiuti finanziari. Noah Feldman, emerito professore della Harvard University ha ricordato che la Costituzione fu creata per fare in modo che nessuno, nemmeno il presidente, potesse mai essere al di sopra della legge, e che il periodo dei monarchi non sarebbe mai più tornato. Gli esperti hanno dichiarato che se questi crimini resteranno impuniti, i presidenti futuri potranno continuare a richiedere aiuti esterni per i propri interessi. 

LE EVIDENZE CONTRO IL TYCOON

Jonathan Turley, l’avvocato scelto dai repubblicani, ha invece negato che ci siano prove schiaccianti che il presidente abbia trattenuto gli aiuti finanziari in cambio di favori, che ci sia stato un vero e proprio quid pro quo, e dunque, siccome l’impeachment è una soluzione estremamente rara e grave, bisogna essere sicuri che i fatti sussistano. «Ma cosa volete di più?», hanno risposto i democratici. «Non ci sono dubbi sui reati commessi. Basta ascoltare le testimonianze degli esperti. Basta rileggere la trascrizione, seppur parziale, rilasciata dalla Casa Bianca della telefonata tra i due presidenti. Basti riguardarsi le interviste fatte a Rudy Giuliani su tutti i canali televisivi possibili e immaginabili in cui ammette più volte di aver personalmente partecipato a tutta la messa in scena!». 

IL MURO DEI REPUBBLICANI INTORNO AL PRESIDENTE

Non bisogna neanche dimenticarsi del dossier di Mueller, la cui seconda parte elenca uno a uno tutti i presunti reati del presidente. Mueller non ha mai detto che Trump fosse innocente. Ha semplicemente detto che lui non aveva il potere di incriminarlo, e che stava alla Camera e al Senato farlo. Ma i repubblicani non cedono e fanno un muro attorno a Trump: «È da quando ha vinto le elezioni che voi democratici state cercando di screditarlo solo perché avete paura che vinca anche le prossime elezioni, ma è stato votato dagli americani, e lì resta!». Si accettano scommesse su quello che succederà. Dico la mia: scommetto un marron glacé di quelli buoni che il presidente non perderà il posto di lavoro. Farà la vittima dei democratici brutti e cattivi e anche gli indipendenti voteranno per lui. Il rischio è che ce lo terremo ancora per quattro anni.

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Nancy Pelosi annuncia la messa in stato di accusa di Donald Trump

La speaker della Camera: «Nessuno è al di sopra della legge». La replica del presidente: «Avrò un processo giusto al Senato».

«Donald Trump sarà messo in stato di accusa». Con queste parole la speaker della Camera, la dem Nancy Pelosi, ha dato il disco verde alla redazione degli articoli di impeachment. Pelosi ha chiesto alla commissione giustizia della Camera di redigere gli articoli, sostenendo che il presidente ha violato seriamente la Costituzione.

«AVRÒ UN PROCESSO GIUSTO AL SENATO»

«Se avete intenzione di mettermi in stato d’accusa, fatelo ora e velocemente, in modo che possiamo avere un processo giusto in Senato», ha twittato per tutta risposta Donald Trump rivolgendosi ai dem, annunciando che in Senato «avremo Schiff (il presidente della commissione Intelligence della Camera, ndr), i Biden, Pelosi e molti altri a testimoniare e riveleremo, per la prima volta, quanto corrotto è il nostro sistema. Sono stato eletto per pulire la palude e questo è ciò che farò», ha aggiunto.

«L’IMPEACHMENT DIVENTERÀ ROUTINE»

E ancora: «I democratici, nullafacenti e di estrema sinistra, hanno appena annunciato che cercheranno di mettermi in stato d’accusa su niente. Hanno appena abbandonato la ridicola ‘cosa’ di Mueller (l’inchiesta sul Russiagate, ndr), quindi ora appendono il cappello su due telefonate totalmente appropriate (perfette) con il presidente ucraino». «Questo», ha aggiunto, «significa che l’importante e quasi mai usato atto dell’impeachment sarà usato in modo abituale per attaccare i futuri presidenti».

BIDEN: «TESTIMONIERÒ SOLO CON UN MANDATO»

Joe Biden, frontrunner dem nella corsa alla Casa Bianca, ha citato da Trump nel suo tweet come testimone ha detto in ogni caso che non si presenterà spontaneamente (senza ricevere un mandato, ndr) se verrà chiamato in Senato nell’eventuale processo di impeachment, come preannunciato da Trump. «Non gli consentirò di distogliere l’attenzione dai suoi crimini», ha detto.

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Primo sì all’impeachment di Trump: rush alla Camera

Secondo tre costituzionalisti chiamati a testimoniare, il presidente Usa deve essere messo in stato d'accusa. I dem puntano al voto entro Natale.

«Donald Trump deve essere messo in stato di accusa»: non hanno alcun dubbio i tre autorevoli costituzionalisti chiamati a testimoniare dai democratici nella prima, infuocata udienza della commissione Giustizia della Camera, incaricata di proseguire l’indagine di impeachment e di redigere gli articoli da contestare dopo il primo sì della commissione Intelligence, anch’essa controllata dai dem: il rapporto che accusa il presidente di ostruzione della giustizia e abuso di potere per aver «sollecitato l’interferenza di un governo straniero, quello dell’Ucraina, per trarre vantaggio nella sua rielezione», mettendo così «i suoi interessi politici e personali al di sopra di quelli degli Stati Uniti».

L’UCRAINAGATE: PRESSIONI SU KIEV

Si tratta delle pressioni su Kiev affinché indagasse sul suo rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e su suo figlio Hunter, che sedeva nel board della società energetica ucraina Burisma quando il padre gestiva la politica Usa in quel Paese. Pressioni alimentate con il blocco degli aiuti militari Usa. A dissentire è solo il prof. Jonathan Turley, docente della George Washington University Law School, l’unico testimone citato dai repubblicani: ma non tanto per i fatti, meritevoli a suo avviso di essere indagati, quanto per la brevità di un processo «sgangherato» e l’incompletezza delle prove, col rischio di creare un precedente pericoloso per i futuri presidenti.

COLPO DI IMMAGINE A TRUMP

L’udienza infligge un nuovo colpo d’immagine a Trump sul palcoscenico mondiale del vertice Nato, che il tycoon decide di abbandonare senza conferenza stampa finale, un po’ per il video in cui altri leader sembrano farsi beffa di lui e un po’ forse – malignano alcuni – per sottrarsi ad imbarazzanti domande sull’impeachment. Il presidente non rinuncia tuttavia a dire la sua: l’indagine è una «barzelletta» e «non ha alcun fondamento». Ma le parole dei costituzionalisti sono come macigni. Noah Feldman (Harvard Law School), Pamela Karlan (Stanford Law School) e Michael Gerhardt (University of North Carolina School of Law) spiegano con rigore che le azioni del presidente rientrano chiaramente, sul piano storico e giuridico, tra quelle degne di impeachment.

LE BORDATE DEI COSTITUZIONALISTI

La sua condotta, accusa Gerhardt, «è peggio di quella di qualsiasi presidente precedente», a partire da Nixon. «Trump ha attaccato le salvaguardie contro la creazione di una monarchia in questo paese», rincara riferendosi all’ostruzione del Congresso, cui nella divisione dei poteri spetta il controllo dell’esecutivo. «Ha commesso gravi crimini e misfatti abusando corrottamente dell’ufficio della presidenza», gli ha fatto eco Feldman. «Un presidente deve opporsi alle interferenze straniere nelle nostre elezioni, non sollecitarle», ha osservato Karlan, che si è detta «insultata» dall’accusa dei repubblicani di non aver letto tutti gli atti. Ma è stato solo la prima delle scintille in una commissione dove la battaglia tende a inasprirsi, a colpi di obiezioni, interruzioni e mozioni dell’opposizione repubblicana. «Questo è un golpe guidato dai democratici», ha accusato il deputato Doug Collins, il più alto in grado tra i repubblicani nel panel. Ma i dem accelerano e puntano ad un voto alla Camera entro Natale. Poi a giudicare, in gennaio, sarà il Senato, dove il Grand Old Party ha la maggioranza e al momento non ci sono i due terzi dei voti per arrivare ad una condanna.

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Il rapporto della Camera su Trump: «Abuso di potere: merita l’impeachment»

Il report della commissione intelligence accusa il presidente e parla di prove «schiaccianti»..

Donald Trump ha abusato del suo potere di presidente e per questo merita la procedura di impeachment. L’atteso rapporto della commissione di intelligence della Camera Usa sulla procedura di impeachment, la quarta portata avanti in 243 anni di storia americana, ha messo nero su bianco che il presidente degli Stati Uniti è colpevole di abuso di potere per aver fatto pressioni per l’intervento nella campagna elettorale americana di un Paese straniero e per di più ha cercato anche di ostacolare le indagini su di lui. «Sollecitando l’interferenza di un governo straniero per trarre vantaggio nella sua rielezione», si legge infatti nel report. E le prove della sua cattiva condotta sono «schiaccianti». Inoltre, è scritto, «Donald Trump ha ostruito l’indagine di impeachment».

DUE MESI DI INTERROGATORI E INDAGINI SULL’UCRAINAGATE

La conclusione del rapporto dei parlamentari statunitensi arriva nel pieno del vertice Nato a Londra, dove il presidente duella aspramente con Emmanuel Macron e gli alleati senza dimenticare il fronte interno: «È una bufala, penso che ciò che i Democratici hanno messo in scena sia molto antipatriottico», denuncia, attaccando come «pazzo e malato» il presidente della commissione Adam Schiff, che finora ha condotto le udienze. Il rapporto è il frutto di oltre due mesi di indagini e interrogatori sull’Ucrainagate, cioè le pressioni del presidente su Kiev perché indagasse sul suo rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e suo figlio Hunter, che sedeva nel board della società energetica ucraina Burisma a 50 mila dollari al mese quando il padre gestiva la politica Usa in quel Paese. Pressioni alimentate con il blocco degli aiuti militari americani.

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Trump minaccia Francia e Italia sulla digital tax

Se Parigi colpirà Google e gli altri big, Washington imporrà dazi fino al 100% per un valore di 2,4 miliardi di dollari. Nel mirino anche il nostro Paese, la Turchia e l'Austria.

Donald Trump minaccia Francia e Italia sulla digital tax. La stoccata del presidente Usa arriva mentre è in volo sull’Air Force One verso Londra, per partecipare al summit della Nato: se la Francia va avanti con la digital tax che riguarda i big americani del web – da Google a Facebook passando per Amazon – verrà colpita a partire da gennaio con dazi fino al 100% su beni per un valore di 2,4 miliardi di dollari. E da Washington fanno sapere che la rappresaglia potrebbe riguardare anche altre capitali che dovessero seguire la strada di Parigi, tra cui Roma. Il rappresentante Usa al commercio Robert Lighthizer, che ha presentato le conclusioni dell’indagine ordinata dal tycoon, cita insieme all’Italia anche la Turchia e l’Austria. Quanto basta a rendere ancor più rovente del previsto il clima londinese nel quale in realtà si dovrebbero festeggiare i 70 anni dell’Alleanza Atlantica. Un clima reso già teso dalla questione dei finanziamenti alla Nato e dalle pressioni Usa perché gli alleati mollino Huawei per lo sviluppo del 5G.

DECISIONE DEFINITIVA ENTRO IL 14 GENNAIO

La digital tax – che Oltralpe prevede un’aliquota del 3% sulle entrate in Francia delle società tecnologiche americane – viene considerata dagli Usa discriminatoria nei confronti delle aziende Usa e, è la linea di Trump, c’è ancora tempo per poter negoziare e trovare una soluzione in sede Ocse. Ma i tempi sono stretti, perché una decisione definitiva è attesa entro il 14 gennaio. Poi, senza intesa, dovrebbero scattare contro Parigi i nuovi pesantissimi dazi su champagne, borse e altri beni di lusso. E su quei vini e formaggi già colpiti da dazi al 25% il mese scorso. Così come colpiti da tariffe del 25% sono stati alcuni prodotti del made in Italy, eccellenze come il parmigiano e la mozzarella, in risposta al verdetto del Wto sugli aiuti europei ad Airbus. Una situazione che l’Italia vive come un’ingiustizia e che ha creato qualche tensione anche durante la recente visita alla Casa Bianca del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

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Per il Vaticano la diplomazia mondiale è in crisi a causa dell’ego nazionalista

La diplomazia della Santa Sede sostiene l’approccio multilaterale alle crisi internazionali. E appoggia l’azione di organismi intergovernativi come le Nazioni Unite. Ora in crisi a causa del sovranismo dilagante.

La diplomazia della Santa Sede sostiene l’approccio multilaterale alle crisi internazionali e appoggia di conseguenza l’azione degli organismi intergovernativi come le Nazioni Unite.

L’IMPASSE DEGLI ORGANISMI INTERGOVERNATIVI

Se questi ultimi vivono da tempo una stagione di impasse è dovuto a vari fattori fra i quali ha un peso significativo l’idea, oggi diffusa, che gli interessi particolari, nazionali, debbano e possano prevalere anche al di fuori del principio di collaborazione fra nazioni e governi. Si tratta, tuttavia, di una prospettiva illusoria, fondata su una sorta di “ego del nazionalismo” che non contribuisce né alla tutela degli interessi specifici né, tanto meno, alla soluzione dei problemi di carattere globale che riguardano il Pianeta a cominciare dalla ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti.

LA DIPLOMAZIA VATICANA CONTRO I NAZIONALISMI

Il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha chiarito in una lectio magistralis tenuta nei giorni scorsi in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica a Roma, in quale prospettiva operi la diplomazia vaticana. Parolin, ha quindi riaffermato come l’azione della Santa Sede, anche sul piano degli strumenti della politica internazionale, delle sue finalità, della sua ispirazione cristiana, sia profondamente in contrasto con le opzioni nazionalistiche oggi spesso prevalenti che divergono profondamente, per metodo e per scala di valori, da quanto propone la Chiesa sul piano diplomatico a livello globale.  

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I DISSIDI TRA SANTA SEDE E LEADER SOVRANISTI

D’altro canto, basta ricordare, a conferma delle affermazioni del Segretario di Stato, che non sono stati pochi i motivi di dissidio fra la Santa Sede e alcuni degli slogan e dei protagonisti della scena mondiale. A cominciare dall’America first di Donald Trump il quale entrava in contrasto sia con i partner europei che con la nuova superpotenza economica cinese, mentre cercava di ampliare il proprio consenso interno attaccando le minoranze etniche e i migranti; non vanno poi dimenticate le accuse di ingerenza rivolte dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro a quanti  – compreso il papa – chiedono la salvaguardia della foresta amazzonica quale bene comune dell’umanità la cui distruzione ha ricadute ambientali che vanno ben oltre i confini del Brasile.

bolsonaro democrazia brasile
Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro. (Getty)

Ma di fatto in questa problematica rientra – e forse si colloca al primo posto per importanza e gravità – il lungo e distruttivo conflitto siriano in cui la Santa Sede ha più volte denunciato il prevalere degli interessi di superpotenze regionali o globali su quelli di una popolazione civile straziata dal conflitto (si parla nel caso specifico di guerra combattuta da gruppi e milizie “per procura”).

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Anche i movimenti nazionalisti che percorrono l’Europa in questi anni sono osservati con allarme dalla Santa Sede per la carica di odio che tendono a scatenare contro le minoranze, come ha ricordato il papa lo scorso 15 novembre quando ha pure affermato: «Vi confesso che quando sento qualche discorso, qualche responsabile dell’ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi di Hiltler nel ’34 e nel ’36». Per questo il primo obiettivo della diplomazia vaticana è quello di lavorare per la pace, la concordia e il dialogo fra le nazioni.

LE SFIDE DELL’ERA POST-GLOBALIZZAZIONE

Tanto più che il mondo nel quale oggi si muovono i diplomatici della Santa Sede non è più quello di una «comunità di genti cristiane» in cui al papa spettava il compito di costruire la pace «fra i principi cristiani», ma una realtà plurale e assai diversificata al suo interno per culture, tradizioni, religioni. Il compito dei nunzi e dei diplomatici del papa, allora, è quello di lavorare per il bene comune di ogni Paese nel quale ci si trova ad agire, mentre sul piano generale deve prevalere il principio di far progredire l’intera famiglia umana. Concetto che oggi non gode di grande popolarità

Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin
Il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin (Ansa).

Se infatti nella globalizzazione, ha spiegato il cardinale Parolin, l’importante per i singoli Stati era di non restare esclusi, «nella realtà post-globale in cui siamo immersi, il primo pensiero è proteggersi, chiudersi rispetto a quanto ci circonda poiché ritenuto fonte di pericolo o di contaminazione per idee, culture, visioni religiose, processi economici». D’altro canto, nell’attuale deriva in cui prevalgono gli isolazionismi o le visioni particolaristiche, i muri e i confini chiusi, secondo il Segretario di Stato vaticano, i protagonisti della politica internazionale appaiono spesso rassegnati rispetto al susseguirsi di crisi, violenze contro innocenti, violazioni di diritti fondamentali.

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La diplomazia, a sua volta, ha le armi spuntate, è diventata impotente di fronte ai numerosi conflitti in atto, alla circolazione indiscriminata delle armi, al ricorso alla violenza terroristica o a impossibili condizioni di sopravvivenza di popoli e Paesi. Da qui la necessità e l’urgenza di tornare al multilateralismo quale strada maestra per scongiurare e guerre e contrapposizioni fratricide, aprire strade negoziali ovunque sia possibile, favorire la cooperazione e la riconciliazione fra le nazioni.   

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A Hong Kong manifestanti di nuovo in piazza e chiedono aiuto a Trump

Non si ferma la protesta pro-democrazia. In molti hanno marciato con bandiere americane e slogan in favore del tycoon. Intanto Pechino critica l'Onu per le parole di Michelle Bachelet.

Anche il primo dicembre i manifestanti di Hong Kong sono scesi in piazza per protestare a favore della democrazia. Un ritorno che fa seguito alle due settimane di pausa elettorale. Non sono mancate neanche questa volta attimi di tensione con le forze dell’ordine. In particolare nella tarda notte dove un gruppo di facinorosi è entrato in contatto con la polizia. Lo scontro è stato inevitabile ma non ci sarebbero stati feriti.

L’APPELLO A DONALD TRUMP

Nel corso della manifestazione, oltre agli immancabili slogan contro la censura cinese, in molti hanno marciato con la bandiera americana posta sui cappelli o disegnata sulle maschere che coprono i volti. Ci sono stati anche svariati ed espliciti appelli a Donald Trump. Tra i più gettonati quello in cui si chiedeva al presidente degli Stati Uniti d’America di liberare Hong Kong dal gioco cinese. Mentre un altro recitava «Make Hong Kong Great Again», rimodellando in chiave asiatica il motto con cui il tycoon ha vinto le elezioni presidenziali (Make America Great Again). Alcune centinaia di dimostranti si sono simbolicamente anche diretti al consolato Usa.

PECHINO ATTACCA L’ONU

Intanto Pechino ha accusato l’Alto commissario Onu per i Diritti dell’Uomo, Michelle Bachelet, di «fomentare la violenza radicale a Hong Kong». Bachelet in un editoriale apparso sul South China Morning Post nella giornata di sabato 30 novembre, aveva raccomandato che la governatrice Carrie Lam avviasse un’indagine imparziale sulla polizia per «uso eccessivo della forza» contro i manifestanti e contestualmente aprisse una linea di dialogo con il movimento di protesta per risolvere la crisi. Immediata la replica della Cina che attraverso l’ambasciata di Ginevra, dove si trova la sede dell’agenzia Onu, ha accusato Michelle Bachelet di «esercitare pressione sul governo (autonomo) e avrà il risultato di fomentare i facinorosi a condurre azioni di violenza ancora più radicale».

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Perché scandali e impeachment non frenano la corsa di Trump verso il 2020

Il gradimento del tycoon non cala. Gli indecisi potrebbero rivotarlo. E questo perché l'economia continua a crescere e la disoccupazione non è mai stata così bassa. Per batterlo serve un vero scatto d'orgoglio.

I sondaggi degli ultimi giorni parlano chiaro: malgrado sia stato confermato il quid pro quo nell’Ucrainagate – l’ambasciatore Usa in Ue Gordon Sondland ha ammesso: «Dissi che avremmo potuto non dare gli aiuti militari» – la popolarità di Donald Trump non è calata significativamente.

E nonostante il bombardamento di scoop e di Breaking news che lo riguardano, la percentuale di americani favorevoli all’impeachment è rimasta stabile. Infine, le persone ancora indecise su chi votare non sono del tutto convinte che sia sbagliato votare per Trump nel 2020.

Tirando le somme viene da pensare che la strada dell’impeachment non sia poi così efficace per liberarsi del tycoon. Il motivo di tutto questo mi sfuggiva, e sono andata a leggere cosa ne pensano i talking heads.

I CRITERI CON CUI VIENE GIUDICATO UN PRESIDENTE

Ho trovato particolarmente interessanti le opinioni di Ross Douthat, editorialista del New York Times. Nel suo articolo How Trump Survives spiega come gli americani valutino un leader in base ai successi dell’economia nazionale e alla stabilità mondiale e molto meno per scandali. Douthat avalla la sua teoria ricordando gli altri due tentativi di impeachment nella storia americana: quello a Richard Nixon, uscito dalla scena politica devastato, e quello a Bill Clinton che invece è tuttora considerato da molti uno dei più importanti presidenti americani. Vero, le accuse rivolte ai due erano molto diverse – Nixon fu travolto dal Watergate, mentre Clinton mentì sotto giuramento – ma a fare la differenza furono altri fattori. Mentre durante il secondo mandato di Nixon gli Stati Uniti erano in piena crisi di petrolio, le borse perdevano valore e iniziava un periodo di recessione, l’amministrazione di Clinton era riuscita a garantire un clima di enorme sicurezza economica e mondiale. 

LA GOLDEN AGE DI TRUMP

Malgrado mi pesi ammetterlo, l’America di Donald Trump, almeno sulla carta, sta attraversano un periodo d’oro. Certo, non è tutta farina del suo sacco: il suo predecessore Barack Obama gli ha lasciato un Paese in buono stato. Ma comunque sia, l’economia va a gonfie vele e la disoccupazione non è mai stata così bassa. In poche parole, quando si sta bene fa paura cambiare le carte in tavola, anche se sono carte sporche. Le notizie sempre più allarmanti riguardo i giochi di Trump sia a Washington sia all’estero sarebbero molto più dannose per il tycoon se nel Paese si respirasse una insicurezza economica e sociale.

LEGGI ANCHE: Bloomberg, il miliardario giusto al momento sbagliato

Certamente molti americani sono basiti di fronte al fatto che il presidente abbia chiesto all’Ucraina aiuti per la sua campagna elettorale in cambio dei fondi che il Congresso aveva stanziato per limitare i danni della guerra in Crimea. È ovvio che i comportamenti scorretti di Trump nei confronti degli immigrati, delle donne, dei disabili sono da denunciare e fanno discutere. Ma gli indecisi, i cosiddetti swing voter si preoccupano più di mantenere un lavoro stabile che garantisca loro una vita agiata e dignitosa.

L’UNICA SPERANZA È UNO SCATTO D’ORGOGLIO

Ross Douthat scrive: «Nel nostro sistema, bisogna che accadano dei disastri per potersi liberare di un presidente prima della fine del suo mandato, anche se è un presidente corrotto». Ha ragione il caro signor Douthat, ma spero comunque che quando sarà il momento di votare, i democratici e gli indipendenti si mettano una bella mano sulla coscienza e si preoccupino anche del livello imbarazzante di decenza in cui è caduto un Paese così potente come l’America. 

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Bloomberg, il miliardario giusto al momento sbagliato

Il sindaco che fece risorgere New York dopo l'11 settembre, prova a sfidare Trump. Ma i tempi sono cambiati. I valori dell'élite sono meno dominanti. E il magnate potrebbe riuscire solo nell'impresa di spaccare ancora di più i dem.

Una battaglia tra miliardari è quello che per l’oramai corposa sinistra dem americana proprio non ci vuole alle Presidenziali del 2020. Michael Bloomberg ha soldi, tanti. Oltre 50 miliardi di dollari in più del patrimonio stimato di Donald Trump (3 miliardi), dice Forbes. Con una propaganda che solo l’ex sindaco di New York si può permettere, e l’attestato degli enormi successi da esibire per gli States, Bloomberg conta di spianare il tycoon che dal 2017 mette a soqquadro la Casa Bianca. Con la sua potenza di fuoco è convinto di essere l’unico a poterlo battere: certo non Joe Biden 77enne come lui, che da ex vice di Barack Obama non avrebbe la spinta della novità. Men che meno l’ala radicale può attrarre la maggioranza di capitalisti tra i democratici, perciò Bloomberg è corso in loro soccorso candidandosi. Ma i capitalisti sono davvero ancora la maggioranza tra i dem?

L’ANATEMA DI SANDERS

Bernie Sanders sentenzia «disgustato» che «i multimiliardari non andranno lontano in queste elezioni». Che in una settimana Bloomberg abbia iniettato 34 milioni di dollari in video, manifesti e altre pubblicità a tappeto inorridisce il senatore indipendente del Vermont. Trenta milioni (il doppio delle risorse finora accumulate da Biden) Sanders li ha raccolti in un anno, attraverso le piccole donazioni di circa 4 milioni di elettori sparsi negli States che, è sicuro, non lo tradiranno. «Questa è la democrazia, i miliardari non hanno il diritto di comprarsi le elezioni», sostiene il vecchio socialista che da affiliato dem ha radunato e tirato su una schiera di agguerrite liberal al Congresso. Tra loro, la senatrice Elizabeth Warren, ironia della sorte un’ex repubblicana come Bloomberg, è la candidata più agguerrita, e più apprezzata, tra i dem per la Casa Bianca.

Donald Trump saluta Michael Bloomberg all’anniversario delle stragi dell’11 settembre. GETTY.

WARREN SCAVALCA TUTTI

Anti-trumpiana di ferro, da quando ha svoltato radicalmente dal libero mercato propone welfare e istruzione pubblica per tutti e tasse per le multinazionali come la Bloomberg. E a sorpresa è una trascinatrice: la sua campagna, si dice, è quella che va meglio; nei sondaggi a ottobre è balzata davanti a Biden (25%) per gradimento. «Le elezioni non sono in vendita, né per i miliardari né per gli ad delle corporation», ha sbottato Warren a un comizio dopo aver saputo della discesa di Bloomberg. Chiaro che né Warren, né Biden – tantomeno Bloomberg fermo per ora a un magro 3% – con questi numeri possono vincere le prossime Presidenziali, ma l’ostacolo maggiore per il Paperone di New York arriva dalla selva di competitor interni e detrattori tra i dem. Non da Trump che di questo passo trarrà solo vantaggio dalle divisioni degli avversari.

UN PAPERONE DEMOCRATICO

L’establishment dei dem non è ancora pronto a candidati radicali. Bloomberg è un vincente di idee centriste deciso a scuotere e infiammare l’area dei Clinton: per la corsa alla Casa Bianca si stima metterà in campo fino a 100 milioni di dollari, soprattutto dalle primarie di marzo in grandi Stati come la California. Con l’esperienza negli affari e nell’amministrazione il magnate promette di salvare gli States dai quattro anni di amministrazione Trump. In fondo soldi e successo hanno sempre fatto presa negli Usa, sono il grande sogno del popolo americano che dai politici esige anche rigore. E infatti Bloomberg – ex democratico passato ai repubblicani, diventato indipendente e infine tornato tra i dem – giura che da presidente degli Usa non intascherà un dollaro. E investe milioni nelle campagne per l’ambiente e contro la diffusione delle armi.

Presidenziali Usa Bloomberg democratici Trump
Bloomberg è impegnato e finanzia le battaglie sul clima. GETTY.

L’EPOPEA DI BLOOMBERG

Suona strano ma il capo supremo, proprietario e fondatore del colosso della finanza e dei media con 19 mila dipendenti (2700 giornalisti) nel mondo odia anche le gerarchie. La sua scrivania ai piani alti della Bloomberg, si racconta, è ancora in mezzo a quelle di semplici impiegati. Un democratico, multimiliardario grazie all’inventiva e a una robusta preparazione: ingegnere elettronico, specializzato anche ad Harvard in Economia aziendale, a Bloomberg non si possono certo negare competenze e capacità anche eccezionali che Trump solo millanta: l’idea di una rete di terminali informatici per aggiornare Wall Street e il mondo della finanza in tempo quasi reale fu pionieristica negli Anni 80. E nell’era di Internet quei video-terminali sono ancora irrinunciabili per gli operatori di Borsa e rappresentano l’ossatura del sistema dei media creato da Bloomberg. Per la corsa a primo cittadino di New York questo appeal funzionò.

L’AMERICA È CAMBIATA

Nella Grande mela Bloomberg scese in campo dopo la tragedia dell’11 settembre, la ereditò dallo sceriffo Rudolph Giuliani e restò sindaco fino al 2013, «facendola risorgere dalle ceneri», afferma. I tempi però sono mutati: l’America sta cambiando pelle. Gli ideali e i valori sono sempre meno quelli dell’élite, ora meno dominante; e sempre più quelli delle moltitudini di latinos, neri, immigrati in crescita demografica. Dalla Manhattan ripulita da Giuliani e popolata da ricchi da Bloomberg – l’enclave dell’elettorato radical chic di Hillary Clinton – è sgorgata l’ondata di rivalsa popolare che nel 2014 ha eletto sindaco l’italo-americano, ex filosandinista, Bill De Blasio. Nel cuore tradito di New York ha pulsato Occupy Wall Street, e si è diffusa la rivista chomskiana Jacobin. Lì tanti guardano a Warren, ma Bloomberg, ex sindaco, non sembra accorgersene.

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Il caso del Navy Seal che divide gli Stati Uniti

Edward Gallagher è accusato di crimini di guerra. Il segretario della Marina era pronto a espellerlo. Ma è stato messo all'angolo dal Pentagono, schieratosi (con Trump) a fianco del militare.

Il capo del Pentagono Mark Esper ha chiesto le dimissioni del segretario della Marina Richard Spencer per come ha gestito con la Casa Bianca il caso del Navy Seal accusato di crimini di guerra. Al centro della questione c’è il procedimento disciplinare che potrebbe far perdere lo status di Navy Seal a Edward Gallagher, condannato da una corte marziale per aver posato con il cadavere di un militante dell’Isis, anche se è stato assolto dall’accusa di averlo ucciso e di aver sparato deliberatamente su civili disarmati. Dopo la condanna è stato degradato e gli è stato decurtato lo stipendio. Rischiava anche di essere espulso dalla prestigiosa unità delle forze speciali ma ora il capo del Pentagono ha cancellato la commissione disciplinare che doveva esaminare la vicenda il 2 dicembre e ha autorizzato Gallagher ad andare in pensione come Navy Seal conservando il suo grado.

TRUMP DALLA PARTE DEL NAVY SEAL

Trump si è sempre schierato dalla parte di Gallagher. Nei giorni scorsi aveva ammonito su Twitter i vertici militari a non cacciarlo. Una mossa che aveva irritato il segretario della Marina, secondo cui «il processo conta per il buon ordine e la disciplina». Far finta di nulla, insomma, rischia di dare un messaggio sbagliato a tutti gli altri militari, legittimando azioni come quella di Gallagher. Per questo Spencer sembrava aver minacciato le dimissioni nel caso Trump avesse bloccato il procedimento, salvo poi negarle, forse dopo aver subito pressioni.

Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti

Richard Spencer, segretario della Marina

«Un tweet del presidente non è un ordine ma se arriva un ordine formale obbedisco», si era corretto. «Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti», aveva aggiunto, completando il dietrofront. Sembrava tutto risolto, tanto che la Casa Bianca aveva comunicato alla Marina che non sarebbe intervenuta per bloccare il procedimento disciplinare. Ma evidentemente al commander in chief non è andato giù l’iniziale ammutinamento di Spencer e ora ha chiesto la sua testa.

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Il caso del Navy Seal che divide gli Stati Uniti

Edward Gallagher è accusato di crimini di guerra. Il segretario della Marina era pronto a espellerlo. Ma è stato messo all'angolo dal Pentagono, schieratosi (con Trump) a fianco del militare.

Il capo del Pentagono Mark Esper ha chiesto le dimissioni del segretario della Marina Richard Spencer per come ha gestito con la Casa Bianca il caso del Navy Seal accusato di crimini di guerra. Al centro della questione c’è il procedimento disciplinare che potrebbe far perdere lo status di Navy Seal a Edward Gallagher, condannato da una corte marziale per aver posato con il cadavere di un militante dell’Isis, anche se è stato assolto dall’accusa di averlo ucciso e di aver sparato deliberatamente su civili disarmati. Dopo la condanna è stato degradato e gli è stato decurtato lo stipendio. Rischiava anche di essere espulso dalla prestigiosa unità delle forze speciali ma ora il capo del Pentagono ha cancellato la commissione disciplinare che doveva esaminare la vicenda il 2 dicembre e ha autorizzato Gallagher ad andare in pensione come Navy Seal conservando il suo grado.

TRUMP DALLA PARTE DEL NAVY SEAL

Trump si è sempre schierato dalla parte di Gallagher. Nei giorni scorsi aveva ammonito su Twitter i vertici militari a non cacciarlo. Una mossa che aveva irritato il segretario della Marina, secondo cui «il processo conta per il buon ordine e la disciplina». Far finta di nulla, insomma, rischia di dare un messaggio sbagliato a tutti gli altri militari, legittimando azioni come quella di Gallagher. Per questo Spencer sembrava aver minacciato le dimissioni nel caso Trump avesse bloccato il procedimento, salvo poi negarle, forse dopo aver subito pressioni.

Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti

Richard Spencer, segretario della Marina

«Un tweet del presidente non è un ordine ma se arriva un ordine formale obbedisco», si era corretto. «Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti», aveva aggiunto, completando il dietrofront. Sembrava tutto risolto, tanto che la Casa Bianca aveva comunicato alla Marina che non sarebbe intervenuta per bloccare il procedimento disciplinare. Ma evidentemente al commander in chief non è andato giù l’iniziale ammutinamento di Spencer e ora ha chiesto la sua testa.

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