Ma in Confindustria vige ancora il Protocollo Montante?

Sul sito della confederazione degli Industriali si trova un documento del 2010 relativo alle «iniziative per accrescere i livelli di legalità e di concorrenza leale nello svolgimento dell’attività d’impresa». Ma c'è di più: il loro coordinamento risulta affidato all'imprenditore siciliano coinvolto in vari scandali e tuttora colpito da obbligo di dimora ad Asti.

Quando si dice la tempestività della comunicazione. Se vi capita di entrare nel sito della Confindustria – ma ci vuole una password – a sinistra troverete una serie di voci, tra cui una chiamata “Normativa di sistema”.

Dentro trovate un documento di 10 anni fa dal titolo “Protocollo di legalità 10 maggio 2010” siglato tra il ministero dell’Interno e Confindustria, i cui contenuti sono poi stati rinnovati il 19 giugno 2012. Trascuratezza, direte voi. Certo, perché un sito con in bella vista documenti così vecchi è a dir poco scarsamente o distrattamente manutenuto.

DIECI ANNI DI NULLA DI FATTO

Ma non finisce qui. Perché, vi si legge, «quel Protocollo si inserisce nel contesto delle numerose iniziative promosse da Confindustria per accrescere i livelli di legalità e di concorrenza leale nello svolgimento dell’attività d’impresa». Allora voi penserete: vuol dire che negli ultimi 10 anni su questo terreno la Confindustria non ha più fatto niente. Imperdonabile, ma c’è ancora di peggio. Perché – si legge sempre – «lo sviluppo e il coordinamento di tali iniziative, sia all’interno del Sistema associativo che nei rapporti con le istituzioni pubbliche e con le principali componenti della società civile ed economica impegnate nel contrasto alla criminalità, è stato affidato ad Antonello Montante, sulla base di una specifica delega per la Legalità, istituita nel 2008 con la Presidenza di Emma Marcegaglia e riconfermata nel 2012 dal Presidente Giorgio Squinzi».

Il Protocollo di Legalità sul sito di Confindustria.

IL PROTOCOLLO MONTANTE È ANCORA VALIDO?

Sì, avete letto bene: Montante. Proprio l’imprenditore siciliano, diventato simbolo della lotta alla mafia e salito ai vertici di Confindustria nazionale, che è stato coinvolto in vari scandali e arrestato, e tuttora colpito da obbligo di dimora in quel di Asti. Domanda: ma quel documento è ancora valido? Le modalità per l’adesione al Protocollo e per la realizzazione dei relativi impegni – poi precisate nelle linee guida attuative e negli altri documenti predisposti dalla commissione per la Legalità, istituita presso il ministero dell’Interno e composta dai rappresentanti delle parti firmatarie del Protocollo – sono ancora attuali per cui le imprese oggi possono farvi riferimento? Perché delle due l’una: o sono cose superate, e allora sarebbe bene toglierle di mezzo, o sono ancora pienamente operative, e allora se si vuole rendere minimamente credibile quel Protocollo sarebbe bene togliere di mezzo il nome di Montante, che ha scritto una delle pagine peggiori della storia della confederazione degli industriali. Come si vede, c’è lavoro da fare per il nuovo Presidente

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Confindustria, si rompe lo storico asse tra Abete e Marcegaglia

I due past president più influenti di Viale dell'Astronomia si dividono sul dopo Boccia. Il primo punta su Bonomi, la seconda incoraggia Mattioli. Ma manda segnali di fumo anche a Illy e Pasini.

Mentre s’intensificano le grandi manovre per la successione di Vincenzo Boccia, le strade dei due past president più influenti di Confindustria, Emma Marcegaglia e Luigi Abete, si sono divaricate in maniera probabilmente irreversibile dopo una vita di “convergenze parallele”.

ABETE PIAZZA LE SUE FICHE SU BONOMI

Abete, riattaccando i cocci di un rapporto che si era rotto proprio in occasione dell’elezione di Boccia, ha deciso di sposare il suggerimento di Aurelio Regina e di piazzare le sue fiche sull’elezione di Carlo Bonomi. E su questa posizione sta convincendo a spostarsi anche i suoi amici fidati, dal vicepresidente nazionale Maurizio Stirpe al presidente di Roma Filippo Tortoriello, dai marchigiani che tengono ai rapporti con la famiglia Merloni e con Diego della Valle ai tanti che non sono insensibili al suo ruolo di presidente della Bnl. Insieme a Regina, poi, Abete sta lavorando per portare a Bonomi i voti degli esponenti delle aziende pubbliche, e in particolare quelli dell’Enel, dove si registra una divergenza di vedute tra la presidente Patrizia Grieco, che ha dato la sua parola a Licia Mattioli, e l’amministratore delegato Francesco Starace, che è con il presidente di Assolombarda. 

LA PARTITA DI MARCEGAGLIA

Viceversa, Marcegaglia non si è ancora dichiarata esplicitamente, ma in un incontro riservato avvenuto prima di Natale con Mattioli, ha speso parole di incoraggiamento alla candidatura dell’imprenditrice torinese. La quale, però, pur potendo contare sull’appoggio di Boccia – maturato dopo il ritiro dalla corsa di Edoardo Garrone – e del conforto morale di Franco Caltagirone, convinto dalle parole spese per Mattioli dalla sua amica Paola Severino, oltre che del voto dei piemontesi (ma non tutti, però, per esempio il novarese Carlo Robiglio, presidente nazionale della Piccola industria, è con Bonomi), nella conta dei voti appare decisamente indietro. Tanto che la furba Marcegaglia – che peraltro ha da giocare in parallelo la partita della sua eventuale riconferma alla presidenza dell’Eni – starebbe già facendo marcia indietro, mandando segnali di fumo sia a Giuseppe Pasini che ad Andrea Illy, gli altri due candidati (il quinto, il modenese Emanuele Orsini, presidente di Federlegno, secondo gli ultimi rumors sarebbe stato convinto dagli imprenditori emiliano-romagnoli a ritirarsi). Peraltro Mattioli ha un’alternativa alla candidatura alla presidenza di Confindustria che le interessa non di meno: succedere a Francesco Profumo alla presidenza della Compagnia Sanpaolo, cosa che le darebbe un peso notevole in Banca Intesa. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è pronta a indicarla, e lei deve sciogliere la riserva entro la fine di gennaio. Proprio quando, dopo la nomina dei saggi, si dovranno formalizzare le candidature in Confindustria.

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A Bari con Giannelli l’affare è sempre di famiglia

Il presidente di fatto era un amministratore ombra. Che ha sempre detto la sua su qualunque dossier della Banca Popolare. Ed è nipote del suo predecessore Marco Jacobini. Ecco chi sono i personaggi coinvolti nel crac ma sfuggiti ai media.

Finora a Bari i riflettori si sono accesi, alternativamente, o sul doppio periodo in cui alla guida della Banca Popolare c’è stato Vincenzo De Bustis, o sulla famiglia Jacobini, intesa come il presidente Marco e il figlio Gianluca, che dell’istituto pugliese è stato vicedirettore generale. Sono però sfuggiti al fascio di luce dei media, almeno fin qui, altri due personaggi non certo di secondo piano.

GRANDI RESPONSABILITÀ DI LUIGI JACOBINI

Il primo si chiama anche lui Jacobini, ma di nome fa Luigi, ed è l’altro figlio di Marco. Nessuno l’ha tirato in ballo, eppure anche lui risulta vicedirettore generale, ed ha avuto molta responsabilità nell’ultima stagione della banca targata De Bustis, quella che ha portato al commissariamento. Tanto che questa vicinanza all’ormai ex amministratore delegato lo ha messo contro la sua famiglia: da mesi non parla né con il padre né con il fratello, verso il quale mostra apertamente gelosia per le sue riconosciute capacità professionali, specie nella finanza strutturata.

GIANNELLI EX CONSULENTE SUPER PAGATO

L’altro personaggio che finora ha evitato i riflettori è l’avvocato Gianvito Giannelli, che da luglio 2019 è presidente della Bpb. Non si chiama Jacobini, ma di quella famiglia fa parte a pieno titolo, visto che è il nipote (figlio della sorella) di Marco Jacobini. Da anni consulente super pagato della banca – grazie ai suoi stretti rapporti con De Bustis e Luigi Jacobini, ma anche con il direttore generale Gregorio Monachino, da sempre a capo dei crediti e per un lungo periodo anche del recupero crediti e del legale – Giannelli era già stato messo nel mirino della vigilanza della Banca d’Italia nel corso dell’ispezione del 2010, quando venne considerato ci fosse un enorme rischio potenziale, per via di fatture, trovate nel corso dell’ispezione, per oltre 2 milioni e legate al recupero crediti e a consulenze varie.

L’ex presidente della Popolare di Bari Marco Jacobini.

FORTEMENTE VOLUTO DALL’AD DE BUSTIS

Proprio in quegli anni Giannelli consolida il rapporto con De Bustis, che lo ha fortemente voluto alla presidenza della Banca battendo le resistenze dello zio Marco. Rinviato a giudizio per un concorso truccato all’Università di Taranto, Giannelli – la cui moglie Isabella Ginefra, magistrato, era diventata procuratore capo di Larino ribaltando l’esito di un voto del Consiglio superiore della magistratura, che aveva assegnato altrimenti quel posto, salvo poi essere rimossa dal Tar del Lazio – di fatto era un amministratore ombra, che ha sempre detto la sua su qualunque dossier della banca, dalla sottoscrizione di 51 milioni con il fondo lussemburghese Naxos Capital alla trattativa, poi arenata, con il fondo Futura Fund per il riacquisto del mini bond emesso nel 2013 per il gruppo Fusillo ed evitarne il fallimento.

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Confindustria, a Sud non regge il patto della sfogliatella

Sfuma l'accordo per sostenere Bonomi. Colpa della fuga in avanti del presidente partenopeo Grassi. Così si è sbriciolata l'unità d'intenti degli industriali del Mezzogiorno.

È durato poco l’accordo di unità delle Confindustrie del Sud per sostenere Carlo Bonomi e, come sta avvenendo per le territoriali lombarde, ci si avvia in ordine sparso al confronto per la designazione del nuovo presidente di Confindustria. Ma facciamo un passo indietro. Al Mezzogiorno spetta di diritto un posto nella squadra del presidente, frutto dell’alternanza Nord/Sud prevista dalla riforma Pesenti. Nell’ultimo quadriennio nella squadra di Vincenzo Boccia era stato designato per il Nord il presidente di Bolzano, Stefan Pan. Nel prossimo mandato toccherà dunque a un presidente di una territoriale del Sud.

L’OK A BONOMI IN CAMBIO DI DUE POSIZIONI DI VERTICE

Un paio di mesi fa ci fu il “patto della sfogliatella“. Tutti i presidenti delle territoriali meridionali si ripromisero unità nella corsa al successore di Boccia, promettendo di avere un occhio benevolo verso il lombardo Bonomi, in cambio di due posizioni di vertice, quella di diritto e quella frutto dello scambio per portare compatti i voti del Sud. L’importante è stare uniti e non fare fughe in avanti, si dissero convinti. Strette di mano, pacche sulle spalle e tutti tornarono nelle proprie territoriali. Ma come spesso sanno i cultori delle materie confindustriali, spesso queste intese durano lo spazio di un mattino.

LA FUGA IN AVANTI DI NAPOLI

Passata qualche settimana, la prima a smarcarsi è stata Napoli: il posto di diritto spetta a noi, ha detto all’orecchio di Bonomi il presidente partenopeo Vito Grassi, che tra l’altro si è fatto votare dai suoi iscritti una proroga per non arrivare scaduto al maggio prossimo quando si incoronerà il nuovo leader degli imprenditori italiani. È allora che pugliesi, calabresi, siciliani e tutti gli altri del patto della sfogliatella sono insorti. Ma come, hanno obiettato irritati, noi ci impegniamo a essere uniti e Grassi negozia per conto suo con Bonomi?

Dal Sud sussurrano che a mettere pepe nel sistema ci si sia messo anche il past president D’Amato che ha fatto filtrare la disponibilità di Illy a scendere in campo

Risultato? Si è sbriciolata l’unità di intenti del Sud con grande scorno del presidente di Assolombarda e con il sorriso degli altri contendenti, il bresciano Giuseppe Pasini, il re del legno emiliano Emanuele Orsini, e l’industriale orafa torinese Licia Mattioli. E dal Sud sussurrano che a mettere pepe nel sistema ci si sia messo anche il past president Antonio D’Amato che ha fatto filtrare la disponibilità del triestino Andrea Illy (il più importante cliente della sua società, la Seda) a scendere in campo nella corsa alla presidenza di Confindustria.

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La previdenza dei medici prenderà un altro bidone tipo Brexit?

L'Enpam fa diversi investimenti all'estero. Come quando acquisì il 50% della sede di Amazon a Londra. Ma la vittoria del sì al referendum nel 2016 causò una grossa minusvalenza. Ora ci riprova in Germania, a Stoccarda. Proprio mentre la locomotiva d'Europa rallenta. Forse manca il fiuto per gli affari?

L’Enpam è la cassa di previdenza dei medici italiani, investe i soldi dei suoi contribuenti con la finalità di mantenere e sviluppare il patrimonio, circa 21 miliardi, che questi ultimi gli hanno affidato a fini pensionistici.

INVESTIMENTI IMMOBILIARI ALL’ESTERO

Gli investimenti che Enpam fa ogni anno sono di varia natura, dall’obbligazionario all’azionario, ma la parte da leone lo fa l’immobiliare che, pur variando di anno in anno, vale circa il 30% del totale (limite di legge). Enpam da alcuni anni ha deciso di rivolgere i suoi investimenti immobiliari anche all’estero.

COMPRATO IL 50% DELLA SEDE DI AMAZON A LONDRA

II primo investimento in assoluto è stato in Inghilterra. Infatti la Cassa di previdenza, a ridosso dell’avvio del processo per la Brexit, ha portato a termine I’acquisizione del 50% della sede di Amazon a Londra.

MA L’AFFARE, CON LA BREXIT, L’HA FATTO IL VENDITORE

Purtroppo l’inaspettato successo dei al referendum sulla Brexit del giugno 2016 ha determinato una rilevante minusvalenza in casa Enpam, sia per effetto dell’andamento del mercato immobiliare, sia dell’andamento del tasso di cambio, lasciando il sospetto che all’epoca sia stato più accorto il venditore, uno dei principali fondi di investimento canadese.

COME IL VATICANO COI SOLDI DELL’OBOLO DI SAN PIETRO

Più o meno, è quello che è accaduto al Vaticano quando recentemente, attraverso il fondo Centurion e con il denaro dell’Obolo di San Pietro, ha comprato un palazzo a Londra perdendo molti soldi in poco tempo.

Enpam pare scommettere su un rapido rilancio dell’economia tedesca, proprio in un momento in cui i dati confermano il rallentamento della locomotiva d’Europa

Ora l’Enpam ritenta con un secondo investimento. E ha comperato, questa volta in Germania, a Stoccarda, un immobile di oltre 50 mila metri quadri investendo 240 milioni di euro. Con l’operazione Enpam pare scommettere su un rapido rilancio dell’economia tedesca, proprio in un momento in cui i dati confermano il rallentamento della locomotiva d’Europa e gli investitori internazionali iniziano a prendere beneficio dei risultati finora raggiunti (il venditore è stato un fondo della compagnia assicurativa coreana Samsung Life).

QUALCHE PERPLESSITÀ SULLA CAPACITÀ DI ANALISI

Solo il futuro darà indicazioni sulla bontà della scommessa, non piccola, realizzata. La vicenda londinese lascia però qualche perplessità sulla capacità di prevedere l’andamento dei mercati internazionali in casa Enpam.

SPERANDO CHE ABBIANO STUDIATO MEGLIO IL MERCATO

La speranza è che Antirion, la Società di gestione del risparmio guidata come amministratore dall’intermediario israeliano Ofer Arbib attraverso cui Enpam realizza gli investimenti immobiliari, abbia questa volta studiato meglio il mercato; e con lui gli advisor dell’operazione, anche in questo caso Colliers Deutschland GmbH coinvolta nella faccenda inglese come advisor. Del resto se Arbib, già per tanti anni punto di riferimento di Colliers in Italia, vuole proseguire in queste campagne estere, è giunto il momento di dare prova del suo fiuto per gli affari.

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Il commissario Alitalia lo ha deciso l’ex hostess grillina Lupo

La senatrice con un passato da dipendente sugli aerei ha convinto Patuanelli a scegliere Leogrande. Il che la dice lunga sulle capacità di analisi del ministro. Il nuovo n.1 di Eni verrà nominato da un benzinaio?

Se una hostess indica il commissario straordinario per l’Alitalia è lecito attendersi (per la proprietà transitiva) che il prossimo amministratore delegato dell’Eni venga nominato da un benzinaio. Già, nel mondo del Movimento 5 stelle avviene anche questo. Il principale sponsor di Giuseppe Leogrande quale commissario unico della compagnia aerea è stata Giulia Lupo, senatrice grillina. Ed è a lei che si rivolgono tutti per sapere quale saranno le strategie del governo per l’Alitalia. Persino tra gli addetti ai lavori: risultano, e stupiscono, molte sue interlocuzioni con i diversi candidati alla cordata salvatrice, poi evaporata, a cominciare da Lufthansa.

IL POTERE DELLA LUPO GRAZIE A PATUANELLI

La posizione dell’ineffabile Giulia si è rafforzata dopo che Stefano Patuanelli, suo ex capogruppo a Palazzo Madama, è stato nominato ministro dello Sviluppo economico. Ed è stata proprio questa conoscenza maturata fra i velluti del Senato a far aumentare il peso specifico della Lupo nei confronti del ministro e, quindi, del governo.

Chi è Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico nel Conte bis
Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli.

MA LA SUA ATTIVITÀ PARLAMENTARE NON BRILLA

E pensare che fino alla fine del Conte I la ex hostess non aveva dato una prova brillante della sua attività di parlamentare. Il 30 luglio 2018 aveva presentato un’altisonante proposta di legge delega che si proponeva il riordino del trasporto aereo. Tema talmente urgente che la Commissione Trasporti ha aspettato sei mesi prima di metterla in calendario (l’8 gennaio 2019), un altro mese per indicare un relatore (14 febbraio), e ora giace dimenticata nei cassetti di Palazzo Madama.

L’avvocato Giuseppe Leogrande.

LEOGRANDE ESPERTO DI DIRITTO FALLIMENTARE…

La circostanza che la Lupo abbia convinto Patuanelli a scegliere proprio Leogrande, poi, la dice lunga sulle capacità di analisi del ministro. Non foss’altro per scaramanzia, e senza nulla togliere alle capacità professionali del nuovo commissario unico di Alitalia, ma Leogrande è un esperto di diritto fallimentare: non proprio un buon viatico per una compagnia aerea che ha un piede nella fossa e con l’altro ci sta per entrare. A smentire i superstiziosi non ci sono neppure i risultati – che non sono buoni – di Blue Panorama, la compagnia aerea di cui Leogrande è stato prima commissario, e poi presidente. E comunque, una cosa è Blue Panorama, un’altra è l’Alitalia. Ma questo ai pentastellati frega poco e niente. In attesa che un benzinaio indichi l’amministratore delegato dell’Eni o che un postino faccia il nome per il prossimo numero uno delle Poste.

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Il presidente di Amsa ama la pulizia. Anche in bagno

Dopo l'inchiesta che ha coinvolto l'ex municipalizzata milanese che si occupa della raccolta rifiuti, al vertice è arrivato D’Andrea. Che deve aver preso alla lettera il suo incarico: dopo aver cambiato i mobili dell'ufficio, si è subito fatto rifare la toilette.

L’Amsa è la ex municipalizzata di Milano che gestisce i servizi di raccolta delle immondizie nel capoluogo e in altri comuni delI’hinterland. Dal 2010 è posseduta da A2a, società controllata dai comuni di Milano e Brescia.

Da qualche mese è nella bufera per una inchiesta della magistratura milanese che, come spesso accade, ha trovato particolari connivenze tra la politica locale, qualche dirigente dell’azienda e alcuni fornitori della società.

L’accusa dei magistrati è quella classica, ovvero che il politico si sarebbe fatto portatore degli interessi del privato presso l’Amsa agevolando alcune operazioni. Nella fattispecie il politico (Pietro Tatarella, ex consigliere comunale milanese ed ex vicecoordinatore lombardo di Forza Italia) avrebbe ricevuto denaro dalla Ecol Service di Daniele D’Alfonso, per forniture varie che alcuni dirigenti, in particolare il sindacalista e dipendente Amsa Sergio Salerno, avrebbero facilitato.

L’ARRIVO ALLA PRESIDENZA DI FEDERICO MAURIZIO D’ANDREA

Che cosa hanno fatto allora i vertici di A2a, spinti da Beppe Sala, per cercare di superare una situazione che imbarazzava Amsa, la capogruppo, tra l’altro quotata, e il buon nome del sindaco di Milano? La soluzione, probabilmente anche suggerita dal tribunale di Milano, è stata trovata lo scorso settembre, quando alla presidenza di Amsa è arrivato Federico Maurizio D’Andrea, 59 anni, un passato nella Guardia di Finanza (è stato comandante a Monza e in provincia di Bergamo), poi manager al centro di un robusto network di relazioni con privati e pubblica amministrazione che vanno dalla presidenza della Sangalli di Monza (azienda che opera nello stesso settore dell’igiene urbana) e della Pedemontana Lombarda, fino alla partecipazione negli organismi di vigilanza del Banco Bpm, di Smeralda Holding, del Sole 24 Ore, di Metropolitane Milanesi e di A2a.

DOPO L’AUTISTA PERSONALE, IL BAGNO NUOVO

Appena arrivato in Amsa, per prima cosa, ha richiesto un autista personale. D’Andrea deve aver preso poi alla lettera il suo incarico e ha cominciato a fare pulizia: ha cambiato tutti i mobili del suo ufficio e si è fatto rifare il bagno, il bagno personale. Con una spesa importante e soprattutto inutile. Del resto sulla pulizia non si transige, a cominciare dagli ambienti di lavoro. Pulizia e sicurezza, perché se non si fa attenzione nei bagni si può anche scivolare.

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Il presidente di Amsa ama la pulizia. Anche in bagno

Dopo l'inchiesta che ha coinvolto l'ex municipalizzata milanese che si occupa della raccolta rifiuti, al vertice è arrivato D’Andrea. Che deve aver preso alla lettera il suo incarico: dopo aver cambiato i mobili dell'ufficio, si è subito fatto rifare la toilette.

L’Amsa è la ex municipalizzata di Milano che gestisce i servizi di raccolta delle immondizie nel capoluogo e in altri comuni delI’hinterland. Dal 2010 è posseduta da A2a, società controllata dai comuni di Milano e Brescia.

Da qualche mese è nella bufera per una inchiesta della magistratura milanese che, come spesso accade, ha trovato particolari connivenze tra la politica locale, qualche dirigente dell’azienda e alcuni fornitori della società.

L’accusa dei magistrati è quella classica, ovvero che il politico si sarebbe fatto portatore degli interessi del privato presso l’Amsa agevolando alcune operazioni. Nella fattispecie il politico (Pietro Tatarella, ex consigliere comunale milanese ed ex vicecoordinatore lombardo di Forza Italia) avrebbe ricevuto denaro dalla Ecol Service di Daniele D’Alfonso, per forniture varie che alcuni dirigenti, in particolare il sindacalista e dipendente Amsa Sergio Salerno, avrebbero facilitato.

L’ARRIVO ALLA PRESIDENZA DI FEDERICO MAURIZIO D’ANDREA

Che cosa hanno fatto allora i vertici di A2a, spinti da Beppe Sala, per cercare di superare una situazione che imbarazzava Amsa, la capogruppo, tra l’altro quotata, e il buon nome del sindaco di Milano? La soluzione, probabilmente anche suggerita dal tribunale di Milano, è stata trovata lo scorso settembre, quando alla presidenza di Amsa è arrivato Federico Maurizio D’Andrea, 59 anni, un passato nella Guardia di Finanza (è stato comandante a Monza e in provincia di Bergamo), poi manager al centro di un robusto network di relazioni con privati e pubblica amministrazione che vanno dalla presidenza della Sangalli di Monza (azienda che opera nello stesso settore dell’igiene urbana) e della Pedemontana Lombarda, fino alla partecipazione negli organismi di vigilanza del Banco Bpm, di Smeralda Holding, del Sole 24 Ore, di Metropolitane Milanesi e di A2a.

DOPO L’AUTISTA PERSONALE, IL BAGNO NUOVO

Appena arrivato in Amsa, per prima cosa, ha richiesto un autista personale. D’Andrea deve aver preso poi alla lettera il suo incarico e ha cominciato a fare pulizia: ha cambiato tutti i mobili del suo ufficio e si è fatto rifare il bagno, il bagno personale. Con una spesa importante e soprattutto inutile. Del resto sulla pulizia non si transige, a cominciare dagli ambienti di lavoro. Pulizia e sicurezza, perché se non si fa attenzione nei bagni si può anche scivolare.

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Bechis apparecchia il tavolo sovranista. Ed è subito Pera

Il direttore del Tempo ha organizzato un convegno sull'Europa con (e per) Salvini. Tra gli ospiti anche l'ex presidente del Senato. Vedi mai che alle prossime elezioni spunti un seggio a Palazzo Madama?

Dopo Bruno Vespa, che ha scritto il suo solito libro di fine autunno sull’impossibilità che ritorni il fascismo con il neanche troppo velato effetto di assolvere politicamente Matteo Salvini – che infatti ha sostituito Silvio Berlusconi, tradizionalmente sempre presente, nella pomposa presentazione del medesimo volume – ora tocca a Franco Bechis darsi da fare per dare una mano al capo della Lega

UNA CONFERENZA SALVINIANA

Il direttore del Tempo ha infatti organizzato nel pomeriggio del 4 dicembre un evento a Roma dal titolo eloquente «Il ratto di Europa. Obiettivi dei padri, delusione dei figli», di cui Salvini sarà ospite d’onore. Ma l’operazione è salviniana non solo per il contenuto, decisamente critico verso l’Unione europea, ma anche per l’ingaggio di qualche personalità di spicco che, nel vuoto pneumatico di uomini spendibili che ruotano intorno all’ex ministro degli Interni, potrebbero far molto comodo a Salvini. 

GERVASONI, IL PROF SOVRANISTA

Il primo è il professor Marco Gervasoni, noto alle cronache per essere stato allontanato dall’insegnamento alla Luiss – e infatti viene presentato come docente all’Università del Molise – per un tweet in cui sosteneva la necessità di affondare la nave della ong Sea Watch. Dato più in sintonia con Giorgia Meloni che con Salvini, il docente sovranista – che non a caso non scrive più sul Messaggero, di cui è stato a lungo editorialista – si sarebbe molto avvicinato a quest’ultimo per il quale svolgerebbe un ruolo di maître à penser.

RIAPPARE CARLO MALINCONICO

Il secondo è anche lui un epurato: il giurista Carlo Malinconico. Già sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Monti con delega all’editoria, tema di cui era esperto per aver fatto il presidente della Fieg, dovette dare le dimissioni (gennaio 2012) per un polverone mediatico sollevato dalla notizia che era stato omaggiato di alcuni soggiorni all’hotel Il Pellicano di Porto Ercole pagati dall’imprenditore Francesco De Vito Piscicelli in cambio di presunti favori. Da quel momento Malinconico è uscito dalla scena pubblica e fa l’avvocato avendo aperto uno studio proprio. Ma ora viene dato di nuovo in pista proprio grazie a Salvini. 

PERA SI AVVICINA A SALVINI?

Ma è il terzo nome quello che fa più scalpore: Marcello Pera. L’ex presidente del Senato, da tempo politicamente in sonno, ha interrotto ogni rapporto con Silvio Berlusconi e si è avvicinato ad alcuni ambienti ecclesiastici nonostante un tempo fosse un professore seguace di Karl Popper. Ora si dice che sia monsignor Rino Fisichella sia il direttore del Tempo abbiano fatto in modo che Pera e Salvini si parlino. Vedi mai che alle prossime elezioni rispunti un seggio senatoriale per l’ex presidente di palazzo Madama?

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Eni, l’accoppiata Bernabè-Mondazzi punta al dopo Descalzi

L'ex ad del Cane a sei zampe mira a chiudere la carriera come presidente. E siccome è un abile tattico, ha pensato di formare un ticket con l'attuale Cfo in vista delle nomine di aprile.

Più scricchiola la poltrona di amministratore delegato Eni di Claudio Descalzi, e più si considera chiuso il capitolo della presidenza di Emma Marcegaglia, più si lavora a cordate e cordatine per la nomina dei vertici della più importante società italiana, prevista per aprile (l’assemblea è già stata programmata a metà maggio). 

I PIANI DI BERNABÈ PER IL CANE A SEI ZAMPE

L’ultimo colpo a Descalzi è arrivato da un articolo del solitamente bene informato Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera, in cui si (ri)parla dei conflitti di interesse ai vertici di Eni che tirano in ballo la moglie di Descalzi, la principessa congolese Marie Madeleine Ingoba, in quanto azionista insieme con il monegasco Alexander Haly della società lussemburghese Cardon, controllante (via trust neozelandesi ubicati a Cipro) di sei società fornitrici di servizi navali a Eni per 300 milioni nel periodo 2007-2018. E questo ha invogliato Franco Bernabè, 71 anni, a scaldare i motori. Non perché punti direttamente al posto di Descalzi – l’amministratore delegato dell’Eni lo ha già fatto, non casualmente nel 1992, l’anno di inizio di Mani Pulite – ma perché è interessato a chiudere la carriera come presidente dell’Eni. E siccome è un abile tattico, ha pensato di formare un tandem con un manager che punti a sedersi sulla poltrona di amministratore delegato. La scelta è caduta su chi da sette anni è Chief Financial Officer della compagnia petrolifera: Massimo Mondazzi.

MONDAZZI È IN ENI DAL 1992

Nato a Monza nel 1963, laureato in Economia alla Bocconi, Mondazzi è entrato in Eni proprio nel 1992, in coincidenza con l’ascesa di Bernabè, lavorando prima nell’area Amministrazione e Controllo del settore Esplorazione e Produzione, e poi arrivando a coprire la posizione di direttore Pianificazione e Controllo del gruppo, per poi tornare nella divisione Esplorazione e Produzione come Executive vice president per Asia centrale e Far East. Riuscirà la coppia Bernabè-Mondazzi a tornare tale in Eni? La corsa è cominciata.

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Eni, l’accoppiata Bernabè-Mondazzi punta al dopo Descalzi

L'ex ad del Cane a sei zampe mira a chiudere la carriera come presidente. E siccome è un abile tattico, ha pensato di formare un ticket con l'attuale Cfo in vista delle nomine di aprile.

Più scricchiola la poltrona di amministratore delegato Eni di Claudio Descalzi, e più si considera chiuso il capitolo della presidenza di Emma Marcegaglia, più si lavora a cordate e cordatine per la nomina dei vertici della più importante società italiana, prevista per aprile (l’assemblea è già stata programmata a metà maggio). 

I PIANI DI BERNABÈ PER IL CANE A SEI ZAMPE

L’ultimo colpo a Descalzi è arrivato da un articolo del solitamente bene informato Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera, in cui si (ri)parla dei conflitti di interesse ai vertici di Eni che tirano in ballo la moglie di Descalzi, la principessa congolese Marie Madeleine Ingoba, in quanto azionista insieme con il monegasco Alexander Haly della società lussemburghese Cardon, controllante (via trust neozelandesi ubicati a Cipro) di sei società fornitrici di servizi navali a Eni per 300 milioni nel periodo 2007-2018. E questo ha invogliato Franco Bernabè, 71 anni, a scaldare i motori. Non perché punti direttamente al posto di Descalzi – l’amministratore delegato dell’Eni lo ha già fatto, non casualmente nel 1992, l’anno di inizio di Mani Pulite – ma perché è interessato a chiudere la carriera come presidente dell’Eni. E siccome è un abile tattico, ha pensato di formare un tandem con un manager che punti a sedersi sulla poltrona di amministratore delegato. La scelta è caduta su chi da sette anni è Chief Financial Officer della compagnia petrolifera: Massimo Mondazzi.

MONDAZZI È IN ENI DAL 1992

Nato a Monza nel 1963, laureato in Economia alla Bocconi, Mondazzi è entrato in Eni proprio nel 1992, in coincidenza con l’ascesa di Bernabè, lavorando prima nell’area Amministrazione e Controllo del settore Esplorazione e Produzione, e poi arrivando a coprire la posizione di direttore Pianificazione e Controllo del gruppo, per poi tornare nella divisione Esplorazione e Produzione come Executive vice president per Asia centrale e Far East. Riuscirà la coppia Bernabè-Mondazzi a tornare tale in Eni? La corsa è cominciata.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.


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Il tentativo, inutile, di fermare Luciano Benetton

Fino all’ultimo alcuni dei suoi manager hanno cercato di fargli cambiare idea. Ma non c'è stato niente da fare. E alla fine la lettera ai giornali in cui il patron del gruppo ha scaricato i vertici di Autostrade si è rivelata un enorme boomerang.

Fino all’ultimo alcuni dei suoi manager hanno cercato di fargli cambiare idea. «Aspettiamo, facciamolo più avanti», era l’argomento usato nel tentativo di dissuadere Luciano Benetton dal mandare ai giornali la lettera pubblicata domenica primo dicembre in cui, prendendo le distanze dal management di Autostrade, denunciava una campagna di odio nei confronti della sua famiglia dopo i fatti del Ponte Morandi.

OLIVIERO TOSCANI, ASCOLTATISSIMO CONSIGLIERE

Ma è stato inutile. Il leader del gruppo non ha voluto sentire ragione. O meglio, ha dato ragione a quanti lo avevano incitato a prendere carta e penna. In primis Oliviero Toscani, l’artefice negli Anni 80 di famose e innovative campagne pubblicitarie che da quando Luciano ha ripreso le redini della United Colors è riapparso al suo fianco e gli fa da ascoltatissimo consigliere; la compagna Laura Pollini, e il figlio Alessandro.

UNA LETTERA TRASFORMATA IN BOOMERANG

Ma appena diffusa e ripresa dai giornali, quella lettera si è rivelata un boomerang come pochi. E il tentativo di scaricare su Castellucci, Cerchiai e gli altri top manager la totale responsabilità di quanto accaduto con la tragedia di Genova, con le pesanti negligenze di Autostrade che stanno emergendo dalle indagini della magistratura, salvaguardando l’azionista, ha avuto l’effetto contrario. In molti domenica nell’aprire i quotidiani si sono domandati come la famiglia potesse non sapere. Edizione, la holding che controlla Atlantia, nomina 12 consiglieri su 15, designa il presidente Fabio Cerchiai, che gode di stock option come tutti i manager di prima linea, e anche molti dei dirigenti più importanti hanno una carriera passata nelle aziende del gruppo di Ponzano. Forse Luciano se ne è sempre occupato poco, impegnato com’era a far tornare i conti della Benetton in rosso da anni. O forse ha voluto implicitamente addossare al fratello Gilberto, deceduto circa un anno fa e da sempre responsabile della diversificazione del business di Ponzano, il mancato controllo del lavoro dei manager?

L’IRRITAZIONE DELLA POLITICA

L’iniziativa ha destato subito sconcerto, perché non opportuna nei contenuti e nella tempistica. Ha fatto arrabbiare la politica, al punto da togliere argomenti al Pd, unica sponda che era rimasta al gruppo di Treviso per tentare di attenuare l’ostracismo dei 5 stelle che vogliono revocare le concessioni. Ed è suonata come uno schiaffo ai manager e dirigenti di Atlantia e Aspi, che tolto Castellucci sono per la gran parte gli stessi, che si sono sentiti accusati e non difesi. Il tutto a circa un mese dall’altra lettera del gruppo al governo nella quale chiedeva di mettere una pietra tombale sul tema concessione in cambio dell’impegno del gruppo su Alitalia. Anche allora la reazione politica fu dura al punto che anche la moderata Paola De Micheli, ministro Pd delle Infrastrutture, era intervenuta appoggiando la linea dura del M5s.

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Cattolica, al Vaticano non piace la cacciata di Minali

La revoca delle deleghe all'ad ha irritato la Cei. E tutto fa presumere che la decisione sia stata presa dalla compagnia assicurativa veronese senza coinvolgere un cliente importante come la Conferenza Episcopale.

Manca solo che lo scomunichino. Le alte gerarchie della Chiesa hanno preso molto male la cacciata dalla tolda di comando di Cattolica Assicurazioni dell’amministratore delegato Alberto Minali – molto stimato a tutti i livelli vaticani, da Verona a Roma – da parte del presidente Paolo Bedoni, che pure da una vita si muove con disinvoltura in alcuni ambienti curiali. 

LA REAZIONE DELLA CEI

Oltre al rammarico, espresso con toni accorati, dal vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti, che verso Bedoni non ha mai nutrito particolare simpatia e accondiscendenza, la reazione più pesante è stata quella della Cei. La Conferenza Episcopale è infatti seguita sul piano della gestione dei suoi beni patrimoniali da quella Banor Sim, con sedi a Milano e Torino, di cui fanno parte gli azionisti che hanno preso carta e penna e scritto al cda di Cattolica per chiedere lumi circa la defenestrazione, fin qui immotivata, di Minali. 

LA RICHIESTA DI SPIEGAZIONI RISPEDITA AL MITTENTE

La lettera, arrivata per il tramite dello studio legale Grimaldi, era firmata da Massimo Cagliero, amministratore delegato di Banor Sim, e da Francesco Brioschi, già presidente di Banknord (il vecchio nome di Banor) e attualmente al vertice di Sofia Holding, rappresentanti in modo diretto e indiretto di una quota di capitale di Cattolica di oltre il doppio del 2,5% necessario per statuto a poter chiedere la convocazione di un’assemblea straordinaria. Una richiesta gentile ma perentoria, peraltro respinta al mittente dalla compagnia assicurativa veronese, che fa presumere che questi soci si siano messi sul piede di guerra nei confronti di Bedoni. Possibile che lo abbia fatto senza aver almeno avvertito, se non coinvolto nella decisione di procedere, un cliente così importante come la Cei? Tutto fa presumere di no.

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Rai, salta la collaborazione con Mn per Sanremo

Dopo le polemiche su un possibile conflitto di interessi, Viale Mazzini ha deciso che la società non gestirà l'ufficio stampa del Festival. Oggi la questione potrebbe essere trattata in cda. Dossier nomine verso l'ennesimo rinvio.

La notizia è che nella tarda serata di mercoledì 27 novembre Rai Uno ha annullato la richiesta per avere la società Mn Italia come ufficio stampa del Festival di Sanremo.

La spinosa questione, che ha per un momento sviato l’attenzione dell’annoso capitolo nomine (che non si riescono a fare) è la vicenda del conflitto di interessi sollevata da Striscia la notizia per i rapporti tra viale Mazzini e la Mn Italia per curare la promozione di alcuni programmi.

IL GIALLO DEL CONTRATTO RAI CON MN

Il caso nasceva dal fatto che l’attuale capo delle relazioni esterne, Marcello Giannotti, prima di arrivare in Rai chiamato dall’ad Fabrizio Salini lavorava proprio in Mn. Nella stessa giornata di mercoledì, nella sua audizione davanti alla commissione di Vigilanza Rai, lo stesso Salini nel merito aveva risposto un po’ piccato. «O decidiamo di penalizzare la società di provenienza di un manager e le inibiamo dal lavorare con la Rai», ha detto l’ad, «oppure questo è un tema». Coda serale con piccolo giallo: Salini aveva sempre negato che ci fosse un contratto con Mn per Sanremo quando invece la società diceva che stava già cominciando a lavorare al Festival. Il comunicato Rai pilatescamente non dice di aver annullato un contratto, ma probabilmente una richiesta di servirsi di quella società che faceva da preludio al contratto vero e proprio.

CAPITOLO NOMINE VERSO UN NUOVO RINVIO

Insomma, un pasticcio destinato a creare ulteriore imbarazzo. E c’è da scommettere che la questione sarà oggetto di discussione del cda di viale Mazzini convocato alle 10.30 di giovedì 28. Anche perché il tanto atteso capitolo nomine, eccezion fatta forse per il sostituto di Carlo Freccero alla direzione di RaiDue, visti i tanti e tali veti incrociati all’interno della maggioranza di governo, è meglio rinviarlo ancora.

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Rai: le spine di Salini sono le nomine tigì, Fiorello e Mn

L'ad di Viale Mazzini sotto pressione per il cambio dei direttori dei telegiornali. Ma a preoccupare sono anche il presunto conflitto di interessi del capo comunicazione Giannotti e il costo dell'operazione Viva RaiPlay.

Il 26 novembre Fabrizio Salini è pronto a essere ascoltato in Commissione di vigilanza Rai. Per l’amministratore delegato della tivù di Stato si annunciano giorni di passione, cosa che lui, che soffre la troppa pressione, sicuramente vorrebbe evitarsi. Ma oramai la partita Rai non è più rinviabile. Ovvero non è più procrastinabile intervenire su una situazione che è ancora figlia del Conte Uno e dell’alleanza giallo-verde.

Ora, se Giuseppe Conte (bis) e i grillini sono rimasti, sono il Pd e Matteo Renzi che, entrati nella nuova compagine di governo, reclamano a gran voce che il tormentato universo della tivù pubblica ne prenda atto. Come fatto trapelare senza troppi paludamenti, il partito di Nicola Zingaretti punta al Tg1, guidato ora da Giuseppe Carboni in quota M5s. Il suo candidato è il sempreverde (il colore non allude ovviamente a simpatie leghiste) Antonio Di Bella, attualmente alla guida di Rai News.

Di Bella è il candidato più forte, ma non l’unico: c’è il vecchio direttore della testata ammiraglia nonché ex direttore generale dell’ente Mario Orfeo che chiede di essere valorizzato. Momentaneamente parcheggiato a Rai Way, Orfeo vuole tornare a pieno titolo nell’agone delle news. Sconta però un certo ostracismo dei pentastellati, che gli preferiscono di gran lunga Franco Di Mare, da luglio vicedirettore di RaiUno con delega agli approfondimenti e alle inchieste.

ANCORA NESSUNA CERTEZZA PER LE NOMINE DEI TELEGIORNALI

Ma che i telegiornali vengano toccati dall’ondata delle future nomine è ancora tutto da vedere. Salini sa che la materia è incandescente, e nel tentativo di limitare i danni vorrebbe offrire in pasto alla politica solo il rinnovo dei direttori di rete. I corridoi di viale Mazzini segnalano, ma con la dovuta aleatorietà di una situazione che cambia da un giorno all’altro, il seguente organigramma: Stefano Coletta a RaiUno, Marcello Ciannamea alla Seconda Rete, e l’onniprensente Di Mare, sempre non vada al Tg1, al vertice di RaiTre.

A viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale

Ma si sa, a viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale, e dunque la prudenza è d’obbligo. Un puzzle che è ulteriormente complicato dal fatto che Salini, forte dell’approvazione del suo piano industriale da parte del Mise, deve procedere alla nomina dei responsabili delle divisioni trasversali. Lo farà o tergiverserà ancora? Qualcosa forse si saprà nel cda Rai che si terrà due giorni dopo l’audizione dell’ad in Commissione di vigilanza.

Foto di Stefano Colarieti / LaPresse.

E poi c’è una ulteriore grana che non promette nulla di buono. Complice Striscia la notizia, è deflagrato il caso della società di comunicazione Mn, dove Marcello Giannotti ha lavorato dal 2015 al 2018 prima di essere chiamato da Salini a guidare la comunicazione Rai. Quasi sicuro che il cda chiederà a Salini spiegazioni su quello che alcuni giudicano un conflitto di interessi, altri come minimo una evidente caduta di stile. Mn, in trattativa per Sanremo (anche se la società smentisce), segue la comunicazione di Fiorello e della nuova serie I Medici, pagata da Lux Vide ma nell’ambito di una coproduzione Rai.

I DETTAGLI ECONOMICI SUL PROGRAMMA DI FIORELLO RIMANGONO UN MISTERO

Sempre nei corridoi di viale Mazzini si sussurra anche di un altro capitolo che chiamerebbe in causa Giannotti, ovvero una serie di contratti che la Comunicazione avrebbe sottoscritto con alcune testate online per ospitare una serie di redazionali sull’attività della Rai e del suo ad. E poi c’è il caso Fiorello, l’operazione su cui Salini ha puntato, ma i cui contorni sono ancora avvolti nel mistero. Per quello che è stato venduto come l’appuntamento televisivo dell’anno, il ritorno dello showman sulla piattaforma di Rai Play, non sono mai stati comunicati i dettagli economici.

Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione Fiorello di circa 10 milioni di euro

Sarà il prossimo cda l’occasione per fare chiarezza? Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione di circa 10 milioni di euro. Una cifra che comprende l’ingaggio di Fiorello, quello dei suoi autori, la campagna di marketing che ha accompagnato il ritorno dello showman sul piccolo schermo, e la realizzazione di tre set volanti destinati a essere smontati il prossimo dicembre alla fine del programma.

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Rai: le spine di Salini sono le nomine tigì, Fiorello e Mn

L'ad di Viale Mazzini sotto pressione per il cambio dei direttori dei telegiornali. Ma a preoccupare sono anche il presunto conflitto di interessi del capo comunicazione Giannotti e il costo dell'operazione Viva RaiPlay.

Il 26 novembre Fabrizio Salini è pronto a essere ascoltato in Commissione di vigilanza Rai. Per l’amministratore delegato della tivù di Stato si annunciano giorni di passione, cosa che lui, che soffre la troppa pressione, sicuramente vorrebbe evitarsi. Ma oramai la partita Rai non è più rinviabile. Ovvero non è più procrastinabile intervenire su una situazione che è ancora figlia del Conte Uno e dell’alleanza giallo-verde.

Ora, se Giuseppe Conte (bis) e i grillini sono rimasti, sono il Pd e Matteo Renzi che, entrati nella nuova compagine di governo, reclamano a gran voce che il tormentato universo della tivù pubblica ne prenda atto. Come fatto trapelare senza troppi paludamenti, il partito di Nicola Zingaretti punta al Tg1, guidato ora da Giuseppe Carboni in quota M5s. Il suo candidato è il sempreverde (il colore non allude ovviamente a simpatie leghiste) Antonio Di Bella, attualmente alla guida di Rai News.

Di Bella è il candidato più forte, ma non l’unico: c’è il vecchio direttore della testata ammiraglia nonché ex direttore generale dell’ente Mario Orfeo che chiede di essere valorizzato. Momentaneamente parcheggiato a Rai Way, Orfeo vuole tornare a pieno titolo nell’agone delle news. Sconta però un certo ostracismo dei pentastellati, che gli preferiscono di gran lunga Franco Di Mare, da luglio vicedirettore di RaiUno con delega agli approfondimenti e alle inchieste.

ANCORA NESSUNA CERTEZZA PER LE NOMINE DEI TELEGIORNALI

Ma che i telegiornali vengano toccati dall’ondata delle future nomine è ancora tutto da vedere. Salini sa che la materia è incandescente, e nel tentativo di limitare i danni vorrebbe offrire in pasto alla politica solo il rinnovo dei direttori di rete. I corridoi di viale Mazzini segnalano, ma con la dovuta aleatorietà di una situazione che cambia da un giorno all’altro, il seguente organigramma: Stefano Coletta a RaiUno, Marcello Ciannamea alla Seconda Rete, e l’onniprensente Di Mare, sempre non vada al Tg1, al vertice di RaiTre.

A viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale

Ma si sa, a viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale, e dunque la prudenza è d’obbligo. Un puzzle che è ulteriormente complicato dal fatto che Salini, forte dell’approvazione del suo piano industriale da parte del Mise, deve procedere alla nomina dei responsabili delle divisioni trasversali. Lo farà o tergiverserà ancora? Qualcosa forse si saprà nel cda Rai che si terrà due giorni dopo l’audizione dell’ad in Commissione di vigilanza.

Foto di Stefano Colarieti / LaPresse.

E poi c’è una ulteriore grana che non promette nulla di buono. Complice Striscia la notizia, è deflagrato il caso della società di comunicazione Mn, dove Marcello Giannotti ha lavorato dal 2015 al 2018 prima di essere chiamato da Salini a guidare la comunicazione Rai. Quasi sicuro che il cda chiederà a Salini spiegazioni su quello che alcuni giudicano un conflitto di interessi, altri come minimo una evidente caduta di stile. Mn, in trattativa per Sanremo (anche se la società smentisce), segue la comunicazione di Fiorello e della nuova serie I Medici, pagata da Lux Vide ma nell’ambito di una coproduzione Rai.

I DETTAGLI ECONOMICI SUL PROGRAMMA DI FIORELLO RIMANGONO UN MISTERO

Sempre nei corridoi di viale Mazzini si sussurra anche di un altro capitolo che chiamerebbe in causa Giannotti, ovvero una serie di contratti che la Comunicazione avrebbe sottoscritto con alcune testate online per ospitare una serie di redazionali sull’attività della Rai e del suo ad. E poi c’è il caso Fiorello, l’operazione su cui Salini ha puntato, ma i cui contorni sono ancora avvolti nel mistero. Per quello che è stato venduto come l’appuntamento televisivo dell’anno, il ritorno dello showman sulla piattaforma di Rai Play, non sono mai stati comunicati i dettagli economici.

Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione Fiorello di circa 10 milioni di euro

Sarà il prossimo cda l’occasione per fare chiarezza? Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione di circa 10 milioni di euro. Una cifra che comprende l’ingaggio di Fiorello, quello dei suoi autori, la campagna di marketing che ha accompagnato il ritorno dello showman sul piccolo schermo, e la realizzazione di tre set volanti destinati a essere smontati il prossimo dicembre alla fine del programma.

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Carfagna in tregua con Berlusconi decide sulla Campania

L'azzurra sponsorizza il fedelissimo Paolo Russo al posto di Caldoro. Ma il suo tira e molla ha esacerbato gli animi in Forza Italia. E più d'uno si chiede perché, se tiene tanto al suo territorio, non si candidi lei a governatrice.

Forza Italia alla resa dei conti con le Regionali in Campania e Calabria. Dalle scelte che si faranno per le candidature dipende il destino, o la fine, del movimento di Silvio Berlusconi. Grande segnale di forza agli altri partiti della coalizione: quando a indicare il candidato presidente è il partito del Cavaliere scoppiano le liti e si perde tempo per la campagna elettorale.

LO STALLO IN CALABRIA

In Calabria, dove si vota il 26 gennaio e un gruppo di colonnelli locali era pronto alla battaglia, tutto è fermo perché Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza con grande consenso ma anche qualche problema giudiziario, non va bene alla Lega di Matteo Salvini e anche il fratello, Roberto, vice capogruppo di Mariastella Gelmini alla Camera dei deputati, non convince: inviso al cerchio magico di Arcore perché troppo vicino a Mara Carfagna. Dunque la corrente di qualche deputato vicino agli Occhiuto minaccia la scissione, ma sono al massimo tre: lo stesso Roberto, il suo sodale Francesco Cannizzaro e forse la coordinatrice regionale Jole Santelli.

CARFAGNA ALLE PRESE CON L’AFFAIRE CAMPANIA

Nel frattempo, e facendo arrabbiare tutti, Carfagna ha fatto pace con il vecchio Silvio e gestirà personalmente l’affaire Campania, pur senza candidarsi. In forse l’ipotesi Caldoro, che comunque resta la prima opzione del Cav con il gradimento di Salvini, visto che l’azzurra punta sul fedelissimo Paolo Russo, uomo a L’Avana, anzi a Napoli. In cambio di questo, cercherà di convincere anche i calabresi a cedere il passo a una outsider. Donna, che fa sempre bene: Caterina Chiaravalloti, dalla società civile, magistrato, ma figlia d’arte. Suo padre Giuseppe fu governatore della Calabria dal 2000 al 2006. 

L’INSOFFERENZA DELLE AZZURRE PER IL TIRA E MOLLA DI MARA

E vissero tutti felici e contenti? Non proprio. Il tira e molla carfagnesco ha esacerbato gli animi in Forza Italia. Le donne del partito non la sopportano più. Un tira e molla continuo, di Mara e del suo compagno sempre presente Alessandro Ruben, senza sapere neanche bene cosa vuole. La Regione davvero? La vicepresidenza di Forza Italia, che tanto non conta niente, sulle ceneri di Antonio Tajani? Continuare a fare la bella statuina istituzionale nei salotti romani, con l’obiettivo del salto in quelli internazionali? Perché, si chiedono in molti tra gli azzurri, Mara non va a fare la governatrice nella sua terra, se davvero le interessano il territorio, il partito e vuole metterci la faccia?

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