La proposta di Paola Pisano su username e password statali

La ministra della Pubblica amministrazione propone l'identità digitale unica. Per accedere ai servizi pubblici ma anche a quelli privati. Sui social scoppia la polemica. E lei prova a fare chiarezza con un tweet.

Un’unica e sola user e password per accedere a tutti i servizi digitali. Della pubblica amministrazione ma non solo, anche al proprio conto in banca, per acquistare un biglietto del cinema, per prenotare un’auto. La proposta lanciata dalla ministra della Pa Paola Pisano al programma Eta Beta di Radio1 ha fatto discutere parecchio, muovendo non poche perplessità.

MADIA CRITICA

L’iniziativa ha però trovato le critiche di Marianna Madia, ex titolare dello stesso ministero occupato dalla Pisano: «Sono molto perplessa per le posizioni espresse oggi dalla ministra Pisano relative all’identità digitale», ha affermato la deputata del Partito democratico. «Credo occorra un confronto urgente sulle scelte complessive del governo in materia di digitale e dati. Si tratta di un tema strategico per i diritti dei cittadini, la democrazia e la competitività del Paese. Alcune scelte meritano un approfondimento e un confronto ampio e non possono essere rilasciate ad improvvisazioni estemporanee».

SENSI E ATTIVISSIMO PREOCCUPATI

Quella della Madia non è stata l’unica voce critica. In tanti, sui social, hanno espresso dubbi e timori in termini di privacy e sicurezza. «Una sola password e pure di Stato?», ha commentato il debunker Paolo Attivissimo, «significherebbe collegare le attività private (che non devono interessare a uno Stato) a quelle che riguardano lo Stato (tasse, certificati, atti pubblici)». Ancora più netto e duro Filippo Sensi: «A me questa cosa mette i brividi e mi fermo per carità di patria».

IL CHIARIMENTO DELLA MINISTRA

La polemica è montata rapidamente sui social, tanto che la titolare della Pa è dovuta tornare sull’argomento con un tweet: «Vediamo di sgombrare il campo da ogni equivoco: l’identità digitale sarà rilasciata dallo Stato e servirà a identificare il cittadino in modo univoco verso lo Stato stesso. In futuro, per aziende e cittadini che lo vorranno, potrebbe essere un ulteriore sistema di autenticazione».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Le reazioni politiche alle dimissioni del ministro Fioramonti

Voci critiche interne alla maggioranza e attacchi netti dall'opposizione. Mentre i presidi delle scuole sono sempre più preoccupati.

Le dimissioni del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti tengono banco nel dibattito politico sotto le feste. E fioccano le polemiche, dentro e fuori dal governo, tra maggioranza e opposizione. Fioramonti è vittima anche di quello che dovrebbe essere fuoco amico. «Se veramente ci si vuole battere per avere più risorse per la scuola bisogna stare in parlamento non all’estero, non a presentare un libro o a fare conferenze stampa», hanno attaccato Gabriele Toccafondi e Daniela Sbrollini, capogruppo di Italia Viva in Commissione Cultura a Camera e Senato, che hanno difeso il lavoro del governo sul fronte scuola: «In quattro mesi questa maggioranza ha votato un decreto scuola, con 50 mila assunzioni e risorse. Non è quanto volevamo, ma nella legge di Bilancio, di risorse per l’istruzione, ci sono».

DADONE: «SE HAI CORAGGIO NON SCAPPI»

Non fa il nome di Fioramonti, ma forse non ce n’è bisogno, la ministra per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone: «Trovo stucchevole che chi professi coraggio agli elettori poi scappi dalle responsabilità politiche», ha scritto in un post su Facebook. «Se hai coraggio, non scappi. Se condividi davvero una battaglia, non scappi, ma mangi sale quando devi e porti avanti un progetto (ammesso che lo si abbia mai realmente condiviso). La coerenza è per lo più un pregio, ma a volte rischia di sconfinare nella sterile testimonianza che, peraltro, si addice poco a chi occupa posizioni di responsabilità».

CARFAGNA: «ORA UN MINISTRO INDIPENDENTE»

Mara Carfagna guarda invece avanti, a ciò che sarà poi, e auspica la nomina di un ministro che sia indipendente e autonomo dalle forze politiche della maggioranza: «Il ministero dell’Istruzione da anni è considerato un parcheggio per notabili di partito in cerca di collocazione. Dal 2013 abbiamo avuto ben cinque ministri, e in seguito alle dimissioni di Fioramonti verrà nominato il sesto», ha detto la vicepresidente della Camera.«È tempo di affidare l’incarico a una personalità autorevole e capace di far capire ai partiti che il sistema dell’istruzione è il “core business” di un Paese moderno».

FORZA ITALIA: «ATTO GRAVE E IRRESPONSABILE»

Durissimi i deputati di Forza Italia in commissione cultura alla Camera Valentina Aprea (capogruppo), Luigi Casciello, Marco Marin, Antonio Palmieri e Gloria Saccani. «Le dimissioni del ministro Fioramonti, costituiscono un atto grave e irresponsabile», hanno scritto in una nota congiunta. «Già minacciate sin dal suo insediamento, arrivano ora in un momento delicato e denso di appuntamenti amministrativi per l’attività del ministero dell’Istruzione. Avere maggiore disponibilità finanziarie per le politiche della scuola, dell’Università e della ricerca è da sempre aspirazione legittima di tutti i ministri dell’istruzione della Repubblica, ma Fioramonti sembra aver sottovalutato irresponsabilmente di essere arrivato a Viale Trastevere da soli quattro mesi, in un momento di crisi economica del Paese».

CALDEROLI RINGRAZIA BABBO NATALE

Sarcastico il senatore della Lega Roberto Calderoli: «Grazie a Babbo Natale per aver pensato ai nostri bambini mandando a casa con un sacco di carbone il pessimo ministro Fioramonti, uno dei peggiori ministri della storia repubblicana, quello che voleva tassare le merendine, quello che voleva togliere il crocifisso dalle aule perché non ci rappresenta. Grazie Babbo Natale per averlo fatto andare via, ora confidiamo nella Befana che magari nella calza ci farà trovare le dimissioni di tutto il governo».

PREOCCUPATI I PRESIDI

Preoccupazione è stata invece espressa dall’Associazione nazionale presidi: «Le dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti. nell’aria da alcuni giorni, ci preoccupano per l’inevitabile incertezza che si abbatte sul mondo della scuola e, soprattutto, per le ragioni delle dimissioni legate al mancato reperimento dei fondi necessari all’istruzione ed alla ricerca», ha affermato il presidente Antonello Giannelli. «Fioramonti, che ringrazio per l’impegno profuso durante il mandato, è stato un interlocutore sensibile e partecipe; questo suo gesto dimostra coerenza ma rende evidente la scarsa considerazione della politica per la scuola».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Le parole di Fioramonti sulle sue dimissioni da ministro

La notizia dell'addio all'incarico era filtrato la sera di Natale. La spiegazione è arrivata la mattina dopo con un post su Facebook. «Si trovano risorse per tutto, ma mai per l'istruzione».

Non avrebbe voluto andarsene così, con tutto quel clamore la sera di Natale. Lorenzo Fioramonti, la sua lettera di dimissioni al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’aveva presentata il 23, prima della Vigilia, ma aveva deciso di aspettare a rendere pubblica la sua decisione e di collaborare per una transizione rapida ed efficace al vertice del ministero dell’Istruzione. La notizia però è filtrata nel bel mezzo delle feste, così anche lui si è trovato a fornire la sua versione dei fatti la mattina del 26.

L’ATTESA PER L’APPROVAZIONE DELLA MANOVRA

«Prima di prendere questa decisione, ho atteso il voto definitivo sulla Legge di Bilancio, in modo da non porre tale carico sulle spalle del parlamento in un momento così delicato», ha spiegato il ministro dimissionario con un post sulla sua pagina Facebook. «Le ragioni sono da tempo e a tutti ben note: ho accettato il mio incarico con l’unico fine di invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza».

La sera del 23 dicembre, ho inviato al Presidente del Consiglio la lettera formale con cui rassegno le dimissioni da…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Thursday, December 26, 2019

PER L’ISTRUZIONE SOLO 1,9 MILIARDI

Un fine che evidentemente non riteneva più raggiungibile, considerando che dei 3 miliardi che aveva chiesto per la scuola in linea di galleggiamento, ne sono arrivati solo 1,9. «Mi sono impegnato per rimettere l’istruzione – fondamentale per la sopravvivenza e per il futuro di ogni società – al centro del dibattito pubblico, sottolineando in ogni occasione quanto, senza adeguate risorse, fosse impossibile anche solo tamponare le emergenze che affliggono la scuola e l’università pubblica».

«NON È STATA UNA BATTAGLIA INUTILE»

Nonostante le dimissioni, per Fioramonti «non è stata una battaglia inutile e possiamo essere fieri di aver raggiunto risultati importanti: lo stop ai tagli, la rivalutazione degli stipendi degli insegnanti (insufficiente ma importante), la copertura delle borse di studio per tutti gli idonei, un approccio efficiente e partecipato per l’edilizia scolastica, il sostegno ad alcuni enti di ricerca che rischiavano di chiudere e, infine, l’introduzione dell’educazione allo sviluppo sostenibile in tutte le scuole (la prima nazione al mondo a farlo)».

«SERVIVA PIÙ CORAGGIO»

Ma non è bastato: «La verità è che sarebbe servito più coraggio da parte del governo per garantire quella ‘linea di galleggiamento’ finanziaria di cui ho sempre parlato, soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca. Pare che le risorse non si trovino mai quando si tratta della scuola e della ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore da destinare ad altre finalità quando c’è la volontà politica».

«COMBATTUTO PER OGNI EURO IN PIÙ»

Sulle tempistiche delle sue dimissioni ha precisato: «Alcuni mi hanno criticato per non aver rimesso il mio mandato prima, visto che le risorse era improbabile che si trovassero. Ma io ho sempre chiarito che avrei lottato per ogni euro in più fino all’ultimo, tirando le somme solo dopo l’approvazione della Legge di Bilancio. Ora forse mi criticheranno perché, in coerenza con quanto promesso, ho avuto l’ardire di mantenere la parola».

«UN GOVERNO CHE PUÒ ANCORA FARE BENE»

L’ormai ex ministro ha poi fatto capire di sostenere ancora il governo, invocando però quel coraggio necessario per fare le scelte giuste: «Le dimissioni sono una scelta individuale, eppure vorrei che – sgomberato il campo dalla mia persona – non si perdesse l’occasione per riflettere sull’importanza della funzione che riconsegno nelle mani del governo. Un governo che può fare ancora molto e bene per il Paese se riuscirà a trovare il coraggio di cui abbiamo bisogno».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

M5s, Lombardi: «Da Di Maio vorrei meno tweet e più mediazione»

La capogruppo pentastellata alla Regione Lazio a SkyTg24 critica l'atteggiamento del capo politico troppo «muscolare».

Luigi Di Maio, sempre più isolato all’interno del M5s, lo ha negato con insistenza: l’idea che il M5s voglia fare cadere il governo «è una sciocchezza», ha ribadito il 6 dicembre a Radio Capital. «Lo abbiamo fatto nascere noi, altrimenti non lo facevamo partire». Eppure le acque pentastellate restano increspate.

LOMBARDI DIFENDE IL GOVERNO CON IL PD

Sabato a lanciare la frecciata quotidiana all’indirizzo del ministro degli Esteri e capo politico del M5s è stata Roberta Lombardi. «Io so che Di Maio sta cercando di porre all’attenzione del governo dei punti di vista tipici del M5s ma preferirei ci fosse molto meno la ricerca del tweet e molto più la voglia di conciliare punti di vista diversi che però hanno pari dignità e devono trovare una forma di mediazione», ha detto la capogruppo pentastellata alla Regione Lazio ospite de L’intervista di Maria Latella su Skytg24. Insomma l’atteggiamento di Di Maio «è quello del capo politico di una forza che sta cercando di mantenere la propria identità all’interno del governo ma», ha messo in chiaro, «lo fa in una modalità molto muscolare che non condivido, preferirei che fosse più mediata».

LOMBARDI: «DIAMO UN’OPPORTUNITÀ A QUESTO PAESE»

Alla domanda su cosa pensi Di Maio di questo governo, Lombardi ha risposto in pieno stile pentastellato delle origini. «Io vengo da una scuola del M5s dove quello che interessa non è l’opinione del singolo. Sono stata uno degli sponsor di questo governo perché ho detto che c’è la possibilità di fare delle cose bene insieme. Diamo un’opportunità a questo Paese, adesso questo governo deve continuare a essere utile». Del resto, ha ricordato la capogruppo 5 stelle alla Pisana, anche il garante Beppe Grillo ha sempre detto che «ci sono dei temi» su cui Pd e M5s possono trovare un punto di accordo. Come M5s, ha aggiunto, «abbiamo fatto un investimento su questo governo perché volevamo fare delle cose utili per il Paese. Quindi sicuramente questo modo continuo di porre dei distinguo, anche semplificando il messaggio politico alla ricerca sempre del titolo o dell’agenzia che ti ponga più in evidenza, è stancante», ha messo in chiaro Lombardi.

«NESSUNA DEROGA SUL SECONDO MANDATO»

Sulla regola del secondo mandato la «rompiscatole» (come lei stessa si definisce) Lombardi ha puntato i piedi. Anche se si tratta di Virginia Raggi. «Nessuna deroga per nessuno. Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni, anzi un ricambio generazionale è sano e salutare», ha detto l’ex parlamentare M5s.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Perché il 12 gennaio è uno snodo cruciale per la legislatura

Si tratta della scadenza per la richiesta di referendum sul taglio dei parlamentari. Un bivio che avrà ripercussioni sulle prossime mosse del capo dello Stato.

Il 12 gennaio 2020 è una data da segnare in rosso nel calendario della politica. È la scadenza del termine per depositare la richiesta di referendum sul taglio dei parlamentari. E, se si volesse andare alle elezioni mantenendo l’attuale numero di deputati e senatori, le Camere andrebbero preferibilmente sciolte entro la prima metà di gennaio. Prima, cioè, del 12 gennaio. Senza contare che tre giorni dopo c’è un’altra delicatissima scadenza dal forte impatto politico: il 15 gennaio è prevista la sentenza della Corte costituzionale sul referendum per la legge elettorale chiesto da diverse Regioni.

LEGGE APPROVATA A MAGGIORANZA ASSOLUTA

Il presidente della Repubblica, trovandosi di fronte a una improvvisa crisi di governo e senza maggioranze alternative, avrebbe il dovere di sciogliere le Camere e chiamare il Paese al voto con il sistema vigente al momento, visto che l’iter della riforma costituzionale per la riduzione dei parlamentari non sarà completo fino alla fine degli adempimenti formali (leggi referendum e collegi elettorali). La legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari è stata approvata in seconda lettura con la maggioranza assoluta (e non con quella dei due terzi). Può, dunque essere sottoposta a referendum entro il 12 gennaio su richiesta di un quinto dei membri di una Camera (65 senatori o 126 deputati), di 500 mila elettori o di cinque Consigli regionali. E al momento al Senato si contano già ben 52 firme raccolte. Se non fosse avanzata richiesta di referendum, alla scadenza dei tre mesi dalla pubblicazione del testo in Gazzetta il presidente della Repubblica dovrà pubblicare la legge entro il 12 febbraio. Se, invece, la richiesta di referendum arrivasse, la Cassazione dovrà pronunciarsi sulla sua ammissibilità.

I TEMPI (LUNGHI) PER L’ENTRATA IN VIGORE

Tra decisione ed eventuali ricorsi potranno servire tra 20 e 30 giorni. Il referendum sarà quindi indetto entro 60 giorni dall’ordinanza che lo ammette, e potrà svolgersi in una domenica compresa tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto di indizione. A conclusione positiva del referendum, avranno luogo proclamazione del risultato, pubblicazione della legge costituzionale e vacatio legis (complessivamente almeno 20/30 giorni), prima dell’entrata in vigore della legge stessa. Sia in caso di esito positivo del referendum sia nell’ipotesi in cui esso non venga richiesto, in base all’articolo 4 della legge sulla riduzione del numero dei parlamentari le nuove norme potranno applicarsi non prima che siano decorsi 60 giorni dalla loro entrata in vigore. In caso di mancata richiesta di referendum quindi, considerati i tempi per accertare la mancata richiesta, la pubblicazione in Gazzetta e la vacatio legis, questi 60 giorni potranno decorrere dalla prima metà di febbraio, per concludersi orientativamente entro metà aprile, quando la riduzione dei parlamentari sarà effettiva. A quel punto, il governo avrà 60 giorni per ridisegnare i collegi elettorali.

Alcuni esperti sottolineano che ipotesi diverse di scioglimento e conseguenti elezioni potrebbero far sorgere dubbi sulla rappresentatività del nuovo parlamento

In definitiva, ove venisse richiesto un referendum sulla legge costituzionale per la riduzione dei parlamentari, i tempi per l’entrata in vigore della nuova normativa potrebbero superare i 10 mesi dalla data della pubblicazione della legge elettorale. Ove il referendum non fosse invece richiesto, sembrerebbero necessari tra i cinque e i sei mesi dalla data del 12 ottobre e quindi, come ricordato, la piena operatività della norma partirebbe dal mese di aprile. Si tratta di uno snodo politico delicato: infatti alcuni esperti sottolineano che ipotesi diverse di scioglimento e conseguenti elezioni potrebbero far sorgere dubbi sulla rappresentatività del nuovo parlamento. Bisognerebbe, infatti, affrontare la non secondaria questione di un parlamento – che dovrà scegliere il nuovo capo dello Stato – eletto pochissimo tempo prima dell’operatività di una norma che ne avrebbe modificato in maniera significativa la rappresentatività.

IL NODO DELL’ELEZIONE DEL CAPO DELLO STATO

Il dubbio è che venga in tal modo gettata un’ombra sulla stessa rappresentatività del nuovo capo dello Stato, scelto da un organo numericamente diverso da quello disciplinato dalle norme che saranno vigenti al momento della sua elezione: organo costituitosi solo pochi giorni prima l’entrata in vigore delle nuove, più restrittive norme. Per questo, è l’analisi di alcuni esperti, ove si volesse procedere linearmente a nuove elezioni con l’attuale numero dei parlamentari, sarebbe meglio attivare lo scioglimento prima del 12 gennaio. Altrimenti, sia in caso di mancata richiesta di referendum sia di proposizione della richiesta stessa, lo scioglimento dovrebbe aver luogo dopo la piena operatività delle nuove norme, e quindi con il ridotto numero dei parlamentari. Nel primo caso in primavera avanzata, e nel secondo non prima del prossimo autunno.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Cosa c’è nel maxi emendamento del governo alla manovra

Quasi azzerata la tassa sulle auto aziendali. Dimezzata quella sulla plastica. Ma spunta una clausola di salvaguardia sulle accise della benzina nel 2021. Le novità.

Arriva una Robin tax sui concessionari, viene quasi azzerata la tassa sulle auto aziendali e si riduce del 50% quella sulla plastica. Dopo settimane di tavoli di maggioranza e ipotesi, la manovra cambia volto con un maxi emendamento presentato dal governo.

Mentre alla Camera viene posta la fiducia sul decreto fiscale, l’esecutivo tenta uno sprint per portare in Aula la legge di bilancio lunedì 9 dicembre, in una corsa contro il tempo che non scongiura il rischio del via libera finale solo tra Natale e Capodanno.

Il maxi emendamento comprende una ventina di misure per un totale di 1,7 miliardi. Per coprire i buchi che derivano dallo stop alle microtasse, viene inserita una clausola di salvaguardia che farebbe aumentare di circa 900 milioni le accise sulla benzina nel 2021. I nodi politici, però, non sono tutti risolti: Italia viva storce il naso sulla Robin tax e chiede l’abolizione totale della tassa sulla plastica e anche della sugar tax, che potrebbe essere cambiata alla Camera.

SALE L’IRES PER LE SOCIETÀ CONCESSIONARIE DI SERVIZI PUBBLICI

La novità principale del maxi emendamento è proprio la Robin tax, ovvero l’aumento dell’Ires del 3% per le società concessionarie di servizi pubblici, per tre anni. La misura, voluta dal Pd, è destinata a far discutere. Anche perché si applica ad Autostrade, mentre è in corso l’istruttoria per la revoca della concessione. L’aumento dell’Ires sostituisce la stretta sull’ammortamento prevista inizialmente per i soli concessionari autostradali e destina i 647,1 milioni stimati nel 2020 (369,8 milioni nel 2021 e 2022) a migliorare le infrastrutture e combattere il degrado sociale. L’aumento scatta per chi gestisce porti, aeroporti, autostrade, lo sfruttamento di acque minerali, la produzione di energia elettrica, le ferrovie, le frequenze radio tv e telefoni. Sono salvi i balneari e le concessioni petrolifere.

SCOMPARE IL BOLLO SUI CERTIFICATI PENALI

Tra le novità annunciate in manovra c’è poi la scomparsa del bollo sui certificati penali, l’arrivo di 40 milioni per i Vigili del fuoco e 50 milioni per il sostegno agli affitti.

QUASI AZZERATA LA TASSA SULLE AUTO AZIENDALI

C’è poi il quasi azzeramento, con solo un milione di incasso nel 2020, della tassa sulle auto aziendali: non solo slitta a luglio e si applica alle nuove immatricolazioni, ma si articola in quattro fasce in base alle emissioni. I mezzi in fringe benefit concorreranno al reddito per il 25% per le auto più ecologiche, mentre si arriverà al 60% per quelle che più inquinanti.

DIMEZZATA LA PLASTIC TAX

Infine, la plastic tax: l’imposta si dimezza a 50 centesimi al chilo e si escludono i prodotti che contengono plastica riciclata, tutti i contenitori di medicine e dispositivi medici.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Perché sulla prescrizione Di Maio e il governo si giocano il futuro

Trovare un'intesa o far crollare tutto: giustizia decisiva per le sorti dei giallorossi. E anche per quelle del capo M5s: in caso di elezioni sarebbe sostituito da Di Battista. Ma tra paletti renziani e scenari di asse Pd-Forza Italia l'accordo sembra lontano.

La prescrizione potrebbe essere la miccia accesa per far deflagrare il governo. La preoccupazione rimbalza da Palazzo Chigi alle Camere, attraversando le segreterie dei partiti. È il tema su cui Luigi Di Maio manifesterà le reali intenzioni sull’alleanza con Partito democratico e Italia viva. Nei fatti può tirare la corda fino a spezzarla, senza che nessuno gli possa rinfacciare alcunché: la cancellazione della prescrizione è una misura bandiera del Movimento 5 stelle.

BONAFEDE IN PRIMA FILA

Fonti della maggioranza osservano: «Nessuno potrà polemizzare sulla prescrizione. Nemmeno i suoi più tenaci detrattori». Di sicuro al fianco di Di Maio c’è il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha voluto questo provvedimento quando era al governo con la Lega e che lo sta difendendo anche dai rilievi del Pd.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all’epoca del governo gialloverde con la Lega di Matteo Salvini.

ATTESO UN GESTO DI CHIAREZZA DAI CINQUE STELLE

Dunque se il numero uno della Farnesina vuole davvero far cadere il Conte II ha l’occasione giusta: quasi irripetibile. Al contrario se dovesse mostrare disponibilità a trovare un’intesa, allora agli alleati arriverebbe un messaggio chiaro: la volontà, nonostante tutto, di proseguire con il governo. Insomma, sulla prescrizione è atteso il gesto di chiarezza invocato da più parti, qualunque sia la direzione.

DI MAIO PERÒ RISCHIA ANCHE LA SUA FINE POLITICA

La partita presenta un alto coefficiente di rischio per Di Maio: la fine di questo esecutivo sarebbe in pratica la fine della sua parabola politica. Una prescrizione delle sue ambizioni. La coalizione con i dem è tuttora sponsorizzata da Beppe Grillo: resta convinto che il Conte II sia un’opportunità per il M5s. La sola idea di staccare la spina fa virare i suoi umori verso il nero. E chissà che l’Elevato, come si è proclamato l’ex comico, in caso di crisi di governo non decida di avviare “il processo” di destituzione del capo politico, raccogliendo tutti i malumori nel Movimento. Che sono tanti e solidi, come testimonia il costante sbandamento dei gruppi parlamentari.

DA ESCLUDERE UN RITORNO CON LA LEGA

Di Maio dovrebbe avere un piano B da tirar fuori come un coniglio dal cilindro per garantirsi un futuro politico. Neppure nella più incallita professione di ottimismo può immaginare di tirare dritto, come se nulla fosse, di fronte all’eventuale showdown che porterebbe il Paese alle elezioni. Perché non ci sono altre strade percorribili. Il remake dell’alleanza con la Lega è impraticabile per varie ragioni. Prima di tutto i gruppi parlamentari del M5s sono nettamente contrari a un ritorno al passato; inoltre Matteo Salvini non avrebbe alcun motivo per tornare indietro.

DI BATTISTA PRONTO A DIVENTARE NUOVO UOMO IMMAGINE

E infine il Quirinale ha fatto filtrare più volte l’orientamento: dopo il Conte II è quasi impossibile pensare che possano esserci altri esecutivi in questa legislatura. Quindi resta solo lo scenario elettorale e l’ipotesi del tandem con Alessandro Di Battista: l’ex deputato sarebbe l’uomo immagine con il capo politico a fare da regista alle spalle. Ma si torna al punto di partenza: è una sfida spericolata, che finge di non considerare gli effetti del trauma di una rottura. E che ignora il calo nei sondaggi.

di maio di battista prescrizione
Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista. (Ansa)

M5S CONTRO I «PALETTI RENZIANI»

Guarda caso, però, proprio Di Battista è tornato a pestare duro sulla cancellazione della prescrizione, rinsaldando la ritrovata intesa con il leader del Movimento. «I politici del Pd, che osano mettere a rischio questa norma di civiltà, dovrebbero avere il coraggio di andare dai familiari dei morti di Casale Monferrato, guardarli negli occhi e imbastire le ormai ventennali supercazzole sul tema», ha attaccato ricordando le vittime dell’Eternit e parlando poi di «pali renziani» all’interno del Pd.

CONTE, FIUTATA L’ARIA, VUOLE MEDIARE

Praticamente in contemporanea Di Maio ha evocato un Nazareno 2.0 sulla Giustizia, una rinnovata intesa PdForza Italia, sfoderando il lessico marcatamente ostile ai dem. Giuseppe Conte ha fiutato l’aria ed è intervenuto dicendosi di sicuro che sarà «trovata una soluzione». Le ostilità sono aperte e la tensione è troppo alta: per questo il presidente del Consiglio ha cercato di stemperare la polemica.

IL PD OSSERVA E NON FA PASSI INDIETRO

A Largo del Nazareno, intanto, non c’è alcuna intenzione di giocare al ruolo di “responsabili” a ogni costo. Sul tema della prescrizione men che meno. Il segretario Nicola Zingaretti ha lanciato avvertimenti chiari: c’è stato il tweet di Pierluigi Castagnetti, figura molto vicina al Quirinale, sulla chiusura del sipario di questo esecutivo, poi l’intervista di Goffredo Bettini, in estate grande tifoso del “governo di legislatura” con il Movimento, che ha avvertito come la pazienza stia per finire. A seguire le dure prese di posizione dei capigruppo di Camera e Senato, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, che hanno vestito i panni delle colombe durante la nascita del Conte II. Ma anche loro sono irritati. Segnali di fumo non trascurabili. Per il momento la linea politica è quella di osservare cosa accade nel Movimento, senza cedere, cercando di comprendere il progetto di Di Maio. Che continua a muoversi su un filo.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

E ora serve un bel “vaffa” di Zingaretti a Di Maio

Farsi imbottigliare dalle stupidaggini del M5s, che continua a guardare verso destra, è un errore fatale. Meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri.

La cronaca politica propone due domande: ma che cosa vogliono Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? Ovvero vogliono qualcosa? L’unica cosa chiara è che i due baciati in fronte da Beppe Grillo hanno il terrore di finire male.

Per loro finire male significa uscire dall’orbita reale, per l’uno, potenziale per l’altro, del governo. E oggi l’orbita del governo ruota attorno a Salvini-Meloni.

L’altra paura è che hanno la matematica certezza che se non fanno ammuina il loro movimento arriva alle elezioni “sminchiato”, quindi con pochi voti e probabilmente senza quelli che potrebbero eleggere l’uno e l’altro o l’uno o l’altro.

DI MAIO E DI BATTISTA CONTINUANO A GUARDARE A DESTRA

Era sembrato, nelle scorse settimane, che Beppe Grillo riuscisse a portare i pentastellati fuori dall’attrazione pericolosa della destra. Grillo aveva addirittura immaginato di progettare cose in comune con il Pd. Di Maio e Di Battista, e forse Casaleggio, hanno detto di “sì”, ma si sono mossi lungo la strada opposta. Nessuno di noi sa se Matteo Salvini e soprattutto la sua temibile competitrice Giorgia Meloni vorranno aggregare questi due giovani cadaveri della politica nel governo che faranno dopo le elezioni, tuttavia Di Maio e Di Battista, fedeli figli di cotanti padri di destra, cercano da quelle parti la soluzione che li porti ad una più che dignitosa sopravvivenza economica.

Quando cadrà il governo Conte sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto

Il dramma dei cinque stelle, nati sulla base di una cultura che definimmo populista, di decrescita felice, di guerra alla democrazia rappresentativa, è che oggi sono il nulla assoluto. Da quelle parti ci sono solo “no”, sulle cose che capiscono, e ancora “no” su quelle che non capiscono. E tutto ciò accade mentre gran parte del loro elettorato è scappato e altro andrà via quando cadrà il governo Conte e sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto, una sistemazione, una cosa per campare. Sta arrivando il momento in cui la voracità della destra riuscirà a cancellare l’episodio grillino.

LA SINISTRA DEVE MOLLARE IL M5S PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Chi di noi analizzò il fenomeno dei cinque stelle non in base alla composizione sociale ma in relazione alla cultura che esprimevano e alla direzione di marcia che avevano preso, non sono sorpresi né dalla svolta a destra né dalla loro prossima fine. Questo non vorrà dire che il sistema politico si sistemerà. La pattuglia grillina nel prossimo parlamento, a meno che non vengano fatti fuori Di Maio e i suoi e che Di Battista vaghi a fare niente per il mondo, sarà il più massiccio episodio di ascarismo parlamentare. «Accattataville».

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano.

Salvini dovrà far digerire ai suoi il ritorno dei traditori, per giunta statalisti. La Meloni non li ha mai sopportati. Resta la sinistra che tarda a comprendere che farsi imbottigliare dalle stupidaggini di Di Maio e Salvini su un fondo salva Stati che quei due conoscevano e che, lo vogliano o no, ci sarà, è un errore, meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri. Perché l’unica campagna elettorale che si può fare richiede di rubare alle sardine il tema della civiltà politica e alla destra “sovranista e antitaliana” la questione dell’onore della patria che la destra attuale vorrebbe nuovamente serva di una potenza straniera.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Di Maio fa il pompiere sul Mes

Il leader del M5s dopo il gelo con il premier: «Ho sentito Conte e siamo in piena sintonia». Ma l'asse con Di Battista preoccupa il Pd. Occhi puntati sul ministro Gualtieri, che all'Eurogruppo tratterà modifiche alla riforma del fondo salva-Stati.

Negoziare all’Eurogruppo e con i leader europei, ottenere almeno un rinvio della firma del Meccanismo europeo di stabilità.

Per raffreddare gli animi in Senato ed evitare che l’11 dicembre una spaccatura della maggioranza apra una crisi politica. Il rischio c’è, affermano dal Pd, anche perché il gruppo M5s è spaccato e imprevedibile. In più, preoccupa l’asse di Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista contro la riforma del fondo salva-Stati: «Il M5s è l’ago della bilancia, decidiamo noi».

Il ministro degli Esteri invia un segnale distensivo: «Conte l’ho sentito due ore fa e siamo in piena sintonia, sia sul Mes sia sul tema della prescrizione», ha detto a Di Martedì su La7. Ma i dem non si fidano e le fibrillazioni preoccupano anche Italia viva.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

Nelle prossime ore gli occhi saranno tutti puntati sul ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che all’Eurogruppo tratterà con gli alleati europei sul Mes. In discussione non c’è l’impianto del Meccanismo, ma regolamenti secondari ancora oggetto di negoziato. In più, in una “logica di pacchetto”, si avvierà la trattativa sull’Unione bancaria, che è ancora a una prima stesura: il ministro, come più volte affermato, dirà che l’Italia si oppone al meccanismo – sostenuto dalla Germania ma per noi svantaggioso – che punta a ponderare i titoli di Stato detenuti dalle banche sulla base del rating dei singoli Paesi.

LA FIRMA DEL MES NON PRIMA DI FEBBRAIO

Anche Conte, nei suoi colloqui a margine del vertice Nato di Londra, discuterà del “pacchetto” europeo con gli altri leader, a partire da Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Ma è il fattore tempo quello su cui il governo spera di far leva, nell’immediato. La firma del Mes, anche per ragioni tecniche, non dovrebbe arrivare prima di febbraio. Da quel momento i singoli Paesi dovranno ratificare il trattato. La speranza è che i dubbi emersi anche in Francia e fattori come la crisi di governo a Malta possano spingere la lancetta un po’ più in là.

LA DIFFICILE RICERCA DI UN’INTESA IN PARLAMENTO

Negoziazioni nell’ambito del “pacchetto” Ue e rinvii saranno la leva sulla quale si cercherà di plasmare un’intesa di maggioranza sulla risoluzione che dovrà essere votata l’11 dicembre in Parlamento, alla vigilia della partecipazione di Conte al Consiglio europeo. «Sono legittime diverse sensibilità», dichiara il premier cercando di placare gli animi e assicurando che «l’ultima parola spetta al Parlamento» e che «lavoriamo per rendere questo progetto utile agli interessi dell’Italia».

BASTA UNA MANCIATA DI VOTI PER METTERE IN CRISI IL GOVERNO

Da Bruxelles, però, Matteo Salvini incalza e rilancia Mario Draghi come candidato al Colle: «Il trattato non è emendabile, bisogna bloccarlo. Conte ha lo sguardo di chi ha paura e scappa». Lega e Fratelli d’Italia non faranno sconti in Aula. Ed è in Aula che può scoppiare l’incidente. Perché, spiegano fonti dem dal Senato, è impossibile prevedere i comportamenti dei senatori M5s (Paragone e Giarrusso già si sono smarcati). I “contiani” lavorano a un’intesa, ma basta una manciata di voti a far andare in minoranza il governo. Di qui il pressing su Di Maio perché lavori per compattare le truppe su una posizione unica e chiara in asse con il governo. Il M5s sta lavorando a una risoluzione di maggioranza, a partire dalle proprie posizioni. Ma i dem non sono disposti a cedere. Per chiudere, servirà probabilmente un nuovo vertice di maggioranza. Ma, come emerge da un incontro di Italia viva con Conte, i punti di divergenza sono tanti e il clima sempre più agitato.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Perché le bugie di Salvini e Meloni porteranno l’Italia alla rovina

La guerra al Mes ripete un copione già visto che ci isolerà in Europa e causerà divisioni interne. Davanti a questa minaccia, la sinistra dovrebbe avere l'umiltà di unirsi per costruire un muro di resistenza civile.

Matteo Salvini dichiara di saper nulla del Salva Stati di cui ieri si è discusso in parlamento.

Le notizie su quell’accordo inter-Stati, come è stato ben detto durante la trasmissione Tagadà, erano invece sui maggiori giornali quando Salvini era ministro degli Interni con Giuseppe Conte.

Forse in quei giorni aveva già bevuto troppi moijto per sfogliare il Corriere della Sera, che va letto da sobri.

IL POTENZIALE ELETTORATO CREDE ALLE SCIOCCHEZZE DELLA DESTRA

Il guaio è che una gran parte dell’elettorato potenziale crede alle  sciocchezze di Salvini e di Giorgia Meloni dimenticando come i due abbiano nel proprio passato, o comunque in quello dei loro partiti, uno degli episodi più vergognosi e menzogneri della Storia d’Italia. Furono loro che stabilirono (cioè costrinsero il parlamento a votare) che la ragazza di Silvio Berlusconi era la nipote di Mubarak. Anche la battagliera Meloni, fustigatrice di presunte bugie di altri e dimentica delle proprie.

UN COPIONE GIÀ VISTO

Quello che viene fuori in questi giorni dalla destra è una sorta di ripetizione del copione che l’ha portata sulla cresta dell’onda. Si intimoriscono i risparmiatori, si favoleggia contro l’Europa (poi, come fa Salvini, si tratta sottobanco per entrare nel Partito popolare europeo) e quando si sarà fatta strada negli italiani di esser alla rovina si ritornerà sui migranti. La paura della miseria, l’odio verso la casta europea precedono sempre la xenofobia.

LEGGI ANCHE: La svolta moderata di Salvini è una barzelletta

È il copione della destra degli Anni 20 e 30. Ma non faccio paragoni con Mussolini e Hitler. Salvini e Meloni sono su un livello molto più modesto e saranno d’ora in poi impegnati in una battaglia fratricida per la leadership

PER IL PAESE SI AVVICINA UN’ALBA TERRIBILE

Perché è importante sottolineare che Salvini e Meloni sono due politici che dicono cose non vere, che agitano temi in cui non credono, e che addirittura attaccano posizioni da loro difese precedentemente? Per una ragione assai semplice. Perché, con buona pace di Alessandro Campi, politologo raffinatissimo e critico intelligente della sinistra, con questi due imbroglioni l’alba che si avvicina sarà terribile e porterà al governo, ancora una volta, la peggiore classe dirigente del Paese. Forse è bene che noi italiani si beva l’amaro calice fino in fondo. Forse è necessario immaginare scelte politiche, come quella delle Sardine, che sappiano smontare la catena di odio che viene fuori dagli interventi di Meloni e Salvini. Questa Italia che potrebbe uscire dalle prossime elezioni non sarà più un Paese europeo. Forse non sarà più un Paese. Non sarà un Paese europeo perché chi mai potrà fidarsi di questa classe dirigente di incendiari senza progetto? Non sarà un Paese perché la tentazione del potere assoluto tornerà a farsi viva e troverà una riposta adeguata che dividerà gli italiani.

È NECESSARIO COSTRUIRE UN MURO DI RESISTENZA CIVILE

Non capirò mai perché di fronte a questi due incompetenti che rischiano di prendersi l’Italia non si trovi l’umiltà di unirsi a sinistra. Dai giovani, dai movimenti delle donne questa richiesta viene. È un delitto non capirlo: chi vorrà sottrarsi a questo compito di creare un muro di resistenza civile contro la coppia dei facinorosi porterà grandi responsabilità. Loro non ci porteranno al fascismo. Non non ne sono capaci e noi li fermeremo prima. Ma percorreranno fino in fondo la strada dell’isolamento dell’Italia dall’Europa e della divisione degli italiani. Insisto: i pensosi intellettuali di destra sono soddisfatti? Avete un problema.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Caos M5s, Di Maio isolato anche dai fedelissimi

Il partito naviga a vista. Anche gli uomini più vicini al capo politico sono preoccupati per la tenuta del governo. Il riavvicinamento alla linea barricadera di Di Battista basterà per restare a galla?

Un uomo solo al comando. Ma in questo caso non è Fausto Coppi e c’è veramente poco di epico. Si tratta infatti di Luigi Di Maio.

Il capo politico M5s è in una condizione di crescente isolamento: addirittura i fedelissimi cominciano a manifestare un certo scetticismo sulle fughe in avanti del ministro degli Esteri. Soprattutto quando filtra l’ipotetica rottura con il Partito democratico.

I MESSAGGI DI BONAFEDE

«Non mi piace questo continuo riferimento a far saltare il governo. Noi siamo al governo per lavorare per i cittadini. Ciascuno si prende le responsabilità politiche delle proposte che porta avanti», ha scandito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lanciando un messaggio al Pd (contro le ipotesi di rotture definitive sulla prescrizione), affinché Di Maio intendesse.

Luigi Di Maio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (Getty).

In alcune situazioni, come sullo scudo penale per l’ex Ilva, il capo politico ha pubblicamente evocato la crisi. Altre volte è stata una voce del sen fuggita, e raccolta come indiscrezione, salvo poi essere smentita. Comunque un modo per inviare segnali di fumo ai suoi e agli alleati. E alimentare sospetti.

LEGGI ANCHE: Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

I MALESSERI DI SPADAFORA

La presa di posizione di Bonafede non è passata inosservata. Il Guardasigilli è un fedelissimo del leader che ha voluto confermarlo in via Arenula durante la formazione del Conte II, sfidando le resistenze del Pd. Se uno come lui dissente dalla linea della “minaccia al governo” è una spia che si accende. Le sue affermazioni fanno da sponda alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico, che qualche giorno fa ha invitato a far lavorare il parlamento fino al 2023. Dando una prospettiva di legislatura, l’opzione che preferisce. Un malessere simile è vissuto dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, grande sponsor del Conte II e considerato consigliere molto ascoltato da Di Maio.

Luigi Di Maio con Vincenzo Spadafora.

«Ho ascoltato con attenzione e sono rimasto molto affascinato dal racconto dell’astronauta Maurizio Cheli e ci ho trovato molte analogie con la politica di oggi», ha detto Spadafora il 28 novembre, come riportato dalla Dire. «Per esempio è vero che non puoi scegliere sempre con chi lavorare, che devi saper sopportare delle situazioni difficili e, come sullo Shuttle, è vero che basta premere il pulsante sbagliato per far esplodere tutto. Mi sembra un po’ la situazione in cui ci troviamo anche oggi col governo».

ALLA CAMERA IL M5S ANCORA SENZA GUIDA

Per molti ministri sembra il remake del film visto con il Conte I, quello con Matteo Salvini che minacciava un giorno sì e l’altro pure la fine dell’esecutivo. In un clima del genere anche il sottosegretario alla presidenza, Riccardo Fraccaro, appare in difficoltà. Da sempre è considerato un punto fermo del Movimento a trazione dimaiana, alfiere del taglio del numero dei parlamentari: il capo politico ha fatto di tutto pur di averlo a Palazzo Chigi, compresa la minaccia di far saltare la trattativa (già allora) per la nascita del governo. Così il sottosegretario resta prudente, fedele alla linea, annotando però il malcontento generale. A cominciare dall’insofferenza dei parlamentari: l’elezione del capogruppo alla Camera è diventata una telenovela che va avanti da ottobre, quando Francesco D’Uva ha lasciato l’incarico. L’unica certezza è che il prossimo presidente dei deputati avrà posizioni divergenti dalla leadership. Nell’ultima votazione si sono sfidati Davide Crippa e Riccardo Ricciardi, entrambi non proprio etichettabili come fedelissimi di Di Maio. Intanto c’è il concreto rischio di affrontare passaggi delicati a Montecitorio, dal dibattito sul Mes alla Legge di Bilancio, senza una guida riconosciuta.

Beppe Grillo con Luigi Di Maio in un fermo immagine tratto dal Blog delle Stelle.

DI MAIO E LA RITROVATA (E FORZATA) INTESA CON DI BATTISTA

La situazione non è tornata serena nemmeno dopo l’incontro tra Di Maio e il garante Beppe Grillo. Il faccia a faccia non ha prodotto i risultati auspicati. Appena sono finiti il video e le foto di rito, tutto è tornato in un magma indistinto. Così il ministro degli Esteri, avvertito l’isolamento politico, è stato tentato dal ritorno al passato, alla linea barricadera delle origini. In questa ottica viene letta la ritrovata intesa con Alessandro Di Battista, per cui l’alleanza con il Pd resta il male assoluto. Ed ecco che è stata sposata la strategia di attacco sulle concessioni ad Autostrade, sull’Europa matrigna, che mette sul tavolo il Mes, sulla sfida a Matteo Renzi per il caso Open e la questione delle fondazioni

I RIPOSIZIONAMENTI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO

Continui sommovimenti che preoccupano. «Da noi non esistono correnti», giurano nel M5s. Ed è una realtà: le correnti vere hanno comunque una struttura, dei punti di riferimento. In questo caso è tutto insondabile. Un esempio è il caso del senatore Gianluigi Paragone: sembrava diventato arcinemico di Di Maio, per la sua ostilità all’intesa con i dem. La rinnovata comunanza di vedute con Di Battista modifica però il posizionamento rispetto alla leadership pentastellata. Certo, esiste un’ala riconducibile a Fico, capitanata dal deputato Luigi Gallo, ma non si può definire una rete organizzata. Talvolta, specie sulla riorganizzazione del M5s, le posizioni incrociano quelle dei frondisti, gli ex ministri ed ex sottosegretari che masticano amaro per aver perso il posto al governo. Ma che a differenza di Fico non sono proprio entusiasti del governo con Pd, LeU e Italia Viva. Così diventa difficile avere una mappa chiara degli interlocutori anche per i dem. 

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (Ansa).

SUGGESTIONE PATUANELLI

Di Maio, nel suo essere uomo solo al comando, è inevitabilmente sotto pressione. Tanto che circolano ipotesi di una sostituzione con il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, l’uomo delle emergenze. Da capogruppo al Senato ha risposto colpo su colpo alla Lega, quando l’alleanza era agli sgoccioli, tenendo unito il gruppo. Adesso ha sul tavolo questioni scottanti, come l’ex Ilva e Alitalia, senza subire ricadute di immagine. È pur vero che Patuanelli ha bollato come «gossip» l’ipotesi della sua ascesa alla leadership. Ma non è un mistero che molti, soprattutto i parlamentari, vorrebbero affidargli una nuova emergenza. Il destino del Movimento 5 stelle.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Com’è andato il vertice di governo sul Mes

Sul fondo salva-Stati tutto rinviato all'11 dicembre. Dopo le comunicazioni di Conte al Senato, la maggioranza sarà chiamata a varare una risoluzione comune. Per il M5s potrebbe essere una replica del no alla Tav. Strappo di Renzi. A Gualtieri il mandato di trattare con i partner europei.

Quattro ore lunghe e tese non hanno portato a un accordo, ma a una fumata grigia sul Mes. Il vertice di governo convocato dal premier Giuseppe Conte a poche ore dal nuovo redde rationem con Matteo Salvini in parlamento non ha chiuso la partita del fondo salva-Stati all’interno della maggioranza. Le posizioni di M5s e Pd «sono diverse», ha ammesso Luigi Di Maio. E Conte ha scelto di affidare alle Camere la decisione definitiva sull’ok alla riforma del Meccanismo. La data da tenere d’occhio è l’11 dicembre: dopo le comunicazioni del premier al Senato in vista del Consiglio Ue, la maggioranza sarà chiamata a varare una risoluzione comune. Ed è lì che il governo rischia il baratro. Oggi invece Conte riferirà alla Camera.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

A Palazzo Chigi, al vertice andato in scena nella notte tra l’1 e il 2 dicembre hanno preso parte il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, i capi delegazione di Pd, M5s e Leu, Dario Franceschini, Luigi Di Maio e Roberto Speranza, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e il ministro per gli Affari Ue Enzo Amendola. C’era anche il titolare dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, visto che nella riunione si è parlato anche di un nuovo prestito-ponte per Alitalia.

ITALIA VIVA SI CHIAMA FUORI

A chiamarsi fuori è stata Italia viva. «Non abbiamo nulla su cui litigare, se la vedessero tra di loro. Gli italiani sono stanchi di questi vertici, vogliono risposte», ha spiegato Matteo Renzi. Ma una risposta definitiva, sul Mes, ancora non c’è. «In vista dell’Eurogruppo del 4 dicembre il governo affronterà il negoziato riguardante l’Unione economica e monetaria (completamento della riforma del Mes, strumento di bilancio per la competitività e la convergenza e definizione della roadmap sull’unione bancaria) seguendo una logica di “pacchetto”», hanno fatto sapere fonti di Palazzo Chigi. Specificando che, sulla riforma del fondo salva-Stati, «ogni decisione diventerà definitiva solo dopo che il parlamento si sarà pronunciato».

FRANCESCHINI: «MANDATO FORTE A GUALTIERI»

Ovvero, dopo le risoluzioni che seguiranno alle comunicazioni di Conte in Senato in programma 11 dicembre, in vista del Consiglio Ue decisivo. Palazzo Chigi, in realtà, non parla di rinvio. E, dopo la riunione, è questo il punto che tiene a sottolineare Franceschini: «Bene l’incontro di stasera sul Mes. Nessuna richiesta di rinvio all’Ue ma un mandato che rafforza il ministro Gualtieri a trattare al meglio l’accordo», ha detto l’esponente del Pd. Precisando anche lui che «ovviamente» sarà il parlamento a pronunciarsi in modo definitivo.

DI MAIO: «NESSUNA LUCE VERDE»

Subito dopo, da Palazzo Chigi è uscito Di Maio. E ha tirando acqua al proprio mulino: «Nessuna luce verde è stata data a Gualtieri finché il parlamento non si esprimerà», ha scandito il titolare della Farnesina, anticipando che l’11 dicembre il M5s presenterà una risoluzione in cui si chiederà a Conte di chiedere il miglioramento, al Consiglio Ue di dicembre, dell’intero pacchetto di riforme dell’Unione economica e monetaria. Pacchetto in cui, ha avvertito Di Maio, «c’è tanto da cambiare».

DIECI GIORNI PER TROVARE UNA QUADRA

Dieci giorni, quindi, per trovare una quadra. Dando mandato a Gualtieri di anticipare all’Eurogruppo la trincea italiana. Dieci giorni, per il leader M5s, per trovare una sintesi all’interno dei gruppi parlamentari sul sì a una riforma che vede tanti pentastellati disposti a tutto. Con un rischio: che la risoluzione sul Mes diventi una replica di quanto già visto sulla Tav, un passaggio che anticipò la fine del governo. «Mi auguro che su questa impostazione emergano le differenze macroscopiche che ci sono tra il M5s e il Pd e quindi si finisca con questo esecutivo», ha sottolineato non a caso il senatore Gianluigi Paragone. In tanti, nel Movimento, gli hanno risposto via Facebook. A testimonianza che, dietro il Mes, la partita che si gioca tra i pentastellati è un’altra: se andare avanti oppure no con il governo giallorosso.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il vertice di governo non scioglie il rebus sul fondo salva-Stati

Il M5s prende le distanze: «Non vogliamo una riforma che stritoli il Paese». E il premier Conte si scontra con la Lega. L'Italia dovrà prendere ufficialmente posizione al prossimo Eurogruppo.

Due ore attorno al tavolo per certificare, di fatto, come sul fondo salva-Stati il governo sia ancora diviso. Il vertice che si è svolto a Palazzo Chigi il 22 novembre non ha risolto il nodo del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), che si aggroviglia ulteriormente a pochi giorni dall’Eurogruppo del 4 dicembre, quando l’Italia sarà chiamata a chiarire la sua posizione.

È un nodo che rischia di ingigantirsi e di complicare i rapporti non solo tra Pd e M5s, ma anche tra Roma e Bruxelles. E, non a caso, il premier Giuseppe Conte è costretto a rimettere i panni del mediatore, dispensando assicurazioni: «L’Italia non rischia mai l’isolamento, c’è stato un confronto positivo».

L’atmosfera del vertice, secondo fonti della maggioranza, è stata costruttiva. Ma il M5s, con la sponda di Liberi e uguali, ha voluto mettersi di traverso. Mentre il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si è fatto portavoce dell’ala favorevole all riforma del Meccanismo. La logica del pacchetto, invocata già a giugno da Conte – ovvero accompagnare alla revisione del Mes la creazione di uno strumento di Bilancio per la competitività e la convergenza nell’Eurozona (Bicc) e l’approfondimento dell’Unione bancaria con la garanzia dei depositi (Edis) – per il titolare del Tesoro sarebbe sostanzialmente rispettata, visto che è stata messa in campo una roadmap. Ma il percorso su questi fronti, rispetto alla riforma del Mes, è in evidente ritardo.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

IL M5S SI OPPONE ALLA RIFORMA

Ad ascoltare Gualtieri c’erano anche i rappresentanti di M5s, Liberi e uguali e Italia viva, oltre che del Pd. E Di Maio non ha nascosto la sua linea divergente, spiegando la necessità di ulteriori approfondimenti: «Non vogliamo una riforma che stritoli il Paese», ha detto il leader pentastellato, negando qualsiasi battibecco con il ministro dell’Economia. La linea Di Maio, di fatto, è quella della gran parte dei gruppi pentastellati. All’assemblea congiunta degli eletti, in programma mercoledì 27 novembre, si parlerà anche di questo.

MOSCOVICI INCORAGGIA IL GOVERNO

Il Mes è stato anche al centro degli incontri che il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha avuto a Roma con Conte e con Gualtieri. «Nessuno vuole mettere l’Italia sotto tutela», ha detto il francese, «il governo italiano sa ciò che va fatto».

LA LEGA ATTACCA CONTE

Opposto il punto di vista del leader della Lega, Matteo Salvini: «Non vorrei che Conte avesse venduto la nostra sovranità per tenersi la poltrona. Se fosse andata così, allora saremmo di fronte ad alto tradimento». Parole che hanno irritato non poco Palazzo Chigi: «L’isolamento lo si rischia quando si sparano slogan contro il mondo e non ci si siede ai tavoli». La Lega, però, non molla. E con Claudio Borghi rilancia: «Lo sa Conte che il M5s è per la liquidazione del trattato?».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

L’impatto del voto “emiliano” di Rousseau sul governo Pd-M5s

Di Maio dopo la scelta degli iscritti di presentarsi alle Regionali: «Nessuna ripercussione per l'esecutivo». E ribadisce: «Parlamentari ed esponenti locali ci chiedono di non allearci». Ma tra i dem sono al lavoro i "pontieri". Perché si teme una dispersione di preferenze che penalizzerà Bonaccini. Una cena con tutti i ministri ha provato a smorzare le tensioni.

E adesso? Rousseau ha votato, la linea di Luigi Di Maio è stata sconfessata. Gli iscritti al Movimento 5 stelle chiamati a esprimersi hanno deciso che bisogna correre alle elezioni regionali del 26 gennaio 2020 in Emilia-Romagna e Calabria, contrariamente a quanto voleva il capo politico grillino. Una scelta che avrà ripercussioni sul governo giallorosso? Lo stesso Di Maio ha scacciato fantasmi: «No, non ce ne saranno», ha detto al termine della cena con gli altri ministri. Ma le nubi sull’esecutivo restano.

DI MAIO: «TUTTI I NOSTRI CI CHIEDONO DI NON ALLEARCI»

Innanzitutto il M5s vuole presentarsi da solo. Anche se su questo aspetto non è stato interpellato Rousseau: «Non lo facciamo votare perché tutti i nostri parlamentari e i consiglieri hanno chiesto di non allearci alle Regionali», ha ribadito Di Maio.

BOCCIA: «NOI ANDIAMO AVANTI E VINCIAMO ANCHE DA SOLI»

Eppure nel Partito democratico qualcuno continua a lasciare la porta aperta. Come il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: «Allearsi con noi? Lo spero per loro. Noi andiamo avanti e vinciamo anche da soli. Stefano Bonaccini è stato il presidente migliore per l’Emilia-Romagna».

SCAMBI DI BATTUTE ALLA CENA DELLE TENSIONI

Nella serata di giovedì 21 novembre il premier Giuseppe Conte ha riunito i ministri a cena. E ovviamente si è parlato anche della scelta del M5s di correre alle Regionali. Stando a quanto raccontato da più di un partecipante, tra gli esponenti dei diversi partiti di governo ci sarebbero stati scambi di battute, dal tono per lo più scherzoso.

TIMORI PER LA DISPERSIONE DEL VOTO ALLE REGIONALI

Ma, al di là delle dichiarazioni, qualche preoccupazione è trapelata per le ripercussioni che potrebbe avere anche sul governo la scelta annunciata da Di Maio di correre da soli (per parlare alla stampa il leader M5s ha lasciato il Consiglio dei ministri a riunione in corso). I dem temono che la dispersione del voto possa favorire i candidati del centrodestra, in particolare in Emilia-Romagna («Speriamo di no», ha commentato un ministro).

PONTIERI DEM AL LAVORO PER INDURRE A UN RIPENSAMENTO

Ma più d’uno nel Pd confida che i “pontieri” in azione aprano una discussione nel Movimento, che induca il ripensamento. Per quacuno «è vero che gli esponenti locali hanno chiesto a Di Maio di non allearsi, ma tra i loro dirigenti la questione è aperta: tanti volevano escludere la candidatura proprio per evitare i rischi che la scelta di correre divisi comporta anche per il governo. Vedremo nei prossimi giorni». Ma un collega è stato più pessimista: «Mi sembra un caso chiuso».

LO STESSO RISTORANTE DOVE CONTE PORTÒ SALVINI

La cena, al di là di questo, come è andata? Si è inserita tra un Consiglio dei ministri serale e un vertice mattutino. Conte ha invitato fuori la sua squadra di governo in un ristorante nel centro di Roma dove un anno prima portò Di Maio e Matteo Salvini per placare lo scontro che si era aperto sulla manovra. Non andò benissimo alla fine. «Le sorti dei governi non si decidono a tavola», ha risposto sorridendo Conte a chi gli ha sottolineato che il precedente non faceva ben sperare.

VOLTI SCURI TRA I MINISTRI GRILLINI

Anche questa volta in effetti i motivi di tensione tra alleati non sono mancati, a partire dal voto su Rousseau. A tavola si è parlato di Emilia-Romagna e Calabria, sono state fatte battute, ci si è punzecchiati. All’ingresso, subito dopo il Cdm, si è notato qualche volto scuro, soprattutto tra i ministri M5s. A microfoni spenti più d’uno ha ammesso che il voto di gennaio è delicato anche per la tenuta del governo.

TUTTO OFFERTO DA CONTE E FIORI ALLE MINISTRE

Il premier, che ha offerto la cena a tutti e regalato fiori alle ministre, è stato l’ultimo ad arrivare, intorno alle 23, al termine di un lungo Cdm, e l’ultimo ad andare via, verso l’una. Tavolo per 22: c’erano i rappresentanti di tutti i partiti. E a un certo punto è spuntata anche la torta, per festeggiare il compleanno di Lorenzo Guerini, con “tanti auguri a te” cantato in coro tra applausi e risate.

ARCHIVIATA L’IDEA DI UN CONCLAVE DI MAGGIORANZA

L’idea era quella di fare squadra: Conte aveva annunciato un “conclave” con i leader di maggioranza, forse un’idea del tutto archiviata. Per ora è bastata una cena post-Cdm, a base di amatriciana e cicoria. I ministri sono arrivati e andati via alla spicciolata, a piedi, in auto o in vespa come il dem Peppe Provenzano. Di Maio è stato il primo a entrare, poco dopo è toccato alla renziana Teresa Bellanova: tra gli ultimi Dario Franceschini («Che c’è di strano se ceniamo insieme?»), Luciana Lamorgese, Roberto Gualtieri e infine Conte.

DOSSIERI SCOTTANTI SU ILVA, ALITALIA E MES

Nell’attesa si è bevuto prosecco. E il presidente del Consiglio ha scherzato con i giornalisti: «Vi do una notizia, ho cucinato io», prima di assicurare che «non c’è alcun litigio, nessuna tensione». Ma i dossier scottanti sono tanti, dal voto di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria che fa temere ripercussioni sul governo, a Ilva e Alitalia, fino al Mes, di cui si deve discutere in un vertice mattutino convocato alle 8.30 di venerdì. All’uscita dal ristorante si ostentavano sorrisi, dentro si brindava e si scherzava. Basta una cena per risolvere i problemi e iniziare davvero a fare squadra? Conte ha cercato ancora la battuta: «Se non ne basta una, ne facciamo due».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

I punti del possibile disgelo fra ArcelorMittal e governo sull’ex Ilva

Un vertice riservato avrebbe preparato il documento per far decollare il negoziato. Quattro temi chiave: ripristino dello scudo penale; funzionalità dell'Altoforno 2; occupazione con 1 miliardo di investimenti anche grazie a Intesa e forza lavoro assorbita da Cdp. Le indiscrezioni.

Come risolvere lo stallo sull’ex Ilva, provocando il disgelo tra il governo e i franco-indiani di ArcelorMittal? Forse un passo avanti c’è già stato, durante un vertice riservato avvenuto martedì 19 novembre al Tesoro. L’obiettivo? Sottoscrivere un cosiddetto memorandum of understanding in quattro punti da consegnare ai giudici di Milano nell’udienza convocata per mercoledì 27 per chiedere una proroga fino a Natale.

NEGOZIATO PRONTO A «DECOLLARE»

La rivelazione è stata fatta da Il Messaggero, secondo cui è «pronto il documento che farà decollare il negoziato» in vista della riunione di venerdì 22 a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte.

1. CERTEZZA DEL DIRITTO: RIPRISTINO DELLO SCUDO

Cosa prevedono i punti? Innanzitutto «la certezza del diritto mediante il ripristino dello scudo penale». Anche se il presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, ha ribadito che «è un pretesto» per Mittal e che non c’è alcuna «motivazione» per reinserirlo.

2. FUNZIONALITÀ DELL’ALTOFORNO 2

Il secondo punto riguarda «la funzionalità dell’Altoforno 2, che deve poter tornare a produrre adeguatamente».

3. OCCUPAZIONE: RILANCIO E AMMORTIZZATORI

Il punto tre è dedicato al tema dell’occupazione, con «i 5 mila esuberi che l’azienda prevede» e con gli ammortizzatori: sono infatti previste misure «a supporto del rilancio del territorio mediante una combinazione pubblico-privato per creare condizioni di lavoro sostenibili».

In questo ambito che il governo avrebbe allertato Intesa SanPaolo, che è il principale creditore dell’amministrazione straordinaria


Le indiscrezioni de Il Messaggero

Secondo il quotidiano «l’ultimo punto è uno dei passaggi più delicati perché necessita di circa 1 miliardo di investimenti: ed è in questo ambito che il governo avrebbe allertato Intesa SanPaolo, che è il principale creditore dell’amministrazione straordinaria» e «i banchieri milanesi avrebbero dato disponibilità a esaminare un progetto concreto», quindi «Intesa potrebbe anche rafforzare l’impegno».

4. RICONVERSIONE: FORZA LAVORO ASSORBITA DA CDP

Il punto quattro, infine, «riguarda la tecnologia legata alla riconversione del piano ambientale: comporta una riduzione della forza lavoro che potrebbe essere assorbita dalla Cassa depositi e prestiti mediante misure compensative, cioè schierando Cdp Immobiliare attiva nell’housing sociale. Gli immobili di proprietà potrebbero ospitare gli sfollati del rione Tamburi».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

I sondaggi politici elettorali del 15 novembre 2019

La rilevazione Emg: nelle città sopra i 60 mila abitanti vincono i giallorossi, in quelle più piccole il centrodestra. Solo per Pd e Forza Italia dati omogenei su tutto il territorio.

I partiti di governo si affermano nei Comuni medio grandi, mentre il centrodestra è consolidato in quelli con meno abitanti. È quello che emerge da una rilevazione effettuata da Noto Sondaggi ed Emg Acqua, commissionata da Asmel, l’Associazione nazionale per la Modernizzazione degli Enti Locali che rappresenta oltre 2.800 Comuni italiani.

I PARTITI DI GOVERNO PIÙ FORTI NEI CENTRI SOPRA I 60 MILA ABITANTI

Secondo il sondaggio, nei Comuni con oltre 60 mila abitanti, la coalizione giallo-rossa raccoglie il 49,9% dei consensi, che crollano di oltre 8 punti, al 41,3%, nei centri sotto questa soglia. In questi ultimi il centrodestra si afferma con il 52,1% delle intenzioni di voto, che scendono al 43,5% nei Comuni più grandi.

PER PD E FORZA ITALIA DATI OMOGENEI SU TUTTO IL TERRITORIO

Unici partiti con percentuali identiche nei Comuni piccoli e grandi sono il Partito Democratico, che può contare sul 18,7% e Fratelli d’Italia con il 6,6%; mentre le differenze più marcate sono quelle della Lega, che perde 7 punti nel confronto tra Comuni piccoli (35,6) e grandi (28,6) e Italia viva, che al contrario raddoppia la percentuale nei grandi (9,0) a paragone con i piccoli (4,7). Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle si riscontrano quasi 8 punti di differenza tra il 21% nelle grandi città e il 13,5% nei Comuni con meno di 10 mila abitanti.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il governo costretto a prendere tempo sull’Ilva

ArcelorMittal non mostra segnali d'apertura. Conte rinvia al 18 novembre il Consiglio dei ministri. Il M5s conferma il no allo scudo penale. E i commissari non hanno ancora depositato il ricorso contro la ritirata della multinazionale. Intanto i primi 50 operai dell'indotto sono rimasti senza paga.

La soluzione della crisi dell’Ilva passa per ArcelorMittal, che rappresenta il piano «a, b, c e d».

O almeno, questa rimane la posizione ufficiale del governo.

Anche se l’azienda, per ora, non mostra alcun segnale di apertura e si prepara a dire addio a Taranto e agli altri stabilimenti italiani.

LEGGI ANCHE: Chi è Lakshmi Mittal, il Paperone indiano che vuole lasciare l’Ilva

Per l’esecutivo, tuttavia, gli estremi per il recesso dal contratto d’affitto con obbligo d’affitto non ci sono. A decidere saranno i giudici: la prima udienza al Tribunale di Milano è fissata per il 6 maggio. Il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha ribadito in conferenza stampa che la multinazionale «deve mantenere gli impegni presi» e «deve tornare a sedersi al tavolo». Anche passando per il potere giudiziario, se necessario, visto che i commissari straordinari dell’Ilva entro venerdì 15 novembre intendono depositare un ricorso d’urgenza con cui provare a fermare la ritirata di ArcelorMittal.

A TARANTO I PRIMI OPERAI DELL’INDOTTO SENZA PAGA

La situazione a Taranto, intanto, peggiora di ora in ora: in città si registra la prima cinquantina di operai dell’indotto rimasti senza paga. E otto consigli di fabbrica, riuniti a Genova, invocano uno sciopero europeo per la crisi della siderurgia. Nella maggioranza la tensione è altissima: gli emendamenti presentati da Italia viva al decreto fiscale per reintrodurre lo scudo penale sono stati giudicati inammissibili dalla presidente della commissione Finanze, la pentastellata Carla Ruocco. E nel M5s i senatori – soprattutto quelli pugliesi, a partire da Barbara Lezzi – non mollano.

IL MANDATO DI PATUANELLI E IL NO DI CINQUE SENATORI M5S

Tanto che Patuanelli, dopo la riunione fiume a Palazzo Madama, è costretto a presentarsi anche dai deputati per spuntare almeno quella che lui stesso definisce una «disponibilità a discuterne», se nel corso della trattativa o del processo dovesse riemergere la necessità dell’immunità. Cinque senatori, in ogni caso, hanno votato contro il documento proposto dal ministro dello Sviluppo, negandogli il mandato a tracciare la linea sull’Ilva. Patuanelli ha proposto di slegare il dossier dalla tenuta del governo, escludendo voti di fiducia. E ha tratteggiato un piano di medio periodo che punti alla decarbonizzazione dell’acciaieria, valutanto anche l’ipotesi di una legge speciale per Taranto per accelerare gli interventi sul territorio.

RINVIATO IL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Di sicuro la trattativa con ArcelorMittal per il momento non esiste. Si aspetta, probabilmente, l’esito del ricorso, non ancora depositato. E il premier Giuseppe Conte è costretto a prendere tempo, rinviando a lunedì 18 novembre il Consiglio dei ministri chiamato a mettere in fila le proposte per il cosiddetto Cantiere Taranto, cioè gli interventi a più ampio raggio per il rilancio della città, al di là delle vicende legate alla fabbrica.

IL NODO DEGLI ESUBERI

Il governo punta a ridurre al minimo, se non ad azzerare, la richiesta di 5 mila esuberi avanzata dall’azienda per rimanere in Italia. Duemila potrebbero essere gestibili attraverso la cassa integrazione, ma andrebbe riscritto il piano industriale di dieci mesi fa che, come sottolineato più volte da Patuanelli, «non è stato rispettato». L’esecutivo potrebbe mettere sul piatto anche un ingresso di Cassa depositi e prestiti, con l’8-10%, a puntellare l’operazione.

LA STRADA DELLA NAZIONALIZZAZIONE TEMPORANEA

Sempre Cdp potrebbe essere, d’altra parte, il perno attorno a cui ricreare una nuova cordata di privati. Per il subentro potrebbe rendersi necessario prima un passaggio dell’Ilva alla gestione commissariale, poi una nuova gara. Ma la legge Marzano potrebbe consentirebbe di saltare questo passaggio. Resta infine la strada della nazionalizzazione ‘a tempo’, coinvolgendo controllate di Cdp per superare i vincoli di statuto della Cassa: un’operazione che l’Unione europea potrebbe consentire, visto che gli aiuti di Stato interverrebbero in un’area economicamente “depressa”.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Chi è Lakshmi Mittal, il Paperone indiano che vuole lasciare l’Ilva

Il Ceo del colosso anglo-indiano ArcelorMittal è tra i 100 uomini più ricchi al mondo. Profilo dell'imprenditore originario del Rajastahan in fuga da Taranto.

È l’uomo che sta dando del filo da torcere al governo Conte nella partita per l’Ilva di Taranto. Ma chi è esattamente Lakshmi Mittal, il paperone che viene dal Rajasthan? Classe 1950, sposato e padre di due figli, vive a Londra (Kensington) ed è Ceo di ArcelorMittal, di cui detiene il 37,39%. Il gruppo è il più grande produttore di acciaio: possiede impianti in oltre 60 Paesi, siti industriali in 18 e fattura quasi 80 miliardi di euro l’anno. Numeri che chiamano altri numeri: ArcelorMittal ha 209 mila dipendenti in tutto il mondo e vanta una produzione dichiarata (nel 2018) di 96,42 milioni di tonnellate di acciaio (a fronte di una capacità produttiva di circa 118 milioni di tonnellate).

LEGGI ANCHE: ArcelorMittal è pronta a lasciare l’ex Ilva

MITTAL FONDÒ LA PRIMA AZIENDA A 26 ANNI

Mr Mittal, al 91esimo posto nella classifica 2018 dei super ricchi stilata da Forbes con una ricchezza di 13 miliardi e 600 mila dollari, è un “figlio d’arte”. E la sua storia con l’acciaio parte da lontano. Nel 1960, si trasferì con la famiglia a Calcutta dove suo padre Mohanlal gestiva un’acciaieria. La stessa in cui Mittal mosse i primi passi nel settore. Dopo la laurea, appena 26enne, si mise in proprio. Fondò un’azienda in Indonesia e nel 1989 acquisì l’Iron & Steel Company, uno stabilimento siderurgico sull’orlo del fallimento a Trinidad e Tobago (Stato dell’America centrale). La formula si rivelò vincente. In un solo anno Mittal raddoppiò la sua produzione e cominciò a comprare in tutto il mondo acciaierie (soprattutto statali) in forte crisi.

LA NASCITA DEL COLOSSO ARCELORMITTAL

Nel 2006 la Mittal Steel Company acquisì con un’offerta pubblica Arcelor (nata a sua volta nel 2002, dall’unione della spagnola Aceralia, con la francese Usinor e la lussemburghese Arbed), dopo il fallimento dell’accordo tra Arcelor e la russa Severstal. Fu così che nacque ArcelorMittal. Un gigante che attualmente copre il 10% della produzione globale di acciaio. Il quartier generale del gruppo si trova in Lussemburgo ed è quotato nelle Borse di Parigi, Amsterdam, New York, Bruxelles, Lussemburgo e Madrid. Mittal lo gestisce insieme al figlio Adyta da Londra. L’uomo dell’acciaio dal 2008 siede anche al tavolo del Consiglio d’amministrazione della Goldman Sachs.

LEGGI ANCHE: Arcelor-Mittal vuole 5 mila esuberi per tenersi l’ex Ilva

IL “TAJ MITTAL” DI KENSINGTON

Sposato con Usha, Lakshmi Mittal, oltre a Adyta ha una figlia: Vanisha. Per dare un’idea della ricchezza di cui dispone basta ricordare che la residenza di famiglia a Kensington Palace Gardens è una reggia di 5 mila metri quadrati, ed è talmente sontuosa da essersi guadagnata il soprannome di Taj Mittal. Al momento dell’acquisto, 10 anni fa, con i suoi 120 milioni di euro risultava l’abitazione più costosa del mondo. Al suo interno conta 12 camere da letto, una piscina al coperto, bagni turchi e un parcheggio per 20 auto. Mittal non ha badato a spese nemmeno per il matrimonio della nipote, Shrishti Mittal: tre giorni di festa costati circa 50 milioni di sterline. Ulteriori dettagli non si conoscono. I 500 invitati hanno infatti dovuto firmare accordi di riservatezza.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Confindustria boccia la manovra del governo giallorosso

Il giudizio degli imprenditori: «È insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Nel mirino soprattutto le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali.

Una manovra «insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Confindustria ha bocciato in parlamento la legge di bilancio presentata dal governo giallorosso. Gli imprenditori, rappresentati dal direttore generale dell’associazione Marcella Pannucci, non hanno usato mezzi termini: «Manca un disegno di politica economica capace di invertire la tendenza negativa. Anzi, in alcuni casi, si produce un effetto opposto».

LEGGI ANCHE: Ecco quanto il governo incasserà e perderà dalla manovra

Nel mirino ci sono soprattutto la tassa sulla plastica e l’aumento delle imposte sulle auto aziendali. La prima, pur comportando benefici ambientali, secondo Confindustria «penalizza i prodotti e non i comportamenti». Dunque «rappresenta unicamente una leva per rastrellare risorse», «danneggia pesantemente un intero settore produttivo» e «determina un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo, contribuendo a indebolire la domanda interna». L’impatto sulla spesa delle famiglie viene stimato in «circa 109 euro all’anno».

LEGGI ANCHE: Di Maio difende la manovra

Ancora più dura la presa di posizione contro l’innalzamento della tassazione sulle auto aziendali: «Rappresenta una vera e propria stangata per circa due milioni di lavoratori, oltre a incidere su un settore economico, quello dell’automotive, già penalizzato su altri fronti. Di fatto si tassa un bene già tassato e lo si fa intervenendo sulla busta paga dei dipendenti e sugli oneri contributivi dei datori di lavoro». Una «contraddizione» anche rispetto al «condivisibile» taglio del cuneo fiscale, che costituisce al contrario uno dei pochi «interventi positivi» contenuti nella manovra.

LEGGI ANCHE: Sulle modifiche alla manovra s’infiamma lo scontro Zingaretti-Renzi

In conclusione, se la disattivazione delle clausole di salvaguardia era «necessaria per non deprimere i consumi», l’inasprimento della tassazione «finisce comunque per ripercuotersi, con impronta settoriale, sul consumo di specifici beni e servizi: dalla plastica monouso alle bevande zuccherate, passando per i giochi, i servizi digitali, i tabacchi e i prodotti accessori, per finire alle auto aziendali». Un’azione di bilanciamento «irragionevole per il mondo produttivo».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Confindustria boccia la manovra del governo giallorosso

Il giudizio degli imprenditori: «È insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Nel mirino soprattutto le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali.

Una manovra «insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Confindustria ha bocciato in parlamento la legge di bilancio presentata dal governo giallorosso. Gli imprenditori, rappresentati dal direttore generale dell’associazione Marcella Pannucci, non hanno usato mezzi termini: «Manca un disegno di politica economica capace di invertire la tendenza negativa. Anzi, in alcuni casi, si produce un effetto opposto».

LEGGI ANCHE: Ecco quanto il governo incasserà e perderà dalla manovra

Nel mirino ci sono soprattutto la tassa sulla plastica e l’aumento delle imposte sulle auto aziendali. La prima, pur comportando benefici ambientali, secondo Confindustria «penalizza i prodotti e non i comportamenti». Dunque «rappresenta unicamente una leva per rastrellare risorse», «danneggia pesantemente un intero settore produttivo» e «determina un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo, contribuendo a indebolire la domanda interna». L’impatto sulla spesa delle famiglie viene stimato in «circa 109 euro all’anno».

LEGGI ANCHE: Di Maio difende la manovra

Ancora più dura la presa di posizione contro l’innalzamento della tassazione sulle auto aziendali: «Rappresenta una vera e propria stangata per circa due milioni di lavoratori, oltre a incidere su un settore economico, quello dell’automotive, già penalizzato su altri fronti. Di fatto si tassa un bene già tassato e lo si fa intervenendo sulla busta paga dei dipendenti e sugli oneri contributivi dei datori di lavoro». Una «contraddizione» anche rispetto al «condivisibile» taglio del cuneo fiscale, che costituisce al contrario uno dei pochi «interventi positivi» contenuti nella manovra.

LEGGI ANCHE: Sulle modifiche alla manovra s’infiamma lo scontro Zingaretti-Renzi

In conclusione, se la disattivazione delle clausole di salvaguardia era «necessaria per non deprimere i consumi», l’inasprimento della tassazione «finisce comunque per ripercuotersi, con impronta settoriale, sul consumo di specifici beni e servizi: dalla plastica monouso alle bevande zuccherate, passando per i giochi, i servizi digitali, i tabacchi e i prodotti accessori, per finire alle auto aziendali». Un’azione di bilanciamento «irragionevole per il mondo produttivo».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Col voto anticipato Renzi sparirebbe dalla scena politica

In un'intervista a Repubblica il leader di Italia viva implora di non far cadere il Conte bis. Sa che se si andasse a elezioni ora per lui sarebbe finita.

Matteo Renzi alla Repubblica dell’8 novembre dice che il voto anticipato sarebbe un suicidio, soprattutto annichilirebbe Pd e Italia viva separandoli definitivamente. Per il resto l’intervista è solo autopromozione.

È del tutto evidente che Renzi abbia capito che tirando la corda questa può spezzarsi e che dopo Giuseppe Conte c’è solo il voto e che il voto ravvicinato dopo il Conte 2 porta al governo Salvini prima ancora che si possano manifestare appieno i primi cenni di una competition fra lui e Giorgia Meloni alla quale i sondaggi danno già il 10%.

Detto tra parentesi, questo dato della Meloni richiede una riflessione. Perché dice che c’è una destra che torna a casa, avendone trovata una e segnala un trend che ha accompagnato tutte le altre avventure precedenti, come quelle di M5s e Lega, cioè dapprincipio una lenta ma inesorabile ascesa, infine una esplosione nel voto. Non so se accadrà, so solo che la descrizione di una destra pacificata che va verso la vittoria e che con serenità governa è una sciocchezza come l’idea che il primo Conte dovesse durare 20 anni.

IL PD SE CORRESSE DA SOLO POTREBBE OTTERE IL 20% DEI VOTI

Torniamo a Renzi. Al medesimo sfuggono due ipotesi di lavoro che sono davanti al Pd nel caso si rompesse l’alleanza: che cinque stelle e Italia viva rompano talmente i cabasisi al povero Nicola Zingaretti da costringerlo a far saltare il tavolo. Oppure, altra soluzione, che Matteo Salvini si “compri” un po’ di deputati grillini facendo crollare l’attuale maggioranza. Il Pd messo alle strette potrebbe andare al voto da solo o con pochi alleati al centro e a sinistra dichiarando di aver fatto di tutto per dare una mano al Paese dopo l’estate alcolica di Salvini e l’autunno giovanilistico di Renzi e Luigi Di Maio. Potrebbe assestarsi su una cifra intorno al 20% dei voti o poco più che è il dato di molte socialdemocrazie europee e da qui potrebbe tentare la risalita avendo come vantaggio di non avere in parlamento nessun renziano, Renzi compreso, e pochi pentastellati, ma non Di Maio.

SERVE UNA COALIZIONE NUOVA DA OPPORRE AI SOVRANISTI

Il Pd potrebbe, soluzione che io suggerisco, affrontare il trauma della chiusura anticipata della legislatura facendo una sorta di Big bang, cioè formando un cartello elettorale in cui si scioglierebbero i partiti e si darebbe vita a una coalizione di italiani che non vogliono prender ordini da Vladimir Putin, che non vogliono svendere le imprese ai francesi, che vogliono mantenere una società industriale di nuovo tipo, avendo al centro il tema di lavori straordinari e di una operazione sul cuneo fiscale, non da rimandare come vuole Renzi, ma da rendere più efficace. Di fronte alla minaccia di destra con una coalizione di italiani veri. Direi risorgimentale e digitale. Anche in questo caso Renzi e i grillini andrebbero a ramengo e ci sarebbe la possibilità di accogliere convergenze fra la società civile che è stufa di politicanti come i due Mattei e di signori o signorine come Di Maio e Barbara Lezzi.

PER ORA RENZI ELETTORALMENTE NON ESISTE

Renzi vuole evitare queste due soluzioni? Sia costruttivo. Deve semplicemente togliersi dalla testa ciò che lo ha mosso negli anni dell’ascesa, del successo e della sua attuale fragile resurrezione. Cioè che la sinistra, e in particolare gli ex comunisti, quelli non sbianchettati come la sua Teresa Bellanova, non sono un deposito di consensi da saccheggiare ostentando disprezzo. Renzi elettoralmente, per ora, non esiste. È figlio degli errori della sinistra non della sua evoluzione.

Chi era ossessionato da Massimo D’Alema fra un po’ sarà fuori dalla politica italiana

Non è caduto perché la sinistra lo voleva morto, ma perché lui voleva uccidere ogni ombra che venisse dalla sinistra. Renzi ha bisogno di fare chiarezza mentale nei suoi pensieri. Il prossimo voto, e la prossima sconfitta, diranno che chi ha difeso la Ditta, essendo così colpevole di coservatorismo, tuttavia attrae ancora una buona parte di italiani, chi era ossessionato da Massimo D’Alema fra un po’ sarà fuori dalla politica italiana. In sintesi, se la attuale coalizione non è in grado di emettere un solo suono dignitoso, lasci il fiato per le trombe del ritiro. Un ritiro ordinato e pieno di idee per il futuro, può almeno salvare la bandiera.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Stallo sull’ex Ilva, Conte non esclude la nazionalizzazione

I vertici di ArcelorMittal non mandano alcun segnale. Il premier si prepara alla «battaglia legale del secolo» e valuta l'intervento pubblico. Ma i costi scoraggiano anche il ministero dello Sviluppo.

A 24 ore di distanza dalla drammatica conferenza stampa con cui il governo ha fatto sapere che ArcelorMittal vuole 5 mila esuberi per tenersi l’ex Ilva, non si registrano passi avanti che lascino intravedere la possibilità di uscire dallo stallo.

LEGGI ANCHE: Il governo in bilico sulla partita ex Ilva

I vertici dell’azienda non arretrano di un millimetro e non mandano alcun segnale, mentre il premier Giuseppe Conte ha aperto un tavolo permanente di crisi con il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, il presidente della Provincia, Giovanni Gugliotti, e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Preservare il polo siderurgico «è strategico per il Paese» e lo scontro in Tribunale andrebbe scongiurato. Ma se fosse inevitabile “l’avvocato del popolo” assicura che l’esecutivo ha «tutti gli strumenti giuridici» per affrontare quella che definisce «la battaglia legale del secolo».

PRIMO STEP LA GESTIONE COMMISSARIALE

Conte ha fatto un appello affinché «tutto il sistema-Italia risponda con una voce sola, senza polemiche o sterili disquisizioni». E non ha escluso l’ipotesi di una nazionalizzazione temporanea: «Stiamo già valutando tutte le possibili alternative». In ogni caso, come primo step, il disimpegno di ArcelorMittal porterebbe alla gestione commissariale degli impianti da parte del ministero dello Sviluppo economico con dei prestiti-ponte. I sindacati, da parte loro, giocano la carta dello sciopero: ne hanno proclamato uno di 24 ore in tutti gli stabilimenti ex Ilva, da Taranto a Genova, a partire dalle 7 di venerdi 8 novembre.

IL PESO DELL’INTERVENTO DELLO STATO SUI CONTI PUBBLICI

Ma il punto è che la trattativa con ArcelorMittal al momento non esiste. E nel governo non c’è nemmeno la volontà a piegarsi alla multinazionale. L’unica concessione resta lo scudo penale per il risanamento ambientale, cui l’azienda ha già detto no. Per questo a Palazzo Chigi si preparano al peggio e nella maggioranza si discute di nazionalizzazione. Con due appendici non di poco conto: il sì dell’Europa, tutt’altro che scontato; e il peso dell’eventuale operazione sui conti pubblici, sul quale anche al ministero dello Sviluppo economico circola un certo scetticismo.

Arcelor Mittal è una multinazionale estera che ha firmato un contratto con lo Stato impegnandosi ad assumere 10.500…

Posted by Luigi Di Maio on Thursday, November 7, 2019

PD E M5S DAVANTI A UN BIVIO

Intanto nel Pd aumentano le pressioni interne di chi vuole una rottura con il M5s subito dopo la manovra, dunque prima del voto in Emilia-Romagna. Quanto ai pentastellati, il capo politico Luigi Di Maio si ritrova con il partito a un passo dall’implosione. Non a caso Roberto Fico ha cercato di gettare acqua sul fuoco, mentre Davide Casaleggio – messo nel mirino dal dissenso interno – ha incontrato alcuni parlamentari e non è escluso nelle prossime ore un faccia a faccia con lo stesso Di Maio. Il ministro degli Esteri, la prossima settimana, riunirà tutti i deputati e i senatori. Sarà un primo assaggio del grande bivio che si pone davanti al M5s: cementare l’alleanza di governo con il Pd oppure far saltare il banco, consegnando il Paese alla Lega di Matteo Salvini.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Salvini, ma soprattutto Meloni, si stanno bevendo il governo Conte

La maggioranza è spaccata e non c’è un solo provvedimento del governo che parli agli italiani. Così le destre si rafforzano. Il Pd prenda coraggio, rompa con M5s e Italia viva e proponga una coalizione di salvezza nazionale guidata da Draghi.

Le cronache politiche raccontano che il Pd è molto arrabbiato per lo stato delle cose e vorrebbe rompere con M5s e Italia viva.

Poi leggi l’intervista a Dario Franceschini sul Corriere della Sera e ti trovi improvvisamente catapultato in una crisi politica che assomiglia a quelle che piacevano tanto ai democristiani.

Franceschini propone che fra gli alleati ci sa lealtà, un comune mission politica, vanta successi inesistenti del governo, elogia Giuseppe Conte, sostiene che si supererà gennaio fino ad arrivare alla fine legislatura e, forse con una punta di macabro umorismo, dice che vincendo le prossime elezioni questo mostro Pd-M5s-Italia Viva possa andare ancora più lontano. Solo del prossimo inquilino del Quirinale non vuole parlare perché, come si dice, de te fabula narratur.

IL GOVERNO GIALLOROSSO NON PARLA AGLI ITALIANI

È bene che il Pd si incazzi di meno e faccia più fatti, a mente fredda. L’impopolarità del governo è il termometro che decide se tenerlo in vita o no. L’impopolarità è nata dal fatto che l’operazione “cambio di maggioranza” non è piaciuta ed è enfatizzata dalla circostanza che non c’è un solo provvedimento del governo che parli agli italiani. Avevo sperato che si potesse dire che Roberto Gualtieri aveva abbattuto il cuneo fiscale mettendo soldi nelle tasche dei lavoratori. Oggi spero che si possa dire che Taranto (ragazzi: Taranto , cioè una delle maggiori città italiane), possa essere salvata in un connubio possibile fra lavoro e sicurezza. Invece la Mittal scappa, quella indefinibile ex ministra Barbara Lezzi dice cose da manicomio, il grillismo diffuso è felice di trasformare la città operaia in un grande giardinetto per poveri e anziani.

SERVE UNA COALIZIONE DI SALVEZZA NAZIONALE GUIDATA DA DRAGHI

Se le cose stanno così e andranno così, ed io sono sicuro che andranno persino peggio, il Pd deve smettere di incazzarsi perché deve dire al Paese: «Ci abbiamo provato, con Luigi Di Maio e Matteo Renzi non si costruisce nulla, Matteo Salvini sapete dove vi stava portando, io (nel senso di io-Pd) propongo alle persone di buona volontà di fare una coalizione di salvezza nazionale chiedendo a Mario Draghi di guidarla. Vogliamo rottamare tutto quello che c’è e che viene tutto da lontano, Pd compreso». Questo sarebbe un discorso che agli italiani potrebbe piacere.

Da sinistra, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente uscente della Bce, Mario Draghi, e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri.

Siamo in un Paese che ha dimenticato la Prima repubblica e si è rotto le scatole della Seconda e ormai anche di grillismo e fra un po’ presenterà il conto a Salvini preferendogli Giorgia Meloni. Che fa il Pd? Chiede un vertice di governo, vuole una cabina di regia, pensa a un caminetto? Suvvia! Io sono un ammiratore ex post della Dc a cui dobbiamo tante belle cose ma anche tanti guai attuali, ma la cultura democristiana era ben più profonda della caricatura con cui la propone il caro Franceschini. Vuole fare un patto con Di Maio e Renzi? E perché mai loro dovrebbero farlo. Uno è alla canna del gas, l’altro vuole la rovina comune per lucrare sulle macerie del Pd. È arrivato il momento di rubare l’idea a Beppe Grillo: un bel vaffa (ovviamente anche a lui).

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il governo in bilico sulla partita ex Ilva

Il premier Conte richiama la maggioranza all'unità dopo le frizioni con ArcelorMittal, che per proseguire con l'acquisizione dell'acciaieria chiede ora il taglio di 5 mila posti di lavoro.

Sull’immunità per ArcelorMittal restano intatte le tensioni nella maggioranza e nel Movimento 5 stelle. «Lo scudo penale è stato offerto ed è stato rifiutato. Il problema è industriale», sottolinea il premier Giuseppe Conte dopo l’incontro con i vertici indiani, riferendo che dall’azienda è arrivata una richiesta di «5 mila esuberi». Una condizione che l’azienda franco-indiana pone non ritenendo sostenibile un così elevato numero di dipendenti. Conte chiama poi tutto il Paese e le forze di opposizione alla compattezza: «Chi viene in Italia deve rispettare le regole», aggiunge infatti il presidente del Consiglio durante le registrazioni di Porta a Porta, «il governo non potrà mai accettare le richieste di Mittal». E ancora: «Non è un problema legale, perché una battaglia legale ci vedrebbe tutti perdenti. Ove mai fosse giudiziaria, sarebbe quella del secolo. Non si può consentire che si vada via senza rispettare gli obblighi contrattuali».

IL GOVERNO SI SPACCA SULLO SCUDO PENALE

«Chiameremo tutto il Paese a raccolta», insiste Conte ribadendo il suo messaggio alla politica: è il momento dell’unione. Una compattezza che, sul decreto offerto a ArcelorMittal sullo scudo penale, manca del tutto vista la ferma contrarietà di una parte del M5s. Tanto che, dopo tre ore e mezza di Consiglio dei ministri quel decreto non salta fuori. Avanti così, sono i commenti dal Pd, non si può andare. Già le bordate arrivano da tutte le parti, dalla Lega di Matteo Salvini a Confindustria, almeno gli alleati devono mettere da parte strappi e polemiche, perché, è l’avvertimento che manda il Partito democratico, «a forza di tirare, la corda si spezza».

LE CONDIZIONI «INACCETTABILI» DI ARCELORMITTAL

Ma per il caso Ilva ora il problema non è questo. La norma sullo scudo penale, raccontano fonti di governo, è stata di fatto messa sul tavolo nell’incontro con ArcelorMittal, al pari di altre rassicurazioni, come il pieno sostegno a un piano che renda l’ex Ilva un «hub della transizione energetica». Tutto inutile. L’azienda vuole l’addio o un taglio draconiano della forza lavoro, che costringerebbe il governo a intervenire sulla cassa integrazione. Con un’appendice: il governo non accetterà mai i 5 mila esuberi richiesti. I sindacati Fiom, Fim e Uilm, proclamando uno sciopero di 24 ore in tutti gli stabilimenti ArcelorMittal, hanno definito le condizioni dell’azienda «provocatorie e inaccettabili».

PATUANELLI: «ARCELORMITTAL NON SA GESTIRE IL SUO PIANO»

Saranno 48 ore di suspense. Perché la trattativa con ArcelorMittal non è ancora definitivamente chiusa. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli sottolinea che ArcelorMittal era a conoscenza della scadenza della «protezione legale» al marzo 2019, pur «auspicando» in una nota «che si risolvesse la criticità» della mancata estensione dello scudo fino al termine dell’esecuzione del Piano Ambientale nel 2023. Nonostante questo l’azienda «presentava offerta irrevocabile» e «palesava quindi di aderire alla misura restrittiva» relativa alla protezione legale. Secondo Patuanelli, non ci sono elementi per far scattare il recesso. «I rappresentanti di ArcelorMittal ci hanno detto chiaramente che non sono in grado di portare a termine il loro Piano industriale per rilanciare l’Ilva», dice Patuanelli.

FONTI DI GOVERNO: «PRATICAMENTE SIAMO GIÀ IN CAUSA»

«Al momento la via concreta è il richiamo alla loro responsabilità», spiega Conte che ha chiesto a Lakshmi Mittal e a suo figlio di aggiornarsi tra massimo due giorni per una nuova proposta. È una delle poche volte, da quando è a Palazzo Chigi, che Conte pone il suo accento sulla serietà del problema. Il premier, secondo alcuni quotidiani, starebbe già studiando di affidare l’azienda a un commissario. E sono parole che danno il tono della fumata nerissima registrata dopo l’incontro con i vertici di ArcelorMittal.

Nel governo si stanno cercando strade alternative. Un piano B che non includerebbe la partecipazione di Cdp ma che potrebbe concretizzarsi con una nuova cordata

«Vogliono il disimpegno o un taglio di 5 mila lavoratori» ma «nessuna responsabilità sulla decisione dell’azienda può essere attribuita al governo», spiega Conte sentenziando un concetto che sa di protesta di un intero sistema: «l’Italia è un Paese serio, non ci facciamo prendere in giro». Già perché, per il governo, semplicemente ArcelorMittal non rispetta un contratto aggiudicato dopo una gara pubblica. Tanto che fonti di governo descrivono lo scontro con l’azienda in questi termini: «Praticamente siamo già in causa». E, nell’esecutivo, emerge anche un’altra considerazione: quanto conviene che l’azienda resti? Per questo, parallelamente, si stanno cercando «strade alternative». Un piano B, insomma, che non includerebbe la partecipazione di Cdp ma che potrebbe concretizzarsi con una nuova cordata. È un’ipotesi che non riguarderebbe necessariamente Jindal o AcciaItalia. Sulla questione si è espresso anche il presidente della regione Puglia Michele Emiliano, che a Tagadà, su La 7 ha detto: «Faremo di tutto per far rispettare a Mittal il suo contratto. Se ciononostante non dovessimo riuscirci, certamente l’Ilva non muore lì, e l’Italia non muore lì: questo deve essere chiaro».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

ArcelorMittal vuole 5 mila esuberi per tenersi l’ex Ilva

Conte in una drammatica conferenza stampa: «Richiesta inaccettabile, offrano soluzioni che ci rassicurino». Il governo è disponibile a ripristinare l'immunità. Altre 48 ore per trattare, ma lo scenario è fosco.

Il premier Giuseppe Conte ha confermato in conferenza stampa che ArcelorMittal vuole 5 mila esuberi – su un totale di 10.777 dipendenti, di cui 1.200 già in cassa integrazione – per tenersi l’ex Ilva, che ogni giorno a Taranto perde 2,5 milioni di euro. Una condizione durissima, che il governo ritiene «inaccettabile». L’esecutivo, ha detto Conte, «è disponibile al ripristino dell’immunità sul piano ambientale, per sgombrare il campo da un falso problema. Ma nella discussione con l’azienda è venuto fuori che non è questa la vera causa del disimpegno. Lo dico senza timore di essere smentito: lo scudo penale non è il tema. Il tema vero è che ArcelorMittal ritiene che gli attuali livelli di produzione non siano sostenibili per remunerare gli investimenti. Dunque non ritiene possibile garantire l’occupazione».

In diretta da Palazzo Chigi

Posted by Giuseppe Conte on Wednesday, November 6, 2019

LEGGI ANCHE: Quanto pesa la possibile chiusura dall’ex Ilva sull’indotto

Sul dossier scatta ufficialmente «un allarme rosso» ed è necessario che «il Paese regga l’urto di questa sfida». Ma secondo il premier «nessuna responsabilità sulla decisione dell’azienda può essere attribuita al governo. Siamo disponibili a tenere aperta una finestra negoziale, 24 ore su 24. Invitiamo ArcelorMittal a prendersi un paio di giorni per offrire soluzioni che ci rassicurino sulla continuità dei livelli occupazionali, dei livelli produttivi e sul piano di risanamento ambientale». Ma quali strumenti concreti ha il governo per tentare di convincere l’azienda a tornare sui suoi passi, senza finire in Tribunale? Ben pochi. E Conte lo ha ammesso: «Ho offerto lo scudo penale, è stato rifiutato. Ho quindi chiesto di aprire un tavolo di negoziazione». Ma le mani del governo sono sostanzialmente vuote, a meno di non voler immaginare un ricorso massiccio alla cassa integrazione o un costosissimo subentro dello Stato. «Al momento non c’è nessuna soluzione, nessuna richiesta nostra è stata accettata», ha aggiunto il premier.

PATUANELLI: «LA RIDUZIONE DELLA PRODUZIONE È STRUTTURALE»

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, visibilmente scosso, ha ribadito il concetto: «Questa è una vertenza industriale. ArcelorMittal vuole ridurre la produzione a 4 milioni di tonnellate e vuole 5 mila persone in meno. Ma ha vinto la gara promettendo 6 milioni di tonnellate e 8 milioni dal 2024. C’è un altro problema: se non si produce, non si investe nemmeno sul risanamento ambientale. Noi siamo disponibili ad accompagnare la situazione attuale, legata alle tensioni commerciali e alla crisi dell’automotive. Ma loro sono stati chiari: la riduzione della produzione è strutturale. Per noi è inaccettabile, il piano industriale di ArcelorMittal è stato proposto nel 2017, di fatto sono dentro da un anno».

SINDACATI CONVOCATI PER IL 7 NOVEMBRE

Conte ha promesso che gli operai e le comunità locali non saranno lasciati soli: «Domani convocheremo i sindacati. C’è l’assoluta determinazione di rilanciare l’ex Ilva e Taranto. Non è questione di minoranza o maggioranza, le polemiche politiche sono assolutamente inutili». Oltre agli esuberi, ArcelorMittal avrebbe chiesto anche una norma ad hoc per tenere in vita l’altoforno 2, che non è a norma e che rischia di essere spento dalla magistratura. Le organizzazioni dei lavoratori sono pronte alla mobilitazione. La Fim-Cisl si è mossa autonomamente con uno sciopero immediato, mentre in serata la Fiom e la Uilm hanno proclamato una giornata di astensione dal lavoro per l’8 novembre e una manifestazione a Roma, «di fronte all’arroganza» di ArceloMittal e alla «totale incapacità della politica».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it