Il grande (e rischioso) fuck you dei Sussex alla Corona

I ribelli Harry e Meghan danno il benservito alla Regina e corrono incontro alla loro libertà. Al secondogenito di Carlo auguriamo ogni bene. Anche se al suo posto non avremmo mai scambiato la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.

Potendo sostituire il comunicato ufficiale a firma “Duca e Duchessa del Sussex”, forse avrebbero più semplicemente e italicamente scritto «andate tutti affanculo».

Che è un po’ il senso manifesto della fuga di Harry & Meghan, i cui nomi si intrecciano in un logo da coppia dannata, come quelli di Bonnie & Clyde o, più regalmente, come quelli degli antenati Edward & Wally, anch’essi in fuga, circa 80 anni fa, dalle pesanti regole della corte britannica.

HARRY E MEGHAN IN FUGA COME NE IL LAUREATO

Harry & Meghan gettano alle ortiche i privilegi regali, l’appannaggio, quella vita insulsa fatta di sorrisi di circostanza, visite ai centri di beneficenza, fingendosi interessati ai disegni di bambini disagiati delle periferie, partecipazioni a eventi e cerimonie pompose, in cui offrirsi ai flash dei fotografi per poi finire su giornali che criticheranno il tuo abito, le tue scarpe, il trucco, la smorfia involontaria. Tutta roba che William & Kate si sciroppano senza troppo disagio, ma tant’è: sarai il re d’Inghilterra? E allora beccatela tu questa vita del cavolo. Noi diciamo no e ce ne andiamo, come la coppia de Il laureato che abbandona le famiglie furibonde con un palmo di naso, per salire su un autobus sgarrupato e andare incontro alla libertà e al vero amore.

Archie non crescerà tra maggiordomi e istitutrici e non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo o a pattinare

Naturalmente, non ci saranno autobus scalcinati nella vita di Harry & Meghan, che possono contare sulla rendita milionaria del giovane rampollo della casa reale. Ma fanculo pure alla rendita, i due dichiarano che diventeranno indipendenti, andranno a lavorare. Lei come attrice, si suppone. Lui chissà, forse cooptato nel consiglio di amministrazione di una multinazionale, oppure impegnato a finanziare qualche centro di ricerca per la salvezza del Pianeta. Il loro bambino, Archie, non crescerà tra maggiordomi e istitutrici, non imparerà a camminare dentro saloni affrescati, su tappeti persiani di otto per otto metri, non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo, a scuola, a pattinare.

UNO STORYTELLING INFINITO

La monarchia britannica si conferma un generatore di storytelling senza pari, tanto da fornire in tempo reale nuovo materiale per gli sceneggiatori della serie The Crown, così come le dimissioni di papa Ratzinger hanno generato fiction su fiction. Se poi ci aggiungiamo Bill Gates che ha dichiarato: «Sono troppo ricco, voglio pagare più tasse», allora qui si profila un’abdicazione dell’élite mondiale dal proprio ruolo. Proprio qualche sera fa, alla cerimonia dei Golden Globe, il comedian inglese Ricky Gervais aveva ammonito i divi del cinema: «Voi non sapete nulla della vita reale, quindi non fate discorsi politici, non siete credibili, ritirate il vostro piccolo premio, ringraziate, e andate via». Harry & Meghan, divi anche loro, rinunciano ai loro privilegi per guadagnare una vita reale e dunque forse una credibilità, davanti al mondo, e prima ancora davanti a se stessi. 

Cinicamente, chi ha più esperienza di matrimoni non scambierebbe mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta

Il semplice fatto di nascere come secondo figlio, dopo William, e risultare perciò attualmente solo sesto nella successione al trono, concede a Harry la libertà di fare questa scelta radicale. Non avrà più protezioni, se ne andrà solo nel mondo insieme a Meghan. Gli auguriamo ogni bene, però al suo posto non l’avremmo mai fatto. Ma solo perché, cinicamente, abbiamo più esperienza di matrimoni e non scambieremmo mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.

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Perché Harry e Meghan possono anche non lavorare

I Sussex hanno intenzione di fare un passo indietro dalla Royal Family e rendersi indipendenti dal punto di vista economico. Uno strappo rivoluzionario, reso più facile dal patrimonio milionario su cui possono contare.

Non bastasse la Brexit, con il 2020 per i sudditi di Sua Maestà è arrivata come un fulmine a ciel sereno pure la Megxit.

I duchi del Sussex, Harry e Meghan Markle, hanno espresso ufficialmente l’intenzione di fare un passo indietro da membri Senior dalla Firm, la Corona britannica.

Un’altra grana per la regina Elisabetta II già alle prese con lo scandalo Epstein che ha travolto il principe Andrea. Uno strappo che ricorda, con tutti i distinguo del caso, l’abdicazione nel dicembre del 1936 di re Edoardo VIII dopo il matrimonio con Wallis Simpson (pure lei americana).

L’ALLONTANAMENTO DEI SUSSEX DA THE FIRM

I Sussex, che hanno passato le festività natalizie in Canada con il piccolo Archie ben lontani dagli impegni di Buckingham Palace, in un comunicato hanno dichiarato di voler avviare «la transizione verso un nuovo ruolo dentro l’istituzione» monarchica. Il che comporta la decisione di «lavorare per diventare finanziariamente indipendenti, sebbene continuando a sostenere pienamente Sua Maestà la Regina» e quella di dividersi d’ora in avanti «fra il Regno Unito e il Nord America» per consentire di far crescere il figlio «nel rispetto della tradizione reale in cui è nato, garantendo al contempo spazio alla nostra famiglia per concentrarsi su un nuovo capitolo: incluso il lancio di una nostra nuova entità caritativa» autonoma.

IL PATRIMONIO DI HARRY E MEGHAN

Dunque i Sussex, in rotta da tempo con i Cambridge – per i non avvezzi alle cose reali William e Kate Middleton -, si rimboccheranno le maniche per trovare un lavoro, cosa che l’attuale status impedisce loro. Sì, ma quale lavoro? Gira voce, per esempio, che Meghan potrebbe riprendere la carriera di attrice. La rivincita delle Grace Kelly, verrebbe da dire. Anche se di “lavorare” la coppia, stando alle finanze note, non avrebbe più di tanto bisogno.

Harry può contare su un patrimonio compreso tra i 25 e i 40 milioni di dollari

Secondo l’International Business Times, il principe Harry può contare su un patrimonio compreso tra i 25 e i 40 milioni di dollari. Non è ancora chiaro quanto la decisione di “divorziare” dalla Corona peserà sul tesoretto totale. Non solo. C’è infatti l’eredità lasciatagli dalla madre Diana (12 milioni di euro circa, secondo quanto riportato dal Sunday Times) più i gioielli privati della “Regina di Cuori” il cui valore però non è noto. Il secondogenito di Carlo ha servito per 10 anni (fino al 2015) la Royal Air Force come capitano, guadagnando – riporta Forbes – circa 53 mila dollari per anno. La moglie Meghan, secondo quanto rivelato da Money lo scorso maggio, avrebbe invece messo da parte grazie alla sua attività sui set – come star di Suit principalmente – almeno 5 milioni di dollari.

I COSTI DELLA COPPIA RIBELLE

Da quello che si sa – ed Elisabetta permettendo – i Sussex hanno intenzione di continuare il loro impegno nelle opere di beneficenza della Corona, oltre a creare un ente tutto loro. Ma quanto costano Harry e Meghan? Il Sovereign Grant, il fondo pubblico che finanzia il lavoro della famiglia reale incluso il mantenimento delle residenze e lo staff, copre solo il 5% delle spese. E la coppia ha assicurato di non aver mai utilizzato denaro pubblico per spese private né di godere di benefit fiscali per le loro attività benefiche. Il 95% restante delle spese è invece coperto dal Ducato di Cornovaglia del principe Carlo. E non sono spiccioli se il viaggio dei Sussex in Australia, Nuova Zelanda, Tonga e Figi dell’ottobre 2018 è costato 90 mila euro e il Royal Wedding si è parlato di cifre astronomiche: tra i 35 e i 45 milioni di euro. Poca cosa per la Famiglia Reale valutata da Forbes intorno agli 88 miliardi di dollari tra residenze, gioielli della Corona e il valore generato dal brand su turismo e moda.

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Il governo britannico pubblica per errore gli indirizzi di alcuni vip

Online gli indirizzi di oltre mille destinatari dei New Year Honours: tra loro politici, star del calibro di Elton John.

Il governo britannico è in imbarazzo dopo la pubblicazione, per errore, degli indirizzi di oltre mille destinatari dei cosiddetti New Year Honours, le tradizionali onorificenze reali: tra loro politici, star del calibro di Elton John, ma anche decine di funzionari della difesa e dell’antiterrorismo, con evidenti implicazioni per la sicurezza. Una svista, ha ammesso l’ufficio del gabinetto che si è scusato per quanto accaduto, assicurando di aver rimediato in breve tempo.

ANCHE OLIVIA NETWON JOHN E BEN STROKES TRA LE VITTIME DELLA ‘SVISTA’

Tra i 1.097 destinatari delle onorificenze del 2020 ci sono anche il giocatore di cricket Ben Stokes, l’attrice Olivia Newton John, l’ex leader del Partito conservatore Iain Duncan Smith, la cuoca televisiva Nadiya Hussain e l’ex capo dell’Ofcom (l’authority per le comunicazioni) Sharon White. Tra gli altri, diversi funzionari di governo, accademici, leader religiosi, sopravvissuti all’Olocausto. Ma anche funzionari della Difesa e alte gerarchie della polizia, quindi personalità considerate sensibili dal punto di vista della sicurezza. C’è chi ha preso questa vicenda con filosofia, come Mete Coban, pioniere delle attività caritatevoli che ha ricevuto un’onorificenza per il suo lavoro con i giovani, che si è detto non troppo preoccupato per l’errore. Al contrario, Big Brother Watch, organizzazione britannica che si occupa di privacy e tutela delle libertà civili, ha definito «estremamente preoccupante che il governo non mantenga una solida stretta sulla protezione dei dati e che le persone che ricevono alcuni dei più alti onori siano messe a rischio per questo». Ed il ministro ombra per l’ufficio del gabinetto, Jon Trickett, ha evidentemente rincarato la dose: «Se il governo non è in grado di proteggere dati sensibili, come possiamo aspettarci che risolva le importanti questioni del nostro Paese?».

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Non saranno gli Usa a curare Londra dalle ferite della Brexit

Se il Regno pensa di vedersi offrire su un piatto d'argento il libero accesso al mercato statunitense, si sbaglia di grosso. Il nazionalismo costerà caro agli inglesi. Come preconizzato da George Orwell.

Prima di archiviare la lunga saga Brexit e in attesa di vedere fra un paio d’anni le vere conseguenze, è bene assicurarsi che venga archiviata nello scaffale giusto. Che è quello dei sogni. A volte si realizzano. A volte no. Non c’è dubbio che si tratta dell’ultimo grande exploit del nazionalismo inglese. Convinto, come diceva nel 1999 Margaret Thatcher cacciata nove anni prima dalla guida del governo dagli uomini del suo stesso partito anche per la sua durezza anti Ue, che «noi siamo certamente il miglior Paese in Europa» e che «nel corso della mia vita tutti i problemi sono venuti dal continente, e tutte le soluzioni sono venute dai Paesi di lingua inglese disseminati in giro per il mondo». L’ex premier “lady di ferro” morirà nel 2013. Anche il grande Mercato Unico di cui la premier Thatcher fu negli Anni 80 uno dei più convinti creatori è stato un problema venuto dal continente?

Thatcher guidava il partito che aveva portato il Regno Unito nel Mec e diventò decisamente anti Ue solo dopo il profilarsi della riunificazione tedesca. Milioni di inglesi vogliono ora sbattere la porta, l’hanno sbattuta, con molti che si scrollano si direbbe anche la polvere dai calzari, ispirati idealmente da una Thatcher che Boris Johnson ha usato come una novella Giovanna d’Arco alla riconquista dell’indipendenza. Persino Winston Churchill che invece fu, perso l’Impero, un convinto europeista, è stato gabellato come brexiteer. Intanto, tutti parlano per sentito dire. Quello della Brexit è un argomento da tempo noioso perché rimasto a bagnomaria per oltre tre anni ma, archiviandolo, occorre sapere che la storia non finisce qui. Non si tratta infatti solo dell’uscita legale, che ci sarà il 31 gennaio prossimo, dell’ultimo ammainabandiera a Bruxelles e Strasburgo e della scomparsa della già rara bandiera azzurrostellata dell’Unione dagli edifici pubblici britannici.

LA SAGA DELLA BREXIT NON È FINITA

Ridisegnare i rapporti tra Londra e il continente è infatti un’operazione gigantesca e inedita. Si tratta dell’uscita reale dalla enorme rete cha a partire dal 1973 ha integrato l’economia del Regno Unito con quella continentale, e non solo l’economia, e del disegno complesso dei futuri rapporti commerciali. Johnson ha ribadito martedì 17 dicembre che si uscirà del tutto comunque a fine 2020. Quindi una hard Brexit, probabilmente; i mercati hanno subito reagito male. D’altra parte una soft Brexit vorrebbe dire restare agganciati al sistema Ue, come regole, e questo Johnson lo definiva già un anno fa un “vassallaggio”. Johnson ha vinto grazie agli errori clamorosi del corbynismo (si veda Corbyn consegnerà il Regno Unito alla brexit di Farage del 19 maggio scorso) e dei liberaldemocratici e sulla base di due promesse, ma mantenere la prima promessa rende difficilmente realizzabile la seconda.

Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni

La prima promessa ora ribadita dice “usciremo definitivamente a fine dicembre 2020”, cioè fra un anno. Ciò significa che per un anno cambia poco nei rapporti economici fra Londra e Bruxelles, e dopo cambia tutto. La seconda promessa assicura un’economia in rapida crescita spinta anche dalla spesa pubblica, investimenti notevoli nelle aree delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale, aree ex minerarie e operaie, da un secolo o poco meno tenacemente laburiste, che in nome della Brexit si sono in parte notevole, determinando le dimensioni della vittoria, schierate con i Tory, passaggio prima impensabile. Ma sarà possibile un’economia in crescita se i duri del partito conservatore e Nigel Farage che già ha lanciato anatemi impongono comunque un’uscita definitiva dai meccanismi economici e doganali fra un anno? Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni.

L’INTEGRAZIONE CON GLI USA NON SARÀ MAI PARI A QUELLA CON L’UE

Se Londra esce fra un anno sarà inevitabile adottare le regole del Wto, il che significa dazi, tariffe, dogane e controlli. Farage non va sottovalutato. Non ha conquistato nemmeno un seggio il 12 dicembre con il suo Brexit party, ma si è presentato in meno di metà dei collegi per disturbare il minimo possibile Johnson. E Farage, con la sua retorica iper nazionalista e sopra le righe a dir poco, resta l’uomo politico più influente del Paese, vero pontefice della Brexit. È lui che ha imposto il dibattito nazionale a partire dal voto del 2013 e dalle europee del 2014, spingendo i Tory a cercare di essere più anti Ue di lui. È la logica degli estremismi di cui il nazionalismo, a differenza del patriottismo, fa parte. Johnson parla della «grande avventura» in cui il Paese si è lanciato «riconquistando» la propria indipendenza e tratteggia i contorni di un Regno Unito nuovamente «imperiale».

Sostenitori della Brexit dopo il trionfo di Boris Johnson.

Un impero soft fatto di eccellenza economica, di finanza, di centralità globale della piazza londinese, di ricerca e alta tecnologia, di supremazia intellettuale insomma, quella stessa che i burocrati bruxellesi e, diciamolo pure, le stranezze e la mediocrità di un continente che un certo tipo di inglesi ha sempre guardato dall’alto in basso, impedivano. È un esercizio nel quale il suo lungo mestiere da giornalista lo aiuta, e appartiene per ora al mondo dei sogni. Sogni? La risposta è sempre stata: avremo un magnifico trattato commerciale con gli Stati Uniti. Donald Trump in effetti lo ha promesso, con l’obiettivo di usare il Regno Unito come grimaldello per sfasciare la Ue, che è troppo grossa commercialmente e infastidisce un’America di un certo tipo di cui Trump è il portabandiera, l’America iper nazionalista e, che lo ammetta o no, neo isolazionista e che non sa che farsene ormai del “mondo occidentale”. Ma qui occorre un semplice ragionamento.

È difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche

Fino a oggi, e fino al 31 dicembre 2020, l’economia britannica, 66 milioni di abitanti , è integrata in un mercato di 512 milioni di persone, senza dazi e senza vincoli. Uscendo rinuncia quindi al libero accesso a un mercato di 450 milioni e il più ricco, come capacità totale di spesa della popolazione, del mondo. Gli Stati Uniti non si integreranno mai in analoga misura, per molto tempo almeno, con il mercato britannico, ma Trump ha promesso e Johnson continua a citare un «accordo fantastico». Difficilmente ci sarà nel corso del 2020, anno dominato dall’impeachment e ancor più dalla campagna elettorale che lascerà probabilmente agli elettori il giudizio finale sul presidente. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Qualsiasi trattativa sarà bilaterale, non multilaterale come quella che ha creato il Mercato Unico europeo più di 30 anni fa. Ed è difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche, visto che i due mercati sono ben lontani dall’esserlo.

GLI ISTINTI PROTEZIONISTI MADE IN USA

È chiaro infatti che il libero accesso al mercato Usa vale potenzialmente per i prodotti britannici assai di più, cinque volte tanto, del libero accesso al mercato Uk per i prodotti Usa. Inoltre va considerato anche, come l’ex Cancelliere dello scacchiere conservatore Kenneth Clark (fra i moderati giubilati da Johnson) ricordava ai Comuni alcuni mesi fa, che gli Stati Uniti sono fortemente condizionati nelle trattative commerciali da un Congresso dove gli istinti protezionisti, sollecitati di continuo dalle molte lobby, e la perfetta coscienza delle asimmetrie fra i due mercati peseranno certamente. Non c’è che da aspettare e vedere. Ma la vittoria del nuovo partito conservatore nazional-brexista-populista (in omaggio al nuovo elettorato delle Midlands) non è che l’ennesima incarnazione del vecchio nazionalismo inglese, condiviso dalle classi superiori e inferiori, e anzi in queste ultime spesso ancora più tenace. Di nuovo, a rafforzarlo, c’è solo l’immigrazione. Il resto è un déja-vu.

L’insularità degli inglesi, il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro

George Orwell

Senza perdersi dietro le cronache delle ultime settimane con interviste “alla gente”, basta ricordare quanto diceva Alexis de Tocqueville quando confrontava il francese ansioso che guarda in alto nel timore che qualcuno possa essergli superiore, e l’inglese che unicamente «abbassa il suo sguardo per contemplare con soddisfazione». Oppure, uscendo dall’800, l’epitaffio sulla Brexit può essere quello di George Orwell, quando diceva in The Lion and the Unicorn (1941), splendido e affettuoso ritratto del suo Paese e dei suoi connazionali, che l’errore degli inglesi è non avere mai preso sul serio i continentali, ritenendosi troppo superiori. La classe operaia, diceva, detesta gli stranieri (vedi ancora le Midlands). «L’insularità degli inglesi», aggiungeva Orwell, «il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro».

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L’accordo sulla Brexit tra l’Ue e Johnson aiuta ma non basta

Superato il voto e la scelta del divorzio, l'Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C'è un anno per un'intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.

Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.

METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE

Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017 per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il premier britannico Boris Johnson torna a al numero 10 Downing Street con pieno mandato. GETTY.

LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE

Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.

Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile

Ursula von der Leyen

DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE

Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno di transizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire. 

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il primo ministro britannico Boris Johnson a un comizio sulla Brexit per le Legislative del 2019. GETTY.

IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO

In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italiano della componentistica.

Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta

Kiel Institute for the World Economy

TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO

A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».


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Chi è Dominic Cummings, lo spin doctor dietro la vittoria di Johnson

No euro da sempre, ex assistente di Gove, è l'uomo che ha inventato gli slogan Take Control e Get Brexit Done e che ha trasformato la campagna tory in perfetti meme.

Stratega e esperto social, inventore di slogan, ma anche di traiettorie politiche, creatore di video tormentoni e di nuovi consensi. Se c’è un uomo dietro al trionfo di Boris Johnson alle elezioni britanniche è lui: lo sconosciuto Dominic Cummings. Con cinque parole, Take control’ e ‘Get Brexit done‘, ha consacrato nel 2016 Johnson come leader della campagna pro-Leave e oggi ne ha fatto il vincitore assoluto della politica del Regno Unito. Cummings, è la mente dei nuovi Tory, inviso ai politici conservatori paludati che ha saputo parlare alla pancia della Gran Bretagna con messaggi semplici ma evidentemente efficaci.

PRIMO OBIETTIVO: ELIMINARE FARAGE

Ex consulente dei Tory, classe 1972, l’uomo con lo zainetto che stamani alle sette è stato ripreso dalla telecamere di mezzo mondo mentre bussava al numero 10 di Downing street come un cittadino qualsiasi ha puntato la sua strategia comunicativa, oggi come tre anni fa, su un uso massiccio dei social e un linguaggio aggressivo e non convenzionale. Aver sostituito Get changecon ‘Take control’ nello slogan per il referendum sulla Brexit impresse una virata netta alla campagna anti-Ue, mettendo in ombra persino il re dei brexiteer Nigel Farage che, non è un caso, è uscito da questa tornata elettorale senza neanche un seggio. Gli addetti ai lavori raccontano che uno degli obiettivi di Cummings era proprio silurare Farage e il suo Brexit Party. «Se vogliamo marginalizzare quel partito dobbiamo fare campagna elettorale sul concetto niente più ritardi, realizziamo la Brexit», scrisse Cummings ai suoi in un sms ad ottobre, svelando per la prima volta l’ormai storico ‘Get Brexit done‘.

DA SEMPRE ANTI EURO, IN COPPIA PERFETTA CON BOJO

Che fosse un tipo tosto a Westminster lo avevano capito già nel 2003, quando cominciò la sua crociata contro l‘euro. I suo avversari lo deridevano chiamandolo «adolescente brufoloso», nonostante avesse 31 anni. Lui tirava dritto e sentenziava: «Avere l’euro significherebbe perdere il controllo della nostra economia». Brexit ante-litteram. Nel 2010 diventò assistente di Michael Gove al ministero dell’Istruzione e la sua carriera nel partito conservatore iniziò a decollare fino a diventare il guru elettorale di Johnson. A «match made in heaven», una coppia perfetta che, almeno per quanto riguarda la comunicazione politica, ha dato il meglio di sé nelle ultime settimane prima del voto.

LA STRATEGIA CHE GENERA MEME HA FUNZIONATO

La parodia del popolarissimo film di Natale ‘Love Actually’ (‘Brexit Actually‘), che gli avversari hanno deriso e bollato come un becero tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai temi veri, è stato un colpo da maestro. Ed effettivamente ha distolto l’attenzione dall’ultimo scivolone di Johnson, pescato ad ignorare la foto di un bambino malato di polmonite che dormiva sul pavimento di un ospedale. Una strategia che per i Tory più snob e tradizionalisti è roba da meme (‘meme-generating behaviour‘, l’ha definita il Guardian) ma che forse proprio per questo ha regalato il Regno a Boris Johnson con numeri che per i conservatori non si vedevano dai tempi di Margaret Thatcher.

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Che ne sarà di questa little England dopo i cicloni Johnson e Brexit

Ci ritroviamo una nazione corsara ai confini dell'Ue. Decisa a strappare business al Continente. Ma ora il Regno Unito potrebbe disgregarsi sotto la spinta indipendentista della Scozia. Le (brutte) notizie per l'Europa dal voto britannico.

Partita chiusa. Boris Johnson ha vinto la sua scommessa. Jeremy Corbyn non solo ha subìto la peggiore sconfitta laburista dal 1935 perdendo una sessantina di seggi, ma ha confermato in pieno il pessimo giudizio di chi dalle file stesse del Labour lo accusava di avere una strategia sbagliata e confusa. E i liberal democratici che si illudevano con Jo Swinson di decuplicare i deputati da 12 (o 21, contando i transfughi raccolti dalle file dei conservatori soprattutto) a 120, dovranno accontentarsi di 11, e risultano travolti dal ridicolo.

A BORIS INTERESSA SOPRATTUTTO LA SUA STATURA

Ci sarà la Brexit anche se difficilmente sarà così rapida e radicale come Johnson ha promesso infinite volte perché ora l’obiettivo è dimostrare che il Regno Unito affronta il nuovo cammino senza scosse e i conservatori costruiscono così le premesse per un’altra vittoria quando si tornerà alle urne, fra cinque anni salvo sorprese. Chi conosce Johnson sa bene che assai più della Brexit gli importa entrare fra i primi ministri di lunga durata come Margaret Thatcher e Tony Blair e raggiungere una statura che non sfiguri accanto a quella del suo idolo Winston Churchill.

CLAMOROSI ERRORI DI CORBYN

Brillante nei risultati, con una quarantina di seggi in più rispetto a quelli ottenuti al voto anticipato del giugno 2017 da Theresa May e una maggioranza parlamentare tranquilla di circa 30 seggi, la vittoria di Johnson è dovuta però prima di tutto ai clamorosi errori di Corbyn che ha dimostrato di avere una lettura della realtà profondamente distorta dall’ideologia politica. E si è illuso di trasformare quello che il Paese sentiva come un secondo referendum sulla Brexit sotto le spoglie di voto per il rinnovo del parlamento di Westminster in una svolta politico-culturale e nell’avvio della sua Inghilterra verso il socialismo laburista, nazionalizzazioni comprese.

UNA SANGUINOSA SCONFITTA LABURISTA

«È colpa di Corbyn, colpa di Corbyn», diceva dopo i pessimi exit poll l’ex ministro laburista dell’Interno Alan Johnson, buttandola in grottesco. «I corbinisti tireranno fuori la tesi che la vittoria è un concetto borghese, e che il solo obiettivo dei veri socialisti è una gloriosa sanguinosa sconfitta». Resta il fatto che in molti comizi, l’ultimo due giorni prima del voto a Liverpool, Corbyn ha parlato del suo sogno di una nuova Gran Bretagna e citato la Brexit solo di sfuggita in un inciso. Proprio fuori strada.

HANNO LASCIATO GLI ANTI-BREXIT SENZA UN LEADER

L’errore fondamentale di Corbyn viene da lontano ed è quello di avere lasciato senza leadership un potenziale voto maggioritario – il Paese secondo tutti i sondaggi era ormai 55 a 45% piuttosto critico della Brexit nonostante il referendum del 2016 – che andava invece organizzato motivato e sostenuto. Ma Corbyn stesso è sempre stato pro Brexit, una sua brexit socialista, perché se per molti conservatori Bruxelles è da rifiutare perché troppo dirigista e non abbastanza liberista, per Corbyn era da rifiutare in quanto non abbastanza socialista.

UN GOVERNO DI COALIZIONE ERA POSSIBILE

Quindi ha deciso di fare un campagna elettorale tutta contro l’austerità imposta per 10 anni dai conservatori, per il rilancio del Nhs, il servizio sanitario nazionale, e per una visione da «socialismo in un solo Paese» in questa Europa troppo capitalista. La stessa promessa di tenere un secondo referendum in caso di vittoria alle Politiche del dicembre 2019 gli è stata alla fine imposta dal suo gruppo parlamentare, a netta maggioranza filo Ue. Una vera vittoria è sempre stata impossibile; era in teoria possibile però un governo di coalizione a guida Corbyn che sarebbe stato tenuto insieme solo per il tempo necessario a tenere un secondo referendum. Gli elettori hanno preferito un taglio netto.

DI FIANCO A JEREMY DUE VETERO SOCIALISTI

Per capire Corbyn basta un’occhiata ai suoi due uomini di fiducia al vertice del labour, Seumas Milne e Andrew Murray, perché sempre i collaboratori più stretti rivelano la vera natura del capo. Milne e Murray, entrambi di estrazione alto borghese, sono due vetero socialisti molto ideologizzati, con un giudizio decisamente favorevole per esempio di quella che fu l’Unione sovietica (secondo Milne il Muro di Berlino era un giusto baluardo della Guerra fredda e la Germania Est un Paese efficiente e ricco che faceva star bene il suo popolo, come l’Urss del resto), e con una visione che in altri tempi sarebbe passata terzomondista.

Il gioco politico assegnava a Corbyn il ruolo di anti Brexit e non avendo raccolto il guanto ha perso malamente il duello

L’unica attenuante alla confusione mentale di Corbyn e che c’è nel Labour, soprattutto nell’elettorato popolare delle Midlands e dell’Inghilterra del Nord, c’era e c’è un consistente filone pro Brexit che arriva a un quarto circa del potenziale elettorato laburista e che lui non ha voluto antagonizzare. Perché in fondo è come loro. Ma il gioco politico gli assegnava il ruolo di anti Brexit, visto che i conservatori sono diventati con Johnson e anche prima il Conservative Brexit Party, e non avendo raccolto il guanto ha perso malamente il duello. Harold Wilson aveva ugualmente nel 1975, anno del primo referendum britannico sull’Europa, un partito diviso e seguì ugualmente una politica ufficiale di non scelta, ma tutti sapevano che in privato era pro Bruxelles e fu decisamente più abile e molto meno ideologizzato.

JOHNSON, TROPPE PROMESSE DI SPESA PUBBLICA

Johnson ha avuto una strategia semplice e quindi chiara. «Facciamo la Brexit». Anche lui ha fatto molte promesse di spesa pubblica che in realtà si ridurranno assai. Ha condotto una campagna che ha puntato a fare breccia nei collegi storicamente laburisti del Nord dell’Inghilterra. E qui ha raccolto il nerbo dei nuovi seggi conservatori, portando al suo partito elettorati da generazioni laburisti, in nome della Brexit e solo di quella Brexit che Corbyn si è rifiutato di valutare bene. La corsa alla successione a Corbyn era già aperta, nel Labour, prima del voto.

E LA SCOZIA MINACCIA IL REGNO UNITO

C’è poco da aggiungere. Forse il buon successo dei nazionalisti scozzesi in Scozia, che rende ora la richiesta di un nuovo referendum locale per l’indipendenza più pressante. Fortememnte filo Ue, dicono di non poter accettare il distacco dall’Europa. Ma non sarà facile. Johnson resterà a lungo a Downing Street, ma chi in queste ore mastica amaro sostiene che potrebbe essere l’ultimo premier del Regno Unito, destinato a disunirsi proprio sulla questione europea. Non sarà semplice.

TRADITA L’EREDITÀ DI CHURCHILL

Per quanto scontato, per quanto abituati a Bruxelles a una Londra che spesso ha remato contro e quindi alla fine meglio fuori che dentro, il risultato è una brutta notizia per l’Europa. Se è un buon risultato per il Regno Unito, oltre che per l’attuale partito conservatore che portò nel 1973 il Paese nel Mec, solo il tempo potrà dirlo. Certamente non è un risultato che ha seguito l’eredità lasciata da Winston Churchill. Il premier della Seconda guerra mondiale ha lasciato una posizione molto chiara e filoeuropea e senza tentennamenti fin dal discorso alla Albert Hall del 1947. Nella sua visione il Regno Unito avrebbe appoggiato il disegno europeo dall’esterno se fosse riusciuto a mantenere l’Impero, ed entrando con decisa e piena partecipazione se l’Impero fosse sparito. Vedremo ora che cosa la “little England”, nazione corsara ai confini della Ue e decisa a diventare un porto franco per strappare business al Continente, riuscirà a fare.

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Il discorso di Johnson dopo la vittoria alle elezioni in Gran Bretagna

Il leader dei Tory: «Realizzerò la Brexit entro gennaio, senza se e senza ma». Lunedì rimpasto di governo, la prossima settimana la Regina approverà l'accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles.

Dopo la vittoria schiacciante alle elezioni anticipate in Gran Bretagna, il leader dei conservatori Boris Johnson ha tenuto un discorso a Londra ai suoi sostenitori, invitando tutti a ripetere in coro lo slogan della sua campagna per il voto: «Get Brexit done!». E la promessa verrà mantenuta, non ci sono più dubbi.

«Con questo mandato finalmente realizzeremo la Brexit, metterò la parola fine a tutte le assurdità degli ultimi tre anni e usciremo dall’Unione europea entro gennaio, senza se e senza ma», ha ribadito il primo ministro.

I risultati delle urne danno ai Tory «la più grande vittoria dagli Anni 80, quando molti di voi non erano neanche nati. Adesso uniamo il Paese», ha detto ancora Johnson, ben consapevole che anche gli indipendentisti scozzesi si sono rafforzati e puntano a chiedere un nuovo referendum per staccarsi dal Regno Unito e restare nell’Ue.

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LibDem sotto choc, la leader Jo Swinson perde anche nel collegio

Choc anche per i liberaldemocratici nelle elezioni britanniche: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson,..

Choc anche per i liberaldemocratici nelle elezioni britanniche: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson non però annunciato le dimissioni da leader.

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La parabola di Corbyn al capolinea dopo il crollo laburista

Il grande sconfitto del voto nel Regno Unito difficilmente avrà un'altra chance. Paga le ambiguità sulla Brexit e una leadership mai così incerta. Tra i Labour gia si pensa al suo erede.

Una sconfitta così, dalle parti del Labour, non si vedeva da quasi un secolo. Per la precisione dal 1935. E un fiasco di tali dimensioni, difficile anche solo da prevedere alla vigilia, non può che ricadere sulle spalle di Jeremy Corbyn, il cui futuro, all’indomani del voto del 12 dicembre, sembra già essere scritto.

DALLE RETROVIE AL CENTRO DELLA SCENA

Per decenni più noto alle piazze dei militanti che non nei palazzi, alla Camera dei Comuni, dove pure siede da quasi 37 anni, Corbyn è sempre stato l’eterno backbencher: uno di quelli seduti agli ultimi banchi, la retrovia dei battitori liberi, fra gli indisciplinati della sinistra laburista. A 70 anni suonati, il compagno Jeremy, sembrava essersi abituato al centro della scena, ma ora sarà gioco forza costretto a un passo indietro obbligatorio.

L’IDEALISMO CHE NON LO HA MAI ABBANDONATO

Alfiere del ‘no all’austerity’, pacifista e socialista mai pentito, Corbyn è arrivato all’ultima chance politica della vita con gli stessi sogni, gli stessi pregi e difetti, gli stessi abiti sdruciti della gioventù. Solo la barba si è fatta grigia, da rossa che era. E il sorriso si è come addolcito: da nonno ribelle, caro ai molti giovani millennials apparsi a frotte, nella sorpresa un po’ stizzita dei media di establishment, ad acclamarlo fin dalla campagna del 2017 al grido “Jez, we can!”. Nato a Chippenham, nel Wiltshire, figlio di un ingegnere e di una insegnante di matematica conosciutisi sulla trincea repubblicana durante la Guerra civile spagnola, Jeremy è cresciuto in un clima di attivismo politico destinato a segnarne tutte le scelte future.

LE MILLE BATTAGLIE COMBATTUTE IN PRIMA LINEA

Dopo essere stato funzionario sindacale, è diventati deputato nel collegio londinese di Islington a 34 anni. Le sue cause hanno spaziato dai diritti dei lavoratori alla pace in Irlanda del Nord e in Palestina. Per Nelson Mandela, allora in cella nelle galere di un regime razzista sudafricano trattato coi guanti dai governi di Margaret Thatcher, si è fatto pure arrestare. Paladino del disarmo nucleare, ostile all’interventismo militare (in Iraq, Afghanistan, Libia, ma anche nei Balcani), è altrettanto radicale nella vita privata. Vegetariano, astemio e ambientalista, si è sposato tre volte: dalla seconda moglie, Claudia Bracchitta, italiana, ha avuto tre figli e ha divorziato nel 1999, pare uno screzio sull’iscrizione di uno dei ragazzi a una scuola privata, da lui considerata off limits. La consorte attuale è cilena e gli ha portato in dote il micio El Gato.

LA SCALATA UN PO’ A SORPRESA ALLA LEADERSHIP LABURISTA

La svolta nel suo destino è arrivata nel 2015, quando è stato eletto a sorpresa leader dei laburisti, sull’onda del rifiuto dilagante nella base verso gli ex blairiani liberal in carriera. L’anno dopo ha stravinto una seconda sfida malgrado il fuoco amico di gran parte della nomenklatura interna. E la bandiera del Labour è rimasta così nelle sue mani, sia contro Theresa May sia contro Boris Johnson, in barba agli alti e bassi della Brexit, alle critiche alla sua leadership incerta, alle polemiche sull’atteggiamento che gli è stato imputato rispetto a certi rigurgiti di antisionismo (ma anche di antisemitismo di sinistra) nel partito.Ma il suo punto debole è probabilmente rimasto il rapporto con la platea più vasta degli elettori, la maggioranza silenziosa. Anche se pareva aver fatto breccia tra i disillusi e gli sconfitti della globalizzazione, come fra gli under 30. Il risveglio, tuttavia, è stato traumatico e adesso è difficile credere che la parabola di Jeremy non sia giunta al capolinea.

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I timori di expat e italo-inglesi dopo il voto che avvicina la Brexit

Le voci dal Regno Unito nel giorno del trionfo di Johnson. Tra le incertezze dei piccoli imprenditori e le paure di chi di Londra ha fatto la propria seconda casa.

Con il voto britannico che ha spianato – una volta per tutte – la strada alla Brexit, le future norme sull’immigrazione restano la principale preoccupazione tra gli expat italiani nel Regno Unito. Ma anche fra la generazione dei ‘vecchi’ italo-inglesi, sullo sfondo di elezioni svoltesi Oltremanica in una giornata grigia e piovosa di dicembre. Qualcuno di loro ha votato. Qualcuno non lo ha fatto o non lo può fare, perché non è suddito di Sua Maestà e non ha chiesto il passaporto, anche se magari sull’isola ci vive da decenni.

UN’INCERTEZZA CHE SPAVENTA GLI INVESTITORI

Il voto del 12 dicembre è stato qualcosa di molto simile a un secondo referendum sul divorzio da Bruxelles, nota Alessandro Belluzzo, presidente della Camera di Commercio italo-britannica e londinese d’adozione, che parla di «elezioni legate alla Brexit, non c’è stato spazio per altro. La priorità per il Paese è superare quest’incertezza, radicale, persino violenta. Noi eravamo contrari, ma se il popolo ha deciso così, dobbiamo accettarlo». Un nodo cruciale è quello degli investimenti. «Gli imprenditori», insiste Belluzzo, «hanno bisogno di certezze, di una cornice economico-sociale chiara entro cui operare. Dal voto per la Brexit abbiamo registrato una diminuzione d’interesse per questo Paese. Prima c’era più voglia di provarci, ora chi viene per investire o lavorare ha molti più dubbi e domande».

Ho vissuto qui per 40 anni, ma nonostante abbia una moglie inglese e figli con passaporto inglese mi chiedo quale sarà il mio futuro

Salvatore Calabrese

Questi timori sono condivisi anche da chi del Regno ha fatto una seconda patria. «La Brexit fa paura, soprattutto a chi è arrivato qui nel secondo dopoguerra e sente il Regno Unito come fosse casa sua», spiega Gianna Vazzana, del patronato Acli, dalla sede di Clerkenwell Road, accanto alla chiesa cattolica italiana di San Pietro, nel cuore di quella che fu la mini Little Italy di Londra fin dall’arrivo dei primi rifugiati ai tempi di Giuseppe Mazzini e poi delle prime comunità di migranti. «Gente che magari non ha mai preso la doppia cittadinanza, e ora teme di doversene andare», aggiunge. Ipotesi estrema, improbabile. Eppure evocata anche da Salvatore Calabrese, celebre barman e oggi consulente del più antico albergo della capitale, il Brown’s Hotel. «Ho vissuto qui per 40 anni, ma nonostante abbia una moglie inglese e figli con passaporto inglese mi chiedo quale sarà il mio futuro».

UNA CAMPAGNA ELETTORALE DAI TONI «VIOLENTI»

Lui non ha votato, e comunque non avrebbe saputo chi scegliere. «Ho sempre detto che politica e religione non devono entrare nei miei bar, ma in questi giorni è stato impossibile. Non si è parlato che di politica. Sono state le elezioni più imprevedibili che io ricordi. Boris Johnson è un personaggio divisivo, piace ed è detestato alla stessa maniera». A fare da contraltare al trionfo del premier c’è la disfatta del leader laburista Jeremy Corbyn, che «rispetto a due anni fa non ha potuto contare sull’effetto sorpresa, e forse ha pagato anche qualche incertezza sulla Brexit», dice Dimitri Scarlato, direttore d’orchestra e membro di ‘The 3 million’, un movimento nato per tutelare per i diritti dei cittadini europei nel Regno.

Se potessi chiederei al premier di smettere di dire tutte le bugie che ho sentito

Alessandro Gallenzi

La Brexit ha «spaccato il Paese», ma ne ha pure evidenziato gravi lacune amministrative, accusa Alessandro Gallenzi, fondatore della casa editrice Alma. «Piccole aziende come la mia sono rimaste al buio, nonostante le nostre ripetute richieste di chiarimento e, se potessi, chiederei» alla politica «di smettere di dire tutte le bugie che ho sentito». O se non altro di moderare certi toni «aspri, di fortissima contrapposizione», fa eco Lazzaro Pietragnoli, consigliere del Labour nel municipio circoscrizionale di Camden. Lui, in campagna elettorale, è stato coinvolto direttamente, secondo la tradizione britannica del porta a porta. Ma ne parla come di «una campagna più negativa che positiva, in cui entrambi i leader si sono preoccupati soprattutto di spiegare perché non votare l’avversario».

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I risultati delle elezioni nel Regno Unito

Johnson punta a superare i 326 seggi per portare a termine la Brexit. Altrimenti sarà nuovamente stallo. Con Corbyn che promette un secondo referendum e guarda a una (improbabile) alleanza con LibDem e Snp.

Un plebiscito per la Brexit. Il 12 dicembre il Regno Unito è andato alle urne per la seconda chiamata alle elezioni generali da quando il referendum del 2016 ha messo in moto il tribolato iter per il divorzio di Londra dall’Unione europea. E il responso è stato inequivocabile, almeno stando ai primi exit poll: Partito conservatore a valanga, con 368 seggi, 42 in più della maggioranza assoluta. Male il Labour di Jeremy Corbyn, fermo a 191. Terza forza è lo Scottish National Party (Snp), a 55 seggi. Soltanto 13 per i LibDem, unico partito convintamente pro Remain.

OBIETTIVO 326 SEGGI PER JOHNSON

Le elezioni anticipate del 12 dicembre sono state volute dal premier conservatore Boris Johnson, nel tentativo di ottenere quella maggioranza assoluta in parlamento che, defezione dopo defezione, aveva visto allontanarsi sempre di più negli ultimi mesi a Downing Street e che è necessaria per portare a termine la Brexit.

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Le elezioni nel Regno Unito del 12 dicembre 2019 in diretta

Dalla resa dei conti tra Johnson e Corbyn dipenderà il futuro della Brexit. Favoriti i conservatori, ma le possibilità di un parlamento senza maggioranza sono alte. Seggi aperti fino alle 22 ore locali (le 23 italiane).

Elezioni al via questa mattina nel Regno Unito: i seggi sono aperti dalle 7:00 ora locale (le 8:00 in Italia) in 650 collegi elettorali tra Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord ed i sudditi di Sua Maestà potranno votare fino alle 22:00 locali. I risultati cominceranno ad arrivare quindi nella notte fra giovedì e venerdì. Il favorito è l’attuale premier Boris Johnson ed il suo partito conservatore, ma il suo principale sfidante, il laburista Jeremy Corbin, è ancora convinto di poterlo battere.

I MEDIA: «VOTO STORICO»

Johnson, che ha fatto campagna elettorale sotto lo slogan ‘Get Brexit done‘, punta a portare il Paese fuori dalla Ue alla nuova scadenza del 31 gennaio 2020. Il suo rivale Corbin promette di convocare un secondo referendum sull’uscita dall’Unione europea. Per i media britannici non ci sono dubbi: il Guardian parla questa mattina di una scelta «storica» e l’Independent gli fa eco definendo lo scrutinio «veramente storico».

Si tratta delle terze elezioni (dopo quelle del 2015 e 2017) in meno di cinque anni e le prime tenute nel mese di dicembre in circa 100 anni.

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Il voto nel Regno Unito e le ricadute sulla Brexit

Il conservatore Johnson favorito: se vince ottenendo la maggioranza assoluta, l'uscita britannica dall'Ue è in discesa. Un (improbabile) successo del laburista Corbyn porterebbe invece a un nuovo referendum. Orari, exit poll, sondaggi e scenari: le cose da sapere.

Il Regno Unito torna al voto due anni e mezzo dopo le elezioni politiche del giugno 2017 per quello che a tutti gli effetti è un secondo referendum sulla Brexit. Il 12 dicembre 2019, a seconda delle preferenze destinate ai diversi partiti, i cittadini britannici devono decidere se e quanto velocemente uscire dall’Unione europea (addio in programma il 31 gennaio 2020 dopo l’ennesimo rinvio).

EXIT POLL E POI RISULTATI PARZIALI

Le urne sono aperte dalle 7 alle 22 locali (dalle 8 alle 23 in Italia). Alla chiusura sono previsti exit poll per le prime indicazioni e due ore dopo i primi risultati parziali. Per la prima mattinata di venerdì 13 è atteso il responso: chi ha vinto e chi ha perso.

PERCHÉ SI VOTA ORA: UNA FORZATURA DOPO LO STALLO

Dopo anni di estenuante e inconcludente battaglia in parlamento e all’interno del partito conservatore al governo, nel luglio 2019 l’ex premier Theresa May ha dovuto lasciare il testimone al compagno di partito Boris Johnson (fin dal referendum del 2016 un convinto sostenitore della Brexit). Nei mesi successivi, tuttavia, il nuovo primo ministro ha subito una rivolta interna dei Tory più europeisti fino a perdere la maggioranza a Westminster, rendendo lettera morta il nuovo accordo che era riuscito a negoziare con Bruxelles. Convinto di poter ottenere una solida maggioranza per far passare il suo accordo, a fine ottobre ha forzato la mano della Camera bassa riuscendo a far indire le elezioni anticipate il 12 dicembre.

SE JOHNSON HA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: USCITA IN DISCESA

Per vincere (e onorare la promessa di attuare subito la Brexit), Johnson ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi (326 su 650) nella nuova Camera dei Comuni. Se questo si dovesse verificare, il premier potrebbe far passare in parlamento l’accordo che ha già raggiunto con l’Ue e far uscire definitivamente il Regno Unito dall’Unione entro la fine di gennaio. A quel punto inizierebbe una fase di contrattazioni tra Londra e Bruxelles per stabilire i dettagli commerciali e legali del divorzio. Questa seconda fase di transizione durerebbe fino alla fine del 2020, e Johnson ha promesso che non vuole prorogarla.

SENZA MAGGIORANZA ASSOLUTA: DIMISSIONI O ALLEANZE

Se i Tory non riuscissero a ottenere la maggioranza assoluta, Johnson potrebbe dimettersi o cercare di formare un nuovo governo alleandosi con altri partiti (al momento i conservatori non hanno alleati “naturali” su cui contare). Nel caso Johnson si dovesse dimettere, il tentativo di formare un esecutivo passerebbe al leader del Labour Jeremy Corbyn, il quale potrebbe portare dalla sua i LibDem e/o il Partito scozzese. Se dovesse riuscire a entrare a Downing Street, Corbyn avvierebbe negoziati con Bruxelles per arrivare a un nuovo accordo sulla Brexit. In ogni caso, ha promesso, l’ultima parola spetterebbe ai cittadini britannici attraverso un secondo referendum sull’uscita dall’Ue. Johnson potrebbe anche tentare di rimanere al governo attraverso un’alleanza, ma per convincere un altro partito dovrebbe rinunciare alle sue pretese sulla Brexit, con l’altissimo rischio di perdere la faccia davanti ai suoi elettori.

SE IL LABOUR HA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: NUOVO REFERENDUM

È l’ipotesi più remota, ma nel caso Corbyn riuscisse a ottenere 326 seggi ha promesso di portare il Paese subito un secondo referendum (con la speranza che dal 2016 i britannici abbiano cambiato idea). Da quel che risulta dagli ultimi sondaggi, tuttavia, questo è lo scenario più improbabile.

GLI ULTIMI SONDAGGI: BORIS A +9 PUNTI

Secondo l’ultimo sondaggio di YouGov pubblicato l’11 dicembre, Johnson avrebbe un vantaggio di 9 punti percentuali su Corbyn, con i Tory al 43% delle preferenze e il Labour al 34%. Seguono i LibDem con il 12%, il Brexit Party di Nigel Farage con il 3% e i Verdi con il 3%. L’istituto di rilevazioni calcola che, con questa percentuale, i conservatori otterrebbero 339 seggi. Si precisa, tuttavia, che la forchetta in cui si muove il partito di Johnson va dai 311 ai 367 seggi. La possibilità di avere un hung parliament (senza maggioranza) il 13 dicembre è tutt’altro che esclusa.

SI PUÒ AVERE 326 SEGGI SENZA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA DEI VOTI

L’elezione dei deputati avviene con un voto diretto, a turno unico e maggioritario, a cui partecipano tutti i cittadini maggiorenni del Regno Unito e del Commonwealth, risiedenti in Gran Bretagna e Nord Irlanda e iscritti nel registro elettorale. Questo sistema elettorale (maggioritario puro e uninonimanale secco) favorisce il Partito laburista e il Partito conservatore, penalizzando le formazioni minori. Inoltre, permette a un partito di arrivare a 326 seggi alla Camera senza aver ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. È sufficiente, infatti, che i candidati di un partito vincano in 326 circoscrizioni. Come avviene negli Stati Uniti, si può verificare la situazione in cui un partito ottiene la maggioranza dei voti in assoluto, senza però riuscire a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi.

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Il voto nel Regno Unito e le ricadute sulla Brexit

Il conservatore Johnson favorito: se vince ottenendo la maggioranza assoluta, l'uscita britannica dall'Ue è in discesa. Un (improbabile) successo del laburista Corbyn porterebbe invece a un nuovo referendum. Orari, exit poll, sondaggi e scenari: le cose da sapere.

Il Regno Unito torna al voto due anni e mezzo dopo le elezioni politiche del giugno 2017 per quello che a tutti gli effetti è un secondo referendum sulla Brexit. Il 12 dicembre 2019, a seconda delle preferenze destinate ai diversi partiti, i cittadini britannici devono decidere se e quanto velocemente uscire dall’Unione europea (addio in programma il 31 gennaio 2020 dopo l’ennesimo rinvio).

EXIT POLL E POI RISULTATI PARZIALI

Le urne sono aperte dalle 7 alle 22 locali (dalle 8 alle 23 in Italia). Alla chiusura sono previsti exit poll per le prime indicazioni e due ore dopo i primi risultati parziali. Per la prima mattinata di venerdì 13 è atteso il responso: chi ha vinto e chi ha perso.

PERCHÉ SI VOTA ORA: UNA FORZATURA DOPO LO STALLO

Dopo anni di estenuante e inconcludente battaglia in parlamento e all’interno del partito conservatore al governo, nel luglio 2019 l’ex premier Theresa May ha dovuto lasciare il testimone al compagno di partito Boris Johnson (fin dal referendum del 2016 un convinto sostenitore della Brexit). Nei mesi successivi, tuttavia, il nuovo primo ministro ha subito una rivolta interna dei Tory più europeisti fino a perdere la maggioranza a Westminster, rendendo lettera morta il nuovo accordo che era riuscito a negoziare con Bruxelles. Convinto di poter ottenere una solida maggioranza per far passare il suo accordo, a fine ottobre ha forzato la mano della Camera bassa riuscendo a far indire le elezioni anticipate il 12 dicembre.

SE JOHNSON HA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: USCITA IN DISCESA

Per vincere (e onorare la promessa di attuare subito la Brexit), Johnson ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi (326 su 650) nella nuova Camera dei Comuni. Se questo si dovesse verificare, il premier potrebbe far passare in parlamento l’accordo che ha già raggiunto con l’Ue e far uscire definitivamente il Regno Unito dall’Unione entro la fine di gennaio. A quel punto inizierebbe una fase di contrattazioni tra Londra e Bruxelles per stabilire i dettagli commerciali e legali del divorzio. Questa seconda fase di transizione durerebbe fino alla fine del 2020, e Johnson ha promesso che non vuole prorogarla.

SENZA MAGGIORANZA ASSOLUTA: DIMISSIONI O ALLEANZE

Se i Tory non riuscissero a ottenere la maggioranza assoluta, Johnson potrebbe dimettersi o cercare di formare un nuovo governo alleandosi con altri partiti (al momento i conservatori non hanno alleati “naturali” su cui contare). Nel caso Johnson si dovesse dimettere, il tentativo di formare un esecutivo passerebbe al leader del Labour Jeremy Corbyn, il quale potrebbe portare dalla sua i LibDem e/o il Partito scozzese. Se dovesse riuscire a entrare a Downing Street, Corbyn avvierebbe negoziati con Bruxelles per arrivare a un nuovo accordo sulla Brexit. In ogni caso, ha promesso, l’ultima parola spetterebbe ai cittadini britannici attraverso un secondo referendum sull’uscita dall’Ue. Johnson potrebbe anche tentare di rimanere al governo attraverso un’alleanza, ma per convincere un altro partito dovrebbe rinunciare alle sue pretese sulla Brexit, con l’altissimo rischio di perdere la faccia davanti ai suoi elettori.

SE IL LABOUR HA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: NUOVO REFERENDUM

È l’ipotesi più remota, ma nel caso Corbyn riuscisse a ottenere 326 seggi ha promesso di portare il Paese subito un secondo referendum (con la speranza che dal 2016 i britannici abbiano cambiato idea). Da quel che risulta dagli ultimi sondaggi, tuttavia, questo è lo scenario più improbabile.

GLI ULTIMI SONDAGGI: BORIS A +9 PUNTI

Secondo l’ultimo sondaggio di YouGov pubblicato l’11 dicembre, Johnson avrebbe un vantaggio di 9 punti percentuali su Corbyn, con i Tory al 43% delle preferenze e il Labour al 34%. Seguono i LibDem con il 12%, il Brexit Party di Nigel Farage con il 3% e i Verdi con il 3%. L’istituto di rilevazioni calcola che, con questa percentuale, i conservatori otterrebbero 339 seggi. Si precisa, tuttavia, che la forchetta in cui si muove il partito di Johnson va dai 311 ai 367 seggi. La possibilità di avere un hung parliament (senza maggioranza) il 13 dicembre è tutt’altro che esclusa.

SI PUÒ AVERE 326 SEGGI SENZA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA DEI VOTI

L’elezione dei deputati avviene con un voto diretto, a turno unico e maggioritario, a cui partecipano tutti i cittadini maggiorenni del Regno Unito e del Commonwealth, risiedenti in Gran Bretagna e Nord Irlanda e iscritti nel registro elettorale. Questo sistema elettorale (maggioritario puro e uninonimanale secco) favorisce il Partito laburista e il Partito conservatore, penalizzando le formazioni minori. Inoltre, permette a un partito di arrivare a 326 seggi alla Camera senza aver ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. È sufficiente, infatti, che i candidati di un partito vincano in 326 circoscrizioni. Come avviene negli Stati Uniti, si può verificare la situazione in cui un partito ottiene la maggioranza dei voti in assoluto, senza però riuscire a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi.

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Anche se vincerà Johnson non ci sarà Brexit prima del 2023

Al voto del 12 dicembre la vittoria dei Tory appare scontata. La promessa di BoJo è «uscita comunque con accordo o no a fine 2020». Ma non sarà così

Il voto britannico del prossimo 12 dicembre rappresenta comunque una svolta. Assai più importante di quando, con una lunga marcia di avvicinamento durata 12 anni e bloccata due volte dal veto francese, Londrà aderì alla Cee nel 1973.

Se giovedì 12 vince alle politiche il partito Tory, diventato ormai il Conservative Brexit Party (e le probabilità maggiori sono che vinca) è l’uscita (più lenta del previsto probabilmente, ma comunque un’uscita) da qualcosa di assai più integrato e anche politicamente significativo di quanto non fosse l’Europa comunitaria del 1973. Se, miracolosamente per i pro-Ue, i Tory non arrivano alla maggioranza restando tuttavia sicuramente il maggior partito, sarebbe comunque un fatto di grande importanza e la quasi certa fine della Brexit perché, privi di alleati, non riuscirebbero a formare il governo. E gli altri sono impegnati a tenere un nuovo referendum.

Alle 23 ora italiana di giovedì 12 dicembre gli exit poll daranno le prime indicazioni e due ore dopo ci saranno i primi risultati parziali di alcuni collegi ritenuti particolarmente significativi. Si tratta di una ventina di circoscrizioni, nella zona suburbana londinese e nel Sud Ovest dell’Inghilterra dove i conservatori potrebbero perdere alcuni seggi a favore del voto filo-Ue. Ugualmente molta attenzione ci sarà sui seggi tradizionalmente laburisti delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale dove il partito Tory potrebbe, anzi, dovrebbe in nome della Brexit strappare vari seggi tradizionalmente laburisti ma a maggioranza contrari “da sinistra” all’Unione europea. Vincere qui è per il premier Boris Johnson indispensabile per assicurarsi una sufficiente maggioranza nel rinnovato del parlamento di Westminster.

ESISTE IL FRONTE PRO BREXIT, NON ESISTE QUELLO ANTI BREXIT

La linea ufficiale laburista è stata di “equidistanza” fra pro Europa e anti Europa, puntando invece su altri nodi, tipo il servizio sanitario nazionale la casa e l’impoverimento diffuso; è una “equidistanza” comprensibile, per alcuni aspetti, visto che un quarto circa degli elettori laburisti non ama Bruxelles e nelle circoscrizioni indicate sfiora la maggioranza, ma certamente poco utile in una competizione dove il tema Brexit è stato dominante ed è stato difficile far finta che così non fosse.

Laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi non sono mai stato così disuniti come in questa campagna elettorale

La forza dei Tory e di Boris Johnson è che hanno monopolizzato con un partito unito e “normalizzato” tutto il fronte pro Brexit, fatto fuori praticamente l’inventore della formula Nigel Farage, che farà fatica secondo i sondaggi a prendere una manciata di deputati e forse nessuno, e lanciato un chiaro e pressoché unico messaggio, con un contorno di promesse fantasmagoriche di spesa pubblica. Il messaggio è «facciamo la Brexit, rispettiamo la democrazia», cioè il referendum del 2016.

Boris Johnson.

Il fronte opposto, laburisti e liberaldemocratici essenzialmente, più i nazionalisti scozzesi, non è mai stato così disunito come nella campagna elettorale; non offre nessuna garanzia di aver saputo concentrate bene collegio per collegio i voti sul candidato remain più vicino alla vittoria; e tantomeno offrire una visione e parole d’ordine comuni. Insomma, c’è un fronte pro Brexit ma non uno anti Brexit.

CORBYN HA POCHISSIME CHANCE DI DIVENTARE PRIMO MINISTRO

Jeremy Corbyn ha fatto campagna molto più su programmi e slogan economico-sociali. L’unica cosa chiara sul tema centrale, la Brexit, la dice quando assicura che, se vincerà, negozierà in pochi mesi un nuovo trattato, per vari aspetti sulla falsariga, si pensa, di quello che da tempo regola i rapporti fra Oslo e Bruxelles e per altri più stretto, e lo sottoporrà subito a un nuovo referendum con un quesito semplice: o il nuovo trattato di collaborazione dall’esterno con la Ue o il remain, cioè cancellare tutto e avanti come membro a pieno titolo dell’Unione. Ma l’unica cosa certa è che Corbyn non vincerà.

Corbyn rimane ancorato a idee più da Quarta internazionale (Trotzky) che da moderno Paese industriale dell’Occidente

Corbyn è il meno popolare dei leader che il Labour abbia mai avuto. Ritenuto una brava persona, assai più affidabile a livello personale di Boris Johnson «autore di una carriera fatta di bugie», come scrive il più autorevole commentatore politico del Financial Times, ma ancorato a idee più da Quarta internazionale (Trotzky) che da moderno Paese industriale dell’Occidente. Al suo fianco ha poi portato al vertice del partito esponenti della sinistra radicale come Seumas Milne, che ex colleghi giornalisti del Guardian definiscono un public school leftist, cioè un radical chic (la public school in Gran Bretagna è la scuola privata di rango), o come Andrew Murray, anch’egli di alti natali ma senza public school, fortemente anti occidentale e anti Israele e con molta nostalgia del ruolo ahimé finito di un’Unione sovietica guardiana della pace.

Jeremy Corbyn.

Corbyn ha in teoria qualche chance di diventare primo ministro di un governo di coalizione con liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi cementato da poca amicizia e molta convenienza, che potrebbe rinegoziare la Brexit sottoporla a nuovo referendum e poi andare a nuove elezioni visto che solo su questo saranno d’accordo. Sarebbe una possibilità teorica se il responso di giovedì sarà un altro hung parliament, un parlamento impiccato, bloccato senza nessuno dei due partiti con almeno 326 seggi, e con una somma fra laburisti liberaldemocratici e scozzesi che arrivi almeno attorno a 330. Ma i sondaggi danno oggi a Johnson attorno a 350 deputati, per quanto sia molto aleatorio nel sistema uninominale secco britannico trasformare una intenzione di voto in seggi, e su queste cifre, se confermate, la partita è chiusa. Andrew Hawkins di ComRes, fra i più seguiti centri di sondaggio commerciale e politico, parla di 30 deputati in più rispetto al’insieme dell’opposizione.

TUTTI I SONDAGGI DANNO LA VITTORIA SICURA DEI TORY

I mercati finanziari scommettono già su una vittoria dei Tory, il mondo delle scommesse politiche, come noto in Gran Bretagna floridissimo e più che mai nel 2019, un po’ meno. La forbice è tra un 65% di scommesse a favore di Johnson e un 35% circa per Corbyn, ma attenzione, non conta solo il numero, contano molto le cifre impegnate, molto molto più alte sul lato Johnson. Quanto ai seggi a Westminster, gli scommettitori viaggiano su 338-344 per i conservatori mentre al massimo scommettono su 221+46+22 fra laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi, quindi 289 che, anche con l’aggiunta di una dozzina di indipendenti, non arriverebbero al minimo matematico di 326.

Le trattative per arrivare da quello che è ora solo un contratto di divorzio a un’intesa commerciale complicatissima richiederà anni, tutti i tre anni

Sembra quindi, secondo l’arte delle previsioni e anche in parte secondo l’aria che si respira, una partita chiusa, che sarà chiusa solo però nella notte del 12-13 dicembre. Una volta vinto, Johnson prenderà il suo tempo. La promessa di oggi, per scaldare i seguaci, è «uscita comunque con accordo o no a fine 2020», ma non sarà così. Le trattative per arrivare da quello che è ora solo un contratto di divorzio a un’intesa commerciale complicatissima richiederà anni, tutti i tre anni, fino al 2022, ipotizzati dal divorzio. E fino ad allora il Regno Unito sarà commercialmente parte della Ue. E poi si voterà nel 2024 e Johnson vuole restare a Downing Street almeno due mandati come Margaret Thatcher e Tony Blair e vorrà una Brexit che faccia meno danni possibili alla sua rielezione. L’uscita subito? Già prometteva di uscire il 31 ottobre vivo o morto e poi di non chiedere una proroga fino al 31 gennaio, vivo o morto, e ha fatto entrambe le cose, vivo o morto. La sua è appunto «una carriera fatta di bugie»

QUELLE FALSE CITAZIONI DI CHURCHILL FATTE DA JOHNSON

Nella campagna referendaria del 2016, dove Johnson era portabandiera del leave, fu molto utilizzata una citazione da Winston Churchill, estratta si diceva da un dibattito parlamentare dell’11 maggio 1953, con Churchill premier che parlava della Ced , la Comunità europea di difesa fra alcuni Paesi del continente che il parlamento francese avrebbe silurato nell’agosto 1954. Non ne faremo parte, diceva effettivamente Churchill, come da resoconti parlamentari, «perché siamo con l’Europa ma non dell’Europa». La citazione ampliava nel 2016, attribuendolo sempre a Churchill, questo concetto. E lo completava con un sonoro e churchilliano «se la Gran Bretagna deve scegliere fra l’Europa e i mari aperti, sceglierà sempre i mari aperti».

Winston Churchill.

Si trattava di un falso. Le elaborate distinzioni su che cos’è il Regno Unito e che cos’è l’Europa e quale sia il giusto rapporto erano sì di Churchill, ma in un articolo scritto nel 1930 per l’americano Saturday Evenening Post. E la frase sugli oceani fu detta non nel ’53 in parlamento ma in uno scatto di rabbia nel maggio 1944 a un Charles De Gaulle chiamato da Algeri a Londra per illustrargli il piano Overlord (Normandia) e che poneva troppe condizioni. È arcinoto che Churchill a più riprese e con forza, dal 1947 al 1961, spinse per la piena e convinta adesione di Londra al progetto europeo. Ma Johnson, che ha scritto un libro su Churchill per crescere all’ombra del mito (ottobre 2015) ha avuto bisogno della sua versione. Falsa.

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Elezioni nel Regno Unito, l’assalto finale di Corbyn a Johnson

Il leader laburista tenta di rimontare nei sondaggi negli ultimi giorni di campagna. Mentre il premier Tory si sforza di tenere le distanze da Trump, a Londra per il vertice Nato. Lo scenario.

Al summit della Nato che si è aperto a Londra il 3 dicembre, Boris Johnson non ha in programma bilaterali ufficiali con Donald Trump.

Foto e strette di mano saranno inevitabili nella due giorni. Anche qualche scambio di battute, e un incontro alla fine probabilmente si farà: Trump pressa, il premier britannico deve fare gli onori di casa per il compleanno dei 70 anni dell’Alleanza atlantica.

Ma nella settimana che precede il voto anticipato del 12 dicembre non vuole accostarsi troppo al presidente americano. Il rivale laburista Jeremy Corbyn è in rimonta, martella da mesi l’opinione pubblica con la storia del «Trump britannico» e Oltremanica non c’è nessuno di più inviso di lui. Dicono che anche la regina Elisabetta lo odi. Troppo sbracato, il tycoon, anche per una certa destra inglese che mal digerisce gli atteggiamenti esagitati così simili di BoJo.

LA FORTEZZA BRITANNICA CHE SOGNA JOHNSON

A questo proposito, il leader dei Tories è sotto attacco anche per aver cavalcato maldestramente l’attentato sul London Bridge. Ha annunciato frontiere blindate e lo screening dei passaporti per tutti. Ma non potrebbe fare altrimenti: da tempo non si vedeva una campagna così mediatica nel Regno Unito, ognuno si gioca il tutto per tutto. Johnson, ancora davanti di 10 punti ai laburisti, fomenta l’elettorato euroscettico. L’ultima mossa è il programma di visti d’ingresso simili a quelli degli Usa, anche per cittadini dell’Ue che una volta compiuta la Brexit entro il 31 gennaio 2020 (e trascorso il periodo di transizione entro il 31 dicembre 2020) dovranno pagare per un weekend a Londra. Naturalmente, esibendo un passaporto biometrico, perché la carta d’identità facilmente falsificabile non basterà più. Schedati, nella fortezza britannica potranno restare al massimo tre mesi. «Tolleranza zero» per gli irregolari.

Regno Unito elezioni Johnson Corbyn Brexit
Il leader del Labour, Jeremy Corbyn in corsa per le Legislative anticipate del 2019. GETTY.

LA STRUMENTALIZZAZIONE DELLA TRAGEDIA DEL LONDON BRIDGE

A chi, nel Labour e tra i LibDem, gli rinfaccia che il terrorismo viene più dall’interno che da fuori confine, BoJo risponde contestando le misure troppo blande sui detenuti come nel caso dell’attentatore ucciso il 29 novembre. Un attacco allo Stato poco opportuno che, nella composta Londra capace di essere eroica oggi come ieri – contro i nazifascisti come contro l’Isis -, gli è costato l’accusa di strumentalizzare una tragedia nazionale a fini politici. Nella «totale mancanza di rispetto per le vittime e i loro famigliari», rimproverano i LibDem. Sui fatti di Londra anche lo scatenato Corbyn ha mantenuto i toni bassi, lasciando parlare il padre del 25enne Jack Merritt morto nell’attacco, e che era impegnato nella riabilitazione dei detenuti come attentatore Usman Khan. «Jack sarebbe livido nel vedere la sua morte, e la sua vita, usate per perpetuare l’agenda di odio che ha sempre combattuto», ha scritto in una lettera al Guardian che ha fatto molto scalpore. Boris Johnson

Il premier britannico Boris Johnson.

PAROLA D’ORDINE: TOLLERANZA ZERO

Per Johnson vale il detto di Oscar Wilde: «Bene o male, basta che se ne parli». In un’intervista alla Bbc aveva scaricato sul Labour la responsabilità del rilascio del 28enne Khan, condannato per terrorismo nel 2012 e in libertà vigilata dal 2018 con il braccialetto elettronico. Su detenuti pericolosi come lui, britannico di origini pakistane legato gruppi jihadisti, il premier si è impegnato ad abbandonare «il sistema di rilascio automatico a breve». «Bisogna essere realisti», ha tuonato. E quindi tolleranza zero anche sul suolo britannico per chi commette reati gravi, è il messaggio che BoJo vuol far passare nel rush elettorale per i cittadini affamati di sicurezza. Guai però a toccare il tasto della sanità pubblica, un pilastro del Regno Unito che porta o toglie milioni di voti. Proprio lì Corbyn semina il panico, sventolando ai comizi 451 pagine di dossier su presunte trattative dei premier May e Johnson per svendere il servizio sanitario agli Usa, dopo la Brexit.

IL TOTEM DELLA SANITÀ PUBBLICA

Nominato premier, per prima cosa quest’estate Johnson ha promesso quasi 2 miliardi per risanare una ventina di strutture sanitarie. E in autunno ha rincarato la dose annunciando 15 miliardi di euro di investimenti in 40 nuovi ospedali. Uno specchietto per le allodole anche per il think tank britannico Nuffield Trust specializzato in sanità, che se da un lato non rileva piani del governo per cedere degli asset alle corporation americane, dall’altro con la Brexit stima un mercato allargato per le case farmaceutiche di Oltreoceano. Per Johnson c’è un altro buon motivo per non farsi riprendere troppo accanto a Trump: anche sulla difesa del clima, diventato un trend di massa, i due leader hanno posizioni diverse. Il paradosso è che Trump, accanito fan della Brexit, non smette di cercare il premier britannico e di sbilanciarsi sul voto inglese. Un assist perfetto al Labour.

Il premier britannico Boris Johnson con il leader del Labour, Jeremy Corbyn ai funerali delle vittime dell’attentato di Londra.

L’ULTIMA DI CORBYN? RINAZIONALIZZARE BRITISH TELECOM

Il rosso Corbyn nero sondaggi veleggia tra il 33 e il 34% mentre i Tory di Johnson sul 42-43%. Ma lo «stalinista», come lo addita BoJo, è un mago delle rimonte. In campagna Corbyn, Johnson e Trump sono più simili di quanto non si creda e l’elettorato è molto fluido: nulla è ancora detto, frenano gli analisti. Sono chiaramente fuochi d’artificio da campi opposti: l’ultimo di Corbyn è il piano per «rinazionalizzare British Telecom, assicurare la banda larga gratis a tutti, tassare giganti della Rete come Google, Amazon e Facebook». Uno choc per i mercati: all’annuncio le azioni di Bt, privatizzata da Margaret Thatcher, sono crollate al 3,7%, per mezzo miliardo di valore bruciato. Ma le telecomunicazioni sono il «core business del 21esimo secolo, guai a lasciarlo alle multinazionali», ammetterebbe anche BoJo.

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Cosa prevede la stretta di Johnson sui turisti Ue nel Regno Unito

Introduzione di un visto elettronico e obbligo di munirsi di passaporto: il giro di vite del premier conservatore in caso di vittoria alle elezioni del 12 dicembre.

Boris Johnson prepara la stretta sul turismo. Con ricadute pesanti su tutti i viaggiatori stranieri, inclusi quelli provenienti dall’Unione europea. In caso di vittoria alle elezioni anticipate nel Regno Unito del 12 dicembre, il premier conservatore è pronto a complicare la vita ai cittadini Ue in viaggio per Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, equiparandoli agli extracomunitari.

SERVE IL VIA LIBERA TRE GIORNI PRIMA DEL VIAGGIO

L’intenzione è quella di introdurre – a partire dal primo gennaio 2021 – l’obbligo di compilare preventivamente un modulo elettronico simile allEsta statunitense per varcare il confine. Se il via libera all’ingresso nel Regno Unito non arriverà almeno tre giorni prima dell’arrivo in qualsiasi aeroporto o porto britannico, il cittadino Ue sarà rimandato a casa. Addio viaggi dell’ultimo minuto, dunque.

VADE RETRO PASSAPORTO ITALIANO

Non solo. La carta di identità non sarà più sufficiente, servirà il passaporto. In questo senso, la ministra dell’Interno Priti Patel, esponente euroscettica della destra più radicale in casa Tory, se l’è presa in particolare con le carte d’identità di Italia e Grecia, che ha definito facili da falsificare. Inoltre, sarà vietato l’ingresso nel Regno Unito ai condannati per una serie di reati – ancora non specificati -, e verrà applicato un sistema di conteggio volto a calcolare quanti cittadini Ue sono entrati e quanti sono usciti dal Paese in un certo periodo di tempo ed evitare soggiorni superiori ai tre mesi permessi dal visto turistico.

I SONDAGGI PREOCCUPANO JOHNSON

La condizione necessaria perché questa stretta sull’immigrazione europea annunciata da Johnson diventi realtà è che il premier conservatore vinca le elezioni del 12 dicembre, ottenendo la maggioranza assoluta in parlamento, e metta in atto la Brexit, ovvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Gli ultimi sondaggi, realizzati prima dell’attentato sul London Bridge, hanno innescato qualche accenno di preoccupazione in casa Tory sulla certezza di potersi aggiudicare la maggioranza assoluta dei seggi, vitale per la Brexit. Cala infatti il vantaggio (pur largo) attribuito ai conservatori sui laburisti: per Opinum, da 19 a 15 punti; per Bmg, addirittura fino al 6%. Con un massiccio recupero di voti del partito di Jeremy Corbyn ai danni delle terze forze, liberaldemocratici in testa.

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Un uomo armato di coltello ha ucciso due persone a Londra

Attentato sul London Bridge, già teatro di una strage nel 2017. Morto l'assalitore, che indossava un finto giubbotto esplosivo. Altre otto persone sono rimaste ferite.

Spari e terrore sul London Bridge. Il 29 novembre un uomo armato di coltello ha seminato il panico nel cuore di Londra prima di essere fermato dai passanti e, in un secondo momento, colpito dai proiettili della polizia, che l’ha ucciso. Il bilancio dell’attacco è di due morti e otto feriti. Le forze dell’ordine hanno evacuato la zona e parlato inizialmente di un incidente. Scotland Yard, poi, ha ipotizzato che l’attacco sia legato al «terrorismo». Il London Bridge era già stato teatro di un attentato nel giugno del 2017 in cui persero la vita 11 persone.

PASSANTI IN LOTTA CON L’AGGRESSORE

L’aggressore ha avuto una colluttazione con persone in abiti civili prima di essere neutralizzato della polizia, intervenuta pochi minuti dopo l’allarme scattato alle 14 ora locale circa, le 15 in Italia. Lo mostrano le immagini di un video rimbalzato sui media britannici, dove si vede un uomo per terra, presumibilmente l’aggressore, e alcune persone che sembrano essere passanti in lotta con lui.

«Posso confermare», ha detto ai giornalisti Neil Basu, numero 2 di Scotland Yard e responsabile dell’antiterrorismo, «che la polizia è stata chiamata per un episodio di accoltellamento attorno alle 14 e che un uomo di sesso maschile è stato colpito con armi da fuoco da agenti specializzati. Il sospetto è morto sul posto».

L’ASSALITORE INDOSSAVA UN FINTO GIUBBOTTO ESPLOSIVO

L’assalitore indossava anche un finto giubbotto esplosivo, come ha confermato Basu, ribadendo che l’episodio è indagato come un atto di terrorismo, ma senza sbilanciarsi sulla possibile matrice né comunicare per ora l’identità dell’ucciso. L’ufficiale ha spiegato che i cordoni attorno all’area resteranno per tutto il tempo necessario a confermarne la sicurezza. Basu ha anche chiesto che chiunque abbia informazioni, immagini e video dell’incidente li condivida con gli inquirenti.

La gente correva nel panico tra le urla, subito è arrivata la polizia che ha bloccato ed evacuato il Borough Market pieno di gente e turisti, le persone si sono barricate all’interno dei negozi

Circolano su Twitter diversi video girati da utenti a Londra che hanno ripreso il momento in cui la polizia ha neutralizzato l’attentatore sul ponte di Londra. Nelle immagini si vede una colluttazione tra l’uomo e una persona in borghese. A un certo punto quest’ultima viene trascinata via da un poliziotto in uniforme mentre un altro agente, con in mano un oggetto di colore giallo, prende la mira e spara da distanza ravvicinata, immobilizzando all’istante l‘attentatore. Secondo alcuni testimoni oculari che scrivono da Londra sul social network, l’agente potrebbe avere azionato un taser, stordendo l’attentatore.

Il fermo immagine di un video pubblicato sul profilo Twitter de La7 mostra l’aggressore di London Bridge mentre viene neutralizzato dagli agenti di polizia, 29 novembre 2019.

KHAN: «QUELLI CHE CI ATTACCANO NON AVRANNO MAI SUCCESSO»

«La gente correva nel panico tra le urla, subito è arrivata la polizia che ha bloccato ed evacuato il Borough Market pieno di gente e turisti, le persone si sono barricate all’interno dei negozi», ha raccontato un giornalista dell’Ansa che si trova nel famoso mercato londinese, a pochi passi dal London Bridge. Il sindaco di Londra Sadiq Khan ha dichiarato: «Il mio cuore è con le vittime e con le loro famiglie. Grazie ai nostri coraggiosi servizi di emergenza per la coraggiosa risposta all’orrendo attacco di oggi. Noi dobbiamo – e vogliamo – rimanere risoluti nella nostra determinazione di essere forti di fronte al terrore. Quelli che ci attaccano e cercano di dividerci non avranno mai successo»

«I NOSTRI VALORI PREVARRANNO»

«I nostro valori, i valori britannici, prevarranno” sul terrore. Così Boris Johnson alla Bbc, a margine di una riunione del comitato d’emergenza Cobra dedicata all’accoltellamento di London Bridge. Il premier Tory ha assicurato che gli organi di polizia sono al lavoro e si è impegnato a far sì che chiunque sia connesso con questo attacco sia “catturato e ne risponda di fronte alla giustizia”. Ha quindi aggiunto che gli aggressori “non ci dividono né ci intimidiscono”, e ha invitato la gente a restare “vigile”.

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Le carte di Corbyn, tra voto giovanile e indipendentisti scozzesi

I 4,1 milioni di nuovi elettori sono un'ottima notizia per il leader laburista, popolarissimo tra i ventenni. Mentre l'Snp apre a un'alleanza progressista contro Johnson.

Oltre 4 milioni di nuovi elettori. A loro si aggrappa il partito laburista di Jeremy Corbyn per rovesciare il tavolo e sorprendere il premier conservatore Boris Johnson alle elezioni britanniche del 12 dicembre. Il dato rappresenta un record, nel 2017 furono 2,9 milioni. Su questo voto giovanile fa leva il Labour contro i conservatori favoriti dai sondaggi. Di quei 4,1 milioni di nuovi elettori i tre quarti sono under 34: una platea che 2 anni fa aveva quasi fatto saltare il banco portando i laburisti a un 40% non previsto da nessuno, con tassi di consenso pro-Corbyn fra i ventenni a livelli da plebiscito. Il dato va preso con le molle, anche perché le nuove iscrizioni vanno validate. Ma comunque rischia di minacciare i piani di BoJo, che per vincere le elezioni (e onorare la promessa di attuare la Brexit entro Natale) ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi nella nuova Camera dei Comuni. Al Labour e al resto delle opposizioni potrebbe invece anche bastare il risultato di un parlamento frammentato.

OCCHI PUNTATI SULLA SANITÀ

Per recuperare consensi Corbyn ha giocato la carta di una conferenza stampa sulla difesa della sanità pubblica (Nhs), uno dei suoi cavalli di battaglia più popolari. E ha svelato 451 pagine di documenti riservati sui negoziati preliminari fra i governi Tory e l’amministrazione di Donald Trump sui temi di un futuro accordo bilaterale di libero scambio post Brexit che sembrano almeno in parte accreditare lo scenario d’ipotetici cedimenti a infiltrazioni delle corporation Usa negli ospedali del Paese. La conferma che «la Nhs sarà messa in vendita», nelle denunce laburiste liquidate da Johnson come «assurdità e bugie». Corbyn poi ha incassato l’apertura degli indipendentisti scozzesi dell’Snp – potenzialmente cruciali nel parlamento del dopo 12 dicembre – all’idea di «un’alleanza progressista»: l’appoggio a un eventuale governo Corbyn di minoranza cementato dall’obiettivo comune di un secondo referendum sulla Brexit, pur con la condizione-capestro ripetuta dalla first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, di un parallelo bis referendario sulla secessione della Scozia pure nel 2020.

TORNANO LE ACCUSE DI ANTISEMITISMO

Segnali di incoraggiamento che tuttavia non cancellano il coro ostile anti-Jeremy dei media mainstream, rilanciato dalle accuse di appeasement verso «il veleno» di certi rigurgiti «anti-ebraici» scagliate il 26 novembre contro il numero uno laburista dal gran rabbino del Regno Unito, Ephraim Mirvis. Accuse da cui Corbyn ha tentato di difendersi in un’affannata intervista alla Bbc di fronte alle incalzanti domande di Andrew Neil, ex firma del conservatore Spectator, condannando con forza l’antisemitismo. Ma ostinandosi a non rinnovare le scuse rivolte alla comunità ebraica un anno fa. Scuse che invece Boris s’è d’un tratto affrettato a fare, dopo essersi rifiutato per mesi, sui fenomeni d’islamofobia imputati ai Tory. Un modo per lasciare al solo Corbyn l’etichetta di “cattivo”.

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Le carte di Corbyn, tra voto giovanile e indipendentisti scozzesi

I 4,1 milioni di nuovi elettori sono un'ottima notizia per il leader laburista, popolarissimo tra i ventenni. Mentre l'Snp apre a un'alleanza progressista contro Johnson.

Oltre 4 milioni di nuovi elettori. A loro si aggrappa il partito laburista di Jeremy Corbyn per rovesciare il tavolo e sorprendere il premier conservatore Boris Johnson alle elezioni britanniche del 12 dicembre. Il dato rappresenta un record, nel 2017 furono 2,9 milioni. Su questo voto giovanile fa leva il Labour contro i conservatori favoriti dai sondaggi. Di quei 4,1 milioni di nuovi elettori i tre quarti sono under 34: una platea che 2 anni fa aveva quasi fatto saltare il banco portando i laburisti a un 40% non previsto da nessuno, con tassi di consenso pro-Corbyn fra i ventenni a livelli da plebiscito. Il dato va preso con le molle, anche perché le nuove iscrizioni vanno validate. Ma comunque rischia di minacciare i piani di BoJo, che per vincere le elezioni (e onorare la promessa di attuare la Brexit entro Natale) ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi nella nuova Camera dei Comuni. Al Labour e al resto delle opposizioni potrebbe invece anche bastare il risultato di un parlamento frammentato.

OCCHI PUNTATI SULLA SANITÀ

Per recuperare consensi Corbyn ha giocato la carta di una conferenza stampa sulla difesa della sanità pubblica (Nhs), uno dei suoi cavalli di battaglia più popolari. E ha svelato 451 pagine di documenti riservati sui negoziati preliminari fra i governi Tory e l’amministrazione di Donald Trump sui temi di un futuro accordo bilaterale di libero scambio post Brexit che sembrano almeno in parte accreditare lo scenario d’ipotetici cedimenti a infiltrazioni delle corporation Usa negli ospedali del Paese. La conferma che «la Nhs sarà messa in vendita», nelle denunce laburiste liquidate da Johnson come «assurdità e bugie». Corbyn poi ha incassato l’apertura degli indipendentisti scozzesi dell’Snp – potenzialmente cruciali nel parlamento del dopo 12 dicembre – all’idea di «un’alleanza progressista»: l’appoggio a un eventuale governo Corbyn di minoranza cementato dall’obiettivo comune di un secondo referendum sulla Brexit, pur con la condizione-capestro ripetuta dalla first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, di un parallelo bis referendario sulla secessione della Scozia pure nel 2020.

TORNANO LE ACCUSE DI ANTISEMITISMO

Segnali di incoraggiamento che tuttavia non cancellano il coro ostile anti-Jeremy dei media mainstream, rilanciato dalle accuse di appeasement verso «il veleno» di certi rigurgiti «anti-ebraici» scagliate il 26 novembre contro il numero uno laburista dal gran rabbino del Regno Unito, Ephraim Mirvis. Accuse da cui Corbyn ha tentato di difendersi in un’affannata intervista alla Bbc di fronte alle incalzanti domande di Andrew Neil, ex firma del conservatore Spectator, condannando con forza l’antisemitismo. Ma ostinandosi a non rinnovare le scuse rivolte alla comunità ebraica un anno fa. Scuse che invece Boris s’è d’un tratto affrettato a fare, dopo essersi rifiutato per mesi, sui fenomeni d’islamofobia imputati ai Tory. Un modo per lasciare al solo Corbyn l’etichetta di “cattivo”.

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Le carte di Corbyn, tra voto giovanile e indipendentisti scozzesi

I 4,1 milioni di nuovi elettori sono un'ottima notizia per il leader laburista, popolarissimo tra i ventenni. Mentre l'Snp apre a un'alleanza progressista contro Johnson.

Oltre 4 milioni di nuovi elettori. A loro si aggrappa il partito laburista di Jeremy Corbyn per rovesciare il tavolo e sorprendere il premier conservatore Boris Johnson alle elezioni britanniche del 12 dicembre. Il dato rappresenta un record, nel 2017 furono 2,9 milioni. Su questo voto giovanile fa leva il Labour contro i conservatori favoriti dai sondaggi. Di quei 4,1 milioni di nuovi elettori i tre quarti sono under 34: una platea che 2 anni fa aveva quasi fatto saltare il banco portando i laburisti a un 40% non previsto da nessuno, con tassi di consenso pro-Corbyn fra i ventenni a livelli da plebiscito. Il dato va preso con le molle, anche perché le nuove iscrizioni vanno validate. Ma comunque rischia di minacciare i piani di BoJo, che per vincere le elezioni (e onorare la promessa di attuare la Brexit entro Natale) ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi nella nuova Camera dei Comuni. Al Labour e al resto delle opposizioni potrebbe invece anche bastare il risultato di un parlamento frammentato.

OCCHI PUNTATI SULLA SANITÀ

Per recuperare consensi Corbyn ha giocato la carta di una conferenza stampa sulla difesa della sanità pubblica (Nhs), uno dei suoi cavalli di battaglia più popolari. E ha svelato 451 pagine di documenti riservati sui negoziati preliminari fra i governi Tory e l’amministrazione di Donald Trump sui temi di un futuro accordo bilaterale di libero scambio post Brexit che sembrano almeno in parte accreditare lo scenario d’ipotetici cedimenti a infiltrazioni delle corporation Usa negli ospedali del Paese. La conferma che «la Nhs sarà messa in vendita», nelle denunce laburiste liquidate da Johnson come «assurdità e bugie». Corbyn poi ha incassato l’apertura degli indipendentisti scozzesi dell’Snp – potenzialmente cruciali nel parlamento del dopo 12 dicembre – all’idea di «un’alleanza progressista»: l’appoggio a un eventuale governo Corbyn di minoranza cementato dall’obiettivo comune di un secondo referendum sulla Brexit, pur con la condizione-capestro ripetuta dalla first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, di un parallelo bis referendario sulla secessione della Scozia pure nel 2020.

TORNANO LE ACCUSE DI ANTISEMITISMO

Segnali di incoraggiamento che tuttavia non cancellano il coro ostile anti-Jeremy dei media mainstream, rilanciato dalle accuse di appeasement verso «il veleno» di certi rigurgiti «anti-ebraici» scagliate il 26 novembre contro il numero uno laburista dal gran rabbino del Regno Unito, Ephraim Mirvis. Accuse da cui Corbyn ha tentato di difendersi in un’affannata intervista alla Bbc di fronte alle incalzanti domande di Andrew Neil, ex firma del conservatore Spectator, condannando con forza l’antisemitismo. Ma ostinandosi a non rinnovare le scuse rivolte alla comunità ebraica un anno fa. Scuse che invece Boris s’è d’un tratto affrettato a fare, dopo essersi rifiutato per mesi, sui fenomeni d’islamofobia imputati ai Tory. Un modo per lasciare al solo Corbyn l’etichetta di “cattivo”.

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La polemica su Corbyn e l’antisemitismo nel Labour

Il rivale di Boris Johnson accusato dal rabbino capo del Regno Unito di aver consentito «al veleno» di «mettere radici» nel suo partito. La smentita non ferma la bufera a due settimane dal voto.

Un’altra tegola cade sulle speranze del Labour britannico di rovesciare le previsioni negative dei sondaggi in vista delle elezioni del 12 dicembre e della sfida con i favoritissimi conservatori del premier Boris Johnson. A simboleggiarla è l’ennesima accusa sul dossier antisemitismo, questa volta scagliata dalle colonne ostili del Times di Rupert Murdoch niente meno che dal rabbino capo ortodosso del Regno Unito, Ephraim Mirvis, guida della maggiore comunità di ebrei osservanti del Regno, tornato a imputare a Jeremy Corbyn – a meno di 20 giorni dal voto – d’aver consentito «al veleno» antisemita di «mettere radici» nel partito del quale è leader.

RISCHIO DI BOICOTTAGGIO PER LA SINISTRA

Le parole di Mirvis, respinte dal vertice laburista, vanno molto vicino ad un invito senza precedenti al boicottaggio di uno dei grandi partiti d’oltremanica. Per di più approdo storico di una larga fetta di mondo ebraico politicamente impegnato. E innescano reazioni a valanga, fra cui spiccano quelle incrociate d’alcune delle principali istituzioni religiose e confessionali – cristiane o islamiche – del Paese. «Non spetta a me dire per chi votare», mette le mani avanti Mirvis, non senza tuttavia far riecheggiare un’adesione di fatto all’appello già lanciato da voci significative del mainstream ebraico nazionale – oltre che da intellettuali e figure d’establishment avverse in generale alla svolta a sinistra di Corbyn e al suo passato di sostenitore militante della causa palestinese o terzomondista – a punire il Labour alle urne. Corredato dall’appello esplicito agli elettori a scegliere «secondo coscienza».

«INCOMPATIBILE CON I VALORI BRITANNICI»

Il rabbino descrive in sostanza Corbyn come inadeguato al ruolo di primo ministro e bolla come «incompatibile con i valori britannici di cui andiamo tanto fieri il modo con cui la leadership laburista» attuale «ha affrontato il razzismo antiebraico». Un verdetto senz’appello, nella giornata della chiusura dei termini per l’iscrizione nelle liste elettorali del Paese e della presentazione di un manifesto ad hoc laburista sulla difesa della libertà di fede e la lotta al razzismo durante la quale Corbyn evita qualunque polemica diretta limitandosi a definire l’antisemitismo un fenomeno «vile che non può avere spazio» all’interno del suo movimento. Rassicurazioni «mendaci» per Mirvis, al quale un portavoce del Labour replica rivendicando «l’impegno anti razzista» di una vita del compagno Jeremy e ribadendo la volontà di estirpare dal partito e dal Regno ogni traccia antisemita. Mentre rigetta come inaccurate le cifre su 130 presunti episodi gravi impuniti.

I PARTITI RIVALI CAVALCANO LA POLEMICA

I partiti rivali, dai Tory di Boris Johnson ai LibDem di Jo Swinson, cavalcano viceversa l’anatema del gran rabbino. Mentre l’influente arcivescovo anglicano di Canterbury, Justin Welby, aggiunge il carico da 90: riconoscendo a Mirvis – dopo aver fatto mea culpa anche per le macchie storiche della sua Chiesa – d’aver espresso «il profondo senso d’insicurezza e paura avvertito oggi da molti ebrei britannici». Comprensione per l’allarme del rabbino arriva pure dal Muslim Council of Britain, che però allarga il discorso. E nota come ad esempio la minaccia rampante parallela «dell’islamofobia» provenga «in modo acuto soprattutto dal Partito conservatore», non certo dal Labour.

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La polemica su Corbyn e l’antisemitismo nel Labour

Il rivale di Boris Johnson accusato dal rabbino capo del Regno Unito di aver consentito «al veleno» di «mettere radici» nel suo partito. La smentita non ferma la bufera a due settimane dal voto.

Un’altra tegola cade sulle speranze del Labour britannico di rovesciare le previsioni negative dei sondaggi in vista delle elezioni del 12 dicembre e della sfida con i favoritissimi conservatori del premier Boris Johnson. A simboleggiarla è l’ennesima accusa sul dossier antisemitismo, questa volta scagliata dalle colonne ostili del Times di Rupert Murdoch niente meno che dal rabbino capo ortodosso del Regno Unito, Ephraim Mirvis, guida della maggiore comunità di ebrei osservanti del Regno, tornato a imputare a Jeremy Corbyn – a meno di 20 giorni dal voto – d’aver consentito «al veleno» antisemita di «mettere radici» nel partito del quale è leader.

RISCHIO DI BOICOTTAGGIO PER LA SINISTRA

Le parole di Mirvis, respinte dal vertice laburista, vanno molto vicino ad un invito senza precedenti al boicottaggio di uno dei grandi partiti d’oltremanica. Per di più approdo storico di una larga fetta di mondo ebraico politicamente impegnato. E innescano reazioni a valanga, fra cui spiccano quelle incrociate d’alcune delle principali istituzioni religiose e confessionali – cristiane o islamiche – del Paese. «Non spetta a me dire per chi votare», mette le mani avanti Mirvis, non senza tuttavia far riecheggiare un’adesione di fatto all’appello già lanciato da voci significative del mainstream ebraico nazionale – oltre che da intellettuali e figure d’establishment avverse in generale alla svolta a sinistra di Corbyn e al suo passato di sostenitore militante della causa palestinese o terzomondista – a punire il Labour alle urne. Corredato dall’appello esplicito agli elettori a scegliere «secondo coscienza».

«INCOMPATIBILE CON I VALORI BRITANNICI»

Il rabbino descrive in sostanza Corbyn come inadeguato al ruolo di primo ministro e bolla come «incompatibile con i valori britannici di cui andiamo tanto fieri il modo con cui la leadership laburista» attuale «ha affrontato il razzismo antiebraico». Un verdetto senz’appello, nella giornata della chiusura dei termini per l’iscrizione nelle liste elettorali del Paese e della presentazione di un manifesto ad hoc laburista sulla difesa della libertà di fede e la lotta al razzismo durante la quale Corbyn evita qualunque polemica diretta limitandosi a definire l’antisemitismo un fenomeno «vile che non può avere spazio» all’interno del suo movimento. Rassicurazioni «mendaci» per Mirvis, al quale un portavoce del Labour replica rivendicando «l’impegno anti razzista» di una vita del compagno Jeremy e ribadendo la volontà di estirpare dal partito e dal Regno ogni traccia antisemita. Mentre rigetta come inaccurate le cifre su 130 presunti episodi gravi impuniti.

I PARTITI RIVALI CAVALCANO LA POLEMICA

I partiti rivali, dai Tory di Boris Johnson ai LibDem di Jo Swinson, cavalcano viceversa l’anatema del gran rabbino. Mentre l’influente arcivescovo anglicano di Canterbury, Justin Welby, aggiunge il carico da 90: riconoscendo a Mirvis – dopo aver fatto mea culpa anche per le macchie storiche della sua Chiesa – d’aver espresso «il profondo senso d’insicurezza e paura avvertito oggi da molti ebrei britannici». Comprensione per l’allarme del rabbino arriva pure dal Muslim Council of Britain, che però allarga il discorso. E nota come ad esempio la minaccia rampante parallela «dell’islamofobia» provenga «in modo acuto soprattutto dal Partito conservatore», non certo dal Labour.

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L’appello di oltre 60 medici per “salvare” Assange

In una lettera aperta al governo britannico dottori di diverse nazionalità affermano che senza cure «urgenti» il fondatore di Wikileaks potrebbe morire in prigione.

«Salvate l’attivista Julian Assange». Oltre 60 medici di diverse nazionalità hanno scritto una lettera aperta al governo britannico e al ministro dell’interno Priti Patel in cui affermano che il fondatore di Wikileaks potrebbe morire in prigione senza cure «urgenti». Secondo i firmatari della missiva Assange soffre di problemi fisici e psicologici, e deve essere curato in un ospedale «attrezzato e con personale esperto». Assange, 48 anni, è detenuto in un carcere britannico dallo scorso maggio, dopo che l’Ecuador gli ha revocato il diritto di asilo. A febbraio inizieranno le udienze sulla richiesta di estradizione degli Usa. Mentre è caduta anche l’ultima indagine per stupro che era in corso in Svezia.

«VALUTAZIONE MEDICA URGENTE»

I medici britannici, europei, australiani e dello Sri Lanka, nella lettera diffusa da WikiLeaks affermano che «da un punto di vista medico, sulle indagini attualmente disponibili, nutriamo serie preoccupazioni riguardo all’idoneità del signor Assange ad essere processato nel febbraio 2020» E «soprattutto è nostra opinione che necessiti di una valutazione medica urgente da parte di esperti sul suo stato fisico e psicologico». Altrimenti, avvertono, «nutriamo serie preoccupazioni che possa morire in prigione». Assange è detenuto in Gran Bretagna per aver violato i termini della libertà vigilata, dopo essersi nascosto all’ambasciata ecuadoriana a Londra per sette anni. La scorsa settimana i magistrati svedesi hanno rinunciato all’indagine per stupro nei confronti del cyber-attivista australiano, che però dovrebbe rispondere alle accuse di spionaggio negli Stati Uniti.

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Non fidatevi di Johnson né di chi lo dà sicuro vincitore

Il premier britannico, noto per la sua inaffidabilità fin da quando era giornalista, non è così amato come alcuni sondaggi potrebbero far pensare. E i risultati potrebbero vedersi in un voto anticipato che s'annuncia sul filo.

La Brexit non è soltanto un programma politico monotematico che ha fatto ormai dei conservatori un Brexit party. Le elezioni politiche anticipate che si stanno avvicinando (12 dicembre) sono sia un secondo referendum sia una persona, una fisionomia umana non sgradevole, un po’ sovrappeso e tozza, uno stile spesso efficace ma non sempre ispiratore di vera fiducia, ricco di promesse di un futuro radioso ma vago. Tutto questo si chiama Boris Johnson.

È un ruolo al quale l’ex sindaco di Londra, piuttosto popolare, ed ex inefficace ministro degli Esteri , deputato dal 2015, si prepara da 30 anni. Ha incominciato a farlo come corrispondente per cinque anni da Bruxelles del Daily Telegraph, quotidiano ufficioso e quasi ufficiale del nazionalismo conservatore britannico. Boris arrivava a Bruxelles nel 1989 pochi mesi prima che vi arrivasse, per un quotidiano italiano, anche l’autore di queste note. Gli uffici erano vicini, Boris sempre favorevole a una pausa dal computer e a una birra, pronto alla battuta, e fonte inesauribile di pettegolezzi comunitari. Della cui attendibilità tuttavia, facevano presto capire i suoi colleghi britannici, non c’era garanzia. Maliziosamente qualcuno ricordava che aveva incominciato poco più di un anno prima il suo percorso nel giornalismo al Times, abituale trampolino dei rampolli della storica élite del Paese – Johnson ovviamente ha fatto Eton, e poi Oxford – , ma era stato licenziato dopo un’intervista in parte inventata. Bruxelles era una destinazione per lui naturale, perché lì era cresciuto, figlio di uno dei primi eurodeputati britannici, poi funzionario Cee.

BORIS, UN CABARETTISTA CON BRUXELLES NEL MIRINO

L’attuale premier era nella Bruxelles dei corrispondenti il perno di alcune serate cabarettistiche che soprattutto i britannici, come noto appassionati del palcoscenico, organizzavano per la comunità dei giornalisti, e affini, e dedicate ovviamente a smitizzare e ridicolizzare la burocrazia europea, che offriva ampi spunti. Cavalcò alla grande all’inizio della sua corrispondenza la storia della standardizzazione europea non solo dei preservativi, ma anche, di conseguenza sosteneva lui, delle dimensioni di ciò che lo strumento profilattico doveva preservare. Era ovviamente una pochade, nata da una mossa comunitaria per garantire standard sanitari minimi al suddetto prodotto gommoso, capaci di assicurare protezione contro l’epidemia di Aids allora agli inizi. Non c’entravano “misure” o cose simili, ma Johnson usò il tutto per ridicolizzare Bruxelles. Era una delle sue tattiche preferite.

I suoi interventi più che porre precise domande ai portavoce erano mirati a far ridere la platea, citando stranezze comunitarie che poi gli articoli sul Telegraph riportavano, enfatizzavano, travisavano

Boris, quando voleva, era la star dell’ampia sala stampa al quotidiano briefing di mezzogiorno nel palazzo Berlaymont e, dal 2001, nel vicino palazzo Breydel, dove il tutto si trasferiva per disinfestare il Berlaymont dalle oltre 1.000 tonnellate di amianto nascoste nelle strutture, e rifarlo ex novo. I suoi interventi più che porre precise domande ai portavoce erano mirati a far ridere la platea, citando stranezze comunitarie che poi gli articoli sul Telegraph riportavano, enfatizzavano, travisavano. Con buon successo fra molti lettori euroscettici e conservatori. Per capire il binomio Boris-Europa occorre ricordare che nel novembre di quell’anno cadeva il Muro di Berlino, e rapidamente tutto il mondo europeo cambiava paradigma, accelerava, e andava oltre quel modello di mercato comune. Occorre anche ricordare qualcosa di quando e come era avvenuto l’ingresso britannico nella Cee.

IL PERCORSO EUROPEO DI LONDRA, DA CHURCHILL A THATCHER

Winston Churchill aveva tracciato nel primo Dopoguerra, anticipando gli inviti continentali a unirsi ai tentativi europeisti, una linea chiara, che però ancora oggi una parte dei suoi connazionali si rifiuta di accettare: se riusciamo a salvare una quota sufficiente dell’Impero stiamo per conto nostro, diceva Churchill che pure sollecitava i continentali a unirsi fra loro; se lo perdiamo ci uniamo agli altri, ma in modo convinto e cercando di essere fra i leader. Dopo vari no all’Europa del governo di Clement Attlee, nazional-laburista e timoroso che i democristian-centristi continentali limitassero l’esperimento socialista britannico, furono i conservatori con due collaboratori e allievi di Churchill, Harold Macmillan ed Edward Heath, a iniziare a fine Anni 50 la lunga marcia che, anche per i ripetuti veti francesi, si concluderà solo nel 1973. Il motivo della conversione era lampante: il mercato comune funzionava, la Gran Bretagna nel 1951-1973 aveva avuto con il 2,7% per anno la crescita media più bassa fra tutti i Paesi Ocse; Germania, Francia e Italia si erano attestate sul 5% annuo o sopra.

LA CONTRADDIZIONE MAI RISOLTA TRA COMMERCIO E POLITICA

Già allora era chiaro però che se c’era una netta maggioranza a favore del mercato comune, con Margaret Thatcher assolutamente in prima fila per trasformarlo 10 anni dopo o poco più nel mercato Unico, c’erano forti resistenze alla cessione di sovranità politica che inevitabilmente lo stesso mercato, comune e poi unico, alla fine implicava. In un discorso emozionale del 1962, ricco di riferimenti al Commonwealth e alla comunità mondiale anglofona, il leader laburista Hugh Geistkell aveva ricordato che il progetto europeo era «la fine di 1.000 anni di indipendenza» per le isole britanniche e invitato a riflettere. Nel 1975 il referendum sulla Ue voluto dal nuovo governo laburista di Harold Wilson passava con una maggioranza del 67%. Ma il Regno Unito, e gli inglesi in particolare, non hanno mai risolto la contraddizione tra il desiderio commerciale di stare nel grande mercato europeo e il desiderio politico di restare pienamente indipendenti. Non a caso una buona quota di funzionari britannici dell’Ue ha sempre remato contro qualsiasi cosa potesse limitare l’autonomia di scelta del Parlamento e dell’amministrazione britannica.

Margaret Thatcher ed Edward Heath in una foto del 1975: la leader conservatrice tiene in mano una pubblicazione intitolata ‘Britain In Europe, The Benefits Of Membership’.

Non appena fu chiaro, e fu chiaro subito nel 1989, che la fine del sistema sovietico implicava non solo l’allargamento, che da Londra ampi settori politici favorivano sperando si trasformasse in una diluizione della Ue, ma anche l’approfondimento di strutture e obiettivi sul piano politico, scattò la reazione. E incominciò a organizzarsi l’armata anti-Ue che conta ora il 12 dicembre di vincere lo scontro decisivo. Thatcher doveva cedere nel 90 la premiership, messa in minoranza nel partito proprio dai filo-europei. Ma avrebbe da allora, e in crescendo, coltivato un lascito fortemente anti-Bruxelles («nel corso della mia vita tutti i guai sono venuti dal Continente», dichiarava nel 1999) di cui Johnson è oggi esponente e bandiera.

TUTTO RIDOTTO A UNA QUESTIONE DI ORGOGLIO NAZIONALE

Esponente autorevole? Non tutti i suoi articoli da Bruxelles erano propaganda e falsità. Se prendiamo ad esempio uno (Delors plan to rule Europe) scritto del maggio 1992 sul piano Delors di riforma della Commissione e del Consiglio, con evidente estensione dei poteri, Johnson ammette che si stava cercando di affrontare «un problema reale» anche se per Londra, aggiungeva, «in modo inaccettabile». E il suo articolo di addio a Bruxelles, marzo 1994, era un elenco di casi nei quali Londra aveva subìto scelte collettive e si concludeva con la previsione che i britannici avrebbero tollerato sempre meno decisioni prese «in a foreign city». Il tutto era ridotto a orgoglio nazionale, senza mai negare che l’interesse economico fosse invece sul lato dell’appartenenza alla Ue. Amato e scelto come premier con un voto da quasi i due terzi dei 160 mila iscritti al partito, considerato dal gruppo parlamentare il più attrezzato a realizzare dopo oltre tre anni inutili l’attesa Brexit, Johnson non gode nel suo Paese di profonda stima.

BOJO VISTO DAL SUO EX DIRETTORE AL TELEGRAPH

«Non è un uomo in cui si possa credere, che ispiri fiducia o rispetto, salvo che come superlativo esibizionista», scriveva nel 2012 il suo ex direttore del Telegraph, Max Hastings, uno dei più noti e autorevoli giornalisti britannici. «La sua elevazione alla premiership», aggiungeva nel giugno 2019, «vorrà dire la fine di ogni pretesa britannica di essere un Paese serio». I sondaggi di opinione danno Boris e i conservatori ampiamente vincenti. La media delle scommesse, sondaggio forse più attendibile, dice che c’è al 60% la vittoria conservatrice e al 30% un hung parliament, un risultato senza vincitori, da cui emergerebbe un governo di coalizione con il leader laburista Jeremy Corbyn, persona onesta dicono a Londra ma troppo complicato (vuole anche lui un nuovo socialismo britannico), per parlare chiaro al Paese. Corbyn ha dopo il voto potenziali alleati, anche se adesso giurano che mai lo aiuteranno. Johnson no.

IL PALLOTTOLIERE CONSERVATORE E QUEI NUMERI SUL FILO

Se i pronostici spesso danno Boris vincitore, e anche con ampio margine, i numeri parlamentari invitano alla prudenza. A Westminster la maggioranza è di 326 deputati, ne servono almeno 330 per un minimo di margine; i conservatori uscenti erano 298, e tra Scozia e area londinese più Southwest England i Tory potrebbero perdere ancora circa 25 seggi. Devono quindi portarne via nelle Midland e nel Nord inglese circa 50, ai laburisti essenzialmente. Forse sarà semplice. E forse non sarà una passeggiata.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell'ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell'ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell'ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell'ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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I Tory di Johnson crescono, come la paura di una hard Brexit

Secondo i sondaggi i conservatori sono in netto vantaggio. Se alle elezioni del 12 dicembre BoJo arrivasse alla soglia di sicurezza di 330 seggi, allora Londra procederebbe con un taglio netto delle trattative con Bruxelles.

Fra un mese avremo scoperto se Boris Johnson e i suoi conservatori hanno stravinto, vinto, o perso le elezioni politiche del 12 dicembre e solo nel primo e nel secondo caso potremo dire che il nodo Brexit è stato sciolto. Si saprà venerdì 13 dicembre. Probabilmente ci sarà, ma potrebbe anche non esserci, una risposta chiara – sì alla Brexit – e finirà, o passerà alla fase due, questa lunghissima tragicommedia amletica che la politica britannica ha messo in scena per la delizia di pochi e la noia, ormai, di molti. 

I CONSERVATORI GUADAGNANO CONSENSI

La prima cosa certa è che i conservatori aumenteranno i consensi rispetto ai meno di 300 (causa defezioni ed espulsioni) deputati attuali e se sfuggirà loro la maggioranza sarà per un soffio, mentre sembrano invece destinati a conquistarla con margini di tutta tranquillità. E la seconda certezza è che i laburisti sicuramente non vinceranno e potrebbero perdere malamente, inanellando la quarta sconfitta consecutiva in meno di 10 anni. Nonostante questo però se i conservatori non hanno il balzo sperato e indicato oggi dai sondaggi, il molto problematico leader laburista Jeremy Corbyn potrebbe riuscire a ottenere la premiership come capo di un governo di coalizione formato da laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi, oggi l’un contro l’altro armati (soprattutto laburisti e liberaldemocratici che mai si sono amati) ma difficilmente capaci di resistere alla tentazione di fare di Boris Johnson il capo dell’opposizione

LEGGI ANCHE: Le elezioni in Uk e in Usa potrebbero cambiare l’Occidente per sempre

A metà novembre tutto sembra ancora possibile anche se la vittoria dei conservatori è data per molto, molto più probabile di una loro sconfitta. Il giudizio più elaborato dei maggiori esperti elettorali britannici concorda con quello più grezzo e istintivo degli scommettitori, scatenati su un evento come questo secondo referendum Brexit sotto le mentite spoglie di elezioni politiche anticipate. In questi giorni gli scommettitori danno a Johnson il 62% di probabilità di una maggioranza, vedono al 35% la possibilità di un parlamento senza maggioranza e quindi forse una coalizione anti-Tory a guida laburista, e danno solo il 3% all’ipotesi di una supremazia corbynista.

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Il leader laburista Jeremy Corbyn.

TRA CORBYN E JOHNSON È GARA DI IMPOPOLARITÀ

Secondo il professor Sir John Curtice della Strathclyde University, massima autorità di meccanismi elettorali, una certezza è che i laburisti hanno zero possibilità di uscire primo partito dal voto, e non solo per la scarsa popolarità del loro leader Corbyn, poco apprezzato da almeno tre quarti dell’elettorato. Nemmeno Boris Johnson è amato e tantomeno rispettato, a parte il nocciolo più duro dei brexiteer conservatori che sperano da lui la vittoria nella crociata nazionalista. La conclusione dice Curtice è che siamo di fronte a una «gara di impopolarità». 

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I sondaggi danno i conservatori poco sotto quota 40% con una dozzina e oltre di punti di distacco dai laburisti; terzi ben sotto il 20% i liberldemocratici e quarti, ma sotto il 10% e in continua erosione, i “faragisti” del Brexit party di Nigel Farage, svuotato da un partito conservatore diventato altrettanto brexiteer. Ci sono poi i nazionalisti scozzesi, terzo gruppo parlamentare della legislatura appena conclusa dopo conservatori e laburisti, ma sono un caso a parte, geograficamente delimitato. Potrebbero comunque pesare in una coalizione, nel caso di un difficile ma non impossibile semiflop dei consevatori, perché aumenteranno i consensi tornando ai circa 50 deputati che conquistarono nel 2015. 

LA PARTITA DEI COLLEGI LOCALI

Nel sistema elettorale britannico i sondaggi nazionali sulle intenzioni di voto possono facilmente essere smentiti da una serie di realtà e personalità locali nei 650 collegi dove vige il maggioritario secco e prende il seggio chi ha più voti senza nessun tipo di recupero nazionale per quelli che seguono. Gli esperti, e Curtice fra questi, considerano quindi anche le dinamiche nei collegi più contendibili e la conclusione è che al momento Johnson può contare, teoricamente, su una maggioranza sicura in grado di consentirgli di portare avanti la Brexit che vuole, e cioè probabilmente fra un anno una hard Brexit con poche o nulle intese con Bruxelles. Qualcuno parla di 360-370 seggi ai conservatori, oggi tutti brexiteer dopo la recente espulsione a ottobre dei moderati

A CACCIA DELLA SOGLIA DI SICUREZZA DI 330 DEPUTATI

Per governare con un minimo di tranquillità occorrono, nel parlamento di 650 seggi, non meno di 330 deputati che sono quanti David Cameron conquistò nel voto del 2015 e quanti ne aveva il  suo successore Theresa May quando nel giugno del 2017 andò al voto anticipato per rafforzarsi e finì invece per perderne 13. Le previsioni  fatte allora furono clamorosamente smentite; due settimane prima del voto ai conservatori venivano attribuiti 364-396 seggi e il giorno del voto 337-366 con un solo analista/sondaggista, YouGov, che diceva 302. Ai laburisti invece ne venivano attribuiti prima 180-212 e poi 207-227 e ne ebbero 262. 

L’IDENTITÀ CONFUSA DEI LABURISTI

È anche sulla base di questo clamoroso precedente, appena due anni fa,  che molti sono restii a dare per scontata la netta vittoria di Johnson e della sua Brexit ma le cose in due anni sono cambiate. Soprattutto c’è un partito laburista che non ha saputo dare agli elettori una chiara prospettiva, a forza di non voler scegliere fra leave e remain per paura di alienare una delle due anime che lo abitano, e per rispondere alle complicazioni mentali del suo leader Corbyn che vorrebbe una “sua” Brexit tutta a sinistra ma ha fra le mani un partito a maggioranza remain. Mentre nel 2015 il Labour è andato assai meglio del previsto perché riusciva a sembrare un remain party ai remainer e un leave party ai leaver, oggi rischia di andare male o anche malissimo perché sembra diventato un leave party  ai remainer e un remain party ai leaver. E questa è solo una delle differenze con due anni fa.

Boris Johnson.

I DUE SCENARI POSSIBILI

Per il professor Curtice esistono due scenari: o una netta vittoria di Johnson e la partita è chiusa, o un parlamento bloccato senza chiara maggioranza. Per farcela i conservatori devono mantenere nei sondaggi fino all’ultimo un distacco di almeno 7-6 punti sui laburisti. Se finiranno sotto i 320 deputati hanno perso, se saranno a 320 o due o tre sopra avranno bisogno del sostegno degli Unionisti dell’Irlanda del Nord, come ha fatto May dopo il 2017, e non sarà facile perché gli Unionisti si sentono abbandonati dalla Brexit di Johnson. In questo scenario non è impensabile un governo di coalizione, con pochi seggi di maggioranza, fra laburisti, scozzesi e liberaldemocratici, guidato da Corbyn, finché dura, fino alla negoziazione cioè di una “nuova” Brexit e al referendum popolare che la  accetta o preferisce il remain. Ma è un’ipotesi appesa a un filo. Per ora Johnson è in netto vantaggio. 

LE CONSEGUENZE DELLA HARD BREXIT DI BOJO

La conseguenza sarebbe, probabilmente, un taglio traumatico dopo un anno di stentate trattative. Johnson e i suoi vogliono una Gran Bretagna corsara che porti via business al continente con una deregulation spinta e una tassazione competitiva per le imprese e i ricchi. È più che possibile che la maggioranza degli inglesi, in particolare gli inglesi che sono però la grandissima maggioranza dell’elettorato del Regno Unito, li segua. È chiaro, o dovrebbe esserlo, che fuori dalla Ue il Paese si isola, e comunque vada non sarà facile sostituire un mercato come quello attuale europeo, a totale libero accesso. Ma domina una grande ubriacatura di nazionalismo, con il sogno di un impossibile ritorno al passato e un disprezzo molto inglese per i continentali, oltre che per gli scozzesi e altri.

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«È strano per un Paese scegliere di essere meno prospero e di pesare meno nel mondo», scrive Chris Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, ex commissario Ue e oggi Chancellor dell’Univerisià di Oxford. «Alcuni dicono che non ha importanza. Ma vediamo che cosa succederà quando avremo meno soldi per tutto ciò che vogliamo fare come Paese e come individui. Le promesse e le previsioni legate alla Brexit verrano presto testate dalla realtà. Quando lo saranno, non vorrei essere uno dei  brexiteer di Boris Johnson».

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L’ex speaker Bercow: «La Brexit il più grande errore dal dopoguerra»

L'ex presidente dei Comuni, dopo le dimissioni, esce dall'imparzialità che la carica richiedeva per dichiararsi apertamente un Remainer.

La Brexit? «Il più grande errore di questo Paese nel dopoguerra». John Bercow lo dice a chiare lettere dopo aver dismesso i panni di speaker e detto addio alla Camera dei Comuni dopo un decennio di presidenza dell’assemblea, all’insegna di uno stile interventista e istrionico, durante il quale molti vecchi compagni di partito Tory non gli hanno risparmiato l’accusa di partigianeria anti-brexiteer.

LE SIMPATIE PRO-REMAIN A LUNGO CELATE

Invitato dalla Foreign Press Association a tenere il suo primo discorso da ex, Bercow ha colto l’occasione per regolare qualche conto, per difendere il parlamento dalle accuse e per fare in sostanza il controcanto al discorso d’avvio della campagna elettorale del premier conservatore Boris Johnson. Ma anche per svelare un segreto di Pulcinella: le sue attuali simpatie pro Remain, dopo una carriera politica costruita all’ombra della destra Tory più euroscettica.

«LA BREXIT NON AIUTERÀ IL REGNO UNITO»

«Io non penso che (la Brexit) aiuterà il Regno Unito», ha affermato fra l’altro ‘Mister Order’, «rispetto il primo ministro, ma credo sarebbe meglio restare in un blocco di potere come l’Ue». Bercow – sollecitato a più riprese a fare show e parlare di sé anche come personaggio, noto per le decisioni procedurali chiave prese durante i dibattiti sulla Brexit, oltre che per gli ormai televisivamente celebri richiami alla disciplina al grido ‘order, order!’ – ha quindi insistito che è stata la maggioranza parlamentare, non lui, a imporre nei mesi scorsi il rinvio ripetuto del divorzio da Bruxelles.

«IL PARLAMENTO HA FATTO BENE IL SUO LAVORO»

Bercow del resto è tornato a difendere l’operato del Parlamento, messo oggi di nuovo sotto accusa da Johnson. «Il mio lavoro è stato quello di proteggere i diritti della Camera dei Comuni, e non mi devo scusare per averlo fatto», ha detto al riguardo, contestando apertamente gli attacchi del governo contro un Parlamento definito “di zombie” o paralizzato. «Il Parlamento non ha da vergognarsi, ha fatto bene il suo lavoro», ha replicato con il consueto mix di vis polemica e linguaggio ricercato l’ex speaker, non senza aggiungere poi ai microfoni di Sky Tg 24 di ritenersi «soddisfatto, più che orgoglioso» del compito svolto.

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