Le liti dentro M5s e Italia viva spiegano perché vince la destra

Di Maio contro Paragone da una parte. Romano contro Migliore dall'altra. Baruffe emblematiche, dove nessuno sembra avere una minima idea di dove sia la società reale.

Lo scontro all’arma bianca fra Luigi Di Maio e Gianluigi Paragone, con annesso Alessandro Di Battista, e quello più elegante fra Andrea Romano e Gennaro Migliore sul Foglio attorno all’esaurimento o no di Italia Viva, dice molto sul perché vince Matteo Salvini oggi e domani forse Giorgia Meloni. Sia la lite fra comari nei cinque stelle sia quella fra damerini nel partito di Matteo Renzi si svolgono al di fuori di ogni contesto, anzi neppure presuppongono che vi sia un contesto. Paragone si è messo al centro della scena probabilmente per l’ultima volta. Del resto Feltri (Vittorio) e e Alessandro Sallusti hanno scritto oggi cose terribili e definitive su di lui. Credo che un uomo normale, in anni lontani, leggendo questo pensieri su se stesso di colleghi che l’hanno conosciuto da vicino o li sfiderebbe a duello o si tirerebbe un colpo di pistola. Ma, come raccontano i due direttori nordisti, il dramma di oggi, ma proprio di oggi-oggi, per Paragone è come mettere insieme il pranzo con la cena, stessa preoccupazione che condivide con quell’altro genio disoccupato di Di Battista.

Romano e Migliore si compiacciono invece di venire da esperienze diverse, l’uno riformista filo-blairiano, l’altro vendoliano spinto, per sancire che il loro avvicinamento era stato il segreto (poi tradito) del successo della formazione diretta da un uomo del destino come Renzi che avrebbe vinto la battaglia finale contro il diavolo Massimo D’Alema (Non sta andando così, ndr). La verità è che anche questi due ragazzi sono all’ultimo giro (e la cosa mi dispiace umanamente), perché nessuno dei due mostra di avere una minima idea di dove sia la società reale ma discutono animatamente se bisogna rafforzare il Pd (Romano) o attendere che Renzi torni a gonfiarsi come una rana (Migliore). Veramente surreale. Paragone invece è pronto per un ruolo in un film di Boldi e De Sica, magari con la sua fedele chitarra, una toccata la culo di una straniera, e un breve monologo contro giornalisti, leghisti, sinistra, grillini, parlamentari cioè tutti quelli che lui è stato o avrebbe potuto essere.

LA RICREAZIONE FINIRÀ PER TUTTI

Noi di sinistra ci siamo fatti in questi venti, o forse trenta anni, migliaia di autocritiche tutte giuste e sacrosante, ma tutte ignoravano che questa esibizione delle proprie viscere avveniva di fronte a questi personaggi miserabili. Nella fine tragica fine dei cinque stelle e del renzismo c’è tutta la storia di chi aveva superato la destra e la sinistra, le ideologie, il buonismo, i preti che cantano bella ciao, la buona educazione, la democrazia come fatica quotidiana, la tolleranza, la solidarietà. Li abbiamo presi sul serio, così come oggi ci spaventiamo che arrivino al potere Meloni o Salvini. Ma che volete che succeda? Qualche altro mese di casino, di quello brutto però, poi alla fine la ricreazione finirà per tutti. Non so se ci sarà una soluzione democratica, ma sento aria di forconi contro gli avventurieri di questi anni.

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Il caso Paragone spacca un M5s in agonia

Il senatore espulso è pronto a dare battaglia pure in Tribunale. E Di Battista lo appoggia. Potrebbe essere l'ultimo atto disgregatore di una formazione politica in crisi di identità e nei consensi, che ha perso per strada 17 parlamentari.

Il senatore Gianluigi Paragone, espulso dal «nulla» che secondo lui è diventato il Movimento 5 stelle, è pronto a dare battaglia anche in Tribunale. E il Movimento stesso, ormai in agonia per la crisi di identità e nei consensi, stavolta rischia davvero l’implosione. Prima le dimissioni natalizie del ministro Lorenzo Fioramonti, passato al gruppo Misto; poi le polemiche sui mancati rimborsi; infine la “cacciata” di Paragone, “reo” di aver votato contro la manovra e di predicare un ritorno alle origini che piace molto ad Alessandro Di Battista.

PARAGONE L’ARCIGRILLINO

Nel mirino ci sono i vertici, a partire da Luigi Di Maio, e i meccanismi che finora hanno garantito la sua leadership. «Farò ricorso e se mi gira mi rivolgerò anche alla giustizia ordinaria, per far capire l’arbitrarietà delle regole», ha detto Paragone in un video postato su Facebook a meno di 24 ore dall’espulsione decretata dal Collegio dei Probiviri. I pentastellati, per l’ennesima volta, si sono spaccati. E Dibba non solo ha difeso il presunto colpevole, ma lo ha addirittura incoronato «infinitamente più grillino di tanti altri». Accanto al senatore espulso si è schierata anche l’ex ministra Barbara Lezzi, che ha lodato l’autonomia di pensiero del collega dissidente e ha attacca il M5s che «espelle gli anticorpi». Poco dopo il suo post è stato condiviso dal senatore Mario Giarrusso, che ha già attaccato frontalmente Di Maio sul tema dei rimborsi, sostenendo di non averli pagati perché ha dovuto provvedere alle «spese legali legate alla sua attività politica», invitando il capo politico a dare lui le dimissioni.

IL M5S HA PERSO PER STRADA 17 PARLAMENTARI

Non mancano nemmeno quanti hanno scelto di posizionarsi contro Paragone, non perdonando all’ex conduttore televisivo soprattutto il giudizio tranchant sul «nulla» in cui si sarebbe degradato il sogno di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Di Maio stesso gli ha risposto su Facebook, pur se indirettamente: «In appena 20 mesi abbiamo già approvato 40 provvedimenti. Niente male per un Movimento per la prima volta al governo, no?». Di fatto, però, con l’ultima ‘cacciata’ sono 17 i parlamentari che il M5s ha perso per strada dall’inizio della legislatura, ossia dal 23 marzo 2018. Tra loro, 11 gli espulsi mentre tre senatori sono passati direttamente alla Lega (Francesco Urraro, Stefano Lucidi e Ugo Grassi), oltre al recentissimo addio di Fioramonti che è andato al Misto.

L’INDIGESTA ALLEANZA CON IL PD

Su Paragone, nessuna sorpresa. l’ex direttore della Padania non ha mai digerito l’alleanza con il Pd e mai l’ha nascosto. A parole, con toni sempre più accesi, e nei fatti con il voto. Da sempre contrario allo scudo penale ad ArcelorMittal per l’Ilva, a dicembre aveva votato ‘no’ anche alla risoluzione di maggioranza sul fondo salva-Stati. Fino al colpo di grazia del no alla manovra. Lui si difende appellandosi alla forza rivoluzionaria del Movimento che rischia di sparire: «Possiamo litigare con qualche collega, ma il grosso, fuori nel Paese, crede che ci sia ancora bisogno di una forza che dica che ci sono delle ingiustizie. Questa era la forza dei Cinque Stelle».

IL RITORNO ALLE ORIGINI E CHI POTREBBE INCARNARLO

Un approccio che ha subito trovato la sponda di Di Battista e di quanti nel M5s guardano a lui per una nuova leadership: «Non c’è mai stata una volta che non fossi d’accordo con Paragone. Vi esorto a leggere quel che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell’ultima campagna elettorale che ho fatto». Paragone ringrazia e rafforza l’asse: «Ale rappresenta quell’idea di azione e di intransigenza che mi hanno portato a conoscere il Movimento: stop allo strapotere finanziario, stop con l’Europa di Bruxelles. Io quel programma lo difendo perché con quel programma sono stato eletto».

GLI ULTIMI DIFENSORI DI DI MAIO

Il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, ribatte: «Se ci definisci il nulla, perché rimanevi nel nulla prima di essere espulso?». Mentre Paola Taverna usa il sarcasmo: «Ehi Gianluigi, a quando il nuovo libro con tutte le rivelazioni?». Toni duri anche dal vice presidente del Parlamento europeo, Fabio Castaldo: «Criticare le scelte operate a livello nazionale è un conto, ma dare del nulla a chi ha lottato, a chi si è sacrificato per un sogno, è per me inaccettabile. Se questo è quello che intendeva, dovrebbe scusarsi». Luigi Gallo, altro M5s tra i più fedeli e presidente della commissione Cultura della Camera, rilancia: «Sarebbe bello interrogarsi su quello che ha fatto Paragone in due anni da parlamentare. Il nulla cosmico».

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Paragone pronto a ricorrere alla giustizia dopo l’espulsione dal M5s

Dopo la cacciata decisa dai probiviri il senatore è passato all'attacco ipotizzando di rivolgersi alle vie legali.

Le battaglia nel M5s è più viva che mai. L’espulsione di Gianluigi Paragone dal Movimento si sta rivelando più complessa del solito. Non solo per la difesa da parte di Alessandro Di battista, ma anche perché il senatore, orami ex-grillini, ha detto di essere pronto alla battaglia. «Paragone deve essere buttato fuori perchè è uno strano Savonarola», ha attaccato in un video postato su Facebook, «uno strano predicatore che ci costringe a guardarci allo specchio. Bene, questo Paragone si appellerà all’ingiustizia arbitraria dei probiviri del nulla, guidati da qualcun altro che è il nulla, e si arroga il diritto di espellermi. Ma io farò ricorso e se mi gira mi rivolgerò anche alla giustizia ordinaria per far capire l’arbitrarietà delle regole».

«Continuerò a predicare un programma elettorale che è valido ancora oggi, giusto ancora oggi. Se dobbiamo dire revoca delle concessioni», ha continuato Paragone, «lo fai. Non è che lo dici un giorno e poi telefoni a quelli di Benetton e gli dici, compratevi Alitalia, perchè allora la revoca diventa una revoca patacca. Essere contro il sistema è dire a Bankitalia, tu hai le tue colpe, sul perchè sono saltate le banche, che vuol dire il risparmio degli italiani onesti. Essere antisistema vuol dire prendere tutti i signori di Enel, Eni che fanno dei grandi profitti, e dire che devono finire nelle tasche degli italiani, cioè devono servire per far pagare meno le bollette», ha attaccato

«I BROBIVIRI SARANNO COSTRETTI A CHIEDERMI SCUSA»

«Possiamo litigare con qualche collega, ma il grosso, fuori nel Paese crede che ci sia ancora bisogno di una forza che dica che ci sono delle ingiustizie. Questa era la forza dei Cinque Stelle, io ho fatto questa campagna elettorale, con quel programma che io difendo. E se voi, uomini del nulla, voi probiviri del nulla assoluto, avete paura allora andatevene fuori, voi, perchè io vi verrò a cercare nelle aule di Giustizia e dirò no alla ingiusta espulsione che mi avete fatto. Voi sarete condannati a dirmi scusa».

ALTRA STOCCATA PER LA MANCATA BATTAGLI A BRUXELLES

«Questa è la rivoluzione», una rivoluzione che per Paragone andava fatta anche in Europa, avendo il coraggio di dire «che Bruxelles ci sta inchiodando a una ingiustizia che sarà sempre più profonda. Ecco perchè io sono sbattuto fuori, perchè continuo a dire queste cose. Allora il Movimento Cinque Stelle i cosiddetti capetti, burocrati, gli uomini grigi, questi signori del nulla mi buttano fuori. Ma il Movimento è fatto di persone perbene che hanno ancora un sogno, che ci credono».

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Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Il nodo prescrizione. Il voto sulla Gregoretti. Le Regionali. Ma anche la questione banche, i decreti Sicurezza (che una parte del Pd vuole cancellare) e il Reddito di cittadinanza, nel mirino di Renzi. I dossier che metteranno a dura prova la tenuta della maggioranza.

C’è Giuseppe Conte che guarda a «una maratona» fino al 2023 e c’è Nicola Zingaretti che con più cautela parla di agenda per il 2020, invocando «crescita e giustizia fiscale». In mezzo ci sono Luigi Di Maio e Matteo Renzi che giurano lealtà, ma devono districarsi tra reciproche diffidenze e problemi di varia natura. Ed è proprio il rapporto tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva ad aumentare i pericoli di una crisi, con Palazzo Chigi spettatore interessato delle scintille tra gli alleati-nemici. Il nuovo anno del governo non si annuncia affatto tranquillo. E più che un progetto annuale, se non addirittura triennale come vaticinato dal presidente del Consiglio, la realtà racconta di una navigazione sempre più a vista. 

Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato

Fonti di maggioranza

L’ottimismo professato da Conte non trova grandi riscontri nei fatti. «Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato», ammette un parlamentare della maggioranza. Fin dai prossimi primi giorni ci saranno degli ostacoli da saltare, aggirare. O, come è avvenuto nelle ultime settimane, da spostare qualche mese più in avanti, cercando di rinviare e temporeggiare. Dal voto su Matteo Salvini per il caso Gregoretti alle elezioni regionali, l’inizio del 2020 sarà ricco di insidie, con le varie forze di maggioranza che devono accorciare distanze siderali. Ma il principale problema resta la tenuta del Movimento 5 Stelle: non trascorre giorno senza le voci di possibili transfughi, in qualsiasi direzione. E principalmente verso la Lega.

I MALUMORI DI ITALIA VIVA SULLA PRESCRIZIONE

A parole nessuno vuole creare l’incidente sulla Giustizia, in particolare sulla cancellazione della prescrizione prevista dalla riforma del ministro Bonafede. Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, così il Partito democratico ha piantato un paletto: senza un accordo di maggioranza, sarà portata in Aula una proposta di legge alternativa che non elimina la prescrizione, ma la regolamenta con una sospensione massima di tre anni e sei mesi. Come se non bastasse Italia Viva ha ribadito che è pronta anche a votare il testo di Forza Italia, presentato dal deputato Enrico Costa. Questa proposta punta a neutralizzare la norma voluta dal Guardasigilli. Una mossa che spalanca le porte a un’eventuale, ulteriore, spaccatura tra i cinque stelle. Una retromarcia sulla prescrizione, infatti, potrebbe essere la scusa buona per i malpancisti del Senato a lasciare il Movimento. Senza dimenticare il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade, che potrebbe provocare la stessa dinamica tra i dissidenti M5s. 

IL REFERENDUM CHE PUÒ AVVICINARE LE ELEZIONI

Pochi giorni e gli italiani sapranno se ci sarà un referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il 12 gennaio scade il termine per le firme sulla richiesta del referendum: al Senato il quorum è stato raggiunto, ma qualcuno potrebbe decidere di ritirare la firma, facendo saltare la consultazione (che si terrebbe in primavera). Il passaggio è molto delicato: intorno a questa decisione c’è un interesse di Palazzo, ossia la possibilità di far terminare anticipatamente la legislatura per tornare subito al voto ed eleggere, per l’ultima volta, 945 parlamentari invece di 600 come previsto dalla riforma approvata. A questo si aggiunge un’altra atavica questione: la legge elettorale, su cui la maggioranza fatica a trovare un’intesa. Ma c’è una certezza: nelle prossime settimane la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega; l’obiettivo è quello di introdurre un maggioritario puro, cancellando la quota proporzionale prevista dal Rosatellum.

IL VOTO SU SALVINI ALIMENTA LE TENSIONI

Il 20 gennaio ci sarà il voto su Salvini e la vicenda giudiziaria relativa alla nave Gregoretti: i magistrati chiedono di poter processare il leader della Lega. La vicenda accresce gli imbarazzi dei cinque stelle, che sul caso della Diciotti avevano respinto la richiesta della magistratura. Ma quella era l’epoca del Salvini alleato di Di Maio, ora la fase politica è diversa. E anche l’orientamento sembra cambiato. I leghisti scrutano perciò le intenzioni di Italia Viva, che non si è sbilanciata sulla decisione. L’aria che tira nei corridoi parlamentari è che il dialogo tra i “due Mattei”, Renzi e Salvini, potrebbe manifestarsi proprio il 20 gennaio. Facendo esplodere ulteriori tensioni. 

LE REGIONALI COME PUNTO DI SVOLTA

Le Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, in calendario il 26 gennaio, hanno una valenza nazionale. Al di là delle smentite di rito, l’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini provocherebbe uno smottamento nel Pd, rischiando seriamente di trascinare con sé l’intero governo. Facile prevedere pure le accuse rivolte al Movimento che ha voluto presentare un proprio candidato. Nelle ultime settimane, il barometro segnala un moderato ottimismo: il centrosinistra è dato in vantaggio nei sondaggi sull’alleanza di centrodestra, guidata dalla leghista Lucia Borgonzoni. Ma c’è un altro tornante fondamentale nel voto per l’Emilia-Romagna. Un risultato molto deludente di Simone Benini, candidato del M5s, aprirebbe l’ennesimo fronte polemico interno nei confronti di Di Maio. Con la messa in discussione della sua leadership e l’aumento del malcontento tra i parlamentari pentastellati. Sull’esito del voto in Calabria, invece, l’attenzione è al momento minore.

EX ILVA, MA NON SOLO: LE VERTENZE CHE SCOTTANO

La «maratona» di tre anni annunciata da Conte parte quindi con un primo chilometro durissimo. Tutto in salita. Oltre al rapporto tra i partiti, sul tavolo ci sono questioni che tirano in ballo il destino di decine di migliaia di lavoratori. In questo caso spetterà al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, dirimere le problematiche più delicate. Il futuro dell’ex Ilva e di Alitalia è incerto: lo stabilimento di Taranto è al centro di una complicata trattativa con ArcelorMittal, mentre la compagnia aerea ha ricevuto l’ennesimo prestito-ponte. Ma all’orizzonte non si delinea una soluzione definitiva. Tra le vertenze ci sono anche quelle della Whirpool, dell’ex Embraco e della Bosch di Bari. Sempre nel capoluogo pugliese c’è un’altra criticità: la Popolare di Bari. Il salvataggio in extremis dell’istituto non ha risolto la questione. Anzi.

DALLE BANCHE A QUOTA 100: GLI ALTRI FRONTI DELICATI

La questione banche è pronta ad acuire le divisioni. I lavori della commissione di inchiesta dovranno comunque partire nel 2020: non è immaginabile un ulteriore slittamento. E le scintille tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva sono facilmente prevedibili. Un altro terreno di scontro è rappresentato dai decreti Sicurezza: una parte del Pd chiede la totale cancellazione dei provvedimenti voluti da Salvini nel corso della precedente esperienza di governo. Conte ha detto di voler conservare l’impianto normativo, prevedendo solo ritocchi. Zingaretti sarà costretto a battere i pugni sul tavolo e comunque dovrà accettare una mediazione, rischiando di alimentare le polemiche interne. Sempre tra i dem c’è la volontà di rilanciare la battaglia sullo Ius Culturae, sfidando il niet di Di Maio. Tra i tanti dossier aperti e quelli da aprire, si inserisce l’attivismo di Renzi, che ha bisogno di ritagliarsi uno spazio per aumentare i consensi della sua creatura politica. Italia Viva al momento non sfonda nei sondaggi. Così l’ex presidente del Consiglio, attraverso i suoi fedelissimi, ha già annunciato una campagna contro Reddito di cittadinanza e Quota 100, cavalli di battaglia del M5s. Una provocazione che non è passata inosservata. Insomma, all’ordine del giorno delle criticità del Conte 2 c’è un ricco capitolo di “varie ed eventuali”.

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Paragone espulso dal M5s

Provvedimento motivato anche dal voto contrario sulla legge di bilancio.

Non c’è pace nel M5s. A Natale le dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti, a Capodanno l’espulsione del senatore Gianluigi Paragone.

Il Collegio dei Probiviri – composto da Raffaella Andreola, Jacopo Berti e Fabiana Dadone – ha formalizzato il provvedimento e ha comunicato la decisione all’interessato.

Motivandola, tra le altre cose, anche con il voto contrario espresso da Paragone, in difformità rispetto al gruppo parlamentare pentastellato, sulla legge di bilancio.

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Fioramonti lascia il M5s e passa al gruppo misto

L'ex ministro dell'Istruzione ha annunciato l'intenzione di uscire dei pentastellati. «C'è diffuso sentimento di delusione».

L’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha lasciato il gruppo parlamentare del Movimento Cinque Stelle e si è iscritto, «a titolo puramente individuale», al gruppo Misto. Lo ha annunciato lo stesso Fioramonti su Facebook.

Questi giorni sono stati difficili. Il mio nome sballottolato sui giornali per ogni sorta di retroscena, speculazione e…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Monday, December 30, 2019

«Il Movimento 5 Stelle mi ha deluso molto. So che esiste un senso di delusione profondo, più diffuso di quanto si voglia far credere», ha scritto ancora l’ex titolare del Miur annunciando di aver comunicato al Presidente della Camera la «decisione di lasciare il gruppo parlamentare ed approdare al misto». «È come se quei valori di trasparenza, democrazia interna e vocazione ambientalista che ne hanno animato la nascita si fossero persi nella pura amministrazione, sempre più verticistica, dello status quo», ha aggiunto.

«ATTACCHI FEROCI CONTRO LA MIA PERSONA»

«Gli attacchi più feroci sono arrivati dal Movimento 5 Stelle, non criticando la mia scelta, ma colpendo la mia persona. Anche se tutti, ma proprio tutti, sapevano da mesi come la pensavo», ha aggiunto l’ex titolare del Miur spiegando che l’addio al gruppo è legato anche a «tutti gli attacchi che ho ricevuto». «In questo percorso, ho incontrato tante persone che mi hanno sostenuto. Dentro e fuori dal Movimento», ha continuato. «E non c’è niente di male se con alcune di queste persone si è cercato di collaborare per riportare in auge temi cruciali come l’ambiente, lo sviluppo sostenibile, la formazione e la ricerca. Sono questi i veri temi del presente e del futuro. E invece tutti parlano di altro. Si è parlato di gruppi, correnti, partiti. Tutte parole al vento per riempire giornali e pagine web».

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Continua lo scontro tra Fioramonti e il M5S sui rimborsi

L'ex ministro dell'Istruzione ribadisce le sue critiche al sistema delle restituzioni. Il Movimento minaccia sanzioni ed espulsioni. Ipotesi però poco concreta.

È alta tensione all’interno del Movimento Cinque Stelle sul tema dei rimborsi, al centro del dibattito pentastellato dopo il clamoroso addio di Lorenzo Fioramonti al governo e le sue frizioni con i vertici dello stesso Movimento. L’ex ministro dell’Istruzione ha ribadito le sue critiche al sistema delle restituzioni a carico dei parlamentari Cinque Stelle di parte dei loro emolumenti. Su questo punto – scrive su Facebook – c’è «il risentimento dei parlamentari e l’imbarazzo dei gruppi dirigenti per un sistema gestito da una società il cui ruolo rimane a tutti poco chiaro». Pronta la replica dei vertici del Movimento che, attraverso il blog delle Stelle, lanciano una sorta di ultimatum a chi non restituisce: «Per coloro che dopo il 31 dicembre saranno ancora in ritardo si attiveranno i Probiviri», spiega il post. Difficile, tuttavia, che l’avvertimento abbia affetto. Anche perché, nei gruppi del M5S, il nodo delle restituzioni unisce malpancisti di varia origine.

Gli esperti di comunicazione mi hanno spiegato che alle fake news non si replica, perché rischi di dare la notizia due…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Saturday, December 28, 2019

FIORAMONTI: «METODO FERRAGINOSO E POCO TRASPARENTE»

Sui rimborsi, Fioramonti parla di «metodo farraginoso e poco trasparente con cui si gestiscono le nostre restituzioni». Ma l’ex ministro va oltre, lanciando un appello ai capigruppo 5S per chiedere loro di «chiarire la situazione», perché, aggiunge, «gli attacchi di questi giorni nei miei confronti sono davvero inaccettabili». E infine rimarca: «Le mie posizioni si conoscevano benissimo quando, a Settembre, venni nominato Ministro. Ed erano note anche quando tutti si congratulavano con me, per il lavoro svolto e per chiedermi di non mollare». Parole che per ora si infrangono sul muro dei vertici del Movimento e di Luigi Di Maio. «A partire dal mese di novembre tutti i parlamentari in ritardo con le rendicontazioni e le relative restituzioni sono stati raggiunti da mail per ricordare loro gli impegni giuridici e morali assunti, all’atto della candidatura con il M5S», ricorda il post.

DIFFICILE CHE SI ARRIVI A SANZIONI O ESPULSIONI

Detto questo, chi conosce bene le dinamiche interne al Movimento fa notare che l’ipotesi di sanzione o addirittura di espulsione ai danni dei morosi sia poco concreta. Il team di legali che coadiuva il Movimento da settimane sta studiando modalità e tempistiche di eventuali azioni. Ma la strada è in salita. L’adesione alla regola delle restituzioni è basata sì su un contratto, ma sottoscritto volontariamente, per cui difficilmente la violazione di tale impegno può portare in qualche modo a reali sanzioni giudiziarie. Né, in questo momento, a Di Maio preme procedere con nuove espulsioni, dando così una sponda preziosa a chi medita di uscire dal Movimento.

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Chi sono i candidati al governo della Calabria

È corsa a quattro per le elezioni del 26 gennaio 2020: Jole Santelli per il centrodestra, Pippo Callipo, per il centrosinistra, Francesco Aiello per il Movimento 5 Stelle e l'outsider Carlo Tansi.

È corsa a quattro in Calabria dove il 26 gennaio 2020 sono in programma le elezioni regionali. A puntare alla poltrona di Governatore ci sono, per il centrodestra, la deputata e coordinatrice regionale di Forza Italia Jole Santelli, sostenuta da sei liste (Fi, Fratelli d’Italia, Lega, Santelli presidente, Udc, Cdl); l’imprenditore Pippo Callipo, che ha dalla sua il Pd, una lista filiazione dell’associazione Io resto in Calabria, i Democratici e progressisti e 10 idee per la Calabria, formazione quest’ultima sulla quale però pende la scure di una possibile esclusione. Della partita anche il docente universitario Francesco Aiello, per il Movimento 5 Stelle e per la lista Calabria Civica, e l’ex capo della Protezione civile regionale Carlo Tansi, sostenuto dalle liste Tesoro Calabria, Calabria Pulita e Calabria Libera.

EX PD CON FRATELLI D’ITALIA

Ricompattato il fronte dopo le fibrillazioni legate al “niet” di Matteo Salvini ad Mario Occhiuto, il centrodestra ritrova l’unità intorno alla candidata presidente Jole Santelli e schiera tanti uscenti e alcune singolari new entry. Il consigliere regionale Giuseppe Neri, eletto nella passata legislatura con la lista Democratici e progressisti, emanazione diretta del Pd, è ad esempio candidato con Fratelli d’Italia. L’Udc, altro partito che è a fianco della fedelissima di Silvio Berlusconi, ospita nelle sue fila anche Antonio Scalzo, eletto nel Pd e che, sempre in quota dem, è stato per un periodo presidente del Consiglio regionale, transitato di recente nei Moderati, vicini a Raffaele Fitto.

GLI SCONTENTI A SINISTRA

Novità anche dalle parti del candidato Pippo Callipo, che é riuscito a imporre le sue condizioni sulla formazione delle liste. Scende in campo con l’industriale del tonno anche l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, in lista con il Pd, messa fuori gioco a suo tempo dallo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune che amministrava ma assolta, di recente, dall’accusa di avere agevolato la cosca di ‘ndrangheta degli Arena. Punta alla conferma anche il presidente uscente del Consiglio regionale, Nicola Irto. In lizza anche Maria Saladino, già in corsa per la segreteria nazionale del Partito democratico. Non mancano, da una parte e dall’altra, i mugugni degli esclusi: dall’ex Pd Enzo Ciconte, dato in approdo nel centrodestra, che ha optato per il ritorno alla professione medica (é primario cardiologo) a Francesco D’Agostino, che ha espresso tutto il suo disappunto per il veto posto da Callipo sul suo conto.

AIELLO E TANSI «LIBERI DALLA CASTA»

Acque decisamente più tranquille per il candidato pentastellato Aiello, che sottolinea la «pulizia» delle proprie liste, e per il civico Tansi. Che dichiara: «Noi restiamo liberi dalla casta».

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Paragone fa l’elenco degli M5s che non versano i rimborsi

Il senatore punta il dito contro Ruocco, Catalfo, Dadone, D'Uva. E molti altri. «Il capo politico ha fatto finta di non sapere».

Non ci sta, Gianluigi Paragone, a farsi giudicare per una eventuale espulsione dal Movimento Cinque stelle. E in un video pubblicato su Facebook se la prende con tutti, con la ministra Fabiana Dadone chiamata a valutare il suo comportamento nei confronti del partito in qualità di probiviro e con tutti quelli che stanno nel Movimento senza versare i rimborsi. E li nomina uno per uno.

«DADONE IN CONFLITTO DI INTERESSE»

«A proposito di probiviri, la onorevole e ministro Fabiana Dadone che è ‘probiviro’ dovrà giudicarmi, ma è in conflitto di interesse, oltre ad essere incompatibile, perché non si può essere proboviro e ministro.. Ma soprattutto: la sue restituzioni sono ferme a 5 mensilità.. gliene mancano un bel pò!», ha attaccato Paragone, annunciando: «Allora, figlia mia, dovrai giudicare anche su te stessa perché io, se non ti metti in regola, sarò costretto a farti un esposto per chiedere l’espulsione dal gruppo perché io, invece, ho pagato e rendicontato tutto».

« IL CAPO POLITICO HA FATTO FINTA DI NON SAPERE»

Il senatore poi ha allargato il campo delle accuse: «Io rischio di essere espulso dal gruppo perché ho detto No e visto che ai probiviri piace il rispetto delle regole è giusto che anche io chieda il loro intervento: tra quelli che non sono in regola con i pagamenti ci sono ministri, presidenti di commissione… Mi sono rotto le scatole della gente che predica bene e razzola male!». E giù a fare l’appello nome per nome: Tutti lo sapevano. C’è gente che dall’inizio dell’anno non ha rendicontato nulla: Acunzo, Aprile, Cappellani, Del Grosso, Dieni, Fioramonti, che lo hanno anche fatto ministro, e poi Frate, Galizia, Grande, Lapia, Romano, Vacca, Vallascas, Giarrusso: lo sapevano tutti perché su Rendiconto c’è tutto e loro non hanno rendicontato nulla e allora il capo politico dov’è? Ha fatto finta di non sapere…».

«SEGNALERÒ TUTTI QUELLI SOTTO I SEI MESI»

Poi, continua il senatore, «tra chi ha pagato poco ho il piacere di segnalare la Nesci, che si voleva candidare in Calabria e soprattutto Carla Ruocco, presidente della Commissione Finanze e che vuole andare a fare la presidente della Commissione di inchiesta sulle banche: è ferma solo a tre mensilità. Poi c’è il ministro del lavoro Nunzia Catalfo, che è ferma a due mesi; è importante che proprio loro si mettano in regola”. Paragone cita poi anche quelli che hanno rendicontato “proprio tutto” e, tra i vari, cita anche Lucia Azzolina e Francesco D’Uva.. E conclude: «sarà mia premura segnalare ai probiviri tutti quelli che sono sotto i sei mesi».

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Il M5s ruba al Pd l’imbarazzante idea della sitcom politica

I senatori Taverna e Castaldi protagonisti di una grottesca messinscena in cui elogiano la manovra fingendosi a Camera Café. Un format mutuato dal Partito democratico.

Il M5s ha preso in prestito dal suo nuovo alleato di governo, il Pd, un formato di dubbio gusto estetico: la sitcom politico-elettorale. Trattasi di una vera e propria messinscena in cui i politici di turno si improvvisano attori in un siparietto che vorrebbe dare l’illusione dell’autenticità (generando nello spettatore il risultato opposto, oltre che un certo imbarazzo). La clip regalata dal Movimento 5 Stelle agli italiani per Natale vede la vice presidente del Senato Paola Taverna e il sottosegretario per i Rapporti con il parlamento Gianluca Castaldi discutere animatamente delle novità per le famiglie passate con la manovra.

Nel botta e risposta, cui fa da sottofondo un’allegra canzone natalizia, il sottosegretario assume il ruolo dell’ingenuo che si chiede candidamente come mai una legge di Bilancio così perfetta non sia stata votata dall’opposizione. E in particolare dalla «madre del popolo», un chiaro riferimento a Giorgia Meloni. «Quella i soldi ce l’ha, ma che vuoi che ne sappia delle famiglie che non arrivano a fine mese. Altrimenti questa manovra, vedevi come la votava», la risposta della pasionaria pentastellata (che sottintende, tra l’altro, l’idea per cui chi «c’ha i soldi» se ne dovrebbe fregare della famiglie). Il tutto si chiude con risate di dubbia spontaneità e un bicchierino di caffè con la scritta “Parlamento Cafè” e il simbolo del M5s.

L’IDEA MUTUATA DAL PD

L’idea della sitcom come mezzo politico per attaccare un avversario non è però marchio originale Movimento 5 Stelle. I primi ad adottarla nel formato della messinscena erano stati i rappresentanti del Partito democratico nel settembre 2018, quando ancora erano all’opposizione del governo Conte I.

I tre deputati Alessia Rotta, Alessia Morani e Franco Vazio, seduti su un divanetto, si mostrano indignati per una festa del Carroccio a base di porchetta nella sede del Ministero dell’Interno. Anche qui il meccanismo è quello di uno degli attori che finge di chiedere agli altri spiegazioni per un fatto increscioso. Anche qui il risultato era grottesco, ma evidentemente è piaciuto al M5s tanto da replicarlo.

LA CRITICA DI LUCA BIZZARRI

Il tentativo pentastellato di rifarsi a Camera Café è stato subito criticato proprio da uno dei protagonisti della fortunata sitcom, Luca Bizzarri. L’attore ha stroncato su Twitter il video mettendone in luce i difetti. D’altronde ben visibili anche ai non addetti ai lavori.

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La finanza indaga sui soldi di Onorato a Grillo e Casaleggio

Non solo i soldi a Open, ora anche quelli versati al Movimento 5 Stelle e al blog di Beppe Grillo..

Non solo i soldi a Open, ora anche quelli versati al Movimento 5 Stelle e al blog di Beppe Grillo riportano l’armatore Vincenzo Onorato sotto la lente d’ingrandimento della Guardia di finanza. Una segnalazione dell’Unità antiriciclaggio di Bankitalia ha infatti indicato come oltre ai 150 mila euro elargiti alla fondazione che ha contribuito a portare Matteo Renzi fino a Palazzo Chigi (50 mila a titolo personale, 100 mila versati dalla sua società), il patron di Moby e Tirrenia ne abbia pagati circa 800 mila alla società che gestisce il blog di Beppe Grillo e alla Casaleggio associati.

10 MILA EURO AL MESE PER UNO SPOT

Secondo Corriere della Sera, la Stampa e il Messaggero, che hanno ricostruito la vicenda, si tratterebbe di due accordi diversi. Il primo è una partnership di due anni (2018 e 2019) con la Beppe Grillo srl, l’azienda che gestisce il blog del fondatore del Movimento 5 stelle da 120 mila euro l’anno in cambio di uno spot al mese da pubblicare anche su Facebook, Twitter e Instagram. Gli investigatori stanno conducendo verifiche sui prezzi offerti ad altri inserzionisti per capire se si tratti di una tariffa esagerata che dunque potrebbe nascondere un finanziamento politico volto a ottenere vantaggi normativi. Il secondo accordo è quello siglato con la Casaleggio Associati il 7 giugno 2018 e prevede la «stesura di un piano strategico e la gestione di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Prezzo: 600 mila euro con alcune clausole legate al raggiungimento di determinati risultati.

LA BATTAGLIA PER I MARITTIMI ITALIANI

Ed è proprio sul fronte dei benefici fiscali del Registro internazionale alle navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari che gira la questione. È una vecchia battaglia di Onorato, che in più occasioni della scelta di ingaggiare solo marittimi italiani ha fatto un vanto per la sua azienda. E che per questo richiede vantaggi fiscali. È per questo motivo che secondo la procura di Firenze avrebbe finanziato Open: per ottenere benefici dai governi di centrosinistra. E i fondi elargiti a Grillo e Casaleggio potrebbero suggerire una ripetizione dello schema per cercare di garantirsi una sponda da diverse forze politiche. Un appoggio che sicuramente ottenne, anche in forma pubblica, da parte di Grillo, che nel settembre 2018 pubblicò un tweet rilanciando un articolo sul suo blog a sostegno della battaglia di Onorato per i marittimi italiani.

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SOTTO LA LENTE DELL’UE

Le somme elargite da Onorato al M5s sono ritenute sospette «sia per gli importi, sia per la descrizione generica della prestazione ricevuta, che per la circostanza di essere disposti a beneficio di persone politicamente esposte», scrive l’Uif nel documento inviato alla guardia di finanza. La compagnia di Onorato ha il monopolio su alcune rotte marittime ed è titolare di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno finita in un’istruttoria dell’Unione europea nel sospetto che possa trattarsi di «aiuti di Stato».

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Cresce la fronda contro Paragone nel M5s

Dopo il no solitario alla manovra del giornalista, sempre più senatori pentastellati chiedono le sue dimissioni.

«I fuoriusciti dal M5s? Io non riesco a convincere nessuno, se una persona cambia idea lo può fare»: allarga le braccia Beppe Grillo prima di incontrare i gruppi parlamentari del Movimento. Dove tuttavia risulta assente Gianluigi Paragone, unico senatore pentastellato ad aver votato “no” alla manovra a Palazzo Madama. Contro il giornalista sembra montare una nuova fronda tra i grillini, e chiedono le sue dimissioni il vicepresidente del Gruppo alla Camera, Riccardo Ricciardi e il deputato Michele Gubitosa.

«DOVREBBE DIMETTERSI»

«Paragone dovrebbe dimettersi da parlamentare. Oltre a non aver votato la fiducia alla manovra (…) continua ad attaccare Luigi Di Maio. Ci chiediamo perché, invece di continuare a provocare, non si dimetta da parlamentare visto che, ormai, non è più in linea con le battaglie del Movimento?», è stato l’attacco diretto di Gubitosa.

«SI È ALLONTANATO DAL MOVIMENTO»

«Sin dal post voto delle elezioni europee, si è allontanato dalle posizioni del MoVimento, e si è avvicinato sempre di più a quelle dell’opposizione. Dai nostri iscritti abbiamo ricevuto il mandato chiaro di sostenere questo esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Paragone non rispetta né loro, né tutti gli altri portavoce in parlamento che lavorano per l’esclusivo interesse dei cittadini. (…) Sia coerente, almeno per una volta e, come aveva annunciato di fare quest’estate, lasci il parlamento», ha fatto sapere in una nota il vicecapogruppo alla Camera Ricciardi.

«IN STATO CONFUSIONALE»

«#ParagoneShow è in stato confusionale. Dategli un programma Tv da condurre o un giornale da guidare, sarà in crisi d’astinenza da palcoscenico. Ha buone esperienze come guida del quotidiano La Padania e come vice-direttore di Libero», ha scritto in un post il presidente della commissione Cultura M5s Luigi Gallo.

«SE NON STA BENE SE NE VADA»

«Paragone può andare via se non si trova più bene nel M5s, ma sia chiaro: chi si dimette va a casa», ha detto il senatore M5 Gianluca Ferrara, lasciando la riunione con Beppe Grillo.

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Tutti i guai di Lannutti, il candidato grillino alla commissione banche

I post antisemiti e complottisti, il figlio assunto alla Popolare di Bari: perché Lannutti è diventato un impresentabile per la commissione banche.

Come la volpe e l’uva, adesso che il suo nome è di fatto impresentabile, dice che lui alla Commissione banche nemmeno ci voleva andare. E però è stato solo il 17 dicembre quando è emerso che il figlio era stato assunto dalla popolare di Bari, che Elio Lannutti, il senatore M5s paladino dei consumatori divenuto noto per post antisemiti e complottisti, ha spiegato che non ambiva all’incarico. Ma, contemporaneamente, che non ha nessuna intenzione di farsi da parte.

LEGGI ANCHE: Chi è Lannutti, il senatore dei post sui savi di Sion

«FACEVO IL TIFO PER PARAGONE»

«Alla commissione banche io non mi volevo neppure candidare: me lo hanno chiesto, io facevo il tifo per Paragone! Ma poi, con le procedure del M5S, mi hanno scelto. Dunque io sono il candidato del M5S e confermo che non farò nessun passo indietro», ha dichiarato spiegando che «chi spacca non sono io ma chi non voterà la mia persona».

Il senatore Elio Lannutti durante un dibattito parlmentare a Palazzo Madama. ANSA/ANGELO CARCONI

DI PIETRO A FARGLI DA AVVOCATO

«Non mi ritiro dalla corsa alla presidenza della commissione banche. Fin quando non mi chiederanno di lasciare io sono il candidato», ha ribadito Lannutti, dopo la notizia che suo figlio Alessio lavora alla Banca Popolare di Bari. «Io non ho mai voluto denunciare nessun collega, ma ora ho affidato la tutela del mio onore ad Antonio Di Pietro e ad Antonio Tanza, presidente dell’Adusbef», ha spiegato. «Cosa significa che mio figlio lavora in banca? Dov’è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!», ha detto dopo aver incontrato a Roma sia il fondatore del Movimento Cinque stelle Beppe Grillo che l’ex leader di Italia dei valori Antonio Di Pietro.

Antonio Di Pietro e Elio Lannutti escono dall’hotel Forum, dopo aver incontrato Beppe Grillo, Roma 17 dicembre 2019. ANSA / ALESSANDRO DI MEO

«QUESTA È MACCHINA DEL FANGO»

Questa si chiama macchina del fango, Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato”. Lei si deve occupare di banche quando suo figlio lavora alla Popolare di Bari: non c’è conflitto di interessi? “Ma lui lavora come impiegato”. Lei potrebbe avere un occhio di favore nei confronti della popolare di Bari anche per il fatto che suo figlio lavora come impiegato. “E dov’è il conflitto di interessi? Non esiste, è l’ennesima macchina del fango. Con grande rammarico ma ora ci saranno denunce penali e civili nei confronti di colleghi per questa campagna diffamatoria»”, conclude

MORANI: «SI RITIRI E CI TOLGA DALL’IMBARAZZO»

Contro la sua candidatura si erano espressi sia esponenti di ItaliaViva come Luigi Marattin che del Partito democratico Alessia Morani. «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo», ha dichiarato pubblicamente l’esponente dem.

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Di Maio prova a ricompattare il M5s: arrivano i “facilitatori”

Il leader del Movimento presenta il team che lo affiancherà nelle decisioni: «In questi anni mi sono sentito solo».

L’uomo «solo» al comando dei 5 Stelle prova a far ripartire il Movimento contando sulla condivisione delle responsabilità: oneri e onori. «In questi anni mi sono sentito molto solo, credo pure Grillo lo sia stato. Quando sei solo e prendi decisioni da solo e non ci sono persone legittimate con le quali condividerle tutto è molto difficile», ammette il capo politico del M5s annunciando dal palco del tempio di Adriano la partenza della fase 2 del M5s, quel rilancio nel segno della riorganizzazione della forza politica e della suddivisione delle responsabilità che dovrebbe anche metterlo al riparo dai continue critiche che gli arrivano dall’interno del Movimento. Ha costituito un “team” di 24 persone con dietro, ciascuna di esse, una squadra, per affiancarlo nelle decisioni: a breve seguirà anche la costituzione di un gruppo di facilitatori regionali che serviranno a fare da collante con i territori, il punto debole nella ramificazione del Movimento. «Stasera con questo evento possiamo chiudere un primo step di un processo di riorganizzazione partito quasi un anno fa: non è stato semplice. L’anno che sta per concludersi è quello in cui il Movimento ha raggiunto i dieci anni», ricorda il capo politico deciso a tirare le somme e ripartire con una nuova fase: «Siamo l’unica forza politica che fa decidere direttamente agli iscritti, anche per formare il governo. Gli unici a concepire un programma partecipato, per farlo diventare un programma di governo», ha detto Di Maio presentando il nuovo team. Poi ha aggiunto: «A volte una cosa buona deve finire affinché ne nasca un migliore. Oggi con la nascita del Team del Futuro permettiamo al Movimento di pensare ai prossimi dieci anni». Un punto dal quale ripartire, insomma, sapendo tuttavia che se «oggi nasce il Team del Futuro, non è la panacea di tutti i mali, non risolve tutti i problemi. È fatto di facilitatori, non di decisori. Ma qualcosa, per forza, dovrà cambiare. Lo promette il deputato Emilio Carelli che, ad esempio, va a supervisionare il settore della Comunicazione: «Dobbiamo scrivere un nuovo piano per la comunicazione che metta in luce gli aspetti positivi ma anche le criticità emerse», annuncia il giornalista che non nasconde le pecche a suo giudizio mostrate dalla comunicazione pentastellata. «Dobbiamo cambiare il tono e le strategie per rispondere agli attacchi che ci vengono rivolti e alle critiche, facendo ogni giorno un’analisi puntuale ed una verifica della nostra comunicazione», annuncia Carelli intenzionato ad affiancare l’opera di formazione della squadra di eletti anche attraverso corsi di “public speaking”. Poi c’è il ritorno all’ascolto della base, dei territori e non solo con la creazione dei nuovi facilitatori regionali ma anche con il rilancio del cosiddetto “Activism” che porterà avanti Paola Taverna. «Il Movimento è una piramide rovesciata, la base è il nostro vertice e noi dobbiamo rimanere degli umili portavoce. Chiedo scusa perché spesso si è creata una distanza, che dovrà essere colmata», confessa la vicepresidente del Senato che, dopo aver ammirato il successo di piazza delle Sardine, promette un cambio di regia: «Chiederò di ricominciare dall’ascolto, colmando quella distanza che si e’ venuta a creare con quella parte fondamentale del M5s, che è quella che sta nelle piazze e ai banchetti».

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Chi è Simone Benini, il candidato M5s in Emilia-Romagna

Il consigliere comunale di Forlì è risultato il più votato sulla piattaforma Rousseau con 335 voti. «Saremo le sentinelle dei cittadini», le sue prime parole.

Sarà il forlivese Simone Benini il candidato presidente del Movimento 5 stelle alle prossime Regionali in Emilia-Romagna. È risultato il più votato su Rousseau con 335 preferenze.

RINNOVABILI E SOSTENIBILITÀ TRA I PUNTI DEL SUO PROGRAMMA

Benini, 49 anni, è nato e vive a Forlì. Secondo la biografia diffusa dal M5s, è un piccolo imprenditore attivo nel campo It, sistemista programmatore senior, esperto di sistemi informatici. Politicamente, è legato alle energie rinnovabili, politiche rifiuti zero, sostenibilità ambientale applicata in ogni campo. È appassionato di apicultura ed è lui stesso apicoltore. Dal 2014 è consigliere comunale del M5s di Forlì, dove è stato riconfermato nel mandato a maggio di quest’anno. Durante il primo mandato è stato vice presidente della seconda Commissione consiliare programmazione, investimenti, urbanistica, ambiente, attività economiche.

«SAREMO LE SENTINELLE DEI CITTADINI»

«Saremo le sentinelle utili dei cittadini. Solo la nostra presenza permette di affrontare le sfide del futuro», sono state le prime parole, affidate a Facebook del neocandidato presidente. «Sarà una bellissima sfida che affronteremo tutti insieme, piazza per piazza, mercato per mercato. Come abbiamo sempre fatto», ha scritto Benini, certo «che solo una forte presenza del M5s in Assemblea legislativa metterà al centro i temi che interessano i cittadini e le sfide del futuro e non le solite lotte di potere tra partiti»

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Nel M5s anche Castaldo contro Di Maio sul listino bloccato

Il vicepresidente del parlamento Ue Castaldo, capo delegazione del M5s in Europa, contro il leader i suoi "facilitatori". E cioè la segreteria del M5s, di cui sei membri scelti direttamente dal ministro degli Esteri.

Dopo le fuoriuscite di Lucidi e Grassi, i due senatori che sono passati alla Lega, il M5s prova a cambiare pagina con il voto su Rousseau di quella che in altri partiti si sarebbe chiamata segreteria. Ma quel voto è un prendere o lasciare comprese le sei persone scelte direttamente dal capo politico Luigi Di Maio. Un metodo che non è piaciuto affatto a un nome che nel movimento sta acquisendo sempre più peso cioè quel Fabio Massimo Castaldo eletto vice presidente del parlamento europeo e che guida il gruppo grillino che a Bruxelles ha segnato il divorzio dalla Lega votando a favore della commissione di Ursula Von der Leyen.

Fabio Massimo Castaldo durante il convegno ”Open Democracy ? Democrazia in rete e nuove forme di partecipazione cittadina”, organizzato dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati presso la Sala Mappamondo, 18 aprile 2016 a Roma. ANSA/FABIO CAMPANA

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«Una scelta d’ampia incoerenza: #iodicono alle liste bloccate!». Così in un post il vicepresidente M5s del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo commenta il voto in blocco su Rousseau del listino dei cosiddetti facilitatori nazionali scelti dal capo politico del Movimento Luigi Di Maio. «La trovo una scelta ampiamente incoerente: abbiamo portato avanti per anni la battaglia a favore delle preferenze nella legge elettorale, abbiamo combattuto sempre contro i listini bloccati e imposti dall’alto, e ora poniamo i nostri attivisti davanti a un voto del genere?», ha chiesto. «Credo che non sia affatto corretto presentare un listino bloccato e dare la possibilità di votare solamente Si o No all’intera lista: si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Mi sembra non solo incoerente, ma anche limitante», ha scritto su Fb, Castaldo protestando sulla scelta di far semplicemente ratificare dalla rete i sei facilitatori M5S scelti dal capo politico.

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio.

Il ragionamento del vicepresidente del parlamento europeo prosegue: «Si sceglie, infatti, una squadra di 18 persone che affiancherà il capo politico del Movimento nei processi decisionali e nelle scelte programmatiche. In questo percorso «sei facilitatori sono indicati direttamente dal capo politico, con funzioni estremamente rilevanti, e oggi si vota anche per confermare o declinare tale scelta». Nel listino, sottolinea l’eurodeputato, ci sono nomi «diversi di assoluto valore per competenze, capacità e impegno dimostrato in questi anni. Ma in tutta franchezza non posso tacere sul fatto che ci sia un problema non tanto di merito, sul quale non voglio esprimermi per non influenzare in alcun modo il vostro giudizio». «Si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Svolgeranno funzioni molto diverse gli uni dagli altri, pertanto il voto avrebbe dovuto essere sulla competenza dei singoli» sostiene. Il problema, invece, è «di metodo. E per questo vorrei porre una riflessione a tutti noi attivisti».

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Il senatore Ugo Grassi passa dal M5s alla Lega

Salvini lo accoglie a braccia aperte. Di Maio durissimo su Facebook: «Quelli come lui ci dicano quanto costa un senatore al chilo».

Il senatore Ugo Grassi ha lasciato il gruppo parlamentare del M5s per passare a quello della Lega. Il giurista napoletano, eletto nel 2018 nel collegio uninominale di Avellino, l’11 dicembre ha votato in dissenso sulla risoluzione con cui la maggioranza ha dato mandato al premier Giuseppe Conte di proseguire la trattativa sul Mes in sede europea.

SALVINI LO ACCOGLIE A BRACCIA APERTE

Il leader della Lega, Matteo Salvini, lo ha accolto con calore: «Diamo il benvenuto al senatore Grassi. Porte aperte per chi, con coerenza, competenza e serietà, ha idee positive per l’Italia e non è succube del Pd. Sulla riforma della giustizia e sul rilancio delle università italiane, col senatore Grassi lavoreremo bene».

DI MAIO FURIOSO SU FACEBOOK

Opposto il commento del capo politico del M5s, Luigi Di Maio, affidato a una diretta video su Facebook: «Senatori come Grassi possono passare alla Lega, ma non raccontino balle. Dicano che il tema non è il Mes, ma che gli hanno proposto altre contropartite. Il mercato delle vacche a cui stiamo assistendo è la solita logica dei voltagabbana che noi abbiamo sempre combattuto. Ci dicano quanto costa un senatore al chilo».

Grassi, da parte sua, ha scritto una lettera per rendere pubblici i motivi che lo avrebbero spinto a cambiare gruppo: «Il mio dissenso non nasce da un mio cambiamento di opinioni, bensì dalla determinazione dei vertici del M5s di guidare il Paese con la granitica convinzione di essere i depositari del vero e di poter assumere ogni decisione in totale solitudine. Gli effetti di questo modo di procedere sono così gravi ed evidenti (a chi vuol vedere), da non dover neppure essere esposti. Basti l’esempio della gestione dell’ex Ilva per dar conto dell’assenza di una programmazione nella gestione delle crisi».

GRASSI: «LA LEGA MI OFFRE UNA SECONDA OPPORTUNITÀ»

Il senatore ha quindi rievocato l’esperienza del governo Conte I, quando avrebbe avuto modo di «comprendere che molti dei miei obiettivi politici erano condivisi dal partito partner di governo», ovvero dalla Lega. Lo stesso partito che oggi «mi offre una seconda opportunità per raggiungere quegli obiettivi, forte di una reciproca stima costruita nei mesi appena trascorsi e a fronte di un evidente fallimento della mia iniziale esperienza». Ma per Di Maio non basta: «Senatori come Grassi dicano semplicemente che vogliono cambiare casacca e tradire il mandato che i cittadini gli hanno dato. Non c’è nulla di male. Ma vadano a casa, altrimenti a quella lettera alleghino anche un listino prezzi sul mercato delle vacche».

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Radiografia delle fratture e dei riposizionamenti nel M5s

Tre senatori pronti a passare alla Lega. Il Movimento è sempre più in balìa di correnti trasversali che si coagulano in gruppi e gruppetti a seconda del tema. Dal Mes fino all'Ilva. Chi sta con chi (fino alla prossima giravolta).

Quando in estate iniziò a concretizzarsi l’ipotesi di un governo giallorosso, in molti teorizzarono che sarebbe durato almeno fino all’implosione del Partito democratico. Il Pd, sebbene svuotato della sua componente renziana e calendiana, sta invece dando prova di una inattesa solidità. Non si può dire lo stesso del Movimento 5 stelle che, sballottato dai tanti inciampi elettorali (la perdita di 6 milioni di voti dalle politiche del 2018 alle europee del 2019 e la sconfitta a ogni tornata regionale cui si è presentato), sembra sempre più diviso in correnti.

Le scissioni sono tante e tali che si potrebbe persino dire che «l’uno vale uno» delle origini sia diventato «ciascun per sé»

Difficile presentare una mappa di ciò che sta avvenendo all’interno dei 5 stelle, galassia giorno dopo giorno più nebulosa. Le scissioni sono tante e tali che si potrebbe persino dire che «l’uno vale uno» delle origini sia diventato «ciascun per sé». Del resto, anche le correnti sono, per usare due termini cari ai grillini, “post ideologiche e trasversali” e si coagulano in gruppi e gruppetti a seconda del tema e, soprattutto, del mal di pancia. E se Luigi Di Maio derubrica tutto alle solite «sparate contro il Movimento» dei «giornaloni», è innegabile che sia proprio la sua leadership uno dei motivi principali delle innumerevoli divisioni. Ma, come vedremo, ricondurre tutto a un confronto serrato tra chi spinge perché l’alleanza con il Pd arrivi fino a fine legislatura e chi invece spera che Di Maio strappi sarebbe riduttivo.

DA FRACCARO A SILVESTRI: I FEDELI A DI MAIO

Anche nel M5s è possibile rinvenire, come nei grandi partiti, un cerchio magico. File che, però, si assottigliano giorno dopo: per un Riccardo Fraccaro (già scivolato nel gruppo dei governisti) che ripete che «la leadership non è in discussione» c’è chi, come Michele Gianrusso, attacca: «Non è vero che solo 10 parlamentari sono contro Di Maio. Semmai in 10 sono rimasti con lui. E se ricomincia a fare coppia con Di Battista, ne resteranno cinque». Si posizionano tra gli ultimi fedelissimi Pietro Dettori (braccio destro di Davide Casaleggio e ciò fa pensare che lo stesso Casaleggio appoggi Di Maio, contrariamente a Beppe Grillo che supporta invece i governisti), la viceministra Laura Castelli, il sottosegretario Manlio Di Stefano e Francesco Silvestri (in bilico tra dimaiani e nuova guardia) che Di Maio voleva capogruppo alla Camera come successore di Francesco D’Uva, così da porre fine al rebus che sta rendendo plateali i disaccordi interni. Ma i deputati si sono rifiutati. Ora Silvestri potrebbe diventare tesoriere.

Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

GIARRUSSO E TIZZINO: GLI OPPOSTI TRA I CRITICI DI DI MAIO

Ben più variegata la fronda di chi si posiziona contro Di Maio. Solo tra i rappresentanti siciliani si va dal già citato Giarrusso, da sempre considerato vicino alla Lega, a Giorgio Trizzino, che negli ultimi giorni oltre ad avere chiesto che il Movimento sia guidato da un organo collegiale, ha più volte fatto sentire la propria voce chiedendo compattezza nell’alleanza con i dem («Il vero nemico nostro e del Paese», ha detto il deputato, «è la destra sovranista»). Insomma, il leader pentastellato prende schiaffi sia da chi contesta la sua linea filo-governativa sia da chi lo accusa di mettere a rischio la tenuta dell’esecutivo.

DI PIAZZA, RICCARDI E QUELLI CHE VOGLIONO UN’ASSEMBLEA AL POSTO DEL LEADER

Trizzino non è il solo a chiedere che al vertice di M5s venga istituito un organo corale. Tra questi anche Steni Di Piazza e Riccardo Ricciardi (fichiano) che va oltre e chiede l’«assemblea deliberante». Di Maio dovrebbe insomma sottostare alle decisioni prese dalla maggioranza di deputati e senatori. Ricciardi sarà candidato a vice dell’ex sottosegretario al Mise Davide Crippa nella corsa al posto dei questori alla Camera.

PARAGONE GUIDA LA PATTUGLIA DEGLI ANTI-MES

Sul fronte del Meccanismo europeo di stabilità combattono Elio Lannutti, Gian Luigi Paragone e Raphael Raduzzi. Dalla battaglia sembra invece essersi ritirato Stefano Patuanelli, che lo scorso 19 giugno in Aula oltre a chiedere la riforma del Mes tuonava: «È giusto andare con la schiena dritta a rappresentare le esigenze del nostro Paese, con la forza di un governo che ha una grande maggioranza e ha capito che, soltanto attraverso il cambiamento, si salva non solo l’Italia, ma anche l’Europa». Il tema ha spaccato il M5s, tanto che alcuni senatori – Francesco Urraro, Ugo Grassi e Stefano Lucidi – hanno minacciato di fare le valigie per passare alla Lega.

Alessandro Di Battista.

GRILLO E I GOVERNISTI CONTRO L’ASSE DI MAIO – DI BATTISTA

Tutto ciò accadeva ben prima che Patuanelli ereditasse da Di Maio la poltrona del Mise. Particolare che ha determinato un sostanziale riposizionamento. Oggi, infatti, è tra i governisti assieme a big quali il collega Alfonso Bonafede (Guardasigilli) e all’ultimo arrivato in questo club, il sottosegretario alla Presidenza Fraccaro. Si tratta della compagine sostenuta da Beppe Grillo, il fautore la scorsa estate – assieme a Matteo Renzi – di questo esecutivo. La corrente appoggia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e critica aspramente la ritrovata alleanza tra il ministro degli Esteri e Alessandro Di Battista.

DIBBA, BATTITORE LIBERO FILO-LEGHISTA

Già. E dove si colloca Di Battista? Rimasto fuori dal parlamento, non ha mai fatto mistero di avere simpatie filo-leghiste e di non avere affatto apprezzato la costruzione di un esecutivo con il Pd (del resto, in estate aveva annunciato di essere al lavoro su un libro sulla vicenda di Bibbiano, che l’inattesa alleanza con i dem ha poi fatto saltare). Nelle ultime settimane, il terrore di vedere crollare ulteriormente il proprio consenso tra gli elettori ha spinto Di Maio a riavvicinarsi a Di Battista, battitore libero. Scelta che ha ulteriormente ridotto le schiere dei “dimaiani” nelle Camere: gli onorevoli al secondo – e ultimo – mandato non possono certo guardare con favore i tentativi di accorciare la legislatura.

DA TONINELLI A LEZZI: I “TROMBATI” DEL CONTE 2

Accanto a chi sta concludendo il secondo giro trova posto un’altra categoria di delusi: i ministri del Conte 1 che non sono stati riconfermati nel Conte 2. A iniziare dall’ex titolare del dicastero delle Infrastrutture, Danilo Toninelli. La sua insoddisfazione sarebbe tale che, secondo alcuni, lo avrebbe trasformato in una scheggia impazzita da corteggiare in caso di votazioni ad alto rischio. Seguono Giulia Grillo, Barbara Lezzi e il già citato Crippa (che ha preso il posto di D’Uva come capogruppo raccogliendo consensi proprio tra chi contesta Di Maio).

Barbara Lezzi.

L’EX MINISTRA A CAPO DEI DURI E PURI CONTRO L’ILVA

Ma Lezzi anima un’altra fronda, quella degli esponenti pugliesi che vogliono a tutti i costi mantenere le promesse fatte nelle piazze della regione in campagna elettorale, ovvero la chiusura dell’Ilva senza se e senza ma. Tra i duri e puri, contrari all’ipotesi di qualsiasi scudo a tutela della dirigenza franco-indiana, alla Camera spiccano Giovanni Vianello e Gianpaolo Cassese, mentre al Senato, dove i numeri si fanno insidiosi, i dissidenti sarebbero tra i 13 e i 15.

MANTERO, LA MURA E L’ALA DEI “FICHIANI”

Attorno a Roberto Fico si è raccolta ormai da tempo l’ala “sinistra” del Movimento. Si tratta di una delle correnti più anziane, risalenti a quando si doveva determinare a chi spettasse la leadership. Nell’ultimo periodo i “fichiani” hanno fatto un passo verso la coalizione governativa allontanandosi ulteriormente dalla visione di Di Maio e Di Battista. «Il Parlamento deve continuare a lavorare, ha altri tre anni di vita davanti a sé», ripete come un mantra il presidente della Camera, Fico. Nella sua fronda militano i senatori Matteo Mantero e Virginia La Mura e i deputati Doriana Sarli e Gilda Sportiello.

L’IDENTITÀ A 5 STELLE DI MORRA E COMPAGNIA

Tra i più critici nei confronti della leadership di Di Maio si posiziona senz’altro il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia e tra i primi ad avere deciso di “metterci la faccia”, sfidando apertamente il capo politico. È stato Morra ad avere detto che il Movimento si è «imborghesito». Per questo ha iniziato a indire una serie di riunioni ristrette con altri onorevoli dissidenti volte a riscoprire l’identità delle origini. Da qui il soprannome della sua corrente: Identità a 5 Stelle. Gravitano in quell’area Carla Ruocco, Piera Aiello e Ugo Grassi.

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Il M5s si spacca sul Mes: tre senatori pronti a passare alla Lega

La risoluzione di maggioranza sul fondo salva Stati alla prova di Palazzo Madama. I numeri sono in bilico: almeno quattro pentastellati voteranno contro. A Montecitorio sono mancati 14 voti.

Quattro senatori del Movimento votano in dissenso con il M5s: nulla di grave se non fosse che il gesto venga accompagnato da voci e minacce di passaggi al partito di Matteo Salvini. Ancora non lo dicono apertamente ma le parole che pronunciano sono nette e vanno in quella direzione. L’unico che esclude con decisione questa opzione è Gianluigi Paragone: vota in dissenso dal M5s ma in Aula dichiara pubblicamente che non passerà al Carroccio. Luigi Di Maio è sempre più assediato nel fortino dei 5 stelle, tra l’incudine dei duri e puri e le continua ed estenuante mediazione per gestire l’azione di governo.

A GRASSI GLI APPLAUSI DELLA LEGA

Il senatore M5s Ugo Grassi ha dichiarato: «Annuncio il mio voto in dissenso e constato di non riconoscermi più nelle politiche del mio Movimento». Per Grassi, “si tratta di un testo riformato del quale non abbiamo avuto tempestiva contezza, non in quanto singoli partiti ma non è stato informato per tempo il Parlamento, dandogli modo di intervenire». E ha concluso: «Questo non significa essere sovranisti ma difendere la democrazia e non di un solo popolo». La dichiarazione è stata appludita dai senatori della Lega. I senatori M5S sono rimasti immobili. Uscendo dall’Aula di palazzo Madama molto provato, annuncia: «Scendo da un bus su cui c’era scritto Palermo e invece va a Como: la direzione è completamente sbagliata». Assediato dai cronisti prova a resistere per evitare di dare l’annuncio della sua decisione di passare alla Lega ma i suoi ragionamenti portano tutti in quella direzione e il suo voto pure: oltre ad aver votato no alla risoluzione di maggioranza sul Mes e sì a quella del leghista Stefano Candiani sul Mes ha espresso parere favorevole anche al testo presentato dal centrodestra.

«NON SONO UN CRICETO, ESCO DALLA RUOTA»

Anche il collega Stefano Lucidi annuncia il voto contrario alla risoluzione di maggioranza e si toglie il suo sassolino dalle scarpe per l’esito della strategia elettorale scelta dal capo politico per l’Umbria e da lui contestatissima. «Qualcuno ha detto che le elezioni in Umbria sono state un esperimento. Beh, io non mi sento una cavia né un criceto, quindi esco dalla ruota e voto no». Chiede coerenza e rivendica coerenza. Come Francesco Urraro, anche lui dissensiente sul Mes e che si lamenta: «si è troppo marginalizzato il tema del Mes che si pone fuori dal programma del M5S». Per Lucidi è arrivato anche il tentativo di mediazione del premier Giuseppe Conte: i due sono stati visti conversare in Aula e il presidente avrebbe provato a convincerlo a non abbandonare, tentativo espletato anche dal senatore Primo Di Nicola. «Se passerò alla Lega? Non ho mai sentito di nessuno che sale sul carro del perdente», ha detto Lucidi intervistato da Tagadà. «Matteo Salvini ha deciso di aprire il mercato delle vacche. Mi auguro che a questo mercato non partecipi nessuno», ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, rispondendo a Tirana a una domanda sulle voci di transfughi.

SICURO IL VOTO CONTRARIO DI PARAGONE

A questi si aggiunge il voto contrario di Gianluigi Paragone che intende intervenire in dissenso rispetto al documento di maggioranza, ma che ha già specificato di non essere deciso a lasciare il gruppo. Anche Francesco Urraro, senatore di M5S, annuncia il suo voto in dissenso. Assieme a lui Grassi e Lucidi ha votato contro anche Al contrario la maggioranza potrebbe contare sui voti di alcuni deputati del Misto, a partire dagli “esuli” M5s come il comandante Gregorio De Falco ed altri.

A MONTECITORIO MANCANO 14 VOTI

«Oggi 12 colleghi non hanno potuto partecipare alla votazione sulla risoluzione Mes ed hanno comunicato in anticipo al gruppo la loro impossibilità ad essere presenti alla votazione odierna. Fra i motivi delle loro assenze giustificate ci sono, ad esempio, la malattia e la maternità», è quanto affermano in una nota congiunta i tre delegati D’Aula del MoVimento 5 Stelle alla Camera, Cosimo Adelizzi, Daniele Del Grosso e Davide Zanichelli. Al momento del voto finale, tra i pentastellati, si erano registrati 14 non votanti.

CRIPPA ELETTO CAPOGRUPPO

Proprio nel giorno delle defezioni il partito è riuscito a uscire dallo stallo sulla scelta del capogruppo. Davide Crippa è il nuovo presidente dei deputati del M5S. A quanto si apprende Crippa ha incassato 150 voti, superando così la maggioranza assoluta necessaria per essere capogruppo. La votazione è terminata mezz’ora dopo la fine dei lavori d’Aula. Termina così un lunghissimo stallo interno sull’elezione del successore di Francesco D’Uva.

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Il M5s si spacca sul Mes: tre senatori pronti a passare alla Lega

La risoluzione di maggioranza sul fondo salva Stati alla prova di Palazzo Madama. I numeri sono in bilico: almeno quattro pentastellati voteranno contro. A Montecitorio sono mancati 14 voti.

Quattro senatori del Movimento votano in dissenso con il M5s: nulla di grave se non fosse che il gesto venga accompagnato da voci e minacce di passaggi al partito di Matteo Salvini. Ancora non lo dicono apertamente ma le parole che pronunciano sono nette e vanno in quella direzione. L’unico che esclude con decisione questa opzione è Gianluigi Paragone: vota in dissenso dal M5s ma in Aula dichiara pubblicamente che non passerà al Carroccio. Luigi Di Maio è sempre più assediato nel fortino dei 5 stelle, tra l’incudine dei duri e puri e le continua ed estenuante mediazione per gestire l’azione di governo.

A GRASSI GLI APPLAUSI DELLA LEGA

Il senatore M5s Ugo Grassi ha dichiarato: «Annuncio il mio voto in dissenso e constato di non riconoscermi più nelle politiche del mio Movimento». Per Grassi, “si tratta di un testo riformato del quale non abbiamo avuto tempestiva contezza, non in quanto singoli partiti ma non è stato informato per tempo il Parlamento, dandogli modo di intervenire». E ha concluso: «Questo non significa essere sovranisti ma difendere la democrazia e non di un solo popolo». La dichiarazione è stata appludita dai senatori della Lega. I senatori M5S sono rimasti immobili. Uscendo dall’Aula di palazzo Madama molto provato, annuncia: «Scendo da un bus su cui c’era scritto Palermo e invece va a Como: la direzione è completamente sbagliata». Assediato dai cronisti prova a resistere per evitare di dare l’annuncio della sua decisione di passare alla Lega ma i suoi ragionamenti portano tutti in quella direzione e il suo voto pure: oltre ad aver votato no alla risoluzione di maggioranza sul Mes e sì a quella del leghista Stefano Candiani sul Mes ha espresso parere favorevole anche al testo presentato dal centrodestra.

«NON SONO UN CRICETO, ESCO DALLA RUOTA»

Anche il collega Stefano Lucidi annuncia il voto contrario alla risoluzione di maggioranza e si toglie il suo sassolino dalle scarpe per l’esito della strategia elettorale scelta dal capo politico per l’Umbria e da lui contestatissima. «Qualcuno ha detto che le elezioni in Umbria sono state un esperimento. Beh, io non mi sento una cavia né un criceto, quindi esco dalla ruota e voto no». Chiede coerenza e rivendica coerenza. Come Francesco Urraro, anche lui dissensiente sul Mes e che si lamenta: «si è troppo marginalizzato il tema del Mes che si pone fuori dal programma del M5S». Per Lucidi è arrivato anche il tentativo di mediazione del premier Giuseppe Conte: i due sono stati visti conversare in Aula e il presidente avrebbe provato a convincerlo a non abbandonare, tentativo espletato anche dal senatore Primo Di Nicola. «Se passerò alla Lega? Non ho mai sentito di nessuno che sale sul carro del perdente», ha detto Lucidi intervistato da Tagadà. «Matteo Salvini ha deciso di aprire il mercato delle vacche. Mi auguro che a questo mercato non partecipi nessuno», ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, rispondendo a Tirana a una domanda sulle voci di transfughi.

SICURO IL VOTO CONTRARIO DI PARAGONE

A questi si aggiunge il voto contrario di Gianluigi Paragone che intende intervenire in dissenso rispetto al documento di maggioranza, ma che ha già specificato di non essere deciso a lasciare il gruppo. Anche Francesco Urraro, senatore di M5S, annuncia il suo voto in dissenso. Assieme a lui Grassi e Lucidi ha votato contro anche Al contrario la maggioranza potrebbe contare sui voti di alcuni deputati del Misto, a partire dagli “esuli” M5s come il comandante Gregorio De Falco ed altri.

A MONTECITORIO MANCANO 14 VOTI

«Oggi 12 colleghi non hanno potuto partecipare alla votazione sulla risoluzione Mes ed hanno comunicato in anticipo al gruppo la loro impossibilità ad essere presenti alla votazione odierna. Fra i motivi delle loro assenze giustificate ci sono, ad esempio, la malattia e la maternità», è quanto affermano in una nota congiunta i tre delegati D’Aula del MoVimento 5 Stelle alla Camera, Cosimo Adelizzi, Daniele Del Grosso e Davide Zanichelli. Al momento del voto finale, tra i pentastellati, si erano registrati 14 non votanti.

CRIPPA ELETTO CAPOGRUPPO

Proprio nel giorno delle defezioni il partito è riuscito a uscire dallo stallo sulla scelta del capogruppo. Davide Crippa è il nuovo presidente dei deputati del M5S. A quanto si apprende Crippa ha incassato 150 voti, superando così la maggioranza assoluta necessaria per essere capogruppo. La votazione è terminata mezz’ora dopo la fine dei lavori d’Aula. Termina così un lunghissimo stallo interno sull’elezione del successore di Francesco D’Uva.

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La maggioranza ha trovato un accordo sulla riforma del Mes

Il M5s non strappa: «Siamo soddisfatti, nuovo round in parlamento a gennaio». A Conte il mandato di trattare per escludere la ponderazione dei titoli di Stato e qualsiasi riferimento a meccanismi automatici di ristrutturazione del debito. Il premier: «L'Italia non ha nulla da temere».

Accordo chiuso nella notte sul Mes e il governo giallorosso tira un sospiro di sollievo.

L’11 dicembre la maggioranza è chiamata ad approvare in parlamento una risoluzione per dare al premier Giuseppe Conte il mandato politico a completare la trattativa in sede europea sulla riforma del fondo salva-Stati, iniziata nel 2017.

Il M5s aveva minacciato lo strappo, ma il rischio che si ripeta la scena già vista sul dossier Tav all’epoca del governo gialloverde è scongiurato.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

«Siamo soddisfatti, nella risoluzione ci sono le modifiche che abbiamo chiesto», dicono infatti dal M5s, «la logica di pacchetto è confermata e ci sarà un nuovo round in parlamento a gennaio, prima del prossimo Eurogruppo. Ogni decisione verrà presa ascoltando le Camere, non firmeremo nulla al buio». Poco dopo l’annuncio dell’accordo, Conte ha tenuto le sue comunicazioni all’Aula di Montecitorio in vista del Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre. Il dibattito si è concluso a mezzogiorno e ora sono in corso le dichiarazioni di voto.

LE MODIFICHE RIVENDICATE DAL M5S

Ma quali sono le modifiche rivendicate dai pentastellati? La risoluzione impegna il governo a trattare in Europa per «escludere» dalla riforma del Mes «interventi di carattere restrittivo sulla detenzione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari e, comunque, la ponderazione dei rischi dei titoli di Stato attraverso la revisione del loro trattamento prudenziale». No a tetti sui Btp posseduti dalle banche, quindi, e no alla valutazione del loro livello di rischiosità, operazione che potrebbe rivelarsi problematica per gli istituti più esposti. Si chiede inoltre di «escludere qualsiasi meccanismo che implichi una ristrutturazione automatica del debito pubblico», nel caso in cui un Paese chieda l’aiuto del Mes. E infine di «proporre nelle prossime tappe del negoziato sull’Unione bancaria l’introduzione dello Schema di assicurazione comune dei depositi (Edis)» e degli eurobond.

CENTRALITÀ AL RUOLO DEL PARLAMENTO

Nel testo della risoluzione – otto pagine in tutto – compare anche l’impegno ad «assicurare la coerenza della posizione del governo con gli indirizzi definiti dalle Camere» e il «pieno coinvolgimento del parlamento in tutti i passaggi del negoziato sul futuro dell’Unione economica e monetaria e sulla conclusione della riforma del Mes». Previsto anche «il pieno coinvolgimento del parlamento in un’eventuale richiesta di attivazione del Mes, con una procedura chiara di coordinamento e approvazione».

CONTE: «L’ITALIA NON HA NULLA DA TEMERE»

In ogni caso, nel corso del suo intervento alla Camera, il premier Conte ha spiegato che «l’Italia non ha nulla da temere» dalla riforma del Mes, perché «il suo debito è pienamente sostenibile, come dimostrano le valutazioni delle principali istituzioni internazionali, inclusa la Commissione europea, e come confermano i mercati». La riforma del fondo salva-Stati «non apporta modifiche sostanziali al trattato già esistente e non introduce, ed è nostra ferma intenzione che questo non accada, alcun automatismo nella ristrutturazione del debito, ma lascia alla Commissione europea il fondamentale ruolo di valutarne la sostenibilità e di assicurare la coerenza complessiva delle analisi macroeconomiche effettuate sui Paesi membri».

L’ATTACCO A LEGA E FRATELLI D’ITALIA

Piuttosto – e in questo passaggio si legge in controluce un attacco alle opposizioni – «un dibattito portato avanti in modo molto confuso rischia di indurre il sospetto, nei mercati e nelle istituzioni internazionali, che siamo noi stessi a dubitare dell’impegno assunto di mantenere il debito su un sentiero di piena sostenibilità. Questo sì che sarebbe un modo per danneggiare il risparmio degli italiani». Conte ha avvertito «Bisogna stare attenti a insinuare dubbi e paure nei cittadini italiani, tanto più che quantomeno alcune delle posizioni che si sono delineate nel corso del dibattito pubblico hanno disvelato il malcelato auspicio di portare il nostro Paese fuori dall’Eurozona o, addirittura, dall’Unione europea. Se questo è l’obiettivo allora converrebbe chiarirlo in modo esplicito, affinché il dibattito pubblico sia trasparente e i cittadini italiani possano essere informati di tutte le implicazioni che tali posizioni portano con sé».

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La maggioranza ha trovato un accordo sulla riforma del Mes

Il M5s non strappa: «Siamo soddisfatti, nuovo round in parlamento a gennaio». A Conte il mandato di trattare per escludere la ponderazione dei titoli di Stato e qualsiasi riferimento a meccanismi automatici di ristrutturazione del debito. Il premier: «L'Italia non ha nulla da temere».

Accordo chiuso nella notte sul Mes e il governo giallorosso tira un sospiro di sollievo.

L’11 dicembre la maggioranza è chiamata ad approvare in parlamento una risoluzione per dare al premier Giuseppe Conte il mandato politico a completare la trattativa in sede europea sulla riforma del fondo salva-Stati, iniziata nel 2017.

Il M5s aveva minacciato lo strappo, ma il rischio che si ripeta la scena già vista sul dossier Tav all’epoca del governo gialloverde è scongiurato.

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«Siamo soddisfatti, nella risoluzione ci sono le modifiche che abbiamo chiesto», dicono infatti dal M5s, «la logica di pacchetto è confermata e ci sarà un nuovo round in parlamento a gennaio, prima del prossimo Eurogruppo. Ogni decisione verrà presa ascoltando le Camere, non firmeremo nulla al buio». Poco dopo l’annuncio dell’accordo, Conte ha tenuto le sue comunicazioni all’Aula di Montecitorio in vista del Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre. Il dibattito si è concluso a mezzogiorno e ora sono in corso le dichiarazioni di voto.

LE MODIFICHE RIVENDICATE DAL M5S

Ma quali sono le modifiche rivendicate dai pentastellati? La risoluzione impegna il governo a trattare in Europa per «escludere» dalla riforma del Mes «interventi di carattere restrittivo sulla detenzione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari e, comunque, la ponderazione dei rischi dei titoli di Stato attraverso la revisione del loro trattamento prudenziale». No a tetti sui Btp posseduti dalle banche, quindi, e no alla valutazione del loro livello di rischiosità, operazione che potrebbe rivelarsi problematica per gli istituti più esposti. Si chiede inoltre di «escludere qualsiasi meccanismo che implichi una ristrutturazione automatica del debito pubblico», nel caso in cui un Paese chieda l’aiuto del Mes. E infine di «proporre nelle prossime tappe del negoziato sull’Unione bancaria l’introduzione dello Schema di assicurazione comune dei depositi (Edis)» e degli eurobond.

CENTRALITÀ AL RUOLO DEL PARLAMENTO

Nel testo della risoluzione – otto pagine in tutto – compare anche l’impegno ad «assicurare la coerenza della posizione del governo con gli indirizzi definiti dalle Camere» e il «pieno coinvolgimento del parlamento in tutti i passaggi del negoziato sul futuro dell’Unione economica e monetaria e sulla conclusione della riforma del Mes». Previsto anche «il pieno coinvolgimento del parlamento in un’eventuale richiesta di attivazione del Mes, con una procedura chiara di coordinamento e approvazione».

CONTE: «L’ITALIA NON HA NULLA DA TEMERE»

In ogni caso, nel corso del suo intervento alla Camera, il premier Conte ha spiegato che «l’Italia non ha nulla da temere» dalla riforma del Mes, perché «il suo debito è pienamente sostenibile, come dimostrano le valutazioni delle principali istituzioni internazionali, inclusa la Commissione europea, e come confermano i mercati». La riforma del fondo salva-Stati «non apporta modifiche sostanziali al trattato già esistente e non introduce, ed è nostra ferma intenzione che questo non accada, alcun automatismo nella ristrutturazione del debito, ma lascia alla Commissione europea il fondamentale ruolo di valutarne la sostenibilità e di assicurare la coerenza complessiva delle analisi macroeconomiche effettuate sui Paesi membri».

L’ATTACCO A LEGA E FRATELLI D’ITALIA

Piuttosto – e in questo passaggio si legge in controluce un attacco alle opposizioni – «un dibattito portato avanti in modo molto confuso rischia di indurre il sospetto, nei mercati e nelle istituzioni internazionali, che siamo noi stessi a dubitare dell’impegno assunto di mantenere il debito su un sentiero di piena sostenibilità. Questo sì che sarebbe un modo per danneggiare il risparmio degli italiani». Conte ha avvertito «Bisogna stare attenti a insinuare dubbi e paure nei cittadini italiani, tanto più che quantomeno alcune delle posizioni che si sono delineate nel corso del dibattito pubblico hanno disvelato il malcelato auspicio di portare il nostro Paese fuori dall’Eurozona o, addirittura, dall’Unione europea. Se questo è l’obiettivo allora converrebbe chiarirlo in modo esplicito, affinché il dibattito pubblico sia trasparente e i cittadini italiani possano essere informati di tutte le implicazioni che tali posizioni portano con sé».

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Il commissario Alitalia lo ha deciso l’ex hostess grillina Lupo

La senatrice con un passato da dipendente sugli aerei ha convinto Patuanelli a scegliere Leogrande. Il che la dice lunga sulle capacità di analisi del ministro. Il nuovo n.1 di Eni verrà nominato da un benzinaio?

Se una hostess indica il commissario straordinario per l’Alitalia è lecito attendersi (per la proprietà transitiva) che il prossimo amministratore delegato dell’Eni venga nominato da un benzinaio. Già, nel mondo del Movimento 5 stelle avviene anche questo. Il principale sponsor di Giuseppe Leogrande quale commissario unico della compagnia aerea è stata Giulia Lupo, senatrice grillina. Ed è a lei che si rivolgono tutti per sapere quale saranno le strategie del governo per l’Alitalia. Persino tra gli addetti ai lavori: risultano, e stupiscono, molte sue interlocuzioni con i diversi candidati alla cordata salvatrice, poi evaporata, a cominciare da Lufthansa.

IL POTERE DELLA LUPO GRAZIE A PATUANELLI

La posizione dell’ineffabile Giulia si è rafforzata dopo che Stefano Patuanelli, suo ex capogruppo a Palazzo Madama, è stato nominato ministro dello Sviluppo economico. Ed è stata proprio questa conoscenza maturata fra i velluti del Senato a far aumentare il peso specifico della Lupo nei confronti del ministro e, quindi, del governo.

Chi è Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico nel Conte bis
Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli.

MA LA SUA ATTIVITÀ PARLAMENTARE NON BRILLA

E pensare che fino alla fine del Conte I la ex hostess non aveva dato una prova brillante della sua attività di parlamentare. Il 30 luglio 2018 aveva presentato un’altisonante proposta di legge delega che si proponeva il riordino del trasporto aereo. Tema talmente urgente che la Commissione Trasporti ha aspettato sei mesi prima di metterla in calendario (l’8 gennaio 2019), un altro mese per indicare un relatore (14 febbraio), e ora giace dimenticata nei cassetti di Palazzo Madama.

L’avvocato Giuseppe Leogrande.

LEOGRANDE ESPERTO DI DIRITTO FALLIMENTARE…

La circostanza che la Lupo abbia convinto Patuanelli a scegliere proprio Leogrande, poi, la dice lunga sulle capacità di analisi del ministro. Non foss’altro per scaramanzia, e senza nulla togliere alle capacità professionali del nuovo commissario unico di Alitalia, ma Leogrande è un esperto di diritto fallimentare: non proprio un buon viatico per una compagnia aerea che ha un piede nella fossa e con l’altro ci sta per entrare. A smentire i superstiziosi non ci sono neppure i risultati – che non sono buoni – di Blue Panorama, la compagnia aerea di cui Leogrande è stato prima commissario, e poi presidente. E comunque, una cosa è Blue Panorama, un’altra è l’Alitalia. Ma questo ai pentastellati frega poco e niente. In attesa che un benzinaio indichi l’amministratore delegato dell’Eni o che un postino faccia il nome per il prossimo numero uno delle Poste.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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I sondaggi politici elettorali del 9 dicembre 2019

Lega saldamente al primo posto, ma in calo di quasi un punto percentuale. Cresce il Pd, stabile il M5s. Ancora in ascesa il partito di Calenda.

Sondaggi senza grossi scossoni quella pubblicati da Swg per il TgLa7 nella serata del 9 dicembre. Dopo la crescita dell’ultima rilevazione (+0,7%) la Lega di Matteo Salvini fa segnare una nuova battuta d’arresto, ma si conferma comunque al 33% dal 33,8% della settimana precedente. Guadagna ancora terreno, invece, il Partito democratico, che nelle intenzioni di voto degli italiani conquista 0,3 punti percentuali, fermandosi al 18%.

Invariate le preferenze per il Movimento 5 stelle che rimane stabile al 15,5%. Segno negativo invece sia per Fratelli d’Italia che per Italia viva. I partiti di Giorgia Meloni e Matteo Renzi perdono rispettivamente 0,2 e 0,3 punti. In leggera crescita Forza Italia, che recupera 0,2 punti percentuali, al 5,3% dal precedente 5,1%. Andamento positivo anche per il neonato partito Azione di Carlo Calenda, che sale al 3,5%.

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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M5s, Lombardi: «Da Di Maio vorrei meno tweet e più mediazione»

La capogruppo pentastellata alla Regione Lazio a SkyTg24 critica l'atteggiamento del capo politico troppo «muscolare».

Luigi Di Maio, sempre più isolato all’interno del M5s, lo ha negato con insistenza: l’idea che il M5s voglia fare cadere il governo «è una sciocchezza», ha ribadito il 6 dicembre a Radio Capital. «Lo abbiamo fatto nascere noi, altrimenti non lo facevamo partire». Eppure le acque pentastellate restano increspate.

LOMBARDI DIFENDE IL GOVERNO CON IL PD

Sabato a lanciare la frecciata quotidiana all’indirizzo del ministro degli Esteri e capo politico del M5s è stata Roberta Lombardi. «Io so che Di Maio sta cercando di porre all’attenzione del governo dei punti di vista tipici del M5s ma preferirei ci fosse molto meno la ricerca del tweet e molto più la voglia di conciliare punti di vista diversi che però hanno pari dignità e devono trovare una forma di mediazione», ha detto la capogruppo pentastellata alla Regione Lazio ospite de L’intervista di Maria Latella su Skytg24. Insomma l’atteggiamento di Di Maio «è quello del capo politico di una forza che sta cercando di mantenere la propria identità all’interno del governo ma», ha messo in chiaro, «lo fa in una modalità molto muscolare che non condivido, preferirei che fosse più mediata».

LOMBARDI: «DIAMO UN’OPPORTUNITÀ A QUESTO PAESE»

Alla domanda su cosa pensi Di Maio di questo governo, Lombardi ha risposto in pieno stile pentastellato delle origini. «Io vengo da una scuola del M5s dove quello che interessa non è l’opinione del singolo. Sono stata uno degli sponsor di questo governo perché ho detto che c’è la possibilità di fare delle cose bene insieme. Diamo un’opportunità a questo Paese, adesso questo governo deve continuare a essere utile». Del resto, ha ricordato la capogruppo 5 stelle alla Pisana, anche il garante Beppe Grillo ha sempre detto che «ci sono dei temi» su cui Pd e M5s possono trovare un punto di accordo. Come M5s, ha aggiunto, «abbiamo fatto un investimento su questo governo perché volevamo fare delle cose utili per il Paese. Quindi sicuramente questo modo continuo di porre dei distinguo, anche semplificando il messaggio politico alla ricerca sempre del titolo o dell’agenzia che ti ponga più in evidenza, è stancante», ha messo in chiaro Lombardi.

«NESSUNA DEROGA SUL SECONDO MANDATO»

Sulla regola del secondo mandato la «rompiscatole» (come lei stessa si definisce) Lombardi ha puntato i piedi. Anche se si tratta di Virginia Raggi. «Nessuna deroga per nessuno. Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni, anzi un ricambio generazionale è sano e salutare», ha detto l’ex parlamentare M5s.

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I deputati del M5s pronti a sfiduciare il capo politico Di Maio

Parlamentari pentastellati sul piede di guerra per le posizioni più radicali del ministro degli Esteri. Battaglia sul ritorno di Di Battista e i torni accesi sul Mes.

I mal di pancia e i malumori in casa M5s sono tutt’altro che sotto controllo. Secondo Repubblica in casa grillina sarebbe circolato un messaggio molto duro dei deputati per mettere in guardia il capo politico: «Se i toni non cambiano, se a guidare le danze dev’essere Alessandro Di Battista e i retroscena che ci danno pronti per il voto non vengono smentiti, faremo firmare a tutti un documento per sfiduciare il capo politico».

Secondo la ricostruzione di Repubblica l’ultimatum al ministro degli Esteri sarebbe partito dopo la riunione del 4 dicembre tra i 14 capigruppo nelle diverse commissioni dei parlamentari pentastellato. A inasprire ancora di più i toni è stata la battaglia sul Mes. Molti deputati non hanno mandato giù il tentativo di Di Maio di andare allo scontro dato che il mandato era di trattare con il resto della maggioranza.

A preoccupare è anche l’attivismo e il ritorno di Di Battista, sancito proprio dallo stesso leader a diversi esponenti del Movimento: «Se volete che mi dimetta, dopo di me c’è solo Alessandro». I deputati in un certo senso hanno fatto loro la linea dettata dal fondatore Beppe Grillo che da mesi spinge per legarsi al Pd all’interno del centrosinistra in ottica anti-sovranista.

LA MANCANZA DI UN’ALTERNATIVA

I dissidenti anti-Di Maio, però, sono ancora orfani di un leader alternativo. Si era pensato all’attuale ministro Stefano Patuanelli, già capo gruppo del Movimento al Senato sia perché in sintonia col fondatore, che in buoni rapporti con la famiglia Casaleggio, Gianroberto prima e Davide ora. Ma Patuanelli ha respinto le lusinghe al mittente dicendo di non essere disponibile.

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Il Pd insiste sull’alleanza M5s-sinistra per arginare Salvini

Franceschini: «Costruiamo un campo contro questa destra o ci ritroviamo la Lega a Palazzo Chigi». Ma l'agenzia di rating Fitch: «Le tensioni tra i giallorossi mettono a rischio il governo».

Non riescono a trovare un’intesa sulla riforma della prescrizione. Erano in disaccordo a proposito di legge elettorale, salvo poi trovare una convergenza sul proporzionale. Li divide lo ius soli. E anche in tema di nomine Rai si sono sfidati a colpi di veti incrociati. Nonostante tutto, Partito democratico e Movimento 5 stelle sembrano orientati a prolungare la loro esperienza insieme. Soprattutto da parte piddina. Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo nonché capodelegazione dem nel governo Conte II, ha detto a Porta a porta: «Al di là delle differenze, bisogna arrivare alla prospettiva di un’alleanza M5s-sinistra».

IN COMUNE C’È L’AVVERSARIO DA BATTERE

Un aspetto in comune pare ci sia: l’avversario da battere. «Per fermare questa destra bisogna arrivarci, la partita è troppo delicata per fermarsi. Va costruita questa prospettiva nel Paese, un campo che eviti Matteo Salvini a Palazzo Chigi e abbia alla base dei principi etici e politici», ha aggiunto Franceschini.

«GLI ITALIANI NON SONO DIVENTATI ESTREMISTI»

Poi bisogna sempre fare i conti col consenso elettorale, visto che stando ai sondaggi il centrodestra è a un passo dal 50%. Franceschini però non crede «che gli italiani siano diventati estremisti, intercettano un sentimento, lo cavalcano e i voti vanno in quella direzione. Bisogna costruire un campo competitivo contro quella destra estrema, e siamo competitivi solo stando insieme, lo dicono i numeri».

MA L’INCERTEZZA POLITICA CREA ALLARMI

Il guaio è che stando assieme spesso si finisce a litigare. E non a caso Fitch è preoccupata per il clima di incertezza politica che persiste in Italia e che rappresenta un fattore di rischio per un’economia che resta praticamente in stagnazione. È l’allarme che si legge nel capitolo nel Global Economic Outlook pubblicato dall’agenzia di rating: «I negoziati sulla legge di bilancio del 2020 hanno messo in evidenza le tensioni politiche tra il M5s e il Pd. Le complesse relazioni tra le due formazioni rappresentano un rischio per la durata dell’esecutivo per l’intera legislatura».

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Il Pd insiste sull’alleanza M5s-sinistra per arginare Salvini

Franceschini: «Costruiamo un campo contro questa destra o ci ritroviamo la Lega a Palazzo Chigi». Ma l'agenzia di rating Fitch: «Le tensioni tra i giallorossi mettono a rischio il governo».

Non riescono a trovare un’intesa sulla riforma della prescrizione. Erano in disaccordo a proposito di legge elettorale, salvo poi trovare una convergenza sul proporzionale. Li divide lo ius soli. E anche in tema di nomine Rai si sono sfidati a colpi di veti incrociati. Nonostante tutto, Partito democratico e Movimento 5 stelle sembrano orientati a prolungare la loro esperienza insieme. Soprattutto da parte piddina. Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo nonché capodelegazione dem nel governo Conte II, ha detto a Porta a porta: «Al di là delle differenze, bisogna arrivare alla prospettiva di un’alleanza M5s-sinistra».

IN COMUNE C’È L’AVVERSARIO DA BATTERE

Un aspetto in comune pare ci sia: l’avversario da battere. «Per fermare questa destra bisogna arrivarci, la partita è troppo delicata per fermarsi. Va costruita questa prospettiva nel Paese, un campo che eviti Matteo Salvini a Palazzo Chigi e abbia alla base dei principi etici e politici», ha aggiunto Franceschini.

«GLI ITALIANI NON SONO DIVENTATI ESTREMISTI»

Poi bisogna sempre fare i conti col consenso elettorale, visto che stando ai sondaggi il centrodestra è a un passo dal 50%. Franceschini però non crede «che gli italiani siano diventati estremisti, intercettano un sentimento, lo cavalcano e i voti vanno in quella direzione. Bisogna costruire un campo competitivo contro quella destra estrema, e siamo competitivi solo stando insieme, lo dicono i numeri».

MA L’INCERTEZZA POLITICA CREA ALLARMI

Il guaio è che stando assieme spesso si finisce a litigare. E non a caso Fitch è preoccupata per il clima di incertezza politica che persiste in Italia e che rappresenta un fattore di rischio per un’economia che resta praticamente in stagnazione. È l’allarme che si legge nel capitolo nel Global Economic Outlook pubblicato dall’agenzia di rating: «I negoziati sulla legge di bilancio del 2020 hanno messo in evidenza le tensioni politiche tra il M5s e il Pd. Le complesse relazioni tra le due formazioni rappresentano un rischio per la durata dell’esecutivo per l’intera legislatura».

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