La stretta di Google contro le fake news negli spot elettorali

Mountain View ha vietato a politici e candidati di prendere di mira categorie di utenti sulla base della loro affiliazione. Anche Fb corre ai ripari.

Stretta di Google sugli spot elettorali. Nel tentativo di fermare il dilagare della fake news in vista degli appuntamenti elettorali in Gran Bretagna prima e negli Stati Uniti poi, Mountain View vieta a politici e candidati di prendere di mira intere categorie di utenti ed elettori sulla base della loro affiliazione politica. Ma anche di mirare gli spot sulla base degli interessi degli utenti captati dal loro navigare online. Resta invece ancora possibile mirare le proprie pubblicità sulla base del genere e dell’età. La mossa di Google punta a stemperare le critiche contro la Silicon Valley, accusata da più parti di non aver fermato le interferenze russe sulle elezioni americane del 2016. Critiche che hanno riguardato soprattutto Twitter e Facebook.

TWITTER ANTICIPA TUTTI

La società che cinguetta è corsa di recente ai ripari, decidendo di vietare del tutto gli spot elettorali sulla sua piattaforma. Una mossa che ha spiazzato e aumentato la pressione sul social di Mark Zuckerberg. Facebook ha finora resistito a ogni modifica ma sembrerebbe pronta a tornare sui suoi passi. Secondo indiscrezioni, il colosso sta infatti valutando modifiche e lo sta facendo in contatto con gli inserzionisti democratici e repubblicani. La campagna di Donald Trump è una delle più attive su Facebook: da quando è esploso lo scandalo dell’Ucraina il 18 settembre ha lanciato sulla piattaforma circa 5.500 spot, il 40% dei quali con almeno un riferimento all’impeachment.

L’INCONTRO TRUMP-ZUCKERBERG

Zuckerberg ha avuto di recente modo di incontrare privatamente il presidente americano: lo scorso ottobre è andato a cena alla Casa Bianca su invito dello stesso Trump. I contenuti dell’incontro non sono stati resi noti, ma non è escluso che i due si siano soffermati sugli spot elettorali su Facebook, tema caro ai democratici e soprattutto alla candidata Elizabeth Warren che, nella sua piattaforma, ha anche lo smembramento di Facebook e di altri big tecnologici divenuti troppo potenti e una minaccia della democrazia.

L’ALLARME DI AMNESTY INTERNATIONAL

Convinta della pericolosità di Facebook e Google è anche Amnesty International: la loro sorveglianza onnipresente è una minaccia sistemica per i diritti umani, denuncia l’associazione augurandosi un cambio radicale del loro modello di business. Le critiche di Amnesty vanno così ad alimentare il dibattito intorno ai social, che nei prossimi appuntamenti elettorali vedono un esame da dover superare a ogni costo.

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Quali sono i cibi che hanno il maggior impatto ambientale

Nutrirsi ha un costo. Che ricade anche sull'ecosistema. Dall'avocado alle mandorle, un elenco degli alimenti che hanno forti ripercussioni sull'equilibrio del nostro pianeta.

Deforestazione, lavoro minorile, inquinamento, spreco d’acqua. Conoscere i retroscena della produzione alimentare ha riempito di dubbi la nostra tavola. Le numerose informazioni su come vengono allevati gli animali o sull’impatto che hanno certi nostri vizi alimentari ha reso ogni boccone un po’ più controverso. E visto che separare la realtà dalle fake news non è sempre immediato, il Guardian ha stilato un elenco dei prodotti più “problematici” che oggi il mercato propone.

LO SPRECO D’ACQUA PER L’AVOCADO SICILIANO

Il Messico è il principale esportatore di avocado al mondo. Ma il consumo del frutto che va tanto di moda causa ogni anno la perdita di 700 ettari di foresta. Per rispondere alla crescente domanda gli agricoltori piantano sempre più alberi, sacrificando lo spazio dei pini secolari. Il surriscaldamento climatico, tuttavia, sta allargando le possibilità di acquistare il frutto tropicale a chilometro zero. L’aumento delle temperature ha, infatti, trasformato il Sud d’Italia in un habitat ideale per la produzione di avocado. In Sicilia esistono 100 ettari in cui è coltivato il frutto esotico. L’aspetto controverso? Per coltivare anche solo due o tre frutti sono richiesti oltre 272 litri di acqua.

LE EMISSIONI LEGATE AL CONSUMO DI CARNE

Lasciando da parte il tema etico sollevato dall’uccisione di animali, la discussione sul consumo della carne bovina ruota anche attorno ai gas serra. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), i bovini (allevati sia per la carne che per il latte) sono la specie animale maggiormente responsabile per le emissioni. Secondo i dati forniti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi in Italia è passato dal 10,2% (nel 2000) al 15,1% (nel 2016), diventando così la seconda fonte di inquinamento totale da polveri.

L’IMPATTO DELL’OLIO DI PALMA E DELLA FRUTTA SECCA

Le grandi piantagioni di olio di palma hanno trovato posto a discapito di ampie regioni in Indonesia (maggiore produttore di olio di palma) e in Malesia. Queste aree del mondo sono state coinvolte in pesanti operazioni di disboscamento. Per mantenere il mercato sono state rase al suolo migliaia di chilometri di foresta tropicale, anche attraverso dei roghi, che hanno liberato nell’atmosfera diversi gas serra. Anche le mandorle e la frutta secca hanno un pesante impatto ambientale, per via di tutta l’acqua che la loro coltivazione richiede. Una mandorla per maturare richiede più di tre litri di acqua, una noce 19 litri .

GIAGUARO E ARMADILLO MESSI IN PERICOLO DALLA SOIA

L’impennata che ha coinvolto la soia destinata all’alimentazione animale è una delle cause della scomparsa di significative porzioni di foreste, savane e praterie, tra cui l’Amazzonia, il Cerrado, la foresta Atlantica, la foresta Chaco e Chiquitano che caratterizzano gran parte del territorio di Brasile, Argentina, Bolivia e Paraguay e le praterie del nord America. La soia è uno dei vegetali più coltivati al mondo, anche se la sua produzione sta mettendo a repentaglio l’esistenza di specie come il giaguaro, il formichiere gigante, l’armadillo e l’ara macao.

IL POLPO MINACCIATO DALLA PESCA INTENSIVA

La popolazione globale di polpo è minacciata dalla pesca intensiva. Il Marocco è stato uno dei più grossi produttori di polpo al mondo, con quasi 100 mila tonnellate annue nel 2000, più del doppio della quantità pescata dal secondo Paese nella classifica, il Giappone (in Italia ogni anno se ne pescano 3 mila tonnellate). Ma, a prescindere dalla quantità, la scoperta dell’elevata sensibilità del polpo mette il popolo di consumatori davanti a un dilemma etico: il polpo rappresenta infatti un modello di invertebrato complesso, sensibile e dotato della capacità di risolvere problemi.

LE FORESTE DELLA COSTA D’AVORIO IN PERICOLO PER IL CIOCCOLATO

Più del 70% del cacao mondiale viene prodotto in Costa d’Avorio e in Ghana. La pianta arriva dalla foresta pluviale che, nella Costa d’Avorio è caratterizzata da una scomparsa più rapida rispetto a qualsiasi altro Paese africano. Sul suo territorio, infatti, si è ridotta di oltre l’80% negli ultimi 60 anni. Ma di questo passo, la crescente domanda di cioccolato potrebbe portare alla totale scomparsa della foresta.

LE MANGROVIE A RISCHIO A CAUSA DEI GAMBERI

I gamberi di grandi dimensioni – tigre e reale – sono allevati nelle acque calde dei Paesi come la Thailandia, lo Sri Lanka e il Madagascar, dove la produzione è spesso fortemente coinvolta nella distruzione delle paludi di mangrovie. Secondo la Fondazione per la giustizia smbientale, il 38% circa del disboscamento globale di queste piante è collegato alla crescita delle aziende per l’allevamento dei gamberi.

LA PRODUZIONE DI LATTE A RISCHIO PER GLI OGM

L’Italia ha una posizione di rilievo nel settore caseario europeo, rappresenta il maggior produttore di formaggi a denominazione di origine protetta. Ogni anno, nel Paese, si producono 11 milioni di tonnellate di latte vaccino, 500 mila tonnellate di latte di pecora, oltre 200 mila di latte di bufala e 60 mila di latte caprino. Ma, anche se queste cifre sono alte, il consumo sta calando. Una diminuzione che va rintracciata soprattutto nel calo della natalità. Ma anche nella diffusione di fake news sul cosiddetto “oro bianco“. Una delle più radicate è che nel latte ci siano sostanze inquinanti. Ma tutte le fasi di produzione sono sottoposte a controllo. L’uso di ormoni, inoltre, è vietato in Italia e in tutta Europa. La qualità del latte dipende molto dalla derivazione: diventa poco sicura per l’organismo se arriva da un allevamento intensivo e se gli animali vengono nutriti con Ogm.

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Chi è Madman, il rapper ospite al quinto live di X Factor 2019

Ha esordito nell'ambiente hip hop nel 2006, affermandosi negli anni come uno dei rapper più talentuosi e versatili della sua generazione.

Si chiama Pierfrancesco Botrugno, ma sul palco è noto “solo” come Madman: il rapper pugliese giovedì 21 novembre sarà ospite all’X Factor Dome di Monza, insieme ai colleghi Mahmood e Gemitaiz, per esibirsi durante il quinto live del talent targato Sky. Durante questa puntata i concorrenti si sfideranno presentando al pubblico e ai giudici i propri inediti, esordendo ufficialmente nel mercato musicale.

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L’ESORDIO A TECNICHE PERFETTE

Originario di Grottaglie in provincia di Taranto, Madman ha fatto il suo ingresso nell’ambiente hip hop nel 2006, partecipando alla competizione di freestyle Tecniche perfette in Puglia. Un anno dopo, ha esordito con l’album Riscatto mixtape, a cui sono seguiti Prequel, R.i.p. e Escape from heart.

Nel 2011 ha iniziato una collaborazione con il rapper Gemitaiz, pubblicando con l’artista romano Haterproof, Detto, fatto. e Kepler

Nel 2011 ha iniziato una collaborazione con il rapper Gemitaiz, pubblicando con l’artista romano Haterproof, Detto, fatto. e Kepler. Dal 2015 al 2018 ha pubblicato Doppelganger, MM volume 2 mixtape, Back home e MM volume 3. A partire dal 2019, ha riallacciato il sodalizio artistico con Gemitaiz, facendo uscire prima il singolo Veleno VII e poi l’album Scatola nera.

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Daddy gotta go 👨🏻😕

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Nonostante i generi siano differenti, Madman ha detto in passato che il suo idolo in gioventù è stato Marco Masini, aggiungendo che un giorno vorrebbe cimentarsi in un duetto con lui.

LA SUA RELAZIONE CON FISHBALL SUICIDE

Pugliese d’origine ma cresciuto artisticamente nella scena musicale romana, Madman, classe 1988, ha intrapreso la sua carriera prima dell’avvento del genere trap, facendosi notare come uno dei rapper più versatili e talentuosi della sua generazione. A livello sentimentale, il musicista è stato legato dal 2015 al 2017 alla modella sarda Felisja Piana, altrimenti nota con il nome di Fishball Suicide.

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Chi è Gemitaiz, il rapper ospite al quinto live di X Factor 2019

Classe 1988, ha esordito nel mondo musicale nel 2003, raggiungendo nel corso degli anni un discreto successo. Nel 2014 è stato arrestato con l'accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti.

All’anagrafe Davide De Luca, in arte Gemitaiz. Il rapper romano giovedì 21 novembre si esibirà sul palco dell’X Factor Dome di Monza, insieme al collega MadMan e al vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo, Mahmood. Durante il quinto live del talent, gli artisti faranno compagnia ai sette concorrenti rimasti in gara, che nel corso della puntata sveleranno al pubblico i loro inediti, sancendo definitivamente il loro ingresso nel mercato musicale.

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I SUCCESSI E IL PATTEGGIAMENTO PER POSSESSO DI STUPEFACENTI

Classe 1988, Gemitaiz ha esordito nel mondo musicale nel 2003, pubblicando tra il 2006 e il 2009 i suoi primi mixtape, Affare romano, Affare romano volume 2 e Affare romano zero. Nel 2011 ha iniziato un sodalizio artistico con il rapper pugliese Madman, con il quale ha prodotto Haterproof e Detto, fatto. L’anno successivo ha abbandonato la sua casa discografica, la Honiro Label, per entrare a far parte della Tanta roba, l’etichetta fondata Gué Pequeno e Dj Harsh, incidendo con questa uno dei suoi album più famosi, L’unico compromesso. Nel 2014, il rapper è stato arrestato con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti, dopo esser stato trovato in possesso, per strada, di ketamina e marijuana. Posto agli arresti domiciliari in seguito a una ulteriore perquisizione a casa sua, dove sono stati trovati un bilancino di precisone, hashish e altri stupefacenti, Gemitaiz ha patteggiato il mese successivo una condanna a un anno e 10 mesi di reclusione (pena sospesa). Nello stesso anno l’artista ha riallacciato la sua collaborazione con Madman, realizzando con lui l’album Kepler. Dal 2015 al 2018, ha pubblicato Nonostante tutto, il singolo Oro e argento e Davide. Nel 2019 ha realizzato, insieme a Madman, il suo ultimo album: Scatola nera.

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UNA GRANDE ATTENZIONE PER LA PARTE MELODICA DELLE CANZONI

Artista talentuoso e di successo, Gemitaiz si è distinto dai rapper coetanei per l’attenzione alla parte melodica delle sue canzoni, mai posta in secondo piano rispetto al parlato.

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Omicidio Loris, confermata la condanna a 30 anni per Veronica Panarello

La Cassazione ha accolto la richiesta del procuratore generale, respingendo il ricorso della difesa. Il padre del bambino ucciso nel 2014: «Finalmente è finita».

È stata confermata dalla Cassazione la condanna a 30 anni di reclusione nei confronti di Veronica Panarello, la giovane mamma accusata di aver ucciso il figlioletto di otto anni, Loris Stival, strangolandolo con alcune fascette di plastica e di aver poi gettato il suo corpo in un canalone in campagna. Il bambino è stato ucciso il 29 ottobre 2014 nell’abitazione di famiglia a Santa Croce Camerina (Ragusa). Panarello venne fermata a dicembre.

RESPINTO IL RICORSO DELLA DIFESA

La Cassazione ha accolto la richiesta del procuratore generale. In particolare, il pg della Suprema Corte Roberta Maria Barberino aveva chiesto agli ‘ermellini’ il rigetto del ricorso presentato dalla difesa di Panarello. «Ce lo aspettavamo, se avremo elementi per la revisione faremo istanza», ha commentato l’avvocato Francesco Villardita, difensore di Panarello.

Né sorpresa né soddisfazione, ma il senso di liberazione da un peso con la certezza che a commettere il delitto è stata la mamma di Loris

Andrea Stival, padre di Loris

Di tutt’altro tono la reazione del padre di Loris, Andrea Stival: «Finalmente è finita…», ha commentato. «Né sorpresa né soddisfazione, ma il senso di liberazione da un peso con la certezza che a commettere il delitto è stata la mamma di Loris». «La giustizia oggi mette un punto definitivo su questa tragica e drammatica vicenda: è stata la madre a uccidere Loris», ha aggiunto il suo legale, l’avvocato Daniele Scrofani. «Adesso bisogna pensare al futuro».

IL PROCESSO PER CALUNNIA NEI CONFRONTI DEL SUOCERO

Per Panarello i guai potrebbero non esser finiti qui. Il prossimo 26 novembre dovrà comparire in Aula, davanti al Tribunale di Ragusa, al processo per calunnia nei confronti del suocero, che ha accusato di essere l’autore materiale del delitto. Il 24 gennaio prossimo, davanti al Tribunale monocratico di Catania, comincerà invece il processo per le minacce di morte che la donna ha rivolto al suocero a conclusione della lettura della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Catania: «Sei contento? Sai cosa ti dico?», gli urlò contro, «Prega Dio che ti trovo morto perché altrimenti ti ammazzo con le mie mani quando esco…».

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Commissione Ue al via dal primo dicembre, ma senza il Regno Unito

L'esecutivo a guida von del Leyen è in dirittura d'arrivo. Il 25 novembre dovrebbe arrivare il via libera del Consiglio e il 27 dell'Eurocamera. Il punto.

L’Ue ha tenuto la barra a dritta e punta decisa verso il traguardo dell’insediamento della Commissione a guida Ursula von der Leyen, il primo dicembre. Anche senza il commissario britannico. A precisare quali saranno i passaggi dell’ultimo miglio di un percorso piuttosto accidentato, che ha già ritardato l’inizio dei lavori del nuovo Esecutivo europeo rispetto ai tempi previsti dai Trattati, è stato il leader del Parlamento europeo David Sassoli.

VOTO DEL PARLAMENTO IL 27 NOVEMBRE

Al termine della Conferenza dei presidenti, il numero uno dell’Eurocamera ha reso ufficiale la decisione di mettere al voto la squadra della presidente eletta per l’ok finale, mercoledì 27 novembre, alla plenaria di Strasburgo. E il nuovo Esecutivo non si incaglierà sullo scoglio della mancata nomina del commissario britannico, ha chiarito Sassoli. Londra ha «un termine» per designare il proprio rappresentante, «che è venerdì 22 novembre» allo scoccare della mezzanotte. Ma «gli uffici legali» delle istituzioni Ue «sono concordi: ci sarà una dichiarazione del Consiglio dell’Ue per la formazione della Commissione a 27».

POSSIBILE VIA LIBERA AL CONSIGLIO UE DEL 25

In attesa di capire come si muoverà Londra, destinataria la settimana scorsa di una lettera di messa in mora (primo passo della procedura di infrazione), gli ambasciatori degli Stati membri il 22 novembre si riuniranno, per adottare la lista dei 27 commissari. La decisione sarà poi ufficializzata alla riunione del Consiglio europeo del 25, senza necessità di discussione. D’altra parte, il governo di Londra, con Boris Johnson impegnato in una campagna all’ultimo sangue per il voto del 12 dicembre, un paio di settimane fa aveva già fatto sapere, di non poter attribuire incarichi internazionali nel periodo pre-elettorale, in osservanza delle linee guida politiche nazionali, ma di non voler essere di ostacolo. E salvo colpi di scena, non si attendono discostamenti rispetto a quella linea.

ULTIMI PREPARATIVI PER L’ADDIO DI TUSK

Ultimi preparativi per il cambio della guardia sono in corso anche al Consiglio europeo, con l’attuale presidente, il polacco Donald Tusk (appena incoronato leader del Ppe al congresso di Zagabria), che passerà il testimone all’ex premier belga Charles Michel, in una cerimonia simbolica, venerdì 29 novembre. Ma anche in questo caso, per il via ufficiale bisognerà attendere il primo dicembre, quando tutti i tasselli delle istituzioni europee saranno finalmente al loro posto, e la nuova legislatura, che promette di spingere fin da subito sul Green deal, potrà accendere i suoi motori.

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Cade un’acquasantiera: morta bimba a Udine

Il dramma in una chiesa del capoluogo friulano. La bambina di sette anni è deceduta per il grave trauma riportato.

Una bambina di 7 anni è morta a Udine dopo essere stata colpita da una acquasantiera che è caduta. Il dramma è avvenuto in una chiesa del capoluogo friulano. Subito soccorsa, la piccola è stata trasportata in ospedale ma è deceduta a causa dei gravi traumi riportati. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri del Norm della Compagnia di Udine, del Nucleo investigativo e gli ispettori dell’azienda sanitaria.

IL CONVITTO DOVE STUDIANO I RAGAZZI

La tragedia è avvenuta tra le 17 e le 18 di questo pomeriggio nella chiesa dell’Educandato Uccellis, un noto convitto di Udine, dove studiano i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado. Secondo le prime notizie, la bimba potrebbe essere propria una delle alunne che lì studiano. La piccola è italiana, di Udine.

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Seguire l’impeachment di Trump è come guardare Breaking Bad

In audizioni come quella di Sondland spuntano frasi, informazioni, dettagli inaspettati che tengono incollati alla tivù. E che dimostrano come Trump in fondo abbia a cuore solo i suoi interessi personali.

Lo ammetto, mercoledì, quando l’ambasciatore americano presso l’Ue Gordon Sondland è stato interrogato dal Congresso nell’ambito del procedimento per limpeachment di Donald Trump, non sono riuscita a fare altro che ascoltare quello che aveva da dire. È un po’ come guardare Breaking Bad: ogni mezz’ora spunta una frase, un’informazione, un dettaglio inaspettati che mi tengono incollata alla televisione.

LA PRIORITÀ DI TRUMP? VINCERE NEL 2020

Una cosa è certa: il presidente è pronto a tutto pur di mantenere il potere. Un potere, tra l’altro, che non è in grado di gestire. Quando l’ambasciatore ha detto senza mezzi termini che tutti – compresi il vicepresidente Mike Pence, Mike Pompeo e John Bolton – erano al corrente del cosiddetto Ucrainagate, non potevo credere alle mie orecchie. Le sue dichiarazioni hanno confermato che a Trump non interessa nulla del popolo ucraino, dell’invasione russa in Crimea, degli sforzi che il governo di Kiev sta facendo per combattere la corruzione. A lui interessano solamente i suoi interessi personali: vincere le elezioni del 2020 buttando fango su Joe Biden e sul Partito democratico. Stando a quanto detto da Sondland, il tycoon avrebbe dettato condizioni precise al presidente Volodymyr Zelensky durante la famosa telefonata. Gli avrebbe fornito denaro in cambio di un favore: iniziare delle indagini su Biden e sulle presunta interferenza di Kiev nelle elezioni del 2016. I soldi e la visita dell’allora neoeletto presidente ucraino alla Casa Bianca sono stati bloccati e usati come merce di scambio.

REPUBBLICANI SENZA VERGOGNA

Ciò che mi ha più sconcertato ascoltando l’audizione è il modo in cui i repubblicani seduti in aula cercassero senza vergogna di rigirare le informazioni ricevute da Sondland e di ritrarre il presidente come una persona particolarmente interessata a combattere la corruzione in Ucraina. «Il presidente Trump ha deciso di bloccare l’aiuto economico all’Ucraina perché voleva assicurarsi che il nuovo presidente non fosse corrotto!», è il refrain che ripetono fino alla nausea senza tra l’altro avere prove che sostengano in alcun modo questa teoria. «Corruzione» è il termine che fa sobbalzare chi, come me, segue le azioni del presidente dall’inizio del suo mandato: ha pagato pornostar perché non lo mettessero nei guai; ha ripetutamente elogiato i capi di Stato più corrotti e violenti del mondo; ha tentato di zittire il capo del Fbi sul Russiagate e infine lo ha licenziato e umiliato; lo stesso ha fatto con l’ambasciatrice americana a Kiev. Lo sanno tutti, anche chi è devoto al presidente, che non è una persona trasparente, che ha più scheletri nell’armadio di qualsiasi altro suo predecessore. I repubblicani invece sembrano voler dividere ulteriormente questa nazione, sostenendo senza scrupoli teorie cospirazioniste ormai screditate da tutti e appoggiando senza un minimo di moralità azioni al limite della legalità (per usare un eufemismo). Malgrado tutto questo circo, rimango convinta che il presidente vincerà le elezioni del 2020, momento in cui chiederò asilo politico in Nuova Zelanda.

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Per Mario Balotelli è stata una giornata da dimenticare

L'attaccante allontanato dall'allenamento dopo essere stato ripreso dal tecnico Grosso per lo scarso impegno. E poco dopo la Corte Figc sospende la chiusura della curva del Verona per i cori contro di lui.

Giornata da dimenticare in fretta, quella del 21 novembre, per Mario Balotelli. L’attaccante del Brescia è stato prima allontanato dal centro tecnico delle Rondinelle dopo essere stato redarguito per il mancato impegno dall’allenatore Fabio Grosso. Poi, seppure indirettamente, è stato protagonista della decisione della Corte d’Appello della Figc, che ha disposto la sospensione della chiusura del settore Poltrone est dello stadio Bentegodi di Verona, decisa dal giudice sportivo per cori razzisti proprio contro Super Mario.

VIA DAL CENTRO TECNICO DEL BRESCIA A TESTA BASSA

Dopo essere stato ripreso da Grosso, Balotelli a testa bassa si è diretto verso gli spogliatoi, da dove poco dopo è uscito per lasciare in auto il centro sportivo di Torbole Casaglia. Il tutto mentre la seduta era ancora in corso. Sul fronte della giustizia sportiva, invece, la Corte ha ritenuto necessario un supplemento istruttorio «per individuare con esattezza il settore di provenienza dei cori di discriminazione razziale nonché la loro percezione e dimensione» e ha invitato la procura federale a «espletarli entro il termine di 20 giorni per consentire di definire il procedimento nei tempi normalmente previsti».

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Perché i nuovi casi di peste in Cina non sono il preludio di una pandemia

Tre contagi tra la Mongolia e Pechino hanno riacceso la psicosi per un'epidemia globale. Ma i dati dell'Oms degli ultimi anni suggeriscono che il morbo è sotto controllo. Tra il 2010 e 2017 solo 3 mila contagi con 500 morti. Focolai attivi, ma contenuti, in Madagascar, Congo e Perù.

È presto per parlare di pandemia. Ma i recenti contagi in Asia hanno riaperto la questione legata alla pericolosità della peste. Il 17 novembre le autorità sanitarie cinesi hanno accertato un caso di peste bubbonica nella Mongolia interna. La profilassi è scattata con effetto immediato e 28 persone sono state poste in quarantena per verificare un eventuale contagio. L’uomo, un operaio di 55 anni di una cava della contea di Xilin, ha raccontato di aver scuoiato, cucinato e mangiato il 5 novembre un coniglio selvatico, probabilmente il motivo del contagio. Questo episodio si è aggiunto ad altri due casi di peste polmonare registrati a Pechino nelle ultime settimane. Bisogna quindi preoccuparsi?

DA DOVE ORIGINA LA PESTE

Storicamente, soprattutto per gli europei, la peste richiama alla memoria la “morte nera” che a partire dal 1348 ha devastato il continente uccidendo tra i 25 e 50 milioni di persone. La peste può presentarsi in due forme: bubbonica e polmonare. La prima è la più comune e si contrare per il morso o il contatto con animali infetti. La grande epidemia del 14esimo iniziò infatti con l’arrivo di topi infetti dalla Crimea. Se la peste non viene curata in fretta può intaccare i polmoni trasformandosi in una forma più acuta e contagiosa.

I CONTAGI E I TASSI DI MORTALITÀ

Ancora oggi la peste resta una malattia quasi letale. Quella bubbonica ha un tasso di mortalità compreso tra il 30 e 60% se non viene trattata velocemente. Quella polmonare è ancora più grave se non diagnosticata in tempi brevi. Rispetto al 1348, e alle successive ondate come quella del 1630 raccontata nei Promessi Sposi, oggi le cure sono più efficaci. Se individuata in tempo può essere debellata con antibiotici che sono in grado di ripristinare completamente la salute di un ammalato.

L’ULTIMA GRANDE PANDEMIA TERMINATA NEL 1960

Ufficialmente la peste non è mai stata debellata completamente. L’ultima grande epidemia registrata durò circa un secolo con fasi alterne. Si sviluppò in Cina nella provincia di Yunnan per poi colpire soprattutto il Celeste impero e le regioni indiane tra il 1866 e il 1960. La fase più acuta, a cavallo del secolo, venne spinta anche dalle rotte dell’oppio che partivano da Sud-Est asiatico e avevano proprio nello Yunnan uno snodo fondamentale. Alla fine l’epidemia provocò oltre 12 milioni di morti.

I contagi in Madagascar nel 2017
(Fonte: Oms)

LA SITUAZIONE ATTUALE: GLI UTLIMI CONTAGI

Gli ultimi dati dell’Oms rilevati tra il 2010 e 2017 hanno individuato 3.248 casi, dei quali sono 584 si sono rivelati mortali. I Paesi coi focolai più significativi di peste al momento sono Madagascar (2.348 casi e 202 morti nel 2017), Perù e Repubblica democratica del Congo. Quest’ultima, già alle prese con un’epidemia di Ebola, tra il 1900 e 2012 ha confermato 1.006 casi con quattro morti nel 2015. In realtà anche i Paesi occidentali registrano una decina di casi l’anno, come gli Stati Uniti. Secondo il Centers for Disease Control and Prevention ogni anno vengono registrati poco meno di una ventina di contagi. In questo caso gli Stati più colpiti sono stati quelli di Sud-Ovest: New Mexico, Arizona, Colorado, California, Oregon e Nevada.

I casi di peste in Usa tra il 1970 e il 2017
(Fonte: Centers for Disease Control and Prevention)

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Netanyahu è stato incriminato per corruzione

Il premier a processo per una delle tre inchieste che lo riguardano. È la prima volte che un primo ministro viene accusato di questo reato in Israele.

Il procuratore generale Avichai Mandelblit ha deciso di incriminare per corruzione Benjamin Netanyau in una delle tre inchieste in cui il premier israeliano è coinvolto. Confermate anche le accuse di frode e abuso di ufficio. Le inchieste sono il Caso 1000 (regali da facoltosi uomini di affari) e 2000 (rapporti con l’editore di Yediot Ahronot Arnon Mozes) con frode e abuso di ufficio, mentre per il Caso 4000 (affaire Bezez-Walla) oltre la frode e l’abuso di ufficio c’è anche la corruzione.

PRIMO PREMIER ACCUSATO DI CORRUZIONE IN ISRAELE

È la prima volta nella storia di Israele che un premier in carica è accusato di corruzione. Su tutte le reti nazionali sono in corso edizioni speciali di notiziari sulla vicenda.

LE LACRIME DI COCCODRILLO DI GANTZ

«Un giorno triste per lo Stato di Israele», ha scritto su Twitter il leder centrista Benny Gantz, maggiore rivale di Netanyahu, commentando l’incriminazione.

«È una giornata dura e triste per il popolo israeliano e per me personalmente» ha detto il procuratore generale, «ho deciso con cuore pesante, ma in piena coscienza. Questo era il mio dovere di fronte ai cittadini».

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La Maturità cambia ancora: come sarà nel 2020

Le buste all'orale saranno abolite. Torna il tema di storia. Le novità.

«Aboliremo le buste. Manterremo i materiali ma le buste saranno eliminate», ha annunciato in anteprima a Skuola.net il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, durante una videochat con il portale per studenti, dicendo di aver appena firmato una circolare che apporterà i nuovi cambiamenti alla maturità 2020. «Non vogliamo che l’esame di Stato sia un motivo di stress», continua Fioramonti, «questo non fa bene a nessuno. Gli studenti devono andare all’esame fieri della propria preparazione. Non vogliamo trabocchetti».

REINTRODOTTO IL TEMA STORICO

«Verrà reintrodotto il tema storico nella prima prova scritta dell’esame di Maturità», ha confermato il ministro dell’Istruzione. «Ho voluto ascoltare la voce dei docenti», ha sottolineato il ministro, precisando che il tema di storia «sarà nella seconda tipologia di tracce, obbligatoriamente come una delle opzioni».

GLI STUDENTI CONOSCERANNO PRIMA GLI ARGOMENTI

«La commissione manterrà una serie di materiali che serviranno a far partire l’esame. Ma, anziché sorteggiarlo come in una lotteria si sapranno prima quali saranno gli argomenti scelti. Che verranno proposti agli studenti per far iniziare l’orale. Quei materiali saranno a disposizione degli studenti prima dell’inizio dei colloqui», ha detto il ministro. Sopprimendo le buste, viene meno un «elemento di ulteriore nervosismo che veniva creato attorno a questa lotteria».

«NON CI SARANNO ALTRI CAMBIAMENTI»

«Non ci saranno altri cambiamenti alla maturità», ha poi assicurato, spiegando che «il decreto ufficiale con le materie e quant’altro uscirà come sempre a inizio anno». «La mia idea di scuola è quella di non cambiare ma di mantenere. Ho voluto mantenere l’impianto generale dell’esame. Evitiamo che ogni ministro che si siede al Ministero cambi qualcosa».

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Guidava da 50 anni senza patente: scoperta per un tamponamento subìto

Una 77enne di Pravisdomini (Pordenone) circolava da mezzo secolo senza aver mai conseguito la licenza. Multa da 5 mila euro.

Per mezzo secolo ha guidato, a cavallo tra Friuli Venezia Giulia e Veneto, senza mai aver conseguito la patente. E in 50 anni nessuno l’ha mai fermata, nemmeno per il più classico dei controlli di patente e libretto delle tante pattuglie che presidiano le nostre strade. Così il suo segreto è rimasto tale fino a quando, per un banale tamponamento in cui è rimasta coinvolta suo malgrado, la verità è venuta a galla. Protagonista della vicenda una 77enne di Pravisdomini, l’ultima lingua di terra friulana prima di entrare nel Veneto orientale. Proprio in un luogo simbolo della storia d’Italia come Vittorio Veneto (Treviso) c’è stato l’epilogo della sua lunghissima carriera di autista senza titoli.

TAMPONATA MENTRE ERA IN CODA

Era al volante di una Suzuki station wagon, ferma in colonna: all’improvviso, un veicolo che la seguiva l’ha tamponata e la sua vettura è finita sul mezzo che la precedeva. Esattamente ciò che non sarebbe mai dovuto capitare: senza terzi coinvolti, avrebbe potuto chiuderla lì, amichevolmente. In fondo lei era la danneggiata. Ma quel colpetto alla macchina che la precedeva è stato fatale per far scoprire il suo segreto. Quando gli agenti della Polizia locale sono giunti per i rilievi, hanno sollecitato la consegna della patente, ma l’anziana ha detto di averla scordata a casa. Sono bastati pochi click e una breve indagine sul server nazionale per scoprire che quel documento non l’aveva mai conseguito.

MULTA DA OLTRE 5 MILA EURO

Le conseguenze saranno pesanti: multa da oltre 5 mila euro e sequestro immediato del veicolo. Niente, se raffrontato al rischio che ha corso per mezzo secolo. A chi, in paese, le chiedeva spiegazioni, la nonnina ha fatto sapere che si tratta di un grande equivoco, che chiarirà di fronte alla Polizia locale di Udine, cui esibirà il documento originario, di cui assicura di essere in possesso dalla fine degli anni Sessanta. Peccato che, nel frattempo, 51 anni fa, il suo Comune, Pravisdomini, sia transitano alla neo costituita provincia di Pordenone. Non essendo mai stata scoperta, non ha avuto la necessità di aggiornare l’alibi.

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Rousseau ha deciso che il M5s correrà in Emilia-Romagna e Calabria

Dalle 12 alle 20 gli iscritti erano chiamati a esprimersi sull'opportunità o meno per il Movimento di presentarsi ai due appuntamenti elettorali. Polemiche per il quesito.

Il Movimento 5 stelle presenterà le sue liste alle Regionali in Emilia-Romagna e Calabria. È questo l’esito della consultazione sulla piattaforma online Rousseau che si è svolta nella giornata del 21 novembre. Una giornata vissuta tra polemiche sulla votazione attraverso la quale gli iscritti erano chiamati a decidere se il M5s dovesse correre oppure no ai due appuntamenti. Per quel che riguarda la consultazione del prossimo 26 gennaio, in particolare, la spaccatura della base era parsa evidente, col quesito attorno al quale era già sorta più di una critica. Alla fine Sono state espresse 27.273 preferenze su un totale di 125.018 aventi diritto al voto. Il ‘no‘ – che per come era stato espresso il quesito referendario significava sì alle liste – ha ottenuto 19.248 voti attestandosi al 70,6%; il ‘sì’, invece, si è fermato a 8.025 preferenze, rappresentando il 29,4% degli aventi diritto al voto.

SCONFITTA LA LINEA DETTATA DA DI MAIO

Luigi Di Maio, ai microfoni de L’aria che tira, su La 7, aveva spiegato:  «Di solito preferisco non votare, ma chiedere al M5s quale sia la direzione da prendere. Gli uomini soli al comando diventano dei palloni e poi scoppiano. Io credo che le decisioni importanti vanno prese con gli iscritti. I più grandi errori li ho commesso scegliendo da solo». Più tardi, però, non aveva esitato ad ammettere: «Sicuramente il Movimento è in un momento difficoltà e lo ammetto prima di tutto io. C’è bisogno di mettere a posto alcune cose».

POLEMICHE PER IL QUESITO ORIENTATO

Decisamente più esplicita era stata la maggioranza dei militanti emiliani, che aveva chiesto espressamente di votare ‘no’ al quesito su Rousseau. Silvia Piccinini, consigliera regionale del M5s in Emilia-Romagna, aveva definito «una presa in giro inaccettabile e un’umiliazione» il voto con un quesito «orientato».

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Allarme Fentanyl: aumentano le morti per overdose anche in Italia

In meno di quatto di mesi registrati 76 decessi a causa della droga sintetica che si sta affacciando da poco al nostro mercato.

Allarme Fentanyl anche in Italia. Il potente sintetico che, secondo le stime, sarà responsabile di 19mila morti per overdose nel 2019 negli Stati Uniti, si sta affacciando anche sul mercato italiano. Dal 1° agosto al 20 novembre, ha spiegato Elisabetta Simeoni, del Dipartimento politiche antidroga, «si sono registrate in Italia 55 overdose ‘fauste’ e 76 con decesso. I casi aumentano». Il direttore centrale per i servizi antidroga del Dipartimento di pubblica sicurezza, Giuseppe Cucchiara, ha sottolineato che «il contrasto a queste nuove sostanze è difficile perché bastano quantità minime che vengono acquistate on line e spedite via posta. In Italia non siamo dell’epidemia come in America, ma il Fentanyl si sta affacciando sul nostro mercato e dobbiamo attrezzarci. È un fenomeno estremamente preoccupante».

Una bottliglietta di Fentanyl,

LA CINA TRA I PRINCIPALI PRODUTTORI

Le nuove sostanze psicoattive, come Fentanyl e affini, sono «un problema emergente ed in costante evoluzione. La Cina è uno dei principali Paesi produttori; da lì vengono spedite in Europa. Queste droghe attirano soprattutto i giovani, il costo è accessibile a tutti, una dose si compra con 10 euro. La repressione non può essere l’unica soluzione, serve il contributo di famiglia e scuola», ha detto il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, intervenuto al workshop su Droghe sintetiche e nuove sostanze psicoattive, organizzato dal Dipartimento antidroga della presidenza del consiglio e dalla Direzione centrale antidroga del Dipartimento di pubblica sicurezza. Naturalmente, ha proseguito Cafiero De Rato, «anche la criminalità organizzata ha messo gli occhi su queste nuove sostanze che vengono vendute su piattaforme on line e sono reperibili sia sul web di superficie che sul deep web».

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Allarme Fentanyl: aumentano le morti per overdose anche in Italia

In meno di quatto di mesi registrati 76 decessi a causa della droga sintetica che si sta affacciando da poco al nostro mercato.

Allarme Fentanyl anche in Italia. Il potente sintetico che, secondo le stime, sarà responsabile di 19mila morti per overdose nel 2019 negli Stati Uniti, si sta affacciando anche sul mercato italiano. Dal 1° agosto al 20 novembre, ha spiegato Elisabetta Simeoni, del Dipartimento politiche antidroga, «si sono registrate in Italia 55 overdose ‘fauste’ e 76 con decesso. I casi aumentano». Il direttore centrale per i servizi antidroga del Dipartimento di pubblica sicurezza, Giuseppe Cucchiara, ha sottolineato che «il contrasto a queste nuove sostanze è difficile perché bastano quantità minime che vengono acquistate on line e spedite via posta. In Italia non siamo dell’epidemia come in America, ma il Fentanyl si sta affacciando sul nostro mercato e dobbiamo attrezzarci. È un fenomeno estremamente preoccupante».

Una bottliglietta di Fentanyl,

LA CINA TRA I PRINCIPALI PRODUTTORI

Le nuove sostanze psicoattive, come Fentanyl e affini, sono «un problema emergente ed in costante evoluzione. La Cina è uno dei principali Paesi produttori; da lì vengono spedite in Europa. Queste droghe attirano soprattutto i giovani, il costo è accessibile a tutti, una dose si compra con 10 euro. La repressione non può essere l’unica soluzione, serve il contributo di famiglia e scuola», ha detto il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, intervenuto al workshop su Droghe sintetiche e nuove sostanze psicoattive, organizzato dal Dipartimento antidroga della presidenza del consiglio e dalla Direzione centrale antidroga del Dipartimento di pubblica sicurezza. Naturalmente, ha proseguito Cafiero De Rato, «anche la criminalità organizzata ha messo gli occhi su queste nuove sostanze che vengono vendute su piattaforme on line e sono reperibili sia sul web di superficie che sul deep web».

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Il Tottenham è l’ultima occasione di José Mourinho

Quello tra lo Special One e gli Spurs è un matrimonio disseminato di incognite. Prima fra tutte, la capacità dell'allenatore portoghese di ergersi a guru di una squadra da risollevare. Pena la condanna a un inesorabile declino.

Stavolta è davvero l’ultima chiamata. José Mourinho lo sa e dopo un anno di inattività non poteva dire no al Tottenham. Pazienza se ha dovuto tradire (ancora una volta) la fiducia e l’amore dei suoi ex tifosi. Nel 2015 disse «mai agli Spurs per rispetto del Chelsea», quattro anni dopo si dice entusiasta di poter allenare un club con la storia e la tifoseria del Tottenham. Incoerenze che sono regola nel mondo del calcio e stupiscono relativamente. Così come sorprende poco che un club in caduta libera dopo aver raggiunto l’apice della sua storia con la finale di Champions League conquistata un anno fa abbia pensato a lui. Eppure che questo matrimonio funzioni è ancora tutto da vedere.

Mourinho non allena da un anno, da quando fu esonerato dal Manchester United dopo la sonora sconfitta per 3-1 contro il Liverpool. Per molti fu il segnale del declino del tecnico portoghese, non più Special One ma normalissimo, ingrigito e intristito come la sua proposta di calcio. Mourinho ha 56 anni, ha vinto 25 trofei, è stato campione nazionale in quattro campionati diversi, ha sollevato due volte la Champions League. Ma l’ultima coppa che si è portato a casa risale al 2017, negli ultimi due anni tutto ciò che ha ottenuto è stato un secondo posto a 19 punti dal Manchester City e un esonero, ha passato gli ultimi mesi a fare l’opinionista strapagato per Bein Sports, e anche lì non è che ci abbia preso più di tanto.

NON MOLTO SPECIAL ANCHE COME COMMENTATORE

L’estate scorsa profetizzava il Tottenham tra le quattro favorite per la vittoria del titolo con Liverpool, Manchester City e Manchester City B. Le due finaliste di Champions League e la squadra che l’anno scorso ha fatto treble, non proprio il più coraggioso e audace dei pronostici. Peraltro sostanzialmente sbagliato, dal momento che il City è lontano nove punti dalla vetta e il Tottenham è 14esimo. Perlomeno Mourinho non potrà lamentarsi del valore di una squadra che lui stesso riteneva essere tra le più forti d’Inghilterra, non potrà trincerarsi dietro l’alibi di una rosa inadeguata, non potrà replicare le perplessità di Mauricio Pochettino, che già dopo la finale di Champions League persa col Liverpool si era mostrato decisamente critico con una dirigenza poco propensa a spendere sul mercato. Quest’anno il Tottenham ha investito 114 milioni per ingaggiare Ndombélé, Sessegnon, Lo Celso e Clarke, ma l’anno scorso restò completamente inattiva.

Mauricio Pochettino e José Mourinho, vecchio e nuovo allenatore del Tottenham.

Mourinho, per contro, è uno che di soldi ne ha sempre fatti spendere tanti, soprattutto nell’ultima parte della sua carriera al Manchester United. Stavolta dovrà lavorare diversamente e non è così scontato che ci riesca. L’immagine che abbiamo di lui, ormai, è quella di un uomo chiuso in se stesso e nella sua autoreferenzialità, incastratosi nell’idea di dimostrare al mondo che non è vero che si vince giocando bene al calcio, ma che giocare male, volontariamente male, è la via giusta per conquistare trofei. Più realista del re, più integralista di Pep Guardiola, il grande rivale che sembrava non voler cedere mezzo centimetro sui suoi principi calcistici, Mourinho si è fermato mentre il resto del mondo (e della Premier in primis) andava avanti. Reazionario travolto da una rivoluzione, dovrà ora dimostrare di poter cavalcare anche lui l’onda o, in alternativa, imporre la sua personalissima versione calcistica del Congresso di Vienna, una restaurazione contro tutto e contro tutti, che passi ancora una volta dai nodi fondamentali del suo calcio.

UN TEST PER IL GURU PRIMA CHE PER L’ALLENATORE

La solidità difensiva, il cinismo, l’efficacia in contropiede, la cattiveria agonistica, la provocazione in campo e fuori dal rettangolo di gioco. E poi, soprattutto, la compattezza della squadra intorno al suo unico leader. Pochettino aveva completamente perso la fiducia dei suoi giocatori, fare meglio di lui non sarà difficile. Più complesso sarà tornare a esercitare quello charme da guru che permise a Mourinho di trasformare in grande squadra il Porto, di convincere Samuel Eto’o a fare il terzino, di allontanare il Real Madrid dalla sua storia e filosofia trasformandolo in una banda di briganti brutti, sporchi e cattivi costantemente disposti al fallo sistematico e alla protesta compulsiva. Quello che bisogna capire realmente è se Mourinho abbia davvero ancora questa capacità di trascinare un gruppo. Da lì passerà la chiave del suo successo o del suo fallimento. E se non dovesse farcela stavolta, per Mou sarà difficile risollevarsi e levarsi di dosso quell’etichetta di bollito che qualcuno ha già cominciato ad appiccicargli.

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Il Tottenham è l’ultima occasione di José Mourinho

Quello tra lo Special One e gli Spurs è un matrimonio disseminato di incognite. Prima fra tutte, la capacità dell'allenatore portoghese di ergersi a guru di una squadra da risollevare. Pena la condanna a un inesorabile declino.

Stavolta è davvero l’ultima chiamata. José Mourinho lo sa e dopo un anno di inattività non poteva dire no al Tottenham. Pazienza se ha dovuto tradire (ancora una volta) la fiducia e l’amore dei suoi ex tifosi. Nel 2015 disse «mai agli Spurs per rispetto del Chelsea», quattro anni dopo si dice entusiasta di poter allenare un club con la storia e la tifoseria del Tottenham. Incoerenze che sono regola nel mondo del calcio e stupiscono relativamente. Così come sorprende poco che un club in caduta libera dopo aver raggiunto l’apice della sua storia con la finale di Champions League conquistata un anno fa abbia pensato a lui. Eppure che questo matrimonio funzioni è ancora tutto da vedere.

Mourinho non allena da un anno, da quando fu esonerato dal Manchester United dopo la sonora sconfitta per 3-1 contro il Liverpool. Per molti fu il segnale del declino del tecnico portoghese, non più Special One ma normalissimo, ingrigito e intristito come la sua proposta di calcio. Mourinho ha 56 anni, ha vinto 25 trofei, è stato campione nazionale in quattro campionati diversi, ha sollevato due volte la Champions League. Ma l’ultima coppa che si è portato a casa risale al 2017, negli ultimi due anni tutto ciò che ha ottenuto è stato un secondo posto a 19 punti dal Manchester City e un esonero, ha passato gli ultimi mesi a fare l’opinionista strapagato per Bein Sports, e anche lì non è che ci abbia preso più di tanto.

NON MOLTO SPECIAL ANCHE COME COMMENTATORE

L’estate scorsa profetizzava il Tottenham tra le quattro favorite per la vittoria del titolo con Liverpool, Manchester City e Manchester City B. Le due finaliste di Champions League e la squadra che l’anno scorso ha fatto treble, non proprio il più coraggioso e audace dei pronostici. Peraltro sostanzialmente sbagliato, dal momento che il City è lontano nove punti dalla vetta e il Tottenham è 14esimo. Perlomeno Mourinho non potrà lamentarsi del valore di una squadra che lui stesso riteneva essere tra le più forti d’Inghilterra, non potrà trincerarsi dietro l’alibi di una rosa inadeguata, non potrà replicare le perplessità di Mauricio Pochettino, che già dopo la finale di Champions League persa col Liverpool si era mostrato decisamente critico con una dirigenza poco propensa a spendere sul mercato. Quest’anno il Tottenham ha investito 114 milioni per ingaggiare Ndombélé, Sessegnon, Lo Celso e Clarke, ma l’anno scorso restò completamente inattiva.

Mauricio Pochettino e José Mourinho, vecchio e nuovo allenatore del Tottenham.

Mourinho, per contro, è uno che di soldi ne ha sempre fatti spendere tanti, soprattutto nell’ultima parte della sua carriera al Manchester United. Stavolta dovrà lavorare diversamente e non è così scontato che ci riesca. L’immagine che abbiamo di lui, ormai, è quella di un uomo chiuso in se stesso e nella sua autoreferenzialità, incastratosi nell’idea di dimostrare al mondo che non è vero che si vince giocando bene al calcio, ma che giocare male, volontariamente male, è la via giusta per conquistare trofei. Più realista del re, più integralista di Pep Guardiola, il grande rivale che sembrava non voler cedere mezzo centimetro sui suoi principi calcistici, Mourinho si è fermato mentre il resto del mondo (e della Premier in primis) andava avanti. Reazionario travolto da una rivoluzione, dovrà ora dimostrare di poter cavalcare anche lui l’onda o, in alternativa, imporre la sua personalissima versione calcistica del Congresso di Vienna, una restaurazione contro tutto e contro tutti, che passi ancora una volta dai nodi fondamentali del suo calcio.

UN TEST PER IL GURU PRIMA CHE PER L’ALLENATORE

La solidità difensiva, il cinismo, l’efficacia in contropiede, la cattiveria agonistica, la provocazione in campo e fuori dal rettangolo di gioco. E poi, soprattutto, la compattezza della squadra intorno al suo unico leader. Pochettino aveva completamente perso la fiducia dei suoi giocatori, fare meglio di lui non sarà difficile. Più complesso sarà tornare a esercitare quello charme da guru che permise a Mourinho di trasformare in grande squadra il Porto, di convincere Samuel Eto’o a fare il terzino, di allontanare il Real Madrid dalla sua storia e filosofia trasformandolo in una banda di briganti brutti, sporchi e cattivi costantemente disposti al fallo sistematico e alla protesta compulsiva. Quello che bisogna capire realmente è se Mourinho abbia davvero ancora questa capacità di trascinare un gruppo. Da lì passerà la chiave del suo successo o del suo fallimento. E se non dovesse farcela stavolta, per Mou sarà difficile risollevarsi e levarsi di dosso quell’etichetta di bollito che qualcuno ha già cominciato ad appiccicargli.

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The Supreme, anche i bimbiminkia nel loro piccolo spaccano

Un linguaggio incomprensibile in un tappeto sonoro su misura. Il disco d'esordio del giovane rapper romano in 24 ore ha stracciato ogni record. Un album che è come una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva. E ci dice molto dei tempi in cui viviamo.

È difficile per chi abbia più di 16 anni capire, raccontare il successo folgorante di Tha Supreme, questo hip hopper, questo rapper classe 2001 che con un primo disco uscito da una settimana ha sbancato, anzi ha «spuaccuato», come direbbe Sfera Ebbasta.

Difficile non compiacere per il rischio di tradirsi e risultare “out of time”, obsoleto, superato: meglio fare quello mentalmente aperto, che mente a se stesso e a chi lo legge, tessere – per pararsi il culo, come stanno facendo tutti – l’elogio di un anonimo ragazzino romano, Davide Mattei, che però come pseudonimo, Tha Supreme, è già un mito e vogliono farlo passare per epocale. E qui serve un passettino indietro, piccolo perché la storia è esigua.

L’imberbe Davide si rivela, sedicenne, con un pezzo per Salmo, Perdonami, ripetuto da altri brani singoli, tutti fortunati, che via via vanno a costruire l’ossatura dell’album d’esordio, 23 6451, venti episodi, alcuni con le stelline nostrane del rap/trap/hiphop, Salmo, Mahmood, Marracash, Lazza, Nitro, Dani Faiv, Gemitaiz e Madman.

23 6451, UN DISCO D’ESORDIO DA RECORD

Il disco esce, targato Epic/Sony, e in poche ore razzola record a manetta: tutti e 20 i brani nella top 50 Italia, sette nella Top 200 global di Spotify, 13 milioni di streaming nel giro di 24 ore. Fine della storia, per ora. Ma anche inizio. Perché tutto parte da qui, e tutto da qui sarà possibile. Di fronte a questi numeri, il recensore medio si spertica nelle lodi automatiche: scampa alla tempesta di rabbia social degli adolescenti, passa nel novero di quelli che hanno capito l’incomprensibile, perché capaci di sintonizzarsi sui linguaggi delle giovani generazioni, bla, bla, bla.

È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito

Ecco, il linguaggio: ingrediente primario di Tha Supreme. Perché non c’è. È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito, e quindi a maggior ragione seducente: «Ciascuno ci trova quello che vuole», spiegano i recensori che hanno capito, come a dire la scomparsa del senso compiuto, universalmente accettato per comunicare. Tutto e il contrario di tutto, che è anche un bell’esercizio, volendo, di viltà: lo stesso dei politici, che si smentiscono mentre affermano.

Tranne quando Tha Supreme vuol farsi capire: allora i concetti li scandisce chiari, mitragliati, ripetuti, ma chiari e, vedi caso, sono regolarmente termini-sirene, che seducono i fanciulli: le canne, il fumo, la scuola no, «una puttana quindi figlio di puttana», il profluvio strategico di turpiloquio da scuola dell’obbligo, anzi del non obbligo, perché c’è l’espresso, irriverente invito a segarla. «MilevolacintatumifaiunbelBIP». Per fomentare, è chiaro, la ribellione alla panna che tanto funziona oggi: «coglionerottilcazzo», non manca neppure l’afflato sul qualunquista-grillesco, «politicidimmerda».

TESTI INCOMPRENSIBILI SU UN TAPPETO SONORO PERFETTAMENTE CALIBRATO

La trovata del pidgin non è nuova, molti artisti, quando compongono, lo fanno in un inglese stralunato, masticato lì per lì: poi ci metton sopra le parole dei testi. La genialata di Supreme è quella di lasciare, debitamente rifinito, la masticatura per quella che è, velocissima, trapanante. Ne esce una totale apparente mancanza di senso, una licenza dal senso che fa il paio con il suono: morbido, fruibile, perfettamente calibrato – il lavoro figura composto e prodotto dallo stesso Mattei, in realtà si deve alla Salmo Crew che sviluppa un flusso ossessivo e raffinato, bilanciando influenze americane, senza strafare, con istanze squisitamente locali.

I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata

È una inoffensività apparentemente aggressiva (7rapper ma1 è una fiondata particolarmente riuscita), di sicuro molto ben costruita: funziona bene da cellulare come da impianto stereo (e questo è aspetto da non sottovalutare assolutamente), come sottofondo come da ispirazione diretta. I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, figlia dell’incomprensione, che sfocia nella passione per i piaceri facili, edonistici come le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata.

Musicalmente l’album è ridondante, prolisso, venti momenti, quasi tutti brevi o brevissimi, ma non c’è solo la tachicardia ritmica, ogni tanto affiorano conati melodici (Gua10; Blun7 A Swishland, che dovrebbe raccontare del desiderio di cambiare fumo), e sono i momenti in cui la capacità compositiva, sfrondata un po’ dell’ottundimento sintetico-ritmico mostra drammaticamente la corda. Altri sprazzi sono un po’ così: Parano1a K1d schiera Fabri Fibra, ma paga pesante tributo a J-Ax; M12ano, con Mara Sattei, chiarisce il gusto minorenne ai tempi di X Factor: qualcosa di troppo lontano, anche per chi sia appena uscito dalla fase puberale, per essere davvero compreso. Ma c’è perfino, nel pezzo con Salmo, Sw1n60, una sorta di strampalato swing, tanto per non farsi mancare niente: «Dellascenarapneholepallepiene, guardachegrandestocazzochemene, pensocolcazzoperchémiconviene».

UN ALBUM PIENO DI IDEE RICICLATE MA CHE RIESCE AD ANDARE OLTRE

A un disco come questo, ci si può solo girare intorno: è una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva (la copertina, che cita Dalì, è a sua volta tripudio citazionista, ovviamente adeguato ai tempi: il coniglio Bunny, carte da gioco, astronavi, finta originalità, trita e ritrita). Con gli ospiti che fanno gli ospiti, Mahmood recita Mahmood e così via. Un mondo di idee riciclate ma insospettate da chi non ha abbastanza tempo addosso da scoprire qualcosa di remoto, dunque di nuovo.

Tutto calcolato per un disco di record perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana

Cinica truffa, ma fatta come si deve. Tredici milioni di streaming in 24 ore. I beat giusti nei cervelli giusti. Spirali di fumo ovunque, come giustificazione all’apatia, all’impossibilità, perfino al vittimismo da «politici ci avete tolto i sogni ci avete rubato il futuro e noi allora ci sballiamo ci sbattiamo di canne sempre ogni traccia ogni momento come se non ci fosse un domani come se non ci fosse un’altra dieta».

Eppure in questa monotonia rap, in questa polluzione del già sentito, c’è come un punto e a capo. Come uno spingersi oltre. Come se la totale, assoluta vacanza concettuale avesse raggiunto nuove misure, travolto vecchi limiti. Come se la cura formale diventasse funzionale come mai prima. C’è un avatar di Tha Supreme, lo trovate, mastodontico pupazzo, nelle stazioni dei treni di Milano e di Roma. Tutto calcolato per un disco di record, effimeri magari, ma perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana, e per questa volta la dittatura del politicamente corretto che si fotta, anzi chesifotta, yo yo yo, raga raga raga.

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The Supreme, anche i bimbiminkia nel loro piccolo spaccano

Un linguaggio incomprensibile in un tappeto sonoro su misura. Il disco d'esordio del giovane rapper romano in 24 ore ha stracciato ogni record. Un album che è come una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva. E ci dice molto dei tempi in cui viviamo.

È difficile per chi abbia più di 16 anni capire, raccontare il successo folgorante di Tha Supreme, questo hip hopper, questo rapper classe 2001 che con un primo disco uscito da una settimana ha sbancato, anzi ha «spuaccuato», come direbbe Sfera Ebbasta.

Difficile non compiacere per il rischio di tradirsi e risultare “out of time”, obsoleto, superato: meglio fare quello mentalmente aperto, che mente a se stesso e a chi lo legge, tessere – per pararsi il culo, come stanno facendo tutti – l’elogio di un anonimo ragazzino romano, Davide Mattei, che però come pseudonimo, Tha Supreme, è già un mito e vogliono farlo passare per epocale. E qui serve un passettino indietro, piccolo perché la storia è esigua.

L’imberbe Davide si rivela, sedicenne, con un pezzo per Salmo, Perdonami, ripetuto da altri brani singoli, tutti fortunati, che via via vanno a costruire l’ossatura dell’album d’esordio, 23 6451, venti episodi, alcuni con le stelline nostrane del rap/trap/hiphop, Salmo, Mahmood, Marracash, Lazza, Nitro, Dani Faiv, Gemitaiz e Madman.

23 6451, UN DISCO D’ESORDIO DA RECORD

Il disco esce, targato Epic/Sony, e in poche ore razzola record a manetta: tutti e 20 i brani nella top 50 Italia, sette nella Top 200 global di Spotify, 13 milioni di streaming nel giro di 24 ore. Fine della storia, per ora. Ma anche inizio. Perché tutto parte da qui, e tutto da qui sarà possibile. Di fronte a questi numeri, il recensore medio si spertica nelle lodi automatiche: scampa alla tempesta di rabbia social degli adolescenti, passa nel novero di quelli che hanno capito l’incomprensibile, perché capaci di sintonizzarsi sui linguaggi delle giovani generazioni, bla, bla, bla.

È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito

Ecco, il linguaggio: ingrediente primario di Tha Supreme. Perché non c’è. È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito, e quindi a maggior ragione seducente: «Ciascuno ci trova quello che vuole», spiegano i recensori che hanno capito, come a dire la scomparsa del senso compiuto, universalmente accettato per comunicare. Tutto e il contrario di tutto, che è anche un bell’esercizio, volendo, di viltà: lo stesso dei politici, che si smentiscono mentre affermano.

Tranne quando Tha Supreme vuol farsi capire: allora i concetti li scandisce chiari, mitragliati, ripetuti, ma chiari e, vedi caso, sono regolarmente termini-sirene, che seducono i fanciulli: le canne, il fumo, la scuola no, «una puttana quindi figlio di puttana», il profluvio strategico di turpiloquio da scuola dell’obbligo, anzi del non obbligo, perché c’è l’espresso, irriverente invito a segarla. «MilevolacintatumifaiunbelBIP». Per fomentare, è chiaro, la ribellione alla panna che tanto funziona oggi: «coglionerottilcazzo», non manca neppure l’afflato sul qualunquista-grillesco, «politicidimmerda».

TESTI INCOMPRENSIBILI SU UN TAPPETO SONORO PERFETTAMENTE CALIBRATO

La trovata del pidgin non è nuova, molti artisti, quando compongono, lo fanno in un inglese stralunato, masticato lì per lì: poi ci metton sopra le parole dei testi. La genialata di Supreme è quella di lasciare, debitamente rifinito, la masticatura per quella che è, velocissima, trapanante. Ne esce una totale apparente mancanza di senso, una licenza dal senso che fa il paio con il suono: morbido, fruibile, perfettamente calibrato – il lavoro figura composto e prodotto dallo stesso Mattei, in realtà si deve alla Salmo Crew che sviluppa un flusso ossessivo e raffinato, bilanciando influenze americane, senza strafare, con istanze squisitamente locali.

I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata

È una inoffensività apparentemente aggressiva (7rapper ma1 è una fiondata particolarmente riuscita), di sicuro molto ben costruita: funziona bene da cellulare come da impianto stereo (e questo è aspetto da non sottovalutare assolutamente), come sottofondo come da ispirazione diretta. I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, figlia dell’incomprensione, che sfocia nella passione per i piaceri facili, edonistici come le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata.

Musicalmente l’album è ridondante, prolisso, venti momenti, quasi tutti brevi o brevissimi, ma non c’è solo la tachicardia ritmica, ogni tanto affiorano conati melodici (Gua10; Blun7 A Swishland, che dovrebbe raccontare del desiderio di cambiare fumo), e sono i momenti in cui la capacità compositiva, sfrondata un po’ dell’ottundimento sintetico-ritmico mostra drammaticamente la corda. Altri sprazzi sono un po’ così: Parano1a K1d schiera Fabri Fibra, ma paga pesante tributo a J-Ax; M12ano, con Mara Sattei, chiarisce il gusto minorenne ai tempi di X Factor: qualcosa di troppo lontano, anche per chi sia appena uscito dalla fase puberale, per essere davvero compreso. Ma c’è perfino, nel pezzo con Salmo, Sw1n60, una sorta di strampalato swing, tanto per non farsi mancare niente: «Dellascenarapneholepallepiene, guardachegrandestocazzochemene, pensocolcazzoperchémiconviene».

UN ALBUM PIENO DI IDEE RICICLATE MA CHE RIESCE AD ANDARE OLTRE

A un disco come questo, ci si può solo girare intorno: è una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva (la copertina, che cita Dalì, è a sua volta tripudio citazionista, ovviamente adeguato ai tempi: il coniglio Bunny, carte da gioco, astronavi, finta originalità, trita e ritrita). Con gli ospiti che fanno gli ospiti, Mahmood recita Mahmood e così via. Un mondo di idee riciclate ma insospettate da chi non ha abbastanza tempo addosso da scoprire qualcosa di remoto, dunque di nuovo.

Tutto calcolato per un disco di record perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana

Cinica truffa, ma fatta come si deve. Tredici milioni di streaming in 24 ore. I beat giusti nei cervelli giusti. Spirali di fumo ovunque, come giustificazione all’apatia, all’impossibilità, perfino al vittimismo da «politici ci avete tolto i sogni ci avete rubato il futuro e noi allora ci sballiamo ci sbattiamo di canne sempre ogni traccia ogni momento come se non ci fosse un domani come se non ci fosse un’altra dieta».

Eppure in questa monotonia rap, in questa polluzione del già sentito, c’è come un punto e a capo. Come uno spingersi oltre. Come se la totale, assoluta vacanza concettuale avesse raggiunto nuove misure, travolto vecchi limiti. Come se la cura formale diventasse funzionale come mai prima. C’è un avatar di Tha Supreme, lo trovate, mastodontico pupazzo, nelle stazioni dei treni di Milano e di Roma. Tutto calcolato per un disco di record, effimeri magari, ma perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana, e per questa volta la dittatura del politicamente corretto che si fotta, anzi chesifotta, yo yo yo, raga raga raga.

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Perché la terza stagione di Mindhunter potrebbe uscire dopo il 2020

La serie Netflix ideata da David Fincher potrebbe prendersi una pausa. Parola del protagonista Groff. Il regista è infatti impegnato sul set del suo nuovo film.

Mindhunter è una serie che si prende i suoi tempi. Non solo per raccontare le ricerche degli agenti Fbi Holden Ford e Bill Tench, ma anche per la sua stessa realizzazione. Tra la prima e seconda stagione la gestazione è stata di almeno 2 anni, e adesso per la terza potrebbe passare anche più tempo.

FINCHER IMPEGNATO SUL SUO NUOVO FILM

La conferma arriva da un’intervista di Jonathan Groff, l’attore che interpreta l’agente Ford, all’Hollywood Reporter. Groff non ha fatto cenno a conferme o inizio delle riprese, ma ha spiegato che per riprendere i lavori bisognerà attendere che David Fincher, creatore della serie, finisca il suo prossimo film. Il regista di Fight Club e The Social Network, sta lavorando a Mank, un biopic su Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore di Quarto Potere.

COSA DI DICE DI MANK

Il film, che nel cast annovera Gary Oldman, Amanda Seyfried e Lily Collins, è attualmente in lavorazione e le riprese dovrebbero terminare all’inizio del 2020, con possibile diffusione in autunno, in tempo per prendere parte alla corsa a Golden Globe e Oscar. Questo significa che difficilmente Mindhunter vedrà la luce prima del 2021, forse addirittura nel 2022.

GLI ALTRI LAVORI DI FINCHER CON NETFLIX

Su tutto questo ovviamente manca ancora il via libera di Netflix e dei produttori della serie, tra i quali Charlize Theron. Secondo John Douglas, l’autore del libro che ispirato la serie, ci sarebbero ancora molti crimini e serial killer da raccontare ed esplorare. Ma a preoccupare i fan della serie ci sono anche altri programmi di Fincher. Secondo il sito Deadline il cineasta di Denver potrebbe lavorare alla realizzazione come sceneggiatore e produttore esecutivo di una nuova serie Netflix ispirata Chinatown, film del 1974 di Roman Polanski.

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Perché la terza stagione di Mindhunter potrebbe uscire dopo il 2020

La serie Netflix ideata da David Fincher potrebbe prendersi una pausa. Parola del protagonista Groff. Il regista è infatti impegnato sul set del suo nuovo film.

Mindhunter è una serie che si prende i suoi tempi. Non solo per raccontare le ricerche degli agenti Fbi Holden Ford e Bill Tench, ma anche per la sua stessa realizzazione. Tra la prima e seconda stagione la gestazione è stata di almeno 2 anni, e adesso per la terza potrebbe passare anche più tempo.

FINCHER IMPEGNATO SUL SUO NUOVO FILM

La conferma arriva da un’intervista di Jonathan Groff, l’attore che interpreta l’agente Ford, all’Hollywood Reporter. Groff non ha fatto cenno a conferme o inizio delle riprese, ma ha spiegato che per riprendere i lavori bisognerà attendere che David Fincher, creatore della serie, finisca il suo prossimo film. Il regista di Fight Club e The Social Network, sta lavorando a Mank, un biopic su Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore di Quarto Potere.

COSA DI DICE DI MANK

Il film, che nel cast annovera Gary Oldman, Amanda Seyfried e Lily Collins, è attualmente in lavorazione e le riprese dovrebbero terminare all’inizio del 2020, con possibile diffusione in autunno, in tempo per prendere parte alla corsa a Golden Globe e Oscar. Questo significa che difficilmente Mindhunter vedrà la luce prima del 2021, forse addirittura nel 2022.

GLI ALTRI LAVORI DI FINCHER CON NETFLIX

Su tutto questo ovviamente manca ancora il via libera di Netflix e dei produttori della serie, tra i quali Charlize Theron. Secondo John Douglas, l’autore del libro che ispirato la serie, ci sarebbero ancora molti crimini e serial killer da raccontare ed esplorare. Ma a preoccupare i fan della serie ci sono anche altri programmi di Fincher. Secondo il sito Deadline il cineasta di Denver potrebbe lavorare alla realizzazione come sceneggiatore e produttore esecutivo di una nuova serie Netflix ispirata Chinatown, film del 1974 di Roman Polanski.

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Chi era a conoscenza del «rischio crollo» del Morandi

La guardia di finanza ha sequestrato un documento del consiglio di amministrazione di Autostrade. In cui nel 2015 si parlava della possibilità di cedimento. Ed era presente un rappresentante del dicastero dei Trasporti. La ministra De Micheli: «Cose inaccettabili e incomprensibili».

Il ministero dei Trasporti (Mit) sapeva che il Ponte Morandi sarebbe potuto venire giù? È l’inquietante rivelazione emersa da un documento finora rimasto segreto e sequestrato dalla guardia di finanza nella sede di Atlantia e di Autostrade.

CONDIVISO UN «INDIRIZZO DI RISCHIO BASSO»

I vertici del dicastero delle Infrastrutture nel 2015 erano a conoscenza del rischio crollo per il viadotto di Genova teatro della tragedia del 14 agosto 2018 che ha provocato la morte di 43 persone: alle sedute del consiglio di amministrazione di Autostrade per l’Italia infatti partecipa un rappresentante del Mit, membro del Collegio sindacale. E, secondo quanto riportarto da la Repubblica, proprio questo organo con il cda condivise «l’indirizzo di rischio basso» per il Morandi. Rischio basso, non rischio zero.

AUTOSTRADE PARLA DI «MASSIMO RIGORE»

Autostrade per l’Italia ha precisato che «la società non è in alcun modo disponibile ad accettare rischi operativi sulle infrastrutture. Di conseguenza, l’indirizzo del cda alle strutture operative è di presidiare e gestire sempre tale tipologia di rischio con il massimo rigore, adottando ogni opportuna cautela preventiva».

PERICOLO CONSIDERATO SOLO TEORICO

In particolare «per quanto riguarda l’area dei rischi operativi, nella quale rientrava anche la scheda del Morandi, il cda di Autostrade ha sempre espresso l’indirizzo di mantenere la propensione di rischio al livello più basso possibile». Un rischio solo teorico, insomma.

Ho letto quello che avete letto voi, il contenuto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile


La ministra De Micheli

La ministra dei Trasporti Paola De Micheli ha commentato dicendo di aver «letto quello che avete letto voi, il contenuto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile». E intanto il titolo di Atlantia in Borsa ha fatto registrare perdite influenzato da questi nuovi sviluppi.

OPERA CHE «NON ERA SOTTO CONTROLLO»

I finanzieri tra l’altro hanno sequestrato altre relazioni tecniche a corredo del “catalogo del rischio“. In cui gli ingegneri esprimevano preoccupazioni: «L’opera non si riesce a tenere sotto controllo» per via dell’impossibilità di monitorare gli stralli e i cassoni del viadotto. Quel documento sul rischio crollo già nel 2015 è stato sottoposto al vaglio dei cda di Aspi e Atlantia, in concomitanza alla presentazione del progetto di retrofitting (consolidamento) delle pile 9 (quella poi crollata) e 10.

NEL 2017 SI PARLÒ DI “PERDITA DI STATICITÀ”

Nel 2017 avvennero due variazioni. La responsabilità sul Morandi passò dalle Manutenzioni dirette da Michele Donferri Mitelli alla Direzione di tronco di Genova, guidata da Stefano Marigliani (entrambi indagati). E nel catalogo del rischio non si parlava più di “crollo”, ma di “perdita di staticità”.

DI MAIO: «PARLIAMO DELLA SICUREZZA DEI CITTADINI»

Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Quanto arriva una relazione sul rischio di crollo, parliamo della sicurezza dei cittadini italiani. E Autostrade parla di rischio teorico? Qual è il rischio pratico?». Di Maio, ospite a L’aria che tira su La7, ha detto che «negli ultimi 30 anni gruppi privati hanno avuto contratti blindati qualunque cosa accadesse alla manutenzione».

«I MORTI DEL MORANDI NON SI BARATTANO»

Poi su Alitalia: «A un certo punto si è fatta avanti Atlantia, che poi ha fatto marcia indietro. Se pensavano che entrando in Alitalia non gli avremmo tolto le concessioni autostradali si sbagliavano: i morti del ponte Morandi non si barattano con nessuno. Vinceremo la battaglia della revoca».

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Chi era a conoscenza del «rischio crollo» del Morandi

La guardia di finanza ha sequestrato un documento del consiglio di amministrazione di Autostrade. In cui nel 2015 si parlava della possibilità di cedimento. Ed era presente un rappresentante del dicastero dei Trasporti. La ministra De Micheli: «Cose inaccettabili e incomprensibili».

Il ministero dei Trasporti (Mit) sapeva che il Ponte Morandi sarebbe potuto venire giù? È l’inquietante rivelazione emersa da un documento finora rimasto segreto e sequestrato dalla guardia di finanza nella sede di Atlantia e di Autostrade.

CONDIVISO UN «INDIRIZZO DI RISCHIO BASSO»

I vertici del dicastero delle Infrastrutture nel 2015 erano a conoscenza del rischio crollo per il viadotto di Genova teatro della tragedia del 14 agosto 2018 che ha provocato la morte di 43 persone: alle sedute del consiglio di amministrazione di Autostrade per l’Italia infatti partecipa un rappresentante del Mit, membro del Collegio sindacale. E, secondo quanto riportarto da la Repubblica, proprio questo organo con il cda condivise «l’indirizzo di rischio basso» per il Morandi. Rischio basso, non rischio zero.

AUTOSTRADE PARLA DI «MASSIMO RIGORE»

Autostrade per l’Italia ha precisato che «la società non è in alcun modo disponibile ad accettare rischi operativi sulle infrastrutture. Di conseguenza, l’indirizzo del cda alle strutture operative è di presidiare e gestire sempre tale tipologia di rischio con il massimo rigore, adottando ogni opportuna cautela preventiva».

PERICOLO CONSIDERATO SOLO TEORICO

In particolare «per quanto riguarda l’area dei rischi operativi, nella quale rientrava anche la scheda del Morandi, il cda di Autostrade ha sempre espresso l’indirizzo di mantenere la propensione di rischio al livello più basso possibile». Un rischio solo teorico, insomma.

Ho letto quello che avete letto voi, il contenuto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile


La ministra De Micheli

La ministra dei Trasporti Paola De Micheli ha commentato dicendo di aver «letto quello che avete letto voi, il contenuto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile». E intanto il titolo di Atlantia in Borsa ha fatto registrare perdite influenzato da questi nuovi sviluppi.

OPERA CHE «NON ERA SOTTO CONTROLLO»

I finanzieri tra l’altro hanno sequestrato altre relazioni tecniche a corredo del “catalogo del rischio“. In cui gli ingegneri esprimevano preoccupazioni: «L’opera non si riesce a tenere sotto controllo» per via dell’impossibilità di monitorare gli stralli e i cassoni del viadotto. Quel documento sul rischio crollo già nel 2015 è stato sottoposto al vaglio dei cda di Aspi e Atlantia, in concomitanza alla presentazione del progetto di retrofitting (consolidamento) delle pile 9 (quella poi crollata) e 10.

NEL 2017 SI PARLÒ DI “PERDITA DI STATICITÀ”

Nel 2017 avvennero due variazioni. La responsabilità sul Morandi passò dalle Manutenzioni dirette da Michele Donferri Mitelli alla Direzione di tronco di Genova, guidata da Stefano Marigliani (entrambi indagati). E nel catalogo del rischio non si parlava più di “crollo”, ma di “perdita di staticità”.

DI MAIO: «PARLIAMO DELLA SICUREZZA DEI CITTADINI»

Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Quanto arriva una relazione sul rischio di crollo, parliamo della sicurezza dei cittadini italiani. E Autostrade parla di rischio teorico? Qual è il rischio pratico?». Di Maio, ospite a L’aria che tira su La7, ha detto che «negli ultimi 30 anni gruppi privati hanno avuto contratti blindati qualunque cosa accadesse alla manutenzione».

«I MORTI DEL MORANDI NON SI BARATTANO»

Poi su Alitalia: «A un certo punto si è fatta avanti Atlantia, che poi ha fatto marcia indietro. Se pensavano che entrando in Alitalia non gli avremmo tolto le concessioni autostradali si sbagliavano: i morti del ponte Morandi non si barattano con nessuno. Vinceremo la battaglia della revoca».

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La Cina “scopre” le patate: è boom di ricette

Tradizionalmente assente nella cucina tradizionale, l'ingrediente è sempre più presente nei piatti del Celeste impero.

Pur non essendo un ingrediente di base della cucina cinese, le patate si stanno tuttavia diffondendo grazie anche ai ricercatori che hanno trovato il modo di utilizzarle in oltre 300 ricette tradizionali come nel pane al vapore e i noodles. La Cina ha la più ampia superficie al mondo dedicata alla coltivazione e alla produzione di patate. Queste però non si adattano alle abitudini alimentari e ai gusti dei cinesi come ingrediente di base, dal momento che non contengono le proteine del glutine e hanno una scarsa duttilità.

LA RICERCA PER INSERIRE LE PATATE NEI PIATTI TRADIZIONALI

Ma i ricercatori dell’Institute of Food Science and Technology of the Chinese Academy of Agricultural Sciences (Caas) ritengono che siano ricche di componenti nutritivi e funzionali e che utilizzarle nei piatti di base potrebbe aiutare a migliorare la salute, oltre ad ottimizzare la struttura agricola cinese, contribuendo ad alleviare le pressioni sulle risorse e sull’ambiente, a garantire la sicurezza alimentare e a realizzare lo sviluppo sostenibile.

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La Cina “scopre” le patate: è boom di ricette

Tradizionalmente assente nella cucina tradizionale, l'ingrediente è sempre più presente nei piatti del Celeste impero.

Pur non essendo un ingrediente di base della cucina cinese, le patate si stanno tuttavia diffondendo grazie anche ai ricercatori che hanno trovato il modo di utilizzarle in oltre 300 ricette tradizionali come nel pane al vapore e i noodles. La Cina ha la più ampia superficie al mondo dedicata alla coltivazione e alla produzione di patate. Queste però non si adattano alle abitudini alimentari e ai gusti dei cinesi come ingrediente di base, dal momento che non contengono le proteine del glutine e hanno una scarsa duttilità.

LA RICERCA PER INSERIRE LE PATATE NEI PIATTI TRADIZIONALI

Ma i ricercatori dell’Institute of Food Science and Technology of the Chinese Academy of Agricultural Sciences (Caas) ritengono che siano ricche di componenti nutritivi e funzionali e che utilizzarle nei piatti di base potrebbe aiutare a migliorare la salute, oltre ad ottimizzare la struttura agricola cinese, contribuendo ad alleviare le pressioni sulle risorse e sull’ambiente, a garantire la sicurezza alimentare e a realizzare lo sviluppo sostenibile.

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L’Argentina spicca un mandato di cattura per il vescovo Zanchetta

Considerato vicino a papa Francesco, dal quale era stato richiamato a Roma nel 2017, è accusato di abusi sessuali ai danni di due seminaristi.

La magistratura di Salta, in Argentina, ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti del vescovo argentino Gustavo Zanchetta, domiciliato in Vaticano, accusato del reato di abuso sessuale semplice e continuato ai danni di due seminaristi, aggravato dal fatto di essere stato commesso da un ministro di culto.

L’APERTURA DI UN GIUDIZIO CANONICO AUTORIZZATA DAL PAPA

La pm María Soledad Filtrín ha deciso di emettere il mandato nei confronti dell’ex vescovo di Orán, considerato vicino a papa Francesco, dopo che lo stesso non ha risposto a ripetute telefonate ed e-mail inviategli al fine di procedere alla notifica degli atti processuali e dopo la sua decisione di costituire il suo domicilio nello Stato del Vaticano. Nel 2017 monsignor Zanchetta era stato richiamato a Roma dal pontefice, che ha autorizzato nel maggio di quest’anno l’apertura nei suoi confronti di un giudizio canonico.

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L’Argentina spicca un mandato di cattura per il vescovo Zanchetta

Considerato vicino a papa Francesco, dal quale era stato richiamato a Roma nel 2017, è accusato di abusi sessuali ai danni di due seminaristi.

La magistratura di Salta, in Argentina, ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti del vescovo argentino Gustavo Zanchetta, domiciliato in Vaticano, accusato del reato di abuso sessuale semplice e continuato ai danni di due seminaristi, aggravato dal fatto di essere stato commesso da un ministro di culto.

L’APERTURA DI UN GIUDIZIO CANONICO AUTORIZZATA DAL PAPA

La pm María Soledad Filtrín ha deciso di emettere il mandato nei confronti dell’ex vescovo di Orán, considerato vicino a papa Francesco, dopo che lo stesso non ha risposto a ripetute telefonate ed e-mail inviategli al fine di procedere alla notifica degli atti processuali e dopo la sua decisione di costituire il suo domicilio nello Stato del Vaticano. Nel 2017 monsignor Zanchetta era stato richiamato a Roma dal pontefice, che ha autorizzato nel maggio di quest’anno l’apertura nei suoi confronti di un giudizio canonico.

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Lo scontro Usa-Cina ora si sposta su Hong Kong

Dura presa di posizione di Pechino contro la risoluzione del Congresso americano sull'ex colonia britannica. «Pronti al contrattacco».

La Cina è pronta a prendere misure «per contrattaccare con vigore» in risposta al Congresso Usa che ha dato il via libera all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, il provvedimento a sostegno delle proteste dell’ex colonia, ora all’esame della firma di Donald Trump per la sua efficacia. «Condanniamo con forza e ci opponiamo con decisione alla approvazione di queste leggi», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang, nel corso della conferenza stampa quotidiana.

PECHINO: «PRONTI A FORTI CONTROMISURE»

Geng ha ribadito l’invito a optare per il blocco dell’iter legislativo chiedendo a Trump di opporre il veto e di non firmare il testo varato dal Congresso, creando un caso piuttosto singolare vista la unanimità espressa dal Senato che è anche a controllo repubblicano. Il portavoce ha minacciato imprecisate «forti contromisure» se il provvedimento diventerà effettivo. «Sollecitiamo la parte Usa a capire la situazione, a fermare gli errori prima che sia troppo tardi e a evitare che questo atto diventi legge, smettendo di interferire negli affari di Hong Kong che sono questioni interne della Cina», ha detto ancora Geng. «Se gli Usa continuano ad adottare le azioni sbagliate, la Cina sarà costretta a prendere di sicuro forti contromisure», ha concluso Geng.

WANG: «CONNIVENZA COI CRIMINALI»

Il Congresso Usa, col via libera del provvedimento, «manda il segnale sbagliato di connivenza coi criminali violenti», ha rincarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, per il quale la «sua essenza è di confondere e addirittura di distruggere Hong Kong. Questa è un’interferenza manifesta negli affari interni della Cina e un grave disservizio a comuni e fondamentali interessi di un ampio numero di compatrioti di Hong Kong».

LEGGI ANCHE: Perché Trump e il Congresso Usa non sono allineati su Hong Kong

Wang ha espresso le sue critiche durante un incontro con l’ex segretario alla Difesa americano William Cohen, ribadendo che la normativa costituisce un atto di interferenza negli affari interni della Cina. «Come possiamo parlare di democrazia? Come possiamo parlare di diritti umani quando ignoriamo i danni causati da azioni violente e illegali? La Cina si oppone fermamente a tutto questo non permetteremo mai ad alcun tentativo di minare la prosperità e la stabilità di Hong Kong, e di minacciare il sistema ‘un Paese, due sistemi’», ha concluso Wang.

COSA C’È NEL PROVVEDIMENTO

Il provvedimento mandato alla firma del presidente americano Donald Trump prevede l’approvazione di sanzioni a carico dei unzionari, di Hong Kong o cinesi, ritenuti colpevoli di abusi sui diritti e richiede la revisione annuale del riconoscimento dello status di partner speciale della città nei rapporti con gli Usa. Altre norme, invece, pribiscono l’export a favore della polizia locale di munizioni non letali o di altri sistemi antisommossa, tra lacrimogeni, spray al peperoncino, proiettili di gomma e taser.

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Lo scontro Usa-Cina ora si sposta su Hong Kong

Dura presa di posizione di Pechino contro la risoluzione del Congresso americano sull'ex colonia britannica. «Pronti al contrattacco».

La Cina è pronta a prendere misure «per contrattaccare con vigore» in risposta al Congresso Usa che ha dato il via libera all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, il provvedimento a sostegno delle proteste dell’ex colonia, ora all’esame della firma di Donald Trump per la sua efficacia. «Condanniamo con forza e ci opponiamo con decisione alla approvazione di queste leggi», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang, nel corso della conferenza stampa quotidiana.

PECHINO: «PRONTI A FORTI CONTROMISURE»

Geng ha ribadito l’invito a optare per il blocco dell’iter legislativo chiedendo a Trump di opporre il veto e di non firmare il testo varato dal Congresso, creando un caso piuttosto singolare vista la unanimità espressa dal Senato che è anche a controllo repubblicano. Il portavoce ha minacciato imprecisate «forti contromisure» se il provvedimento diventerà effettivo. «Sollecitiamo la parte Usa a capire la situazione, a fermare gli errori prima che sia troppo tardi e a evitare che questo atto diventi legge, smettendo di interferire negli affari di Hong Kong che sono questioni interne della Cina», ha detto ancora Geng. «Se gli Usa continuano ad adottare le azioni sbagliate, la Cina sarà costretta a prendere di sicuro forti contromisure», ha concluso Geng.

WANG: «CONNIVENZA COI CRIMINALI»

Il Congresso Usa, col via libera del provvedimento, «manda il segnale sbagliato di connivenza coi criminali violenti», ha rincarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, per il quale la «sua essenza è di confondere e addirittura di distruggere Hong Kong. Questa è un’interferenza manifesta negli affari interni della Cina e un grave disservizio a comuni e fondamentali interessi di un ampio numero di compatrioti di Hong Kong».

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Wang ha espresso le sue critiche durante un incontro con l’ex segretario alla Difesa americano William Cohen, ribadendo che la normativa costituisce un atto di interferenza negli affari interni della Cina. «Come possiamo parlare di democrazia? Come possiamo parlare di diritti umani quando ignoriamo i danni causati da azioni violente e illegali? La Cina si oppone fermamente a tutto questo non permetteremo mai ad alcun tentativo di minare la prosperità e la stabilità di Hong Kong, e di minacciare il sistema ‘un Paese, due sistemi’», ha concluso Wang.

COSA C’È NEL PROVVEDIMENTO

Il provvedimento mandato alla firma del presidente americano Donald Trump prevede l’approvazione di sanzioni a carico dei unzionari, di Hong Kong o cinesi, ritenuti colpevoli di abusi sui diritti e richiede la revisione annuale del riconoscimento dello status di partner speciale della città nei rapporti con gli Usa. Altre norme, invece, pribiscono l’export a favore della polizia locale di munizioni non letali o di altri sistemi antisommossa, tra lacrimogeni, spray al peperoncino, proiettili di gomma e taser.

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