«Io sono Giorgia», storia del tormentone ispirato a Giorgia Meloni

«Genitore 1, genitore 2». Il remix del discorso della leader di FdI in piazza San Giovanni è una hit virale. Grazie alle versioni che sono fiorite sui social. Eccone una carrellata.

«Sono una donna, sono una cristiana, sono una madre e non me lo toglierete. No a genitore uno e genitore due, noi difendiamo i nostri nomi perché non siamo codici». Il “manifesto” di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, gridato dal palco di piazza San Giovanni a Roma ha fatto centro, non c’è che dire. Ma forse non proprio come Giorgia si aspettava. Già, perché dopo la vittoria del centrodestra «Io sono Giorgia» è diventata una hit, un tormentone virale declinato sui social in numerose versioni. Tutte sul remix di Mem&J.

Così è nata la #iosonoGiorgiaChallenge: c’è chi ha fatto ballare sulle note di Meloni cartoni animati – imperdibili Bear, l’orso della grande casa Blu e i Teletubbiesattrici di Bollywood e persino Willy il principe di Bel-Air. Abbiamo raccolto qui le versioni più divertenti.

WILLY SULLE NOTE DI GENITORE 1, GENITORE 2

Questa #GiorgiaChallenge ormai sta prendendo un brutta piega…Vai Will!!

Posted by FitZia, Mirto e Scivolizia on Sunday, November 3, 2019

IL FLASH MOB

BEYONCÉ

L’ORSO BEAR

Genitore uno, genitore due *tunz tunz

Come saprete, questa pagina è seria e l'admin che la gestisce pure!#iosonogiorgiachallenge

Posted by Koogai. on Sunday, November 3, 2019

GIORGIA GOES TO BOLLYWOOD

RAGAZZI, VI PREGO, FATEMI SMETTERE. È DIVENTATA LA MIA NUOVA DIPENDENZA!ORA ANCHE IN VERSIONE BOLLYWOOD #IoSonoGiorgiaChallenge

Posted by Adam Internätional on Monday, November 4, 2019

I TELETUBBIES

Addio.

Posted by INPS per la Famiglia Tradizionale on Monday, November 4, 2019

IN VERSIONE DISNEY

#iosonogiorgiachallenge

Posted by Crudelia Memon on Saturday, November 2, 2019

POTEVA MANCARE UN CROSSOVER CON “MATTARELLA ASCOLTA COSE”?

Mattarella ascolta:

Io Sono Giorgia (Giorgia Meloni Remix)

Posted by Mattarella ascolta cose on Monday, November 4, 2019

BRANDAN JORDAN

BALLANDO SOTTO LA PIOGGIA

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I PASSI DI JOKER

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Prada è il primo brand del lusso a sottoscrivere un finanziamento legato alla sostenibilità

Il Sustainability Term Loan è stato disposto da Crédit Agricole Corporate e Investment Bank, che funge anche da Sustainability Coordinator, Sustainability Advisor e Facility Agent, mentre Crédit Agricole Italia è l’istituto finanziatore.

Prada S.p.A. è la prima azienda nel settore dei beni di lusso a sottoscrivere con Crédit Agricole Group un finanziamento legato alla sostenibilità. Questa operazione introduce un meccanismo premiante che permette di collegare il raggiungimento di obiettivi in materia di sostenibilità a un aggiustamento annuale del margine. Il tasso del finanziamento (50 milioni di euro erogati nell’arco di cinque anni) potrà quindi essere ridotto in funzione del conseguimento di risultati relativi al numero di punti vendita con certificazioni LEED Gold o Platinum, al numero di ore per la formazione dei dipendenti e all’uso di nylon rigenerato per la propria produzione.

«Il settore del lusso è sempre più impegnato nel conseguimento di uno sviluppo sostenibile», ha dichiarato Alberto Bezzi, Senior Banker in Crédit Agricole Corporate and Investment Bank. «Sono molto orgoglioso di questa collaborazione», ha infine aggiunto il manager, «che conferma gli sforzi attuati da Prada per intraprendere e coltivare comportamenti virtuosi in grado di contribuire a una crescita responsabile».

«Questa operazione testimonia quanto la sostenibilità sia un elemento chiave per lo sviluppo del Gruppo Prada», ha invece chiosato Alessandra Cozzani, Chief Financial Officer dell’azienda. «Siamo certi che questa collaborazione con Crédit Agricole, tra i leader del settore, aiuterà a estendere i benefici di una gestione di impresa responsabile anche al mondo finanziario», ha concluso la dirigente.

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Siamo realisti: l’Arabia Saudita è un interlocutore necessario

Ombre e atrocità pesano su Riad. Ma quando si parla di interessi economici, commerciali e finanziari serve lucidità. E con MbS bisognerà fare i conti ancora a lungo.

L’Arabia Saudita è tornata a far parlare di sé. E questa volta non per l’orrendo omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul e la sparizione del cadavere o per la sconcertante andamento della guerra condotta in Yemen, peraltro più nota per le vittime civili che per le sue ragioni di merito. O ancora per il tasso di assolutismo che continua a contraddistinguere il regime degli Al Saud; o per l’attacco subìto ai suoi siti petroliferi che taluni hanno letto più come l’evidenza di una colpevole fragilità che una violenza terroristica da condannare. Ed è tornato a far parlare di sé il giovane principe ereditario, Mohammed bin Salman, chiamato Mbs, al quale si addebitano le responsabilità di fondo di tutto ciò che è avvenuto, nel bene e nel male – più nel male naturalmente – dal giugno del 2017, da quando cioè è stato nominato in rapida successione vice-primo ministro e ministro della Difesa, presidente del Consiglio per gli Affari economici e titolare di altri settori del Paese, in avanti.

TUTTI IN FILA PER LA “DAVOS DEL DESERTO”

L’Arabia Saudita è tornata a far parlare di sé per due ragioni principali. Innanzi tutto per la terza edizione del Forum finanziario organizzato dal Fondo saudita per l’investimento (Pif), la cosiddetta “Davos del deserto”. Boicottata nel 2018 proprio in conseguenza dell’omicidio Khashoggi ha visto quest’anno il ritorno massiccio di presidenti, primi ministri e uomini d’affari: 6 mila persone da oltre 30 Paesi. Una folta rappresentanza occidentale che andava dagli Usa con i ministri del Tesoro Mnuchin e dell’Energia Rick Perry, l’ex premier britannico David Cameron, gli ex primi ministri François Fillon, Kevin Rudd e il nostro Matteo Renzi. Una non meno cospicua rappresentanza finanziaria che ha compreso, tra gli altri Hsbc, Blackstone, Blackrock e Credit Suisse come ha ben ricordato il Guardian.

LE CRITICHE AL VIAGGIO DI RENZI

La partecipazione di Renzi è stata criticata. Da alcuni per la bizzarra identificazione di quella conferenza con un incontro di produttori di armi; da altri per le nefandezze o comunque per gli errori di quel regime, dimenticando la storia dei robusti e trasversali rapporti che l’Italia ha sviluppato con l’Arabia Saudita dal 1932 in avanti, e non certo per una altrimenti colpevole sottovalutazione delle differenze esistenti tra i due Paesi, principalmente in materia di natura di regime e di rispetto dei diritti umani. Differenze oggi forse un po’ meno marcate che nei decenni precedenti e che in ogni caso sono rilevabili in misura anche maggiore in altri Paesi, a cominciare dalla Cina, con i quali coltiviamo realisticamente relazioni a tutto campo. Ma tant’è, con buona pace delle prospettive che si stanno aprendo con non poche difficoltà, peraltro comprensibili, con il progetto, a dir poco avveniristico di Neom, consistente nella creazione di un’area economica del futuro nel Nord Ovest del Paese stimata in un costo di oltre 500 miliardi di dollari.

L’OPERAZIONE ARAMCO E LA STRADA VERSO VISION 2030

La seconda ragione per la quale si è riparlato e si riparla dell’Arabia Saudita e di Mbs è la gigantesca operazione finanziaria dell’entrata in Borsa dell’Aramco, la struttura petrolifera e del gas più ricca e redditizia del mondo, valutata in circa 1,5 trilioni di dollari. Più volte rinviata per ragioni che si nascondono nella nebbia decisionale della Casa reale, essa viene ora calendarizzata e ne risulta confermato la finalità di riversarne la parte in offerta, che dovrebbe oscillare tra l’1% e il 2%, tra i 20 e i 30 miliardi di dollari, nel già ricordato Pif, il Fondo sovrano saudita per finanziare l’ambizioso programma di progressiva emancipazione dal petrolio. Emancipazione che costituisce il perno della cosiddetta Vision 2030, un programma lanciato a metà del 2016 e che disegna un orizzonte di modernizzazione a tutto campo: dall’identità nazionale alla cultura, dall’occupazione al benessere sociale, dall’apertura al mondo intero, alla diversificazione economica, all’efficienza burocratica, allo sviluppo tecnologico, al riscatto della donna. Insomma, un orizzonte tanto visionario quanto impegnativo da far tremare le vene e i polsi in un Paese dalle profonde caratteristiche tribal-conservatrici come l’Arabia Saudita.

Penso che si possa dare atto alla Casa reale di aver mantenuto in qualche modo la rotta e di averla integrata con proiezioni innovative

In effetti, a distanza di meno di tre anni, i primi passi compiuti nella direzione della Vision 2030, decisamente i più faticosi, sono stati marcati da errori e incertezze e da ostacoli imprevisti come quelli sopra ricordati. Penso tuttavia che si possa dare atto a quella Casa reale, e al binomio re-principe ereditario in particolare, di aver mantenuto in qualche modo la rotta e di averla integrata con proiezioni innovative in materia di politica regionale e internazionale, dalla Siria all’Iraq passando per il Libano e la Giordania, dalla Cina alla Russia con la quale ha collaborato alla formazione della quota del Comitato costituente assegnata all’opposizione siriana oltre che nella stabilizzazione del mercato energetico.

LA MACCHIA DELLA GUERRA IN YEMEN

Lo Yemen continua a rappresentare un’insopportabile palude di sangue, ma le responsabilità della controparte non sono trascurabili; la contrapposizione con l’Iran si è mossa al seguito della pressione sanzionatoria americana, ma sono affiorati anche segnali di disponibilità a propiziare un abbassamento della tensione mentre la stessa Unione europea sta maturando non poche riserve in merito alla sua politica regionale. Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta suscitando crescenti perplessità per la sua disinvolta aggressività e la mancanza di scrupoli in materia di partenariato e/o di alleanze.

CI SONO MOMENTI IN CUI LE OSTILITÀ VANNO MESSE DA PARTE

Dico questo in estrema sintesi per sottolineare come in fondo il regime di questo Paese in cui tutto, anche e soprattutto il cosiddetto empowerment delle donne, deve discendere dal vertice e non dal basso, come avveniva tempo addietro anche nei nostri regimi assolutistici, riceva da parte dell’opinione pubblica internazionale un fondato giudizio critico. Ma esso dovrebbe essere mediato non solo dalla consapevolezza e dal rispetto dei vincoli storici e culturali di quel Paese, ma anche dalla disponibilità a mettere da parte riserve e ostilità quando la parola passa sul terreno degli interessi economici, commerciali e finanziari. Di quelli grandi, ma anche di quelli medi e piccoli, come ci dicono i negozi e gli stessi supermercati di Gedda, di Dharhan o di Riad. E l’Arabia Saudita è un interlocutore necessario e non solo per la stabilità del Medio Oriente. Lo è anche per i nostri interessi. Mohammed bis Salman ha solo 34 anni e dunque un prevedibile lungo regno. Tenerne conto è solo segno di realismo politico, tanto più nell’attuale contesto, regionale e internazionale, nel quale i leader democratici e disposti a co-interessenze tutt’altro che trascurabili non abbondano.

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Emendamento di Renzi per ripristinare lo scudo penale all’ex Ilva

Il leader di Italia viva attacca ArcelorMittal: «Ritengo che se ne voglia andare e stia cercando pretesti». L'ex premier punterebbe su una cordata alternativa.

È «già pronto» l’emendamento di Italia viva per ripristinare lo scudo penale all’ex Ilva di Taranto, ovvero la scriminante che consente agli attuali amministratori dell’acciaieria di non essere imputabili durante la realizzazione del piano ambientale, messo a punto per porre rimedio ai gravissimi problemi di inquinamento che si trascinano fin dagli Anni 70.

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RENZI ATTACCA ARCELORMITTAL

Ma il leader del partito, Matteo Renzi, attacca ArcelorMittal: «Ritengo che se ne voglia andare e stia cercando pretesti. Il problema è capire se qualcuno vuole chiudere Taranto per togliersi dai piedi un potenziale concorrente. È un rischio che molti hanno evocato fin dai tempi della gara, nel 2017. Ma proprio per questo credo che si possa agevolmente recuperare la questione dello scudo penale anche con un emendamento al decreto fiscale che sta per arrivare in parlamento. Lo ha già preparato la collega Lella Paita e lo firmeranno molti di noi».

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L’IPOTESI DI UNA CORDATA ALTERNATIVA

Come riportato da quotidiano la Repubblica, Renzi punterebbe su una cordata alternativa. Come scrive Annalisa Cuzzocrea, «una sorta di replica della cordata che, ai tempi del governo Gentiloni, aveva perso la gara contro ArcelorMittal. Con dentro Sajjan Jindal, già proprietario delle ex acciaierie Lucchini di Piombino (nel cda c’è l’amico fraterno del leader di Italia viva Marco Carrai), il gruppo Arvedi di Cremona e Cassa depositi e prestiti». L’ex premier, intanto, dice di essere «pronto a tutto pur di trovare una soluzione». E dichiara che a Italia viva «non interessa ottenere visibilità», bensì «salvare oltre 10 mila posti di lavoro».

PER IL MIINISTRO COSTA LO SCUDO NON SERVE

Sul tema dello scudo penale è intervenuto anche il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa: «Finché tu rispetti il piano ambientale, non ti devi preoccupare di avere o non avere l’immunità penale. ArcelorMittal lo sta rispettando, quindi l’immunità penale per l’aspetto ambientale non ha ragion d’essere».

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Fiorello con VivaRaiPlay! ha fatto 6,5 milioni di telespettatori

Il primo appuntamento su RaiUno ha totalizzato il 25,1% di share. Tra musica e satira sul Pd. Altre quattro puntate fino all'8 novembre, poi lo show passa sulla piattaforma online.

Fiorello è partito col 25,1% di share. Sono stati 6 milioni 532 mila i telespettatori che hanno seguito il suo primo appuntamento di Viva RaiPlay!, collegandosi con il Tg1.

CON RAFFAELLA CARRÀ E ACHILLE LAURO

È stata una puntata con tanta musica e qualche sprazzo di satira per lo showman: Fiorello è arrivato agli studi di via Asiago, storica sede di Radio Rai, accompagnato in auto da Raffaella Carrà, che dopo averlo fatto scendere si è allontanata sgommando, e Achille Lauro.

ANTEPRIMA DELLO SHOW DI 50 MINUTI

La striscia quotidiana di 15 minuti va in onda su RaiUno e RaiPlay per cinque giorni, fino all’8 novembre, in un’anteprima dello show di 50 minuti che dal 13 novembre si può vedere in esclusiva sulla rinnovata piattaforma RaiPlay ogni mercoledì, giovedì e venerdì, sempre alle 20.30.

Lo so avevo detto che mi sarei ritirato, ma sono ancora qua, sono il Matteo Renzi della Rai


Fiorello

Prima del via è stato Pippo Baudo, «monarca della Rai», a dare il lasciapassare a Fiorello. Poi microfono a Giorgia che ha introdotto lo showman. Fiorello ha detto: «Lo so avevo detto che mi sarei ritirato, ma sono ancora qua, sono il Matteo Renzi della Rai». Dopo ha letto un finto titolo di giornale che recitava “Fiorello: tutto qua?” e un articolo fortemente critico con il programma. In seguito un duetto con la voce fuori campo che lo invitava a un intermezzo di satira. «Satira io? Non voglio rovinarmi la mia immagine di comico qualunquista», ha replicato Fiorello.

«FARE BATTUTE SUL PD È COME SPARARE SULLA CROCE ROSSA»

Una frecciatina per la politica: «Fare battute sul Partito democratico è come sparare sulla Croce rossa. Lo sai che quelli della Croce rossa dicono: è come sparare sul Pd?». Fiorello ha anche intonato Rose rosse di Massimo Ranieri, ma un direttore di RaiPlay ragazzo lo ha invitato a suonare con l’auto-tune prima che la trap vada fuori moda. Ed ecco che è partita una versione trap di Rose rosse.

OSPITI MOLLICA, CALCUTTA, MENGONI E AMADEUS

Nel finale è arrivato Vincenzo Mollica in versione Muppet, ancora musica con Anna e Marco di Lucio Dalla cantata con Calcutta e Marco Mengoni. Conclusione in compagnia di Amadeus: Fiorello si è vestito esattamente come il conduttore di Tale e quale show e del Festival di Sanremo 2020, che lo vede tra gli ospiti.

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Niente illusioni, Tavares andrà giù con l’accetta

Dopo la fusione-cessione, il futuro ad di Psa & Fca procederà con una serie di tagli replicando su più ampia scala quanto già fatto in Peugeot e Opel/Vauxhall. E i primi destinatari saranno i colletti bianchi.

Per quanto tempo John Elkann avrà in tasca un biglietto da visita con su scritto Chairman of the board di Psa & Fca N.V.? Meno o più di due anni come è successo con Partner Re, la società delle riassicurazioni che Elkann acquisì nel marzo 2016 pagando ben 6,9 miliardi di dollari? Tra l’altro, quella operazione fu condotta all’insaputa di Sergio Marchionne che notoriamente mal digerì quello sconcertante esborso di denaro che l’ad italo-canadese considerò «sottratto a Fca». 

TAVARES NON SOPPORTA IL PARAGONE CON MARCHIONNE

Sempre a proposito di apparato digerente e sistema nervoso, fonti francesi sostengono che anche il futuro ad di Psa & Fca Carlos Tavares, così come Carlos Ghosn, già ad di Renault-Nissan, del quale il dirigente d’azienda portoghese fu a suo tempo braccio destro, non sopporta essere paragonato a Sergio Marchionne e, peggio, descritto come uno scimmiottatore delle due ex “prime donne”. Si sa che l’ego dei Ceo dell’industria automobilistica non ha pari. E l’ingegner Elkann, che ha molto patito la strabordante presenza di Marchionne, dopo questa breve stagione che gli sta offrendo le luci dei riflettori e una ribalta, si prepari a dover fare un passo indietro rispetto allo strabordante Tavares.

Il Ceo di Fca Mike Manley e John Elkann.

FCA-PSA, UNA CESSIONE DESCRITTA COME “FUSIONE PARITETICA”

Ma andiamo con ordine. È chiaro che John Elkann ha fretta di chiudere e firmare la vendita di Fca a Psa. E che si tratti di una cessione, sia pure descritta come «fusione paritetica (50/50)», è dimostrato anche da quello che recita il comunicato stampa congiunto del 31 ottobre: «Il consiglio di amministrazione sarebbe composto da 11 membri. Cinque membri del cda sarebbero nominati da Fca (incluso John Elkann in qualità di presidente) e cinque da Groupe Psa (incluso il Senior independent Director e il vice presidente)». Ma attenzione a quello che segue: «Carlos Tavares sarebbe Chief executive officer, oltre che membro del cda, per un mandato iniziale di cinque anni». In altre parole: 6 consiglieri targati Psa e 5 Fca. Chiaro che non si tratta di una merger of equals.

chi è carlos tavares psa
Carlos Tavares.

D’altro canto, non è un mistero che la penuria di investimenti in nuovi prodotti e tecnologie insieme con il fiasco di nuovi modelli (tra i quali Dodge Dart, Chrysler 200, Dodge Viper, Alfa Romeo Giulia e Stelvio, Maserati Levante) della gestione improntata alla finanza di Marchionne abbiano posto Fca in una situazione di manifesta, forte debolezza.

ALFA ROMEO BRAND “LOCALE”

Quanto alla gestione dei 15 marchi (Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Dodge, Fiat, Fiat Professional, Jeep®, Lancia, Ram, Maserati, Peugeot, Citroën, DS, Opel e Vauxhall) del neo-costruttore olandese, l’ad di Fca Mike Manley ha provveduto, nella conference call di giovedì 31 ottobre, ad aggiungerne uno alla lista di quelli non globali e, dunque “regionali”: Alfa Romeo. Non un buon segnale per gli stabilimenti italiani per i quali – recita il comunicato stampa congiunto – non sono previste chiusure. Ovvio, così come scontato che le linee di montaggio continueranno a operare molto saltuariamente grazie a massicci ricorsi alla cassa integrazione. Del resto, privatizzare i guadagni e socializzare le perdite è stato un Leitmotiv della storia degli Agnelli e più in generale di molta industria italiana.

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COLLETTI BIANCHI NEL MIRINO DI TAVARES

Ma chi saranno i primi destinatari dei tagli che Tavares realizzerà molto celermente? Senza ombra di dubbio i colletti bianchi: ingegneria, marketing, comunicazione, produzione, finanza e amministrazione, risorse umane le aree notoriamente in cima alla lista di ogni cura dimagrante. I pochi sopravvissuti rimasti nella palazzina uffici del Lingotto in via Nizza e i tanti a Mirafiori si considerino avvisati. Dopotutto, Tavares replicherà, su più ampia scala, quanto già fatto in casa Psa e Opel/Vauxhall.

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Nessuno crede nella sopravvivenza di Forza Italia. Nemmeno gli azzurri

Mara Carfagna, reduce dal fallimentare tentativo di scalata ai vertici, sarebbe pronta ad allearsi con Toti. Renato Brunetta è ormai diventato renziano. Eppure per sollevare il partito basterebbe saper fare politica. Evidentemente questa classe dirigente nei 25 anni berlusconiani non ha imparato nulla.

Forza Italia è ormai l’asilo Silviuccia. Mai Silvio Berlusconi avrebbe pensato di rimpiangere i vecchietti di Cesano Boscone, l’ospizio dove prestò la condanna ai servizi sociali. Loro almeno erano teneri. Dentro al partito, invece, sono diventate tutte arpie. Mostri che lui stesso ha generato e che, a onor del vero, si diverte a osservare. 

LEGGI ANCHE: La Lega sfonda la soglia del 34%, Fi intorno al 6%

MARA CARFAGNA HA FATTO IL PASSO PIÙ LUNGO DELLA GAMBA

Mara Carfagna si dice disinteressata a salvare il suo seggio invece è l’unica cosa che ha a cuore. Più lo negano – lei, le altre e gli altri – più è il pensiero dominante. Ma andare con Matteo Renzi proprio no: su Mara pende il veto di Maria Elena Boschi e comunque non avrebbe senso spostarsi in un partito che, ben che vada, prenderà la stessa percentuale di Forza Italia, ma in cui lei e i suoi sono gli ultimi arrivati, mentre nel partito del Cavaliere erano in pole position. Ha fatto il passo più lungo della gamba e si è già pentita.

Mara Carfagna.

IL FALLIMENTARE TENTATIVO DI SCALATA

Sanno tutti che le sue posizioni sulla mozione Segre sul razzismo e la sua vicinanza alla Comunità ebraica, entrambe ammirevoli, sono molto influenzate dal suo compagno Alessandro Ruben, ex consigliere dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. Lo stesso che le ha sciaguratamente consigliato la mal riuscita scalata al vertice di Fi. Ormai in un angolo, ora è disposta a fondersi anche con Giovanni Toti, che però quanto a salvinismo, che è il punto dirimente di tutta questa faccenda, è lontano da lei anni luce. Come fai a lasciare Silvio perché troppo vicino a Salvini e andare con Toti che si vuole alleare, tra l’altro a maggior fatica, con lo stesso Matteo padano? Sarebbe un problema, se ormai non fosse consentito di tutto e di più. 

LEGGI ANCHE: Berlusconi riconosce la leadership di Salvini. Anche in Mediaset

ANCHE RENATO BRUNETTA È DIVENTATO RENZIANO

Perfino Renato Brunetta è diventato renziano. In una dichiarazione ai telegiornali di qualche settimana fa ha addirittura affermato che se l’Iva non aumenta è merito di Matteo Renzi. A quasi 60 anni anche lui, già duro e puro, fa di tutto per salvare la poltrona. Stessa strategia di Mariastella Gelmini che, se in cuor suo pensa che il Cavaliere è ormai troppo vecchio ed è diventato una zavorra, si erge a sua amazzone. Che lo faccia di malavoglia si vede lontano anni luce. Per camuffare, ha messo in piedi una squadra di comunicazione che vorrebbe fosse la Bestia ma le procura solo follower turchi su Twitter.

Renato Brunetta.

NESSUNO HA LA FORZA E IL CORAGGIO DI SOLLEVARE IL PARTITO

La realtà è che nessuno ha la forza e il coraggio di sollevare Forza Italia. Sono gli stessi azzurri i primi a non credere nella sopravvivenza e nella rinascita. Eppure lo spazio a cui punta Renzi è anche il loro, basterebbe un nulla per recuperarlo. Basterebbe saper fare politica. Evidentemente in 25 anni non hanno imparato nulla. Non ci hanno neanche provato, si stava così bene quando Silvio c’era.  

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Chi è Lucia Morselli, amministratore delegato di ArcelorMittal Italia

Laureata in Matematica alla Normale con il massimo dei voti, ha iniziato la sua carriera alla Olivetti. All'ex Ilva ha portato lo stesso direttore del personale protagonista dei tagli all'Ast di Terni.

Poco dopo essersi insediata nel ruolo di amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli ha sostituito la direttrice del personale dell’ex Ilva di Taranto con un suo fedelissimo, Arturo Ferrucci, protagonista dei pesanti tagli di forza lavoro all’Ast di Terni. Quella vertenza fu durissima: nel 2014 gli operai delle acciaierie organizzarono uno sciopero di 36 giorni, ma lei non fece una piega. Alla fine si trovò un accordo per incentivare gli esodi, che portò fuori dall’azienda 290 dipendenti rispetto ai 400 chiesti inizialmente.

LEGGI ANCHE: Vedo il dramma dell’ex Ilva di Taranto e odio questi politicanti

UNA CORDATA TIRA L’ALTRA

Basterebbe questo dettaglio per spiegare di che pasta è fatta la donna che ha comunicato al governo l’intenzione di restituire l’ex Ilva allo Stato italiano. Prima di approdare in ArcelorMittal, Morselli era a capo di Acciaitalia, la cordata perdente. Nessuno scrupolo a passare dall’altra parte, come solo i veri professionisti sanno fare. Nata a Modena nel 1956, sposata, si è laureata in matematica alla Normale di Pisa con il massimo dei voti e la lode. Poi un dottorato in Fisica Matematica a Roma e due master: uno a Torino in Business Administration, l’altro a Milano in European Public Administration.

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UNA CARRIERA DI INCARICHI AD ALTO LIVELLO

La sua carriera lavorativa comincia nel 1982 alla Olivetti. Nel 1985 si sposta in Accenture e, dal 1990 al 1995, ricopre il ruolo di direttore finanziario della Aircraft Division in Finmeccanica. Poi la parentesi nella comunicazione. Morselli è amministratore delegato del gruppo Telepiù dal 1995 al 1998, dal 1998 al 2003 di News Corporation (gruppo Murdoch). Un intermezzo nella telefonia e arriva la volta del settore metalmeccanico, sempre come amministratore delegato: dal 2013 al 2014 al gruppo Berco, dal 2014 al 2016 alla Ast di Terni. Attualmente Morselli fa parte del cda di Telecom Italia, Sisal, ST Microelectronics ed EssilorLuxottica. Proprio la Delfin, “cassaforte” di Leonardo Delvecchio, assieme all’imprenditore siderurgico Giovanni Arvedi, Cdp e Jindal l’aveva scelta per guidare la cordata avversaria di ArcelorMittal nella gara per rilevare l’ex Ilva in amministrazione straordinaria.

A TARANTO LA «SFIDA INDUSTRIALE PIÙ GRANDE»

«Non esiste forse oggi in Italia una sfida industriale più grande e più complessa di quella degli impianti dell’ex Ilva», aveva dichiarato la lady d’acciaio una volta preso il timone dello schieramento opposto e vincente, «sono molto motivata dall’opportunità di poter guidare, farò del mio meglio per garantire il futuro dell’azienda e far sì che il suo contributo sia apprezzato da tutti gli stakeholder». Poco più di due settimane dopo, la lettera al governo con l’annuncio che «non è possibile gestire lo stabilimento» senza le protezioni legali «necessarie all’esecuzione del piano ambientale».

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L’Iran annuncia un nuovo disimpegno dall’accordo sul nucleare

Scaduto il quarto ultimatum, Teheran riprende l'arricchimento dell'uranio nella centrale atomica di Fordo.

Teheran inizierà a iniettare uranio in 1.044 centrifughe, dando il via a un nuovo step di allontanamento dall’accordo nucleare. Lo ha annunciato il presidente iraniano Hassan Rohani in un discorso trasmesso in diretta dalla televisione di Stato, alla scadenza del quarto ultimatum ai partner Ue per compensare gli effetti delle sanzioni Usa. Il presidente iraniano ha reso noto che nei macchinari nell’impianto nucleare di Fordo sarà iniettato l’uranio a partire da mercoledì 6 novembre. La centrale atomica è situata a 180 km a Sud di Teheran. L’annuncio è stato accolto con «preoccupazione» dalla Russia.

DECUPLICATA LA PRODUZIONE DI URANIO IN DUE MESI

Negli ultimi due mesi l’Iran ha decuplicato la sua produzione di uranio a basso arricchimento e raddoppiato il numero delle centrifughe nucleari avanzate. Il 4 novembre, mentre a Teheran i manifestanti davano fuoco alle bandiere americane e israeliane nel 40esimo anniversario dell’occupazione dell’ambasciata Usa, che scatenò la crisi degli ostaggi durata 444 giorni, la Repubblica islamica aveva annunciato nuove massicce violazioni dell’accordo sul nucleare, da cui Donald Trump si era ritirato lo scorso anno in modo unilaterale, suscitando preoccupazioni a livello internazionale. E proprio in coincidenza con l’anniversario gli Usa avevano varato nuove sanzioni contro nove membri dell’entourage della guida suprema Ali Khamenei, che occupano posti in varie istituzioni chiave.

UN NUOVO MODELLO DI CENTRIFUGHE IN CANTIERE

«L’Iran ha aumentato di circa 10 volte, portandola da 450 grammi a 5 kg, la sua produzione quotidiana di uranio», aveva rivelato il capo della sua Organizzazione per l’energia atomica, Ali Akbar Salehi. Le sue riserve sono così salite a oltre 500 kg, rispetto al tetto di 300 kg consentito dall’intesa del 2015. Davanti alle telecamere della tivù di Stato, Salehi aveva poi messo ufficialmente in funzione 30 nuove centrifughe avanzate IR-6 nel sito nucleare di Natanz, raddoppiando così il totale di quella attive nel Paese. Un’iniziativa compiuta «con 4-5 anni di anticipo come conseguenza delle attuali sfide politiche che il Paese sta affrontando, in modo da mostrarne la determinazione e le capacità».

Gli scienziati stanno lavorando a un prototipo di centrifuga in grado di produrre uranio arricchito a una velocità 50 volte superiore a quella attualmente permessa

Le centrifughe IR-6 possono produrre uranio arricchito a una velocità 10 volte superiore al modello IR-1 di prima generazione, l’unico ammesso dall’accordo in un massimo di 5.060 esemplari, riducendo così il tempo necessario per produrre l’atomica, che Teheran ha però sempre negato di volere. Gli scienziati iraniani stanno inoltre lavorando a un prototipo di centrifuga ancora più potente, ribattezzato IR-9, in grado di produrre uranio arricchito a una velocità 50 volte superiore a quella attualmente permessa.

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Vedo il dramma dell’ex Ilva di Taranto e odio questi politicanti

La città culla del movimento operaio pugliese ha conosciuto ben prima del fenomeno Salvini e 5 stelle l’irruenza selvatica di un populismo straccione che ha distrutto ogni connessione cittadina. E ora è in mano a incapaci locali e nazionali. Ecco perché da qui deve partire la riscossa di una vera e nuova sinistra.

Leggo le tragiche notizie sull’ex Ilva di Taranto e mi vengono tanti pensieri. Uno è per Alessandro Leogrande, giovane, straordinario intellettuale, morto due anni fa che tanto scrisse su Taranto con una lucidità e una passione incredibili. Non l’ho mai conosciuto, e solo da poco tempo sto leggendo tutto ciò che ha scritto. Sono testi fondamentali. Uno straordinario cronista che ha spiegato una crisi industriale, una città lasciata sola, la deriva di un popolo, la débâcle di una classe dirigente. Se ci fosse oggi, e tutti noi avremmo voluto che ci fosse, avrebbe scritto articoli da levare la pelle a tutti questi ciarlatani che affollano la politica italiana e pugliese.

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IL TIRA E MOLLA SULL’ACCIAIO HA STRONCATO TARANTO

L’altro pensiero che mi viene in mente è per la mia povera Puglia. Una regione straordinaria. Una eccentricità nel Mezzogiorno, la definì Antonio Gramsci. E tuttora lo è. Si fabbricano addirittura aerei, ci sono imprese in ogni settore, università importanti, è uno straordinario set cinematografico (merito di tanti e soprattutto di Nichi Vendola), è meta di vacanzieri generalmente soddisfatti. In Puglia, però, c’è la più grande crisi industriale italiana con questo tira e molla sull’acciaio che ha stroncato una città che non sa scegliere fra il lavoro e la salute (ma perché bisogna fare questa scelta?). 

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IN PUGLIA LA SINISTRA È SPARITA

In Puglia la risorsa maggiore, l’oliveto, è stata distrutta, o quasi, in una gran parte del Salento per una malattia come la xylella che i governanti e qualche magistrato volevano curare con una specie di “modello Panzironi” applicato all’agricoltura. In Puglia la sinistra è sparita perché se l’è presa un uomo gigantesco, fisicamente, pieno di vita, disinvolto come Matteo Salvini, e cinico come Luigi Di Maio, che ha annichilito amici e avversari e ha ammorbato l’aria con alleanze politicamente torbide che sono il vero cancro della democrazia meridionale. Questo signore si chiama Michele Emiliano. Simpatico è simpatico, ma sotto il suo regno Italsider e xylella sono diventati un dramma inaccettabile. Sono convinto che almeno sull’Italsider vi siano colpe anche di Vendola che comunque ora è fuori dalla politica. Emiliano è invece lì, pronto a chiedere un altro mandato per finire di sfasciare quello che è rimasto in piedi.

La mia speranza è che ci sia ancora qualcuno che abbia voglia di fare e che dopo Leogrande, sulla strada tracciata da lui, ci siano tanti giovani che prendano la sua bandiera 

Quando ho chiesto a Nicola Zingaretti di sciogliere il suo partito  chiamando forze nuove per fondarne un altro, pensavo proprio a una azione che ci liberasse degli Emiliano, senza cacciarli ma solamente costringendoli a fare da soli. Il dramma pugliese è che a destra c’è addirittura peggio. È lo stesso dramma emiliano-romagnolo con quella improbabile candidata leghista contrapposta a un diligente funzionario del Pd.

IL DRAMMA DI UNA CITTÀ DIMENTICATA

Tutti questi pensieri però si fermano di fronte al tema che sanguina. Taranto è una città dimenticata, ma è stata una delle più belle e operose città del Paese. Per un lungo tratto è stata più importante di Bari, di Lecce, era una vera Capitale: ha avuto operai, classe media, eccellenze navali militari, addirittura ha due mari e infine ha creato anche un modo di cucinare il pesce che solo ora nel Salento copiano, appropriandosene. Taranto è una città che trova le tracce della sua esistenza talmente lontano nella storia che solo per questo andrebbe rispettata. Taranto ha conosciuto ben prima del fenomeno Salvini e 5 stelle l’irruenza selvatica di un populismo straccione che ha distrutto ogni connessione cittadina. Taranto era la città del movimento operaio pugliese, con i suoi dirigenti duri e spesso schematici ma vere rocce a tutela del popolo. Taranto oggi è nelle mani di un gruppo di incapaci, locali e nazionali, del movimento 5 stelle che vuole fare esperimenti su di lei. Ve lo ripeto: voi non sapete che cos’è Taranto per il Paese come vi siete dimenticati cos’era Genova per il Paese.

DAL SUD E DA TARANTO DEVE PARTIRE LA RISCOSSA

Noi abbiamo il dovere di difendere le nostre città industriali, dobbiamo metterle al centro dell’attenzione nazionale, dobbiamo curare quelle popolazioni come figli preferiti. Ma è dal Sud, da Taranto e da altri territori che deve partire la riscossa. Non bisogna spettarsi niente dal Nord per come è politicamente ora. Non bisogna aspettarsi niente da una classe dirigente indigena che non ha mantenuto un solo impegno. Non possiamo assistere a un voto meridionale che rischia di andare ai nemici del Mezzogiorno o in un non lontano futuro alle liste neo-borboniche. La mia speranza è che ci sia ancora qualcuno che abbia voglia di fare e che dopo Leogrande, sulla strada tracciata da lui, ci siano tanti giovani che prendano la sua bandiera

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Macron tende la mano alla Cina dopo il ritiro Usa sul clima

Il presidente francese: «Sarà decisiva la cooperazione con Pechino». Mentre si allarga il solco tra Europa e Stati Uniti.

Spingere sulla cooperazione tra Europa e Cina per sopperire al ritiro degli Usa dagli accordi sul clima. Poche ore dopo la formalizzazione da parte di Washington dell’uscita dall’intesa di Parigi, il presidente francese Emmanuel Macron ha definito «decisiva» la cooperazione tra Europa e Cina sulle riduzioni delle emissioni responsabili dell’effetto serra. «Se vogliamo rispettare l’accordo di Parigi, dobbiamo migliorare i nostri impegni sulla riduzione delle emissioni e dobbiamo confermare nuovi impegni per il 2030 e il 2050», ha affermato il presidente francese intervenendo al Ciie di Shanghai. «La cooperazione in tal senso tra Cina e Ue è decisiva».

IL «RAMMARICO» FRANCESE PER LA MOSSA DI TRUMP

Macron e il presidente cinese Xi Jinping si apprestano a firmare a Pechino un documento congiunto sulla espressa «irreversibilità» del patto sul clima di Parigi. Parlando ai giornalisti al seguito di Macron in visita di Stato in Cina, un funzionario dell’Eliseo ha espresso il «rammarico» della presidenza francese per la mossa americana: «Ci rammarichiamo e questo non fa che rendere la partnership sino-francese sul clima e la biodiversità ancora più necessaria». Il ritiro degli Usa sarà efficace il 4 novembre del 2020, un giorno dopo le elezioni presidenziali americane in cui Donald Trump cercherà di conquistare un secondo mandato. Annunciando la mossa, il segretario Mike Pompeo ha ripreso i commenti del tycoon del 2017, secondo cui l’accordo sul clima ha imposto «ingiusti oneri economici» sugli Stati Uniti.

SI ALLARGA IL SOLCO TRA TRUMP ED EUROPA

La decisione di formalizzare l’addio all’accordo di Parigi crea un altro profondo solco tra l’America di Trump e l’Europa, che va ad aggiungersi agli strappi sulla storica intesa del 2015 sul programma nucleare dell’Iran o a quello sul fronte delle politiche commerciale e dei dazi. Il timore di molti è che adesso da parte di Trump parta una vera e propria offensiva contro gli sforzi internazionali per combattere i cambiamenti climatici, incentivando settori come quelli del carbone, del petrolio e del gas naturale.

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Esplode una cascina nell’Alessandrino: morti tre vigili del fuoco

Aperta un'inchiesta per omicidio plurimo e crollo doloso. Tra le macerie sono stati trovati i resti di inneschi rudimentali per far saltare in aria alcune bombole di gas.

Un gesto doloso che ha ucciso tre vigili del fuoco in una cascina a Quargnento, piccolo paese in provincia di Alessandria. È quello che è successo nella notte tra il 4 e il 5 novembre. Tra le macerie sarebbero stati ritrovati i resti di inneschi rudimentali che avrebbero fatto esplodere alcune bombole di gas. Collegati ad alcune bombole inesplose c’erano dei fili elettrici e una scatoletta che potrebbe essere un timer. Feriti ma non in pericolo di vita altri due vigili del fuoco e un carabiniere.

Un’immagine tratta da Google map che mostra la cascina di Quargnento (Alessandria) dove la scorsa notte un’esplosione ha causato la morte di tre vigili del fuoco, 05 novembre 2019. Inneschi rudimentali sarebbero stati trovati. Le indagini sono condotte dai Carabinieri del comando provinciale di Alessandria. ANSA / Google map

LA DINAMICA DELLA TRAGEDIA

L’esatta dinamica della tragedia non è ancora chiara. Secondo una prima ricostruzione ci sarebbe stata una doppia deflagrazione. Un abitante della zona ha raccontato: «C’è stata una piccola esplosione prima di mezzanotte, ma non ci avevo fatto troppo caso. Poi ho sentito arrivare vigili del fuoco e c’è stato un botto molto più forte, che ci ha svegliati». «Stavamo facendo il primo controllo quando ad un certo punto non so cosa sia successo, non mi ricordo nulla e mi sono ritrovato in terra», ha raccontato Graziano Luca Trombetta, uno dei vigili del fuoco rimasto ferito nell’esplosione.

SI INDAGA PER OMICIDIO PLURIMO E CROLLO DOLOSO

Secondo fonti investigative i pompieri sono intervenuti per un principio d’incendio. Poi, una volta entrati nella cascina, sarebbero stati travolti dall’esplosione. La procura di Alessandria ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti, per l’esplosione. Omicidio plurimo e crollo doloso di edificio i reati ipotizzati. Le indagini dei carabinieri del Comando provinciale di Alessandria, agli ordini del colonnello Michele Angelo Lorusso, sono coordinate dal procuratore Enrico Cieri. Sulla vicenda gli inquirenti, che hanno ascoltato i proprietari della cascina e i loro famigliari, mantengono il massimo riserbo. «Tutto ci fa pensare che l’esplosione sia stata voluta e deliberatamente determinata», ha detto il procuratore di Alessandria Enrico Cieri, «dagli elementi che abbiamo acquisito pensiamo sia un fatto doloso». Gli inquirenti hanno comunque escluso la matrice terroristico-eversiva. Tra le ipotesi al vaglio non è esclusa quella di dissidi tra il proprietario dell’abitazione e il figlio, così come la pista legata al risarcimento assicurativo. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha commentato: «La dinamica va accertata, la magistratura sta lavorando. Ci sono accertamenti da fare».

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Le cose da sapere sulla crisi che ha colpito la Cina rurale

Produttività troppo bassa, reddito pro-capite in picchiata, costi in ascesa: complici i dazi, il settore agricolo è vicino al collasso e i contadini non riescono a pagarsi nemmeno i beni primari. Ora Pechino teme che il crollo contagi anche l'economia nazionale.


«Non abbiamo soldi e quando i giovani agricoltori di questa generazione avranno dei figli, non potranno permettersi di pagare per la loro educazione».

A scriverlo su uno dei più popolari social media cinesi è un contadino senza nome del cuore agricolo del Paese, la provincia centrale di Henan, che in un post diventato subito virale ha affermato di riuscire a guadagnare a malapena circa 5 mila yuan (circa 600 euro) all’anno dalle arachidi che raccoglie sui suoi 10 mu (0,67 ettari) di terra: una somma che non lascia quasi nulla alla sua famiglia, dopo aver sottratto il cibo e le spese di base.

«Noi agricoltori qui viviamo nella costante paura di ammalarci o di dover sostenere costi imprevisti», ha continuato, «ci dicono sempre che la Corea del Nord è arretrata, ma almeno lì le persone non hanno bisogno di pagare per l’istruzione o per vedere un medico. Qui, noi, un medico non possiamo permetterci di pagarlo!».

DALLA CINA RURALE DATI ECONOMICI ALLARMANTI

Questa è l’amara sorpresa che arriva da quella che ormai tutti considerano la grande superpotenza globale: in Cina ci sono ancora i poveri, sono tanti, anzi tantissimi. Stanno nelle sterminate campagne del Paese e rischiano di diventare ancora più poveri, se i burocrati del Partito Comunista non faranno le scelte giuste, in termini di riforme e di incentivi. E rapidamente.

Non esiste solo la Cina luccicante delle grandi metropoli della fascia costiera, delle Shanghai, Pechino e Shenzen

La sterminata Cina rurale, infatti – le regioni delle campagne che occupano una larga parte del territorio del continente – sta regredendo, e sta tornando verso la miseria. Gli analisti e gli studiosi sia cinesi che internazionali parlano di dati economici allarmanti. Insomma, non esiste solo la Cina luccicante delle grandi metropoli della fascia costiera, delle Shanghai, Pechino Shenzen, la Cina dell’economia dalle performance strabilianti: ne esiste un’altra, dove gli agricoltori campano con meno di 700 euro all’anno, e non possono permettersi di mandare a studiare i loro figli. E ogni anno il divario tra queste “due Cine” si allarga, sempre di più.

UN CONTANDINO CINESE GUADAGNA IN MEDIA 103 EURO AL MESE

Per Ma Wenfeng, analista al Beijing Orient Agribusiness e consulente del ministero per l’Agricoltura e gli Affari Rurali cinese, «mettendo da parte la quantità non trascurabile di denaro che i lavoratori migranti spediscono a casa, ai loro parenti nelle campagne, il reddito rurale è in declino dal 2014, e si è abbassato di un ulteriore 20% nella prima metà di quest’anno». Secondo l’analisi della sua società di consulenza, basata su dati governativi, il reddito pro-capite rurale del mese di giugno di quest’anno – esclusa la percentuale di lavoratori migranti, appunto- è sceso a 809 yuan (103 euro), rispetto ai 1.023 yuan (130 euro) dello stesso mese del 2018.

Lavoratori agricoli in Cina (Foto di STR/AFP/Getty Images).

E i dati annuali forniti dal governo fanno ancora più impressione. La crescita del reddito pro-capite rurale totale della Cina – compresi i lavoratori migranti – è precipitata nel 2018, rispetto al 2012, dal 13 al 9%, secondo il National bureau of statistics cinese. Non solo, la cifra dell’anno scorso pari a 14.617 yuan (1863 euro) corrispondeva a meno della metà dei 39.250 yuan (circa 5 mila euro) registrati come reddito pro-capite annuale nelle aree urbane. E il 90% del dato rurale era rappresentato da lavoratori migranti nelle città che inviavano rimesse a casa.

SOTTO ACCUSA LA NAZIONALIZZAZIONE AGRICOLA

La maggior parte delle aziende agricole cinesi sono imprese familiari, il che significa che sono piccole e prive di economie di scala, la qual cosa limita molto le loro possibilità di poter realizzare utili significativi. Inoltre, gli agricoltori non possiedono la loro terra (tutta la terra, in Cina, è proprietà dello Stato, gli agricoltori, come chiunque – costruttori, industriali etc. – possono solo prenderla in affitto dal governo con contratti di varia lunghezza), ma affrontano costi crescenti – dai fertilizzanti, all’elettricità, alla manodopera – per coltivarla e in più vengono gravemente colpiti dalla caduta dei prezzi del grano.

Dagli Anni 50 i terreni coltivabili sono rimasti di proprietà del governo

Per questi motivi la produttività media delle aziende agricole è molto bassa: rispetto alle economie agricole avanzate per esempio nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti, dove la produzione di una fattoria alimenta in media 256 persone e 146 persone, rispettivamente, una fattoria cinese nutre solo sette persone, secondo le stime di Rabobank. Molti accademici ed economisti mettono ormai apertamente sotto accusa la politica fondiaria cinese, che risale ai primi anni del dominio del Partito comunista, negli Anni 50, quale principale causa dei problemi rurali. Dopo aver ridistribuito la terra da agricoltori ricchi a poveri, il partito passò rapidamente alla nazionalizzazione dei terreni agricoli, che da allora sono rimasti di proprietà del governo.

Contadini lavorano i campi (foto di STR/AFP/Getty Images).

LA GUERRA DEI DAZI CON GLI USA HA PEGGIORATO LA SITUAZIONE

La Cina ha solo il 6% delle risorse idriche mondiali e il 9% delle sue terre coltivabili, ma deve alimentare il 21% della popolazione mondiale, secondo l’agenzia di stampa governativa Xinhua. La posta in gioco è aumentata drasticamente nel corso della lunga guerra commerciale di 15 mesi con gli Stati Uniti. Pechino infatti ha tagliato le importazioni agricole dall’America – compresi i semi di soia per l’alimentazione animale – aumentando così la pressione sulla sua industria agricola nazionale per far fronte alla carenza di prodotto, mentre nello stesso tempo contava sui consumatori rurali per aumentarne il consumo e il commercio interni. Ma la crisi che attraversa le sterminate campagne cinesi e la ridotta, se non ridottissima, capacità d’acquisto e disponibilità di liquidità degli agricoltori ha fatto fallire questa strategia. Inoltre, i dazi doganali di Pechino sulle merci agricole americane hanno reso più costoso per gli importatori cinesi acquistare i prodotti di importazione.

SE COLLASSA LA CINA RURALE, COLLASSA L’INTERO PAESE

Mentre l’agricoltura è stata a lungo al centro della strategia di sicurezza nazionale della Cina – producendo abbastanza per nutrire il Paese e aumentando anche i redditi nelle campagne – negli ultimi quattro decenni il settore rurale è rimasto molto più indietro rispetto ad altri settori dell’economia. Il prodotto interno lordo (Pil) rurale ha triplicato le sue dimensioni negli ultimi venti anni, ma questa espansione resta irrisoria se confrontata a quella del Pil manifatturiero – aumentato di otto volte nello stesso periodo – e di quello della produzione economica totale, cresciuto di ben nove volte.

Un momento della semina (foto di STR/AFP via Getty Images).

Quest’anno il documento di programmazione politica del Consiglio di Stato è stato nuovamente incentrato sul progresso dello sviluppo rurale. Il documento comprendeva otto sezioni, tra cui le politiche per combattere la povertà, migliorare i servizi pubblici, rafforzare le infrastrutture agricole e ampliare le fonti di reddito degli agricoltori, appunto. Il presidente cinese Xi Jinping ha spinto al massimo per accelerare le riforme rurali, rendendo la riduzione della povertà nelle campagne uno dei principali obiettivi del governo per il 2019 e il 2020. A marzo Xi ha detto ai delegati al Congresso nazionale del popolo di quest’anno che il «Paese fiorirà solo quando la campagna fiorirà a sua volta, ma si impoverirà, se le zone rurali si impoveriranno». Questa è la grande sfida che deve affrontare Xi Jinping, con un programma di investimenti e riforme che, se dovesse fallire, trascinerà la Cina, tutta la Cina e la sua intera economia, indietro di molti decenni.

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Le ombre sull’Ipo del secolo di Aramco in Arabia Saudita

La prima produttrice al mondo di petrolio, dagli utili strabilianti, ha molti nei. L’opacità sulle risorse, il futuro incerto dell'oro nero, l’inaffidabilità di bin Salman e le scintille con l’Iran. Perché i colossi della finanza Usa abbassano la valutazione fino a 1.000 miliardi.

C’è qualcosa che non va se la compagnia più redditizia al mondo – prima produttrice di petrolio e del petrolio più a basso costo – rimanda più volte e poi prudentemente dilaziona lo sbarco in Borsa con l’Ipo (Offerta pubblica iniziale) del secolo, che comunque vada sarà sempre la più grande della storia. Quel qualcosa, in vista del debutto l’11 dicembre 2019, è il valore di Aramco: il colosso nazionale saudita del petrolio che il principe ed erede al trono Mohammad bin Salman (MbS) preme dal 2016 per quotare sui 2 mila miliardi di dollari. Ma che i decisivi investitori internazionali insistono nel tenere più basso – tra i 1.200 e i 1.800 miliardi di dollari secondo una ricerca riportata da Bloomberg delle grandi banche coinvolte nell’operazione – per tutta una serie di fattori negativi interni ed esterni che pesano sulla valutazione.

L’OPACITÀ NEL DNA: WALL STREET NON SI FIDA

I bilanci segreti di Aramco, dalla nazionalizzazione negli Anni 70, rendono impossibile valutare lo stato della società e la vita delle riserve gestite. E va da sé che, per l’omicidio al consolato saudita in Turchia di Jamal Kashoggi e per altri precedenti, MbS non rappresenti la migliore garanzia di affidabilità per Wall Street, tenuto conto anche dell’ostilità di parte dell’establishment e della casa regnante alle grandi ambizioni di rinnovamento del suo piano Vision 2030. All’opacità di Aramco e alle guerre interne si sommano le turbolenze per le scintille con l’Iran nel Golfo Persico, la guerra commerciale tra Usa e Cina e le prospettive di un declino globale dei combustibili fossili, per lo sviluppo tecnologico e i cambiamenti climatici. Il calo del prezzo a barile (60 dollari il Brent, 56 Wti), costante degli ultimi anni, non agevola nemmeno l’ammiraglia che pompa il 10% del petrolio globale.

Aramco Ipo Arabia Saudita MbS
Un impianto Aramco, nel deserto dell’Arabia Saudita. (Getty).

MBS VERSO IL COMPROMESSO

Pecunia non olet: le barbarie in Yemen e con Khashoggi ordinate da Riad non tratterranno gli stranieri dai profitti di Aramco, ma ognuno fa il suo gioco. Per l’Ipo MbS non ha scelto il momento migliore, che appartiene ormai del passato, e non poteva farlo: uscire dall’oscurantismo richiede del tempo ai sauditi. Così è probabile che, nelle prossime settimane, il re saudita in pectore sia costretto a scendere a compromessi con l’imperativo di Goldman Sachs, Hsbc e delle altre banche di abbassare l’asticella. Riporta sempre Bloomberg Oltreoceano, dai molteplici revisori del rapporto, che il divario tra la stima massima e la minima su Aramco arriva a superare i 1.000 miliardi di dollari nel caso di Bank of America (da circa 1.200 a 2.300 miliardi). E gli investitori fanno riferimento all’indicazione più bassa, frutto di analisi «di lungo periodo, non a breve termine e non sulle performance».

L’IPO A RIAD, POI CHISSÀ

Gli sforzi di appeal non bastano a gonfiare la valutazione di Aramco a 2 mila miliardi, neanche le garanzie offerte agli investitori. Ridotti i prelievi fiscali e le aliquote sulle estrazioni, saliranno a 80 miliardi di dollari i 75 miliardi di dividendi promessi nel 2019 e il tasso di utile per gli investitori sarà fisso (il 4,4% con un valore di 1.800 miliardi di dollari) fino al 2024, a prescindere dalle fluttuazioni. Sulle perplessità esterne conta anche che gli azionisti iniziali del gigante che resterà a larghissimo controllo pubblico saranno volutamente locali. A dicembre Aramco sarà quotata tra l’1% e 2% solo nella Borsa nazionale. Il lancio di un altro 3% sulle piazze straniere dove sono centrali le big di Wall Street è spostato a data imprecisata. Riad non era d’altronde pronta a un’operazione su larga scala: Borse come Londra sono blindate ai sauditi anche per i requisiti sull’onorabilità e sulla trasparenza.

Per accelerare l’Ipo MbS ha dovuto rimuovere dalla presidenza di Aramco e dal ministero dell’Energia il ceo storico Khalid al Falih

LE RESISTENZE A VISION 2030

Ma è da vedere anche l’impatto in Arabia Saudita dell’Ipo. La banche del regno hanno aperto al credito con gli interessati, per ogni 10 azioni acquistate entro sei mesi una è regalata. Sono forti anche le pressioni sui finanziari: nel 2017 MbS è arrivato a far arrestare decine tra magnati e quadri delle forze armate e dei ministeri, allo scopo di liberarsi di loro, estorcendoli migliaia di capitali per Vision 2030. Diversi hanno ceduto, ma l’opposizione a MbS ha ripreso vigore, anche tra i rami degli al Saud, una volta fallita la campagna in Yemen ed esploso il caso Khashoggi. Per accelerare l’Ipo annunciata nel 2016, a settembre l’erede al trono ha dovuto rimuovere dalla presidenza di Aramco e dalla poltrona del ministero dell’Energia il ceo storico Khalid al Falih. E non è affatto detto che non ci siano altri resistenti a Vision 2030: MbS ha molti nemici interni.

Khashoggi omicidio MbS Arabia Saudita rapporto Onu
Una dimostrazione a Washignton contro MbS, erede al trono dell’Arabia Saudita, per l’omicidio Khashoggi. (Getty).

LE TURBOLENZE DALL’IRAN

D’altra parte anche «coinvolgere le famiglie saudite più ricche nell’Ipo rischia di danneggiare la credibilità della compagnia» ha scritto il Financial Times: un circolo vizioso che potrebbe non far centrare al 34enne MbS l’obiettivo della prima fase tra i 20 e i 40 miliardi di dollari – con la quotazione poi anche l’estero di 100 miliardi – di finanziamento per modernizzare il regno. Il gettito è indispensabile per riconvertirsi alle rinnovabili e diversificare l’economia dal petrolio: l’Arabia Saudita parte praticamente da zero. Ma l’iniezione di capitali potrebbe ingolfarsi anche a causa di attacchi come quello del 14 settembre dell’Iran, per mano dei ribelli houthi armati in Yemen, contro il complesso di pozzi Aramco e la più grande raffineria al mondo. Riad ha dato prova di forza, riprendendo a breve la produzione di greggio di colpo dimezzata. Ma si è dimostrata vulnerabile.

AGLI INVESTITORI CONVIENE PIÙ EXXON

Come nei boicottaggi alle petroliere, architettati sempre da Teheran anche in risposta alle sanzioni americane agli ayatollah di Donald Trump, che è uno strettissimo alleato di MbS. Il Golfo persico tornato rovente spinge il Fondo sovrano del Kuwait (Kia) a «valutare l’Ipo su Aramco come qualsiasi altro investimento» e dà margini di manovra ai big occidentali. Certo i 111 miliardi di dollari di utile netto nel 2018 del colosso saudita sono strabilianti: più del netto delle cinque sorelle rivali (Exxon Mobil, Royal Dutch/Shell, BP, Chevron e Total) messe insieme, e molto di più anche di Apple e Amazon che la seguono. Pur ridimensionato, il valore dell’Ipo di Aramco scalzerà probabilmente anche il record cinese di Alibaba di 25 miliardi nel 2014. Ma l’utile per gli investitori, se la valutazione attesa sulla compagnia si confermerà, sarà inferiore al 5% garantito da Exxon.

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La Borsa italiana e il valore dello spread del 5 novembre 2019

Piazza Affari in positivo. Il differenziale Btp-Bund a quota 134 punti base. I mercati in diretta.

Borsa italiana positiva nella sessione del 5 novembre 2019. Piazza Affari ha aperto con un +0,17% e dopo alcune oscillazioni il Ftse Mib è tornato stabilmente in territorio positivo chiudendo a +0,23% a 23.364 punti. Maglia rosa in Europa è stata la Borsa di Parigi (+0,39%) a 5.846 punti, seguita da Londra (+0,25%) a 7.388 punti. Piatta invece Francoforte (+0,09%) a 13.148 punti, così come Madrid (-0,09%) a 9.407 punti.

Il rialzo del greggio (wti +1,1%), con l’ipotesi dell’Opec di taglio alla produzione, ha trascinato al rialzo i petroliferi a Piazza Affari, che ha chiuso positiva (+0,23%). Hanno guadagnato Saipem (+3,2%), Tenaris (+1,7%) e Eni (+1,6%), mentre ha patito Pirelli (-0,9%). Bene anche le banche, con lo spread a fine giornata a 134 punti: su Unicredit (+1,6%), Intesa (+1,4%) dopo i conti, Banco Bpm, Bper e Fineco (+1,1%) nel giorno dei dati sui primi nove mesi. In cima al listino principale Azimut (+3,4%) coi conti, bene anche Stm (+1,4%), come il comparto tecnologici in tutto il Vecchio continente col clima più disteso sui dazi Usa-Cina. Buona seduta anche per Poste (+0,6%) e Fca (+0,5%). In fondo al Ftse Mib Ferrari (-2,6%) per le prese di profitto all’indomani del rally dopo i conti. Perdite per Recordati (-2,3%) e male anche i costruttori, con Atlantia (-1,6%) e Buzzi (-0,7%) in discesa, così come l’industria, con Prysmian (-0,9%). Ha patito anche Enel (-0,8%) e non ha brillato Tim (-0,4%).

LO SPREAD BTP-BUND A 134 PUNTI BASE

Spread Btp-Bund stabile. Il differenziale ha chiuso infatti a quota 134 punti allo stesso livello della seduta della vigilia. Il rendimento del decennale è pari allo 1,02%.

I MERCATI IN DIRETTA

18.31 – DEBOLE WALL STREET

Wall Street procede debole. Il Dow Jones sale dello 0,04% a 27.472,88 punti, il Nasdaq avanza dello 0,06% a 8.437,68 punti mentre lo S&P 500 perde lo 0,19% a 3.072,45 punti

18.25 – CHIUSURA A 134 PUNTI PER LO SPREAD

Lo spread tra Btp e Bund chiude stabile a 134 punti base, il medesimo livello della chiusura di ieri.

18.21 – CHIUSURA POSITIVA PER LE BORSE EUROPEE, PARIGI MAGLIA ROSA

Hanno chiuso in positivo le principali Borse europee, con Parigi a detenere la maglia rosa (+0,39%) a 5.846 punti.

17.47 – CHIUSURA DI PIAZZA AFFARI IN RIALZO

Chiusura in rialzo per Piazza Affari. Il Ftse Mib ha guadagnato lo 0,23% a 23.364 punti.

16.32 – WALL STREET RALLENTA

Wall Street rallenta. Il Dow Jones sale dello 0,09% a 27.485,23 punti, il Nasdaq perde lo 0,02% a 8.431,87 punti mentre lo S&P 500 cede lo 0,09% a 3.075,61 punti.

15.55 – EUROPA DEBOLE CON L’APERTURA IN RIALZO DI WALL STREET

Le principali Piazze europee proseguono deboli, dopo l’apertura positiva di Wall Street e un immediato rallentamento, mentre la bilancia commerciale Usa a settembre ha segnato un calo, con forte cedimento delle importazioni dalla Cina. Maglia rosa Milano (+0,3%), seguita da Londra e Parigi (+0,2%), mentre girano in rosso Madrid (-0,1%) e Francoforte (-0,5%).

15.37- APERTURA IN RIALZO PER LA BORSA DI NEW YORK

Apertura in territorio positivo per Wall Street. Il Dow Jones sale dello 0,16% a 27.507,16 punti, il Nasdaq avanza dello 0,11% a 8.443,16 punti mentre lo S&P 500 mette a segno un progresso dello 0,03% a 3.079,23 punti.(

14.20 – BORSE EUROPEE IN POSITIVO

Sono positive le principali Borse europee, in attesa dell’apertura di Wall Street, dove i future sono in rialzo. A trainare Piazza Affari sono Azimut (+3,4%) nel giorno dei conti, e i petroliferi, che guadagnano in tutto il Vecchio continente col rialzo del greggio (Wti +0,9%) e il possibile taglio dell’Opec alla produzione. Salgono Saipem (+2,6%), Total (+2,2%), Eni e Bp (+1,9%). Bene in Europa anche le banche, in particolare Bank of Ireland (+2,5%), Unicredit (+1,7%), Caixa (+1,6%), Intesa (+1,5%) dopo i conti, SocGen (+1,3%). In positivo anche i tecnologici, con Infineon (+1,4%) e Stm (+1%), con le schiarite del dialogo Usa-Cina sui dazi.

13.35 – EUROPA IN RIALZO, LONDRA A +0,26%

Sono per lo più orientate al rialzo le Borse europee, soprattutto Londra (+0,26%), con Milano che guadagna qualche punto percentuale (+0,10%) dietro a Parigi (+0,13%) grazie ai futures Usa positivi in un clima di cauto ottimismo su un possibile accordo sui dazi fra Usa e Cina. Resta indietro solo Francoforte (-0,04%).

12.50 – EUROPA SULLA PARITÀ

Pochi movimenti sui listini azionari europei, che sembrano attendere Wall Street e la diffusione dei dati macroeconomici statunitensi del primo pomeriggio. In Piazza Affari bene Azimut (+2,3%), con Saipem, Eni e Mps che crescono oltre il punto percentuale. In calo dell’1% invece Hera e Ferrari, qualche vendita su Atlantia (-0,9%), con Tim in ribasso dello 0,7%.

9.30 – BORSE EUROPEE CAUTE IN AVVIO

Mercati azionari del Vecchio continente tutti attorno alla parità in avvio: Londra ha aperto in crescita dello 0,05%, Parigi in aumento dello 0,02% mentre Francoforte segna il ribasso marginale dello 0,01%.

9.00 – APERTURA DELLA BORSA ITALIANA IN RIALZO

Avvio marginalmente positivo per Piazza Affari: il primo indice Ftse Mib segna una crescita dello 0,15%, l’Ftse It All-Share un aumento dello 0,17%.

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Cos’è la Guy Fawkes Night

Il 5 novembre in Inghilterra si celebra il fallimento della Congiura delle polveri. Ecco di cosa si tratta.

«Remember, remember the Fifth of November», recita la tradizionale filastrocca inglese. In tutto il Regno Unito, infatti, il 5 novembre si festeggia la Guy Fawkes Night, il fallimento della Congiura delle polveri. Un complotto ordito nel 1605 da un manipolo di cattolici inglesi (13 per l’esattezza) per assassinare il re protestante Giacomo I.

Un’illustrazione che mostra la scoperta di Guy Fawkes.

CHI ERA GUY FAWKES

Guy Fawkes è il più noto dei congiurati che presero parte alla cospirazione: fu scoperto dalle guardie reali in una cantina sotto la Camera dei Lord mentre stava per innescare 36 barili di polvere da sparo. Fu interrogato e torturato fino a che, a dispetto di un’iniziale sfrontatezza, confessò i dettagli del piano e i nomi dei suoi compagni. Tutti i cospiratori furono condannati a morte e Fawkes, dopo l’impiccagione, fu squartato. I resti vennero poi esposti in pubblico in varie parti del regno come monito.

Un contestatore di Occupy Wall Street.

LA MASCHERA DI GUY FAWKES

La figura di Guy Fawkes è stata rivalutata nell’800, fino a diventare un’icona dell’anarchismo postmoderno. La maschera che raffigura il suo volto stilizzato, creata dall’illustratore David Lloyd per il fumetto V per Vendetta di Alan Moore a cui a sua volta è ispirato l’omonimo film del 2005, è stata infatti utilizzata sia dagli attivisti di Anonymous sia da quelli di Occupy Wall Street.

Il protagonista del film V per Vendetta.

LE MASCHERE DELLA RIVOLTA NEL CINEMA

Quella di Guy Fawkes non è l’unica maschera cinematografica simbolo di protesta e rivolta. Basta ricordare Joker di Todd Philips, in cui il popolo di Gotham dà inizio a una protesta violenta vestendo la maschera del pagliaccio, oppure nella serie tivù La casa di carta, nella quale i protagonisti-rapinatori indossano una maschera di Salvador Dalí.

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Lagarde diplomatica con Schaeuble: inizio soft per la presidente Bce

La numero uno dell'Eurotower a Berlino, in casa dell'ex ministro delle finanze tedesco, non cita né la politica monetaria né la necessità di uno sforzo di bilancio. Ma con tutta probabilità sta giocando di tattica.

I richiami alla necessità di aumentare lo sforzo di bilancio non si sono sentiti. Christine Lagarde, alla sua prima uscita dal presidente della Bce, esordisce a Berlino di fronte a Wolfgang Schaeuble. Ma anziché svelare subito le sue carte spingendo per uno stimolo di bilancio, preferisce la diplomazia con uno dei referenti dell’austerity tedesca, che potrebbe rivelarsi decisivo nei prossimi mesi.

«IL SEGNO DI UN VERO UOMO DI STATO»

Durante un intervento a Berlino in lode all’ex ministro delle Finanze, ora potente presidente del Bundestag, la neopresidente della Bce ha ricordato i negoziati durissimi vissuti insieme (il pensiero va alla crisi della Grecia) ma non ha toccato esplicitamente né la politica monetaria, come atteso, né la politica di bilancio, come qualcuno invece si sarebbe aspettato. Ha riconosciuto a Schaeuble di portare «il segno di un vero uomo di Stato: la capacità di esaminare profondamente ciò che va fatto, evitando false certezze».

UN GIOCO DI TATTICA

L’ex direttrice generale del Fmi, insomma, di fronte a Schaeuble, in una Berlino sempre più critica delle politiche espansive della Bce che Lagarde eredita da Draghi, prende alla larga l’argomento scottante su cui era già intervenuta nei giorni scorsi chiedendo a Germania e Olanda di farsi avanti con uno stimolo di bilancio per sostenere l’Europa. Un esordio sotto tono, anche se diversi osservatori notano che l’approccio soft (già visto all’Europarlamento quando Lagarde non ha sottoscritto convintamente il ‘whatever it takes di Draghi) probabilmente sta giocando di tattica.

RICERCA DEL CONSENSO DIETRO LE QUINTE

Ha bisogno, cioè, di ammorbidire l’establishment tedesco per cercare di convincerlo a non osteggiare con troppa forza le mosse della Bce, specie se dovesse rendersi necessario un ulteriore rilancio del quantitative easing di fronte al rischio di recessione. E di cercare il consenso, dietro le quinte, per l’eventualità di uno stimolo di bilancio per la crescita che vada oltre i 54 miliardi per il clima di investimento messi sul piatto dalla cancelliera Merkel. Con Schaeuble funziona così e Lagarde l’ha imparato negli anni della grande crisi, riuscendo a costruire con lui una relazione cordiale nonostante posizioni diametralmente opposte sull’opportunità di ristrutturare il debito ellenico: il politico tedesco – con una Cdu alle prese con l’affermazione della Afd che la spinge a destra – non ama le sorprese.

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Chi è Lindsay Hoyle, il nuovo speaker della Camera dei comuni britannica

Laburista, ma eletto in un collegio pro Brexit, è stato il vice di Bercow per nove anni. Segni particolari: è un ammiratore di Lady D e si è scontrato più volte con l'ex premier Tony Blair.

La Camera dei Comuni britannica ha un nuovo speaker: è sir Lindsay Hoyle (Labour) eletto al quarto scrutinio con 325 voti a succedere, a fine legislatura, al Tory anticonformista John Bercow, in carica per 10 anni. Vice speaker dal 2010, Hoyle ha già mostrato nei suoi turni di presidenza dell’assemblea mano ferma e piglio grintoso, anche se in misura più episodica dell’istrionico Bercow: a differenza del quale è eletto in un collegio pro Brexit. Laburista per tradizione di famiglia, è noto pure per l’ammirazione per la defunta lady D.

IN CARICA PER SOLI DUE GIORNI PRIMA DELLE ELEZIONI

Il prescelto si è lasciato alle spalle nelle ultime votazioni i due rivali rimasti in lizza (su una platea iniziale di 7): eliminando dapprima l’altra vice speaker uscente, la conservatrice dame Eleanor Laing, e quindi il deputato laburista Chris Bryant, ex pastore anglicano entrato in Parlamento dopo aver lasciato l’abito ecclesiastico e aver fatto coming out come gay. Resterà in carica per ora solo 2 giorni, prima dello scioglimento della Camera mercoledì 6 in vista delle elezioni già fissate per il 12 dicembre. Avrà però il vantaggio di poter venire rieletto deputato nel suo collegio da indipendente senza concorrenti, se sarà rispettata una prassi di cortesia istituzionale in vigore nel Regno, e di poter essere candidato naturale alla propria conferma nella futura assemblea.

CRESCIUTO A PANE E POLITICA, CELEBRI GLI SCONTRI CON BLAIR

Lindsay Hoyle, 62 anni compiuti a giugno (sei in più del predecessore Bercow), è considerato da tempo una figura super partes a Westminster e nello stesso Labour. E subito dopo la designazione ha ricevuto l’omaggio di rito in aula da parte del premier Boris Johnson (che ne ha sottolineato “l’imparzialità”), del leader dell’opposizione Jeremy Corbyn e da esponenti di tutti i partiti minori. Deputato dal 1997, sempre rieletto nel collegio della contea d’origine, il Lancashire, nell’Inghilterra nord-occidentale, è cresciuto a pane e politica. Anche suo padre Doug è stato membro della Camera dei Comuni e da oltre un ventennio lo è dei Lord, dove tuttora siede quasi 90enne. Ligio per tradizione alla disciplina di partito e gradito a Corbyn, ma anche a diversi conservatori e in particolare ai brexiteer, il neo speaker è stato tuttavia protagonista in passato di un paio di scontri con l’allora premier Tony Blair: a cui contestò fra l’altro l’introduzione delle rette universitarie e l’espansione dell’istruzione a pagamento nel Regno a fine Anni ’90.

LA FIGLIA AVUTA DALLA SUA AVVERSARIA POLITICA

Sulla Brexit non s’è mai sbottonato per ragioni istituzionali legate al ruolo precedente di vice speaker, ma si sa che gli elettori del suo collegio sono in maggioranza pro Leave. È ben conosciuto invece il rispetto che nutre per la figura della principessa Diana, al cui nome propose invano dopo la morte l’intitolazione di un ospedale o dell’aeroporto londinese di Heathrow. Nel 2018 ha ricevuto il titolo di cavaliere dalla regina e può fregiarsi così dell’appellativo di sir. Sposato in prime nozze con Lynda Anne Fowler, dalla quale ha divorziato nel 1982, e in seconde con Catherine Swindley, impalmata nel ’93, ha avuto due figlie: la minore della quali – nata nel 1989 da una relazione extra matrimoniale con Miriam Lewis, allora avversaria politica e consigliera locale Tory nella sua stessa contea – morta a soli 28 anni. Una tragedia che Hoyle ha ricordato, nel primo intervento dallo scranno, non senza commuoversi.

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Ex Ilva: la mossa di ArcelorMittal riapre lo scontro nel governo

L'annuncio dell'addio del gruppo indo-francese scatena un nuovo botta e risposta tra M5s e Pd. Il premier giura di dare battaglia al colosso dell'acciaio.

Una “bomba“, che va a sovrapporsi ad un percorso sulla manovra già accidentato. L’annuncio dell’addio di ArcelorMittal all’ex Ilva aumenta ben sopra il livello di guardia le tensioni interne ad una maggioranza che mai come in questi giorni appare sfilacciata. La lettera della multinazionale dell’acciaio scatena una serie di botta e risposta tra Pd, M5s e Italia viva, che sembrano diretti più alla ricerca del colpevole che a quella di una soluzione.

CONTE PRONTO ALLA BATTAGLIA CON ARCELORMITTAL

E l’allarme arriva a Palazzo Chigi, dove il premier Giuseppe Conte passa al contrattacco, mettendo in campo una duplice strategia: una battaglia senza esclusione di colpi a ArcelorMittal e, parallelamente, la ricerca di una via alternativa per salvare lo stabilimento. «Il problema è che l’azienda vuole andarsene perché perde 2,5 milioni di euro al giorno. Vuole almeno 5 mila esuberi», sbottano fonti del governo vicine al dossier a tarda sera, inquadrando quello che, a loro parere, è il reale pomo della discordia: «ArcelorMittal non ce la fa a mantenere la produzione richiesta e, approfittando di un quadro politico incerto ha preso l’assenza dello scudo penale come alibi per andar via».

L’INCONTRO A PALAZZO CHIGI CON IL COLOSSO INDO-FRANCESE

Un ragionamento che, probabilmente, domani Conte e il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli recapiteranno all’azienda nell’incontro del pomeriggio. Sarà l’inizio di una partita a scacchi che, qualcuno, nel governo, paragona a quella appena (parzialmente) conclusasi con la Whirlpool su Napoli. Da un punto di vista strettamente giuridico il governo potrebbe sventolare ai vertici dell’azienda quell’articolo 51 del codice penale secondo il quale «l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità». Di fatto, secondo il governo, l’articolo esclude che ArcelorMittal sia punibile nel momento in cui attua, come da contratto, il piano ambientale previsto fino al 2023. Il tema, si ragiona nella maggioranza, per ArcelorMittal è duplice: da un lato l’azienda non può sostenere il livello occupazionale concordato, dall’altro si pretende la bonifica necessaria di uno dei due forni o i finanziamenti necessari per realizzarla.

L’IPOTESI CASSA DEPOSITI E PRESTITI

Allo stesso tempo, nel governo si cerca già di correre ai ripari. E nelle ore più calde del dossier ex Ilva, oltre al progetto di un decreto su Ilva, torna l’idea di una nazionalizzare. A Palazzo Chigi, nel corso della giornata, sarebbe stato consultato il neo presidente di Cdp Giovanni Gorno Tempini. Un eventuale intervento per sostituire ArcelorMittal dovrebbe tuttavia prevedere una cordata industriale e finanziaria, nella quale la quota di Cdp sia minoritaria e marginale. Al momento si tratta solo di ipotesi. Ma Conte non vuole perdere tempo. Anche perché il caso ex Ilva potrebbe costare consenso al Pd e al M5s. La richiesta di riferire in Aula inoltrata da Italia viva ha sorpreso e non è piaciuta a più di un membro del governo.

SALVINI CERCA DI SFRUTTARE LA CRISI

Mentre, nel M5s, c’è chi punta il dito contro quella fronda, capitanata da Barbara Lezzi, che qualche settimana fa al Senato ha voluto lo stralcio dello scudo penale “a scadenza” sul quale Luigi Di Maio aveva, nei mesi scorsi, siglato una tregua con ArcelorMittal. Il tema, si sfoga una fonte del governo, è che se una cosa del genere accade in Germania la politica si unisce contro l’azienda, non ci si incolpa a vicenda. Già, ma Matteo Salvini, intanto, ha innalzato l’ennesima trincea. E la paura di perdere, a fine gennaio, EmiliaRomagna e Calabria tra i Dem e nel M5s aumenta. Tanto che, nel Movimento, c’è chi guarda allo scenario peggiore non legando il voto in Emilia-Romagna alla tenuta del governo. Anche se una sconfitta del Pd dovesse provocare le dimissioni di Nicola Zingaretti.

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Il 26 gennaio possibile election day in Calabria e Emilia Romagna

Il presidente Mario Oliverio propone il 26 gennaio come data per il voto. Ma è rebus sulle candidature.

Calabria al voto per eleggere il nuovo presidente e rinnovare il Consiglio regionale in concomitanza con l’Emilia Romagna? É la data di domenica 26 gennaio quella che pare ormai delinearsi – sebbene in materia di candidature e schieramenti la situazione rimanga ancora piuttosto incerta – per le prossime regionali in Calabria. A rompere gli indugi è stato il presidente uscente della Regione, Mario Oliverio, sempre più determinato a riproporre la propria candidatura – malgrado i reiterati “niet” di Roma e del commissario regionale dem Stefano Graziano – contando sul sostegno di circoli, sindaci e amministratori del partito.

LE POLEMICHE SULLA DATA PER SFRUTTARE IL VANTAGGIO

«In questi giorni, tra domani e dopodomani – ha detto Oliverio parlando con i giornalisti a margine della conferenza programmatica della sua coalizione ribattezzata la “Leopolda calabrese” – chiederò un incontro ai presidenti di Corte d’Appello e mi determinerò. Presumo che proporrò la data del 26 gennaio perché ritengo che sia necessario dare il giusto tempo». Oliverio, tra un passaggio e l’altro ai tavoli tematici per la costruzione del programma di governo della coalizione, ha respinto con forza l’accusa di voler modulare la decisione sulla data del voto in base alle proprie convenienze. «Non sono per utilizzare il mio vantaggio – ha aggiunto – come se si trattasse di giocare una partita a scacchi. Qui stiamo parlando della Calabria. Non appartiene alla mia cultura il gioco tattico sulla pelle di un territorio». Se sulla data del ritorno alle urne, dunque, pare aprirsi uno squarcio, la confusione e l’incertezza continuano invece a farla da padrone per quanto riguarda tutto il resto. E non solo per il Pd e per il centrosinistra, ma anche per gli altri possibili schieramenti in campo.

IL VETO DELLA LEGA SUL SINDACO DI COSENZA E L’INCERTEZZA 5s

In ambasce, infatti, è anche il centrodestra, che ancora è alle prese con gli effetti del veto opposto alla candidatura a presidente del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, anche lui da tempo in campagna elettorale, da parte di Matteo Salvini e della Lega. In queste ore, si fanno strada, a questo proposito, altri possibili nomi e tra questi quello del sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo. Niente di deciso, inoltre, nemmeno nel campo dei Cinquestelle, stretti tra la tentazione del disimpegno e il tramonto dell’ipotesi di quel patto con i democrat, sul modello dell’accordo di governo nazionale, le cui quotazioni sono precipitate dopo i risultati dell’Umbria. A giorni è previsto un nuovo vertice romano con Luigi Di Maio.

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La storia della relazione amorosa che ha stravolto McDonald’s

L'amministratore delegato Easterbrook cacciato per una liaison con una dipendente. Il titolo ha perso il 2,9% in Borsa. E anche un altro top manager se n'è andato. La banca d'investimento Piper Jaffray: «Cambiamenti distruttivi».

Più che un hambruger, stavolta è stata una frittata: McDonald’s ha dovuto silurare il suo amministratore delegato protagonista di una relazione consensuale con una dipendente, in violazione delle severe norme etiche interne alla società.

UNA BUONUSCITA D’ORO

Steve Easterbrook, 52 anni, divorziato e padre di tre figli, è stato costretto così a lasciare la guida del colosso del fast food: lo ha fatto comunque portandosi a casa 675 mila dollari, una copertura assicurative per 18 mesi e mantenendo titoli azionari, ricevuti come forma di compenso per i risultati raggiunti, dal valore di 37 milioni di dollari.

A WALL STREET PERDITE FINO AL 2,9%

Per McDonald’s si è trattata di una perdita importante e improvvisa. E che non è piaciuta a Wall Street, dove la società è arrivata a perdere il 2,9%. Gli investitori hanno dimostrato preoccupazione per il dopo Easterbrook, l’architetto della rinascita online di McDonald’s con l’introduzione degli ordini sul web e le consegne di panini a domicilio.

«CAMBIAMENTI DISTRUTTIVI»

La banca d’investimento Piper Jaffray ha rivisto al ribasso la sua valutazione su McDonald’s invitando gli investitori a guardare altrove: «Cambiamenti di tale portata tendono a essere distruttivi».

AL TIMONE CI VA KEMPCZINSKI

Il posto di Easterbrook finisce a Chris Kempczinski: i due hanno lavorato insieme in questi ultimi anni per cercare di rilanciare i ristoranti McDonald’s tramite le nuove tecnologie e menù con ingredienti più freschi.

ADDIO PURE PER FAIRHURST DELLE RISORSE UMANE

Ma McDonald’s ha perso anche un altro pezzo grosso. Dicendo addio a sorpresa dopo 15 anni di carriera all’interno della società anche al top manager delle risorse umane David Fairhurst. Dopo aver lavorato con Easterbrook a McDonald’s in Gran Bretagna, Fairhurst era stato promosso con la nomina di Easterbrook alla guida della società. E ora che il suo capo ha lasciato, se n’è andato pure Fairhurst.

INDAGINE INTERNA E POLICY VIOLATA

Easterbrook è stato costretto ad abbandonare l’incarico e a dare le dimissioni al termine di un’indagine interna il cui esito non ha lasciato scampo al manager: nonostante la relazione fosse consensuale (il nome della donna non è stato reso noto) l’amministratore delegato ha violato la policy a cui deve attenersi tutto il personale e il top management dell’azienda.

VALORE DEL TITOLO RADDOPPIATO IN QUATTRO ANNI

In quattro anni Easterbrook è riuscito quasi a raddoppiare il valore del titolo di McDonald’s grazie a una ristrutturazione incentrata sull’obiettivo di dare al consumatore un prodotto di migliore qualità per non soccombere nella sfida con i fast food di nuova generazione che propongono menù più salutari e che vanno incontro di più ai gusti di una clientela che sta cambiando rapidamente. Ma una relazione amorosa ha rovinato tutto.

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La storia infinita della crisi dell’Ilva di Taranto in cinque tappe

Dal sequestro dell'acciaieria nel 2012 alla promessa di chiusura del M5s per le elezioni del 2018, Come siamo arrivati al conflitto di oggi.

Sembrava l’inizio della fine della crisi, almeno sul fronte occupazionale, quando, un anno fa, l’insegna sopra la fabbrica -città di Taranto, è cambiata da Ilva a ArcelorMittal. E invece a 365 giorni dal presunto salvataggio del gruppo franco indiano, il destino dell’Ilva è ancora tutto da definire. Ecco il film degli ultimi anni.

LEGGI ANCHE: ArcelorMittal è pronta a lasciare l’ex Ilva

1° NOVEMBRE 2018: ARRIVA ARCELOR MITTAL

Il 1° novembre 2018 dopo 113 anni, l’Ilva ammaina la bandiera italiana ed entra a far parte di un colosso multinazionale, ArcelorMittal, nato nel 2006 dalla fusione della francese Arcelor e dell’inglese Mittal Steel. La vecchia insegna viene subito sostituita dal nuovo marchio ArcelorMittal Italia ma se per la multinazionale con sede a Lussemburgo, con stabilimenti in tutta Europa e guidata dalla famiglia indiana Mittal, è un successo inseguito da anni i problemi e le polemiche che hanno accompagnato l’operazione non si quietano.

2012: L’ACCIAIERIA FINISCE SOTTO SEQUESTRO

Negli anni precedenti all’arrivo di ArcelorMittal più volte il siderurgico di Taranto (la più importante acciaieria a caldo d’Europa) ha rischiato di essere chiuso. Nel corso degli anni, infatti, Ilva è diventata il simbolo della fabbrica che inquina e uccide. Nel 2005 lo stabilimento di Cornigliano chiude la produzione a caldo (quella più inquinante) che rimane solo a Taranto. Una ferita per i tarantini. Il caso Ilva diventa eclatante nel 2012 quando la magistratura dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali e l’arresto dei suoi dirigenti, di Emilio Riva e di suo figlio Nicola. Da quel momento, per i governi che si sono succeduti, il sito siderurgico diventa una sfida da vincere con l’obiettivo di coniugare il diritto alla salute, la tutela dell’ambiente e mantenere viva la produzione di acciaio, materia prima fondamentale per le aziende italiane manifatturiere.

2015: LA TRIADE DI COMMISSARI

Sottratta ai vecchi proprietari Riva, l’azienda viene commissariata. Il primo commissario governativo è Enrico Bondi al quale succederà Piero Gnudi. All’inizio del 2015 Ilva viene ammessa alla procedura in Amministrazione Straordinaria. I commissari diventano tre: resta Pietro Gnudi al quale si affiancano Enrico Laghi e Corrado Carrubba.

2016: IL BANDO INTERNAZIONALE PER LA VENDITA DEL GRUPPO

Un anno dopo, a inizio 2016, si apre la procedura per il trasferimento degli asset aziendali attraverso un bando internazionale. Alla fine in corsa restano due cordate. Una cordata italiana col nome “Acciaitalia” e un’altra AmInvestco nata dalla joint-venture fra l’italiana Marcegaglia e ArcelorMittal. Alla cordata tricolore partecipano Cassa Depositi e Prestiti, l’italiana Arvedi, la holding della famiglia Del Vecchio Delfin, a questi gruppi va a unirsi il gruppo indiano Jindal South West (JSW). Alla fine vincitrice risulta la joint venture “AmInvestco” considerata dai commissari la cordata che ha presentato il piano industriale e ambientale migliore. Vinta la gara partono le trattative con i sindacati. Un confronto che risulta subito in salita per l’alto numero di tagli chiesto dai nuovi proprietari (4.000 esuberi e 10.000 assunti).

2018: IL M5s PROMETTE LA CHIUSURA DELLA FABBRICA

Il Governo Gentiloni con il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda e il vice ministro Teresa Bellanova cercano di mediare e di chiudere l’acquisizione prima della fine della legislatura. Su Ilva pendono infatti le minacce del Movimento 5 Stelle che in campagna elettorale nel 2018 promette ai tarantini la chiusura dell’Ilva. Vinte le elezioni il vicepremier Luigi di Maio, dopo aver letto le 27.000 pagine del pesante dossier Ilva, si convince che l’Ilva non si può chiudere e continua la trattativa con Arcelor Mittal.

6 SETTEMBRE 2018: SI CHIUDE L’ACCORDO, ASSUNTI IN 10.700

Il 6 settembre 2018 arriva l’accordo, fin da subito vengono assunti in 10.700. Non ci sono esuberi perché gli altri lavoratori restano in Amministrazione Straordinaria ovvero vengono incentivati all’uscita. L’accordo raggiunto ottiene un voto plebiscitario dai dipendenti ma la successiva rottura sul fronte della tutela legale per gli amministratori coinvolti nel lavori di risanamento ambientale riporta in luce tutti i problemi. Nei giorni scorsi la maggioranza giallorossa raggiunge un accordo per sopprimere l’articolo del decreto relativo ad ArcelorMittal, dopo la presa di posizione del M5s.

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Al voto in cinque Stati Usa, un referendum su Trump

Prima prova elettorale per il presidente dopo l'avvio dell'indagine per impeachment. Insidie per i repubblicani nel voto per i governatori in Kentucky e Louisiana.

L’America fa le prove generali a un anno dalle presidenziali del 3 novembre del 2020. In ben cinque Stati milioni di cittadini sono chiamati a rinnovare le istituzioni locali. Ma il Supertuesday è inevitabilmente destinato a dare un’indicazione su quello che potrebbe accadere tra dodici mesi.

Si tratta del primo voto dopo l’avvio dell’indagine per impeachment contro il presidente, e dalla Virginia al Kentucky le elezioni non possono che trasformarsi in un vero e proprio referendum sull’operato di Donald Trump.

In gioco c’è soprattutto la tenuta del tycoon negli Stati del Sud che nel 2016, insieme a quelli industriali della Rust Belt, furono fondamentali per il suo trionfo, con oltre il 60% degli elettori che votarono per lui. Oltre al Kentucky, dove Trump vinse su Hillary Clinton con 30 punti di vantaggio, si elegge il governatore in Mississippi e in Louisiana, che tre anni furono facilmente conquistati dal tycoon rispettivamente con 17 e 20 punti di vantaggio. Ma ora le cose potrebbero cambiare, con gli ultimi sondaggi che indicano come nei tre Stati sarà battaglia fino all’ultimo voto.

GOP A RISHIO IN KENTUCKY E LOUISIANA

In Kentucky il governatore uscente Matt Bevin, un trumpiano di ferro che ha fatto campagna puntando proprio sui suoi rapporti con il tycoon, è dato alla pari col democratico Andy Beshear. Trump ha fiotato il pericolo e non a caso è voltato nello Stato alla vigilia del voto per salire sul palco dell’ultimo comizio di Bevin. Cattive notizie per i repubblicani, però, anche in Louisiana, dove il democratico John Bel Edwards è in vantaggio di addirittura 23 punti, e in Mississippi, dove il candidato repubblicano Tate Reeves è avanti solo di tre lunghezze. Per Trump si tratta di numeri preoccupanti che, se confermati nelle urne, suonerebbero come un campanello d’allarme per le sue chance di rielezione, segnalando come una parte dello zoccolo duro che ha finora sostenuto il tycoon si sta sgretolando.

TIMORE ANCHE PER LE ELEZIONI IN VIRGINIA E NEW JERSEY

Anche se alla vigilia del supermartedì a soffiare sulle vele del tycoon ci pensa una Wall Street da record, dopo gli ottimi dati sull’occupazione della scorsa settimana. Ma i repubblicani rischiano la sconfitta anche in Virginia e in New Jersey, dove si vota per rinnovare i parlamenti locali. E nonostante Trump parli di fake news, alla Casa Bianca si guarda con grande preoccupazione alle ultime rilevazioni da cui emerge che circa la metà degli americani è favorevole all’impeachment e pensa che il presidente vada rimosso dall’incarico.

I DUBBI IN CASA DEM IN VISTA DEL 2020

I democratici sono alla finestra e sperano. Anche perché la sensazione è che non abbiano ancora trovato il candidato ideale per il 2020. L’ultimo sondaggio del New York Times ha mostrato come solo il moderato Joe Biden sia in grado di battere Trump nella maggior parte degli Stati chiave. Ma le difficoltà in cui naviga la campagna dell’ex vicepresidente e l’ascesa della senatrice progressista Elizabeth Warren, vista come il fumo negli occhi da Wall Street, creano ansia tra i dem in vista delle primarie. «Tutti sono nervosi per Warren», ha spiegato Steve Rattner, il democratico che gestisce la ricchezza personale di quel Michael Bloomberg che potrebbe essere la vera clamorosa sorpresa dei prossimi mesi.

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I sondaggi politici elettorali del 4 novembre 2019

La Lega sfonda la soglia del 34%, più di quanto riescano a ottenere M5s e Pd insieme. Gli alleati di governo rispettivamente al 16,8% e al 17,5%.

La Lega sfonda la soglia del 34%, più di quanto riescano a ottenere Movimento 5 stelle e Pd insieme. È quanto risulta dai sondaggi politici elettorali del 4 novembre realizzati da Swg per il TgLa7. Il partito di Matteo Salvini passa dal 33,6% del 27 ottobre al 34,1%. Il Partito democratico dal 18% al 17,5%. Ulteriore emorragia di consensi per il Movimento 5 stelle che dal 18,2% scende al 16,8%. Leggera flessione anche per Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che dal 9% arriva all’8,9%. Forza Italia risale dal 5,5% al 6,2%, come il partito di Matteo Renzi Italia viva che dal 5,2% arriva al 6%.

IL GOVERNO TREMA PER LE ELEZIONI IN EMILIA-ROMAGNA

Con le elezioni in Emilia-Romagna che si avvicinano, dopo la batosta in Umbria, i partiti di coalizione stanno subendo l’opposizione della Lega mentre contemporaneamente risentono di continui scontri interni, in particolare per quel che riguarda la manovra.

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Il sindaco di Verona e Salvini minimizzano il caso Balotelli

Per Sboarina «è inaccettabile quello che sta succedendo alla città», visto che «nessuno allo stadio ha sentito quei cori». E il leader della Lega attacca Super Mario: «Fenomeno, vale più un operaio dell'Ilva che 10 come lui».

In mezzo a un coro di solidarietà c’è stato anche chi proprio non è riuscito a condannare gli ululati razzisti contro Mario Balotelli. A partire dal sindaco di Verona Federico Sboarina, che intervistato da Sky Tg24 e dall’Ansa ha minimizzato i cori dei tifosi dell’Hellas durante la partita contro il Brescia: «Sembra che la sentenza sia già stata scritta. È oggettivamente inaccettabile quello che sta succedendo alla nostra città».

IL SINDACO: «NESSUNO CAPIVA QUEL GESTO»

La linea del primo cittadino è derubricare il caso a poche urla di qualche persona in Curva: «Ribadisco, ero allo stadio e quando Balotelli ha calciato via la palla la sensazione di tutti è stata di stupore. Nessuno riusciva a spiegarsi perché». Secondo il referto che la procura della Figc ha preparato per il giudice sportivo chiamato a valutare «erano in 20, il resto della Curva veronese applaudiva».

RIPETUTA LA LINEA NEGAZIONISTA

Ci sono dei video dove però i buuu si sentono chiaramente. Ma Sboarina è andato dritto per la sua strada: «Non può esistere che da un presupposto che non esiste, perché allo stadio non ci sono stati cori razzisti, venga messa alla gogna una tifoseria e una città». A proposito di tifoseria, il discusso capo ultrà Luca Castellini ha detto, tra le altre cose, che «Balotelli non potrà mai essere del tutto italiano».

Balotelli è l’ultima mia preoccupazione, vale più un operaio dell’Ilva che 10 Balotelli, non abbiamo bisogno di fenomeni


Matteo Salvini

Non poteva mancare un commento al veleno di Matteo Salvini. L’ex ministro dell’Interno ha sempre lanciato frecciatine al centravanti («Non mi piaceva in campo, mi piace ancor meno fuori») e anche stavolta ha sviato davanti alle domande dei giornalisti in Senato: «Con 20 mila posti di lavori a rischio Balotelli è l’ultima mia preoccupazione, vale più un operaio dell’Ilva che 10 Balotelli, non abbiamo bisogno di fenomeni». Ribadendo in generale la solita condanna di antisemitismo e razzismo, la stessa peraltro annunciata dopo il mancato voto in favore della Commissione Segre.

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IL VESCOVO ZENTI: «VERONA NON È QUELLA DELLO STADIO»

Pure il vescovo Giuseppe Zenti ha difeso la città: «Verona non è quella che si vede allo stadio». Ambiente che però lui ha ammesso di non conoscere, sottolineando poi che Verona è da sempre «una città accogliente, inclusiva, ricca di associazioni di volontariato», che «non merita di essere infangata».

TOMMASI: «LA CITTÀ NON È RAZZISTA»

Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione italiana calciatori e veronese, ha detto: «Inutile girarci intorno, se qualcuno fa il verso della scimmia a un giocatore perché è di colore, quello è razzismo. Sento troppi “sì, ma”. E anche se sono solo due, sono troppi». Poi ha aggiunto: «Pochi sanno che il patrono, San Zeno, è un vescovo di colore, e che qui sono nati i comboniani attivi in Africa. Razzista non è una città, ma i comportamenti sì, quelli sono razzisti».

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Aumento di capitale per salvare Bialetti dal fallimento

La manovra finanziaria dovrebbe portare Sculptor Ristretto al massimo al 25% del capital. Ma si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente per la sopravvivenza dello storico marchio del Made in Italy.

Parte l’aumento di capitale di Bialetti, parte della manovra finanziaria che cerca di evitare il fallimento del”omino coi baffi’. Le azioni hanno guadagnato il 28,4% a 0,28 euro mentre i diritti, negoziabili fino al 15 novembre, sono stati venduti (-4,05% a 0,0332 euro). Il risanamento è in corso ma il rischio fallimento non è allontanato.

SCULPTOR AL MASSIMO AL 25% DEL CAPITALE

«Sussiste una incertezza significativa» sulla continuità aziendale scrive il gruppo nel prospetto e «il rischio di mancata esecuzione del Piano stesso è molto elevato». Sculptor Ristretto, veicolo che fa capo ai fondi Och Ziff, si è impegnato a sottoscrivere l’aumento per 4,2 milioni (e ha già effettuato il pagamento). Se nessun altro aderirà, Bialetti Holding scenderà dal 64,8% al 50,5% con Sculptor al 21,89%, mentre in caso di sottoscrizione totale Bialetti Holding scenderebbe al 45% e Sculptor si troverebbe al 19,57%. Ma Bialetti Holding si è impegnata a cedere la totalità dei diritti di opzione che le spettano (sul 5,43%) e questo farà salire Och Ziff fino a un massimo del 25% del capitale.

10 MILIONI DI DEBITI A SOSTEGNO DEL NUOVO PIANO INDUSTRIALE

La manovra finanziaria prevede anche un bond da 35,8 milioni, sottoscritto da Sculptor Ristretto Investments e nuovo debito per 10 milioni per supportare il piano industriale 2018-2023. «La piena realizzazione della manovra finanziaria costituisce condizione necessaria ma non sufficiente» mentre è «necessario che le azioni del Piano Industriale 2018-2023 siano realizzate». Bialetti dovrebbe correre ben più del mercato: le previsioni di settore – riportate dalla stessa società – evidenziano un mercato italiano del caffè in crescita nel 2018-2023 del 2,5%, mentre il Piano si attende una crescita media dei ricavi pari a circa l’11% ma durante l’ultima riunione, il 4 ottobre, il cda ha tagliato le stime sul 2019 e all’orizzonte ci sono sempre le possibili dismissioni mentre l‘indebitamento finanziario netto al 30 settembre è salito a 120,5 milioni.

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