Cosa prevede la bozza del decreto Taranto

Dalla «riconversione produttiva» alla protezione dei cetacei, i 21 articoli del dl che punta a rilanciare la città.

Da un fondo da 50 milioni per i lavoratori ex Ilva a sgravi al 100% per chi assumerà gli esuberi del polo siderurgico, anche all’esito di nuovi accordi a partire da gennaio 2020. È di 21 articoli la bozza del decreto Taranto, che prevede la «riconversione produttiva» della città, un nuovo Sito di interesse nazionale che comprenda anche l’area di Statte e un nuovo commissario per la bonifica. Tra le misure anche la protezione dei cetacei e screening gratuiti, esenti anche dal ticket, per la diagnosi precoce di malattie legate all’inquinamento.

IL COSIDDETTO “CANTIERE TARTANTO”

Il pacchetto di misure per quello che è stato definito il “Cantiere Taranto” è ancora in fase di valutazione tecnica e politica, e non è detto che il varo del decreto arrivi già questa settimana, anche se l’intento del governo era quello di approvarlo prima di Natale. Per gestire il problema degli esuberi, a partire dai lavoratori che già sono rimasti in carico alla gestione commissariale dell’ex Ilva, si stanno studiando diverse ipotesi, compresa quella di incentivare, con un bonus, chi dovesse accettare un nuovo lavoro lontano da Taranto e quella di rafforzare gli incentivi per i lavoratori a usufruire dell’assegno di ricollocazione.

UN NUOVO POLO UNIVERSITARIO

Prevista anche la rivalsa dell’Iva per le imprese creditrici nei confronti dell’amministrazione straordinaria. Spuntano anche risorse (5 milioni in 2 anni) per aiutare il comune di Taranto nella demolizione delle strutture abusive della Città vecchia e un fondo per la valorizzazione delle bande e delle orchestre della città. Si prevede anche di destinare al Comune la quota dell’Imu sui capannoni di competenza statale. Nella bozza compare la creazione di un Polo universitario di Taranto per la sostenibilità ambientale e per la prevenzione delle malattie sul lavoro, con un finanziamento di 9 milioni l’anno per tre anni. Si valuta anche la proroga dell’Agenzia per la somministrazione del lavoro in porto e per la riqualificazione professionale fino al 2022, nella quale sono confluiti circa 530 lavoratori in esubero delle imprese per la movimentazione dei container.

COMPLETARE LE INFRASTRUTTURE

L’esecutivo punta quindi ad accelerare il completamento delle infrastrutture nelle Zone economiche speciali che hanno subito rallentamenti per problemi di autorizzazioni o sequestri. Si guarda anche alla green mobility, con un piano per la “mobilita’ dolce” da realizzare lungo linee ferroviarie dismesse. Per supportare le tradizioni del territorio danneggiate dalle crisi siderurgica potrebbe arrivare infine un finanziamento ad hoc.

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Sull’Ilva Arcelor Mittal attacca la demagogia all’italiana

Il gruppo franco indiano definisce il ricorso dei commissari contro la procedura di retrocessione dei rami d'azienda «intriso di considerazioni politiche». E le condotte delle autorità pubbliche «altalenanti e imprevedibili».

La difesa di Arcelor Mittal depositata dai legali della multinazionale è un attacco frontale allo Stato italiano e ai suoi rappresentanti commissari dell’ex Ilva. Il gruppo franco indiano ha chiesto di sciogliere il contratto di acquisizione degli stabilimenti. Secondo fonti vicine al dossier, più che una mossa ‘aggressiva’ l’iniziativa del gruppo franco-indiano sarebbe da interpretare come un passaggio procedurale obbligato visto che non c’è ancora un’intesa nelle trattative per arrivare ad un accordo di principio sui temi principali. Eppure, nelle 57 pagine della memoria depositata, i toni usati sono tutt’altro che concilianti.

«IL RICORSO? TUTTO POLITICA E PRESSIONE MEDIATICA»

Secondo la multinazionale, il ricorso dei commissari contro la procedura di retrocessione dei rami d’azienda, è «intriso di considerazioni politiche e demagogiche, tenta chiaramente di cavalcare l’onda della pressione mediatica e istituzionale che è montata negli ultimi mesi». Ed ancora riferendosi allo scudo penale rimosso: non si può «indurre una società a effettuare un enorme investimento perché ha confidato su un’apposita norma di legge e poi cambiare le ‘regole del gioco durante l’esecuzione del contratto». Dopo aver «investito 345 milioni di euro» e aver «dismesso rilevanti beni in conformità alle indicazioni della Commissione europea ed esattamente eseguito il contratto per oltre un anno», il gruppo franco-indiano sostiene di essersi trovato «in una situazione completamente diversa da quella concordata a causa di decisioni e condotte altalenanti e imprevedibili di autorità pubbliche e soggetti istituzionali»

IL RISCHIO DI SPEGNERE GLI ALTRI DUE ALTIFORNI

In più, «è vero che lo stabilimento Ilva è un bene di interesse strategico nazionale», «è altrettanto vero, però, che il rilievo strategico attribuito a uno stabilimento industriale non può essere strumentalizzato» per imporre a un investitore di «continuare a svolgere l’attività produttiva come se nulla fosse e di accettare assurdamente il rischio di responsabilità penali che erano state escluse al momento e proprio in funzione del suo investimento». Nell’atto si parla anche dell’altoforno 2, ritenuto «vitale per l’impianto di Taranto» sostenendo che il suo spegnimento imporrebbe «di spegnere anche gli altri due altiforni attivi perché hanno caratteristiche tecniche analoghe».

IL 30 DICEMBRE IL RIESAME SULL’ALTOFORNO

A. Mittal sottolinea che la magistratura penale ha stabilito «che l’omessa esecuzione delle prescrizioni non è imputabile» alla multinazionale ma «ad ‘anni di inadempimento colpevole‘ dei commissari dell’ex Ilva». Sulla vicenda di Afo2, si attende ora la fissazione dell’udienza da parte del Tribunale del riesame di Taranto. La prima data utile potrebbe essere il 30 dicembre. L’altra, il 7 gennaio 2020, sarebbe troppo ravvicinata all’ultima fase delle operazioni di spegnimento già avviate su disposizione del giudice Francesco Maccagnano, che ha respinto la proroga della facoltà d’uso. Intanto, prosegue la trattativa tra governo e azienda, ma c’è un punto non ancora risolto: la mancata definizione dell’entità, della misura e della modalità degli interventi degli eventuali soggetti pubblici e privati italiani che potrebbero entrare nell’operazione per rivitalizzare il polo siderurgico italiano.

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Cresce la fronda contro Paragone nel M5s

Dopo il no solitario alla manovra del giornalista, sempre più senatori pentastellati chiedono le sue dimissioni.

«I fuoriusciti dal M5s? Io non riesco a convincere nessuno, se una persona cambia idea lo può fare»: allarga le braccia Beppe Grillo prima di incontrare i gruppi parlamentari del Movimento. Dove tuttavia risulta assente Gianluigi Paragone, unico senatore pentastellato ad aver votato “no” alla manovra a Palazzo Madama. Contro il giornalista sembra montare una nuova fronda tra i grillini, e chiedono le sue dimissioni il vicepresidente del Gruppo alla Camera, Riccardo Ricciardi e il deputato Michele Gubitosa.

«DOVREBBE DIMETTERSI»

«Paragone dovrebbe dimettersi da parlamentare. Oltre a non aver votato la fiducia alla manovra (…) continua ad attaccare Luigi Di Maio. Ci chiediamo perché, invece di continuare a provocare, non si dimetta da parlamentare visto che, ormai, non è più in linea con le battaglie del Movimento?», è stato l’attacco diretto di Gubitosa.

«SI È ALLONTANATO DAL MOVIMENTO»

«Sin dal post voto delle elezioni europee, si è allontanato dalle posizioni del MoVimento, e si è avvicinato sempre di più a quelle dell’opposizione. Dai nostri iscritti abbiamo ricevuto il mandato chiaro di sostenere questo esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Paragone non rispetta né loro, né tutti gli altri portavoce in parlamento che lavorano per l’esclusivo interesse dei cittadini. (…) Sia coerente, almeno per una volta e, come aveva annunciato di fare quest’estate, lasci il parlamento», ha fatto sapere in una nota il vicecapogruppo alla Camera Ricciardi.

«IN STATO CONFUSIONALE»

«#ParagoneShow è in stato confusionale. Dategli un programma Tv da condurre o un giornale da guidare, sarà in crisi d’astinenza da palcoscenico. Ha buone esperienze come guida del quotidiano La Padania e come vice-direttore di Libero», ha scritto in un post il presidente della commissione Cultura M5s Luigi Gallo.

«SE NON STA BENE SE NE VADA»

«Paragone può andare via se non si trova più bene nel M5s, ma sia chiaro: chi si dimette va a casa», ha detto il senatore M5 Gianluca Ferrara, lasciando la riunione con Beppe Grillo.

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Il sindacato dei giornalisti contro il governo: «Non distruggete l’Inpgi»

La Federazione nazionale stampa italiana si dice pronta allo sciopero contro il piano di pre-pensionamenti previsto in manovra: «Attacco del M5s. L'istituto previdenziale non può sostenere una nuova perdita».

La giunta esecutiva della Federazione nazionale stampa italiana «considera inaccettabile la decisione del governo, nella manovra di bilancio 2020, di permettere altre uscite anticipate dal mondo del lavoro senza la contestuale messa in sicurezza del bilancio dell’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani attraverso l’allargamento della platea degli iscritti a professioni affini a quella giornalistica». La Fnsi si è detta pronta a proclamare lo sciopero generale. Il motivo sono le risorse stanziate nella manovra appena passata al Senato per sostenere l’accesso anticipato alla pensione per i giornalisti professionisti iscritti all’Inpgi. Un emendamento ha garantito 7 milioni nel 2020 e 3 milioni l’anno dal 2021 al 2027. Nell’ambito di piani di ristrutturazione aziendale presentati dopo il 31 dicembre 2019, è prevista un’assunzione a tempo indeterminato ogni due prepensionamenti, di giovani sotto i 35 anni di età o di giornalisti che già collaborino con lo stesso gruppo.

PERDITA DI ISCRITTI SENZA L’ALLARGAMENTO DELLA PLATEA

«La situazione dell’Inpgi», ha detto la presidente dell’Inpgi Marina Macelloni, «è fortemente critica, con il rischio di avere un commissario. Noi stiamo chiedendo da molto tempo che ci sia consentito di allargare dal 2021 la platea degli iscritti facendo arrivare all’istituto figure non giornalistiche ma vicine, come i comunicatori o i lavoratori della rete. Questo non è ancora avvenuto, ma nello stesso tempo purtroppo il governo ha stanziato nuove risorse per i prepensionamenti». «Si tratta», ha rilevato, «di risorse importanti che comporteranno una nuova perdita di iscritti per l’istituto, e quindi di risorse. E l’istituto in questo momento non può sostenere questa nuova perdita di contribuenti senza avere un allargamento della platea». «Quindi», ha concluso, «noi insistiamo a chiedere questa possibilità, la legge dice che possiamo avere questa possibilità dal 2023, chiediamo che sia anticipata al 2021».

IL SOTTOSEGRETARIO: «RISOLVEREMO COL MILLEPROROGHE»

«Ho proposto di inserire, nell’ambito del dl milleproroghe, una norma orientata a rendere più rapido ed efficace il processo di risanamento dell’Inpgi», è stata la risposta del sottosegretario alla Presidenza con delega all’editoria Andrea Martella.

LA FNSI PUNTA IL DITO CONTRO IL M5S

Secondo la Federazione nazionale della stampa italiana, dietro alla misura ci sarebbero pressioni del M5s. «La parte più oltranzista del Movimento 5 Stelle cerca di sferrare l’ennesimo attacco al pluralismo dell’informazione e all’autonomia dell’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani», affermava l’11 dicembre in una nota Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi, «dopo aver escluso con una norma interpretativa ad hoc, inserita in un decreto del luglio scorso dall’allora sottosegretario Vito Crimi, la testata Italia Oggi dai contributi del fondo per il pluralismo dell’informazione, i parlamentari pentastellati si schierano adesso contro l’emendamento correttivo che riammetterebbe la testata ai contributi del fondo, incuranti del fatto che in caso contrario sarebbe costretta a chiudere e a licenziare 25 giornalisti. È un atteggiamento inaccettabile che richiede la reazione di tutte le forze politiche, a prescindere dagli schieramenti. Per questo è auspicabile che su questo tema, così come sugli emendamenti sulla messa in sicurezza e sull’autonomia dell’Inpgi, il governo si rimetta al voto dell’aula, esattamente com’è avvenuto nel recente passato per Radio Radicale».

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Perché crescono le tensioni extra calcio nel Clásico Barcellona-Real

Sentimento indipendentista della Catalogna contro la squadra del governo di Madrid. Da sempre, ma ancora di più ora dopo il referendum del 2017, gli arresti e le proteste di piazza che hanno fatto rinviare la partita a ottobre. Storia di una sfida mai normale.

La Spagna si ferma, col fiato sospeso, in uno strano mercoledì che non è di coppa come da abitudine, e nemmeno un turno infrasettimanale di campionato di quelli che vanno di moda negli ultimi anni. La Spagna si ferma, col fiato sospeso, per una partita che attende da 53 giorni. La partita. Il Clásico, nella sua versione più estrema e politicizzata di sempre, che doveva essere giocato il 26 ottobre ma saltò perché nella città catalana migliaia di persone protestavano contro il governo di Madrid.

LE SFIDE DI FUOCO NEL 2014 E NEL 2017

Un match ancora più delicato di quello del dicembre del 2017, poco dopo il referendum in Catalogna dichiarato illegale da Madrid, con i leader indipendentisti in carcere e il presidente Carles Puigdemont autoesiliato (o in fuga, a seconda dei punti di vista) in Belgio. Più di quello che si disputò il 26 ottobre del 2014, due settimane prima della consultazione simbolica convocata dal governo di Artur Mas dopo il no della Corte costituzionale a un referendum vero.

ALLERTA PER L’ORDINE PUBBLICO

Barcellona e Real Madrid arrivano alla sfida del Camp Nou appaiate in testa alla classifica della Liga, 35 punti ciascuna. Ma il calcio sembra passare del tutto in secondo piano. Dalla capitale temono per la tenuta dell’ordine pubblico e la sicurezza di giocatori, dirigenti e tifosi madridisti. Il movimento catalanista Tsunami Democrátic ha annunciato una mobilitazione. Si temono assalti al pullman del Real, a quello dell’arbitro, e invasioni di campo.

Contro l’Atletico, il Barça è tornato a indossare la maglia a strisce gialle e rosse che riprende i colori della senyera catalana

Il Camp Nou, secondo gli opinionisti dei quotidiani vicini al Madrid, è da anni rifugio per tutto ciò che è stato definito incostituzionale, di istanze indipendentiste e bandiere estreladas. Nella recente trasferta al Wanda Metropolitano contro l’Atletico, il Barça è tornato a indossare la maglia a strisce gialle e rosse che riprende i colori della senyera catalana.

Lionel Messi con la maglia “indipendentista” esibita contro l’Atletico Madrid. (Ansa)

MÉS QUE UN CLUB DAL 1968

Non può che essere così, il Barcellona è més que un club, più di un club, e lo è da ben prima che Narcís de Carreras pronunciasse, nel 1968, la frase che sarebbe finita stampata sulle maglie da gioco blaugrana e sugli spalti del Camp Nou. Il Barça ha scelto chiaramente da che parte stare un secolo fa, a 20 anni esatti dalla sua fondazione avvenuta nel 1899 a opera di un gruppo di commercianti stranieri trapiantati in Catalogna, e quella parte è quella del catalanismo indipendentista e repubblicano. È così dal 1919, quando l’allora presidente del club Ricard Graells organizzò la Diada (Festa nazionale) dell’11 settembre per commemorare il 205esimo anniversario della caduta di Barcellona nelle mani delle truppe borboniche di Filippo V di Spagna.

FISCHI ALL’INNO NAZIONALE SPAGNOLO

Ci sarebbero voluti soltanto altri sei anni perché si introducesse un nuovo rito catartico catalano e catalanista, quello dei fischi alla Marcha Real, l’inno nazionale spagnolo accompagnato dalla disapprovazione del pubblico blaugrana ogni volta che viene eseguito prima di una finale di Copa del Rey. Era il 24 giugno del 1925 e il Barça aveva organizzato nel campi di Les Corts una partita contro l’Fc Jupiter. Il generale Primo de Rivera aveva preso il potere in Spagna due anni prima, instaurando una dittatura militarista e di estrema destra.

VILIPENDIO ED ESPULSIONE DEL PRESIDENTE GAMPER

Ogni partita del Barcellona, già all’epoca, era vista come riunione sediziosa, e per questo aveva bisogno di un permesso speciale per essere giocata. Il nulla osta, quel giorno, arrivò in extremis, con il pubblico ammassato fuori dallo stadio in attesa di poter entrare. Quando l’orchestra della Marina militare britannica cominciò a suonare, i fischi dei tifosi del Barça coprirono le note della Marcha Real. Un vilipendio che il Barça avrebbe pagato con l’espulsione del presidente Gamper e la sospensione delle attività per sei mesi.

SOTTO I COLPI DELLA DITTATURA DI FRANCO

Il Barcellona aveva preso una strada che non avrebbe più abbandonato e che anzi si sarebbe rinforzata nei 39 anni di governo di Francisco Franco, sotto i colpi di un regime che cancellò le autonomie e la lingua catalana, imponendo il castigliano come unico idioma legale, cambiando il nome della società da Foot-Ball Club Barcelona in Club de Futbol Barcelona e rimuovendo dal suo stemma i riferimenti all’identità catalana. Un regime cui il Barcellona pagò un pegno salato con l’uccisione del suo presidente repubblicano e di sinistra Josep Sunyol i Garriga nell’agosto del 1936, vittima di un’imboscata falangista in piena Guerra civile.

MA LA VERA SQUADRA DEL REGIME È L’ATLETICO

Dall’altra parte il Madrid avrebbe iniziato a costruirsi la fama di club fascista per via della presenza sempre più frequente del Generalisimo sugli spalti del Chamartín e del Santiago Bernabéu poi. E poco importa se la realtà forse fu un po’ diversa, un po’ più sfumata, se il vero e autentico club del regime fu l’Atletico Madrid, squadra dell’aviazione, se persino un grande intellettuale come Javier Marías ha dedicato un pezzo importante della sua attività a cercare di raccontare e far emergere il lato repubblicano del Madrid.

LA “VISITA” FALANGISTA NELLO SPOGLIATOIO BLAUGRANA

Il mito, si sa, è più forte della storia. E quello del Barcellona antifascista contro il Real di Franco si alimentò ulteriormente di episodi e aneddoti eloquenti. Come quell’11-1 con cui il Real Madrid superò il Barça nel ritorno della semifinale di Copa del Generalisimo del 1943, un risultato che ribaltò il 3-0 dell’andata e – si narra – arrivò a seguito di una visita di poca cortesia da parte di un manipolo di bravi falangisti nello spogliatoio blaugrana.

Il Real Madrid. (Ansa)

UNA CONTESA DI MERCATO SU DI STEFANO

O come il caso di mercato che segnò gli Anni 50, col passaggio di Alfredo Di Stefano al Real Madrid al termine di una lunga querelle coi blaugrana, che ritenevano di aver acquisito i diritti del giocatore prima dei rivali. Un equivoco che in realtà sarebbe nato dalla particolare situazione contrattuale di Di Stefano, che giocava in Colombia coi Millonarios (con cui si accordò il Barcellona) ma era tesserato per il River Plate (col quale negoziò il Real), ma che in Catalogna viene ancora oggi addebitato alle ingerenze e preferenze calcistiche di Franco.

A PIEDI CONTRO I RINCARI DEI BIGLIETTI DEL TRAM

Negli Anni 70, mentre la dittatura andava a spegnersi con le condizioni di salute del Caudillo, Manuel Vázquez Montalbán coniò l’espressione “esercito disarmato della Catalogna” per descrivere il Barcellona. Lo stesso Barcellona i cui tifosi, nel 1951, tornarono a casa a piedi dopo una partita vinta contro il Santander, facendo chilometri sotto la pioggia battente, per non prendere i tram i cui biglietti avevano appena subito un forte rincaro per decisione del governo nazionale.

LAPORTA E IL RITORNO DEL SENTIMENTO CATALANO

Un ruolo che il Barça aveva rivestito, volente o nolente, nel corso della sua storia, e che sarebbe diventato di fatto inscindibile dai suoi colori, a prescindere dalle intenzioni e dai programmi dei suoi presidenti. Josep Lluìs Núñez, presidente per 22 anni tra il 1978 e il 2000, tentò di allontanare il club dalle influenze politiche indipendentiste e di sinistra, per trasformarlo semplicemente in una fortissima polisportiva. Ci riuscì, almeno in parte, diventando il presidente più vincente nella storia del Barcellona, ma fu travolto dal ritorno del sentimento catalano che portò nel 2003 all’elezione del suo grande oppositore Joan Laporta.

L’ORGOGLIO DI GUARDIOLA DOPO LA COPPA DEI CAMPIONI

Nei sette anni di Laporta il Barça è tornato a essere tutt’uno con la causa catalana, impersonata in campo da una squadra che aveva ritrovato nel suo settore giovanile la sua forza principale e nell’allenatore catalano e catalanista Pep Guardiola il suo alfiere. Nel 1992, quando da giocatore fu protagonista della prima Coppa dei Campioni vinta dal Barça, Guardiola si sporse dal balcone della Generalitat, la sede del sistema amministrativo-istituzionale del governo catalano, e disse: «Ciutadans de Catalunya, ja la tenim aquí» («Cittadini di Catalogna, finalmente l’abbiamo qui»). Non era una frase qualunque, ma una citazione dell’ex presidente catalano Josep Tarradellas, fuggito in Francia durante il franchismo. Tarradellas, che nel 1979 avrebbe messo la sua firma sull’Estatut che sanciva il ritorno dell’autonomia catalana, rientrando nel 1977 a Barcellona dopo un esilio lungo 38 anni, pronunciò dallo stesso balcone: «Ciutadans de Catalunya, ja sóc aquí» («Cittadini di Catalogna, sono finalmente qui»).

Pep Guardiola ai tempi in cui giocava col Barcellona. (Ansa)

BARTOMEU DECISAMENTE PIÙ TIEPIDO

Il clima non è cambiato nemmeno con la fine dell’era Laporta. Anzi, il precipitare della questione catalanista, coi due referendum già citati e una dichiarazione di indipendenza unilaterale, con l’incarceramento e la condanna dei leader indipendentisti e il commissariamento della Generalitat, ha finito per trascinare il club e la sua dirigenza sempre più dentro l’agone politico. Una posizione in cui, probabilmente, il presidente Josep Bartomeu, decisamente più tiepido di Laporta sulla causa indipendentista, avrebbe preferito non trovarsi, ma dalla quale non è potuto scappare. Quando nel 2014 fu convocato il primo referendum, contro il parere della Corte costituzionale, il Barça fu uno degli ultimi club ad appoggiare pubblicamente la causa, preceduto persino dai rivali cittadini che portano gli aggettivi Real ed Espanyol nel loro nome e che tradizionalmente sono identificati con la parte fedele alla monarchia della metropoli. Eppure il Barcellona è ancora lì, a rappresentare l’esercito disarmato della Catalogna, così come Vázquez de Montalbán l’aveva dipinto quasi mezzo secolo fa. Portatore di un’identità diventata più grande di ogni altra cosa, persino dei trofei vinti e dei reali programmi di chi lo dirige. Tutt’uno con la causa catalana e nemico di Madrid. Non solo sul campo.

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«Ho contratto l’Hiv in laboratorio»: studentessa fa causa a due atenei

Un'ex allieva ha denunciato un'università del Veneto e una straniera sostenendo di aver preso il virus mentre faceva esperimenti per la tesi di laurea.

Manipola alcuni ‘pezzi‘ di Hiv mentre prepara la tesi di laurea nel laboratorio di un’università straniera, e pochi mesi dopo scopre di aver contratto il virus. La vittima è un’ex studentessa, poi laureatasi in un’Università del Veneto. Ora – riporta il sito del Corriere – ha fatto causa a entrambi gli atenei, quello italiano di partenza e quello ospitante, chiedendo al Tribunale di Padova (competente per l’ateneo italiano) un risarcimento milionario. L’episodio risale a sette anni fa.

IL TIPO DI HIV IN QUESTIONE NON CIRCOLA TRA LA POPOLAZIONE

Un episodio, ha raccontato lei stessa, che le ha distrutto la vita. Ora la donna, assistita dall’avvocato Antonio Serpetti, del foro di Milano, si è sostanzialmente costruita una vita “parallela”, nascondendo la sua condizione alla maggior parte delle persone con cui entra in contatto. Stando alla sequenza genetica della perizia di parte, il virus che l’ha colpita non circola tra la popolazione, ma corrisponde a quelli costruiti in laboratorio. Quindi il contagio potrebbe essere avvenuto proprio durante l’attività di ricerca. La vicenda giudiziaria è nelle fasi preliminari, anche se i giudici hanno già fissato la prima udienza; per l’avvocato Serpetti, l’Hiv da laboratorio «è curabile ma con più difficoltà, perché i farmaci disponibili sono stati sviluppati sui virus circolanti».

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Il nazionalismo di Modi sta trascinando l’India nel caos

Una legge discriminatoria nei confronti della minoranza musulmana ha fatto esplodere violente proteste in tutto il Paese. Con il suo continuo favorire la maggioranza Indu, il premier rischia di riportare il subcontinente al 1947.

Altissima tensione in India, dove le proteste contro la nuova legge sulla cittadinanza voluta dal premier Narendra Modi, discriminatoria nei confronti dei musulmani (nel subcontinente sono 200 milioni), ha innescato duri scontri. Con un bilancio di almeno sei morti, centinaia di feriti e di arresti in cinque giorni, soprattutto nello stato nordorientale dell’Assam. La legge, il Citizens Amendment Act, prevede un percorso strutturato per concedere la cittadinanza ai migranti Indu, Sikh, Parsi, Buddhisti e Cristiani, escludendo solo quelli di religione islamica.

Il governo si è giustificato dicendo che l’intenzione è quella di tutelare le minoranze storicamente più discriminate, ma la ratio della legge è quella di regolarizzare milioni di Indu immigrati dal Bangladesh e contemporaneamente avere carta bianca per poter espellere i musulmani irregolari. Il focolaio del malcontento che nel weekend ha visto gli studenti contrapporsi con la polizia nel campus Jamia Millia Islamia di Delhi, si è esteso a tutto il Paese. Con l’opposizione a fare da sponda ai manifestanti. La leader del Bengala occidentale, Mamata Banerjee è scesa in strada a Calcutta alla testa di un massiccio corteo mentre Priyanka e Sonia Gandhi, si sono sedute sotto l’India Gate in un sit-in pacifico. Il portavoce delle opposizioni in parlamento, Ghulam Nabi Azad, ha detto che non solo il suo partito, il Congresso, ma tutte le opposizioni sono unite nella condanna alle azioni della polizia.

IL NAZIONALISMO DEL PREMIER MODI

La norma voluta dal premier, rieletto a larga maggioranza a maggio del 2019, è l’ultima di una serie di misure nazionalistiche che gli hanno permesso di ottenere i voti della grande maggioranza degli Indu. Una strategia che ha pagato in termini elettorali, ma che sta riaprendo la ferita della guerra civile tra Indu e musulmani scoppiata dopo la partizione del 1947.

L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA ALLA JAMIA MILLIA ISLAMIA

L’intrusione violenta della polizia nel campus della Jamia Millia Islamia, ha visto gli agenti lanciare lacrimogeni, picchiare coi manganelli studenti e studentesse, insultare le ragazze barricate nei bagni, dove era stata fatta saltare la luce, e devastare una biblioteca e una sala adibita a moschea. Almeno un centinaio di feriti sono stati ricoverati negli ospedali, qualcuno anche ferito da pallottole, mentre una cinquantina di arrestati non hanno potuto incontrare per ore i legali e gli attivisti dei diritti civili. Fondata nel 1931 la Jamia è una delle università più prestigiose del Paese. L’irruzione, documentata da video rilanciati immediatamente sui social, è stata uno choc per il campus, con il vice rettore che ha denunciato la polizia, e per l’India intera. Se non è chiara la dinamica dell’accaduto, che verrà discussa alla Corte suprema, è chiaro l’intento della polizia di reprimere la protesta a tutti i costi.

LE PROTESTE SI DIFFONDONO A MACCHIA D’OLIO

La domenica nera della Jamia ha acceso un fuoco che si è allargato alle università di tutto il Paese: mentre i 50 fermati venivano liberati, decine di migliaia di altri studenti sono scesi in strada dall’Iis di Bengaluru, ai due principali istituti di Mumbai, il Tiss e la Bombay University, ai college di Chennai, Madurai, Pondicherry, in Tamil Nadu, a Hyderabad, all’Università gemella della Jamia, in Uttar Pradesh. Il premier Modi ha cercato di placare gli animi con un tweet in cui dice che nessun indiano sarà toccato dalla nuova legge «che riguarda solo i rifugiati perseguitati per motivi religiosi».

Ma gli studenti che contestano la cittadinanza basata sull’appartenenza religiosa con l’esclusione dei musulmani, e gli indiani del Nord Est (dell’Assam, Tripura e Meghalaya, che si sentono minacciati nelle loro identità dagli immigrati dal Bangladesh), non la pensano come lui. I più delusi dal premier e dal governo nell’Asam dove continuano le manifestazioni e regna il coprifuoco, con il governo che ha inviato alcune migliaia di agenti di sicurezza ed ha sospeso internet fino a domani, creando un “Kashmir dell’Est“.

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Tutti i guai di Lannutti, il candidato grillino alla commissione banche

I post antisemiti e complottisti, il figlio assunto alla Popolare di Bari: perché Lannutti è diventato un impresentabile per la commissione banche.

Come la volpe e l’uva, adesso che il suo nome è di fatto impresentabile, dice che lui alla Commissione banche nemmeno ci voleva andare. E però è stato solo il 17 dicembre quando è emerso che il figlio era stato assunto dalla popolare di Bari, che Elio Lannutti, il senatore M5s paladino dei consumatori divenuto noto per post antisemiti e complottisti, ha spiegato che non ambiva all’incarico. Ma, contemporaneamente, che non ha nessuna intenzione di farsi da parte.

LEGGI ANCHE: Chi è Lannutti, il senatore dei post sui savi di Sion

«FACEVO IL TIFO PER PARAGONE»

«Alla commissione banche io non mi volevo neppure candidare: me lo hanno chiesto, io facevo il tifo per Paragone! Ma poi, con le procedure del M5S, mi hanno scelto. Dunque io sono il candidato del M5S e confermo che non farò nessun passo indietro», ha dichiarato spiegando che «chi spacca non sono io ma chi non voterà la mia persona».

Il senatore Elio Lannutti durante un dibattito parlmentare a Palazzo Madama. ANSA/ANGELO CARCONI

DI PIETRO A FARGLI DA AVVOCATO

«Non mi ritiro dalla corsa alla presidenza della commissione banche. Fin quando non mi chiederanno di lasciare io sono il candidato», ha ribadito Lannutti, dopo la notizia che suo figlio Alessio lavora alla Banca Popolare di Bari. «Io non ho mai voluto denunciare nessun collega, ma ora ho affidato la tutela del mio onore ad Antonio Di Pietro e ad Antonio Tanza, presidente dell’Adusbef», ha spiegato. «Cosa significa che mio figlio lavora in banca? Dov’è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!», ha detto dopo aver incontrato a Roma sia il fondatore del Movimento Cinque stelle Beppe Grillo che l’ex leader di Italia dei valori Antonio Di Pietro.

Antonio Di Pietro e Elio Lannutti escono dall’hotel Forum, dopo aver incontrato Beppe Grillo, Roma 17 dicembre 2019. ANSA / ALESSANDRO DI MEO

«QUESTA È MACCHINA DEL FANGO»

Questa si chiama macchina del fango, Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato”. Lei si deve occupare di banche quando suo figlio lavora alla Popolare di Bari: non c’è conflitto di interessi? “Ma lui lavora come impiegato”. Lei potrebbe avere un occhio di favore nei confronti della popolare di Bari anche per il fatto che suo figlio lavora come impiegato. “E dov’è il conflitto di interessi? Non esiste, è l’ennesima macchina del fango. Con grande rammarico ma ora ci saranno denunce penali e civili nei confronti di colleghi per questa campagna diffamatoria»”, conclude

MORANI: «SI RITIRI E CI TOLGA DALL’IMBARAZZO»

Contro la sua candidatura si erano espressi sia esponenti di ItaliaViva come Luigi Marattin che del Partito democratico Alessia Morani. «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo», ha dichiarato pubblicamente l’esponente dem.

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Le accuse degli inquirenti romani agli apparati egiziani per la morte di Regeni

Il Pm Colaiocco, ascoltato dalla commissione d'inchiesta che indaga sulla morte del ricercatore, ha spiegato che le persone che circondavano il giovane friulano lavoravano per i servizi segreti de Il Cairo.

«Intorno a Giulio Regeni è stata stretta una ragnatela dalla National security egiziana già dall’ottobre prima del rapimento e omicidio. Una ragnatela in cui gli apparati si sono serviti delle persone più vicine a Giulio al Cairo tra cui il suo coinquilino avvocato, il sindacalista degli ambulanti e Noura Whaby, la sua amica che lo aiutava nelle traduzioni». È la ricostruzione del il pm Sergio Colaiocco ascoltato, assieme al procuratore Michele Prestipino, davanti alla commissione d inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. «Una ragnatela», ha spiegato Colaiocco, «che si è stretta sempre di più è in cui Giulio è finito al centro. Secondo quanto accertato Noura passava le informazioni sull’attività e gli spostamenti di Giulio ad un operatore turistico che a sua volta riferiva alla National Security».

PRESTIPINO: «AVANTI CON DETERMINAZIONE»

Nel corso dell’audizione è intervenuto anche Michele Prestipino, procuratore facente funzioni di Roma che ha spiegato come «l’eccezionalità di questo caso risiede in primo luogo nel fatto che si tratta di un cittadino italiano sequestrato, torturato e assassinato in un territorio estero. Una eccezionalità testimoniata dalle scelte compiute dal nostro ufficio, che ha avuto sin dal principio piena consapevolezza della gravità dei fatti. La Procura continuerà con determinazione a compiere tutte le attività per continuare ad acquisire elementi di prova per accertare quanto accaduto».

RICOSTRUITI GLI ULTIMI GIORNI DEL RICERCATORE

«C’e’ una difficoltà», ha aggiunto Prestipino, «nel coordinare la nostra attività giudiziaria con l’iniziativa giudiziaria dell’Egitto anche perché tra i due Paesi non ci sono accordi di cooperazione giudiziaria. Nonostante tutte queste difficoltà posso affermare che abbiamo raggiunto fin qui risultati estremamente positivi. Siamo riusciti grazie alla straordinaria capacità dei nostri reparti investigativi, Sco e Ros, a ricostruire il perimetro di quanto accaduto in quel lasso temporale». Prestipino ha spiegato che «siamo riusciti a ricostruire il contesto dell’omicidio, i giorni precedenti al sequestro, l’attività degli apparati egiziani nei confronti di Giulio culminata col sequestro, riuscendo a sgomberare il campo da ipotesi fantasiose sul sequestro, dall’attività spionistica alla rapina. Ipotesi», ha spiegato, «messe definitivamente da parte. Abbiamo individuato soggetti indiziati che per questo sono stati iscritti nel registro degli indagati».

LA FAMIGLIA: «GRAZIE PER LA LOTTA AI DEPISTAGGI»

«In questi anni abbiamo dovuto lottare contro violenze, depistaggi, omertà, prese in giro e tradimenti. Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in questi quattro anni in sinergia con noi e la nostra legale. Se oggi abbiamo i nomi di alcuni dei responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio e se alcuni di quei nomi sono iscritti nel registro degli indagati lo dobbiamo a loro», è stato il commento di Claudio e Paola Regeni, genitori di Giulio, dopo la prima riunione della commissione d’inchiesta.

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Papa Francesco abolisce il segreto pontificio sui casi di pedofilia

Denunce , processi e decisioni potranno essere rese pubbliche. E il reato di pedopornografia viene esteso alle vittime fino a 18 anni.

Papa Francesco ha abolito il “segreto pontificio” sui casi di abusi sessuali commessi da chierici sui minori. È l’effetto del Rescriptum ex audientia pubblicato il 17 dicembre con cui si promulga un’istruzione «Sulla riservatezza delle cause». All’articolo 1 si prevede infatti che «non sono coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti» in materia di abusi su minori, di cui nel Motu proprio «Vos estis lux mund» e nelle norme «de gravioribus delicti».

REATO DI PEDOPORNOGRAFIA FINO A 18 ANNI

Bergoglio ha anche stabilito che il reato di pedopornografia sussista fino a quando i soggetti ripresi nelle immagini hanno l’età di 18 anni e non solo 14 com’era finora. L’altra modifica riguarda l’abolizione della norma secondo cui il ruolo di avvocato e procuratore, nelle cause per abusi in sede di tribunali diocesani e Dottrina della fede, doveva essere adempiuto da un sacerdote. Ora potrà essere un laico.

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Denunce , processi e decisioni potranno essere rese pubbliche. E il reato di pedopornografia viene esteso alle vittime fino a 18 anni.

Papa Francesco ha abolito il “segreto pontificio” sui casi di abusi sessuali commessi da chierici sui minori. È l’effetto del Rescriptum ex audientia pubblicato il 17 dicembre con cui si promulga un’istruzione «Sulla riservatezza delle cause». All’articolo 1 si prevede infatti che «non sono coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti» in materia di abusi su minori, di cui nel Motu proprio «Vos estis lux mund» e nelle norme «de gravioribus delicti».

REATO DI PEDOPORNOGRAFIA FINO A 18 ANNI

Bergoglio ha anche stabilito che il reato di pedopornografia sussista fino a quando i soggetti ripresi nelle immagini hanno l’età di 18 anni e non solo 14 com’era finora. L’altra modifica riguarda l’abolizione della norma secondo cui il ruolo di avvocato e procuratore, nelle cause per abusi in sede di tribunali diocesani e Dottrina della fede, doveva essere adempiuto da un sacerdote. Ora potrà essere un laico.

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Cosa dicono gli audio tra i vertici della Banca popolare di Bari

Fanpage.it ha pubblicato i nastri di una riunione tra manager in cui si sentono il presidente Giannelli e dell'ad De Bustis parlare della Popolare di Bari sui conti «taroccati» e l'aiuto di Bankitalia.

«Quando sono arrivato la prima volta c’era un signore coi capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati. Truccavate persino i conti economici delle filiali. Taroccati». Le parole sono quelle di Vincenzo De Bustis, ad della Popolare di Bari che si rivolgeva a Gianvito Giannelli, presidente, in una riunione del 10 dicembre scorso. La conversazione è contenuta in un file audio pubblicato da Fanpage.it. «È stato veramente irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di cattivo management, irresponsabile, esaltato».

GIANNELLI: «ABBIAMO IL SOSTEGNO DI GOVERNO E BANKITALIA»

Nella registrazione si sente anche l’intervento di Giannelli, in particolare per quanto riguarda il salvataggio: «Non c’è rischio di commissariamento. C’è un piano industriale serio che prevede gli interventi di investitori istituzionali, una parte pubblica e una parte privata, cioè il Fondo interbancario, con un percorso light, non stiamo parlando di Genova, passata per il commissariamento, e meno che mai delle banche venete». «Abbiamo iniziato un percorso di messa in sicurezza della banca, un percorso ufficiale che è assistito dalla vigilanza in tutti i suoi passaggi. Sarà un percorso molto breve per i primi passaggi che si chiuderà prima di Natale», assicurava Giannelli.

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Cosa dicono gli audio tra i vertici della Banca popolare di Bari

Fanpage.it ha pubblicato i nastri di una riunione tra manager in cui si sentono il presidente Giannelli e dell'ad De Bustis parlare della Popolare di Bari sui conti «taroccati» e l'aiuto di Bankitalia.

«Quando sono arrivato la prima volta c’era un signore coi capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati. Truccavate persino i conti economici delle filiali. Taroccati». Le parole sono quelle di Vincenzo De Bustis, ad della Popolare di Bari che si rivolgeva a Gianvito Giannelli, presidente, in una riunione del 10 dicembre scorso. La conversazione è contenuta in un file audio pubblicato da Fanpage.it. «È stato veramente irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di cattivo management, irresponsabile, esaltato».

GIANNELLI: «ABBIAMO IL SOSTEGNO DI GOVERNO E BANKITALIA»

Nella registrazione si sente anche l’intervento di Giannelli, in particolare per quanto riguarda il salvataggio: «Non c’è rischio di commissariamento. C’è un piano industriale serio che prevede gli interventi di investitori istituzionali, una parte pubblica e una parte privata, cioè il Fondo interbancario, con un percorso light, non stiamo parlando di Genova, passata per il commissariamento, e meno che mai delle banche venete». «Abbiamo iniziato un percorso di messa in sicurezza della banca, un percorso ufficiale che è assistito dalla vigilanza in tutti i suoi passaggi. Sarà un percorso molto breve per i primi passaggi che si chiuderà prima di Natale», assicurava Giannelli.

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Doping, Iannone sospeso per steroidi anabolizzanti

Il pilota di Vasto è risultato positivo al test effettuato in occasione del Gran Premio di Malesia dello scorso 3 novembre. Potrà chiedere le controanalisi.

Il pilota di Motogp Andrea Iannone è stato sospeso dalla Federazione internazionale di motociclismo perché risultato positivo a un controllo antidoping. In un campione delle sue urine sono state trovate tracce di steroidi anabolizzanti.

IL TEST EFFETTUATO NEL CORSO DEL GP DI MALESIA

La decisione di sospendere provvisoriamente Iannone – si legge sul sito della Fmi – «si è resa obbligatoria a seguito della ricezione di un rapporto del laboratorio accreditato Wada di Kreischa (Germania) che indica un risultato analitico avverso di una sostanza non specificata ai sensi della Sezione 1.1.a) Steroidi androgeni anabolizzanti esogen dell’elenco vietato del 2019», in un campione di urina durante un test effettuato in occasione del MotoGp di Malesia a Sepang, il 3 novembre 2019. Ora Iannone potrà chiedere le controanalisi.

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In Francia nuova giornata di proteste contro la riforma delle pensioni

Alta tensione a Parigi, dov'è prevista la presenza di 70 mila persone nel corteo. Si temono gilet gialli e black bloc. Code per 300 chilometri intorno alla capitale.

La Francia si appresta a vivere un’altra giornata all’insegna del caos. Martedì 17 dicembre è infatti in programma intanto una nuova manifestazione contro la riforma delle pensioni varata dal presidente Emmanuel Macron, la quarta se si conta anche quella praticamente passata inosservata di giovedì 12. Di fatto si tratta del terzo appuntamento, col quale il sindacato punta per mostrare i muscoli alla vigilia della possibile apertura di un tavolo cruciale. Con Laurent Berger, il leader della sigla riformista Cfdt apertamente contrario allo sciopero aoltranza durante le feste.

CODE DI 300 CHILOMETRI ATTORNO ALLA CAPITALE

Per ora sono 300 i chilometri coda nell’area che circonda Parigi. Come riporta l’emittente Bfm tv, l’accesso alla capitale è particolarmente complicato con ingorghi e rallentamenti sulla tangenziale e anche verso gli aeroporti. Nella manifestazione prevista nella capitale, dalle 13.30, sono attesi tra i 400 e 600 ‘disturbatori’. Le autorità temono la presenza di elementi radicali dei gilet gialli e di estrema sinistra, con la prefettura prevede la presenza di oltre 70 mila manifestanti.

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Cosa c’è dietro allo stop della produzione di 737 Max da parte di Boeing

Il colosso americano ha deciso di bloccare tutto da gennaio 2020. Pesano le mancate autorizzazioni al volo dopo gli incidenti della Lion Air e Ethiopian Airlines. E il titolo crolla in borsa.

Nuova grana per Boeing. I tempi per il ritorno in volo del 737 Max si allungano e costringono il colosso dell’aviazione a una sospensione della produzione del velivolo, a terra da mesi dopo due incidenti mortali che hanno causato 346 vittime. Non è chiaro quanto durerà lo stop: l’unica certezza è che scatterà in gennaio 2020.

AEREI PRODOTTI ANCHE DOPO LO STOP DELLE AUTORITÀ MODNIALI

L’annuncio ha affondato i titoli Boeing che, in una giornata record per Wall Street, sono arrivati a perdere l’1% nelle contrattazioni after hours dopo aver chiuso la seduta in calo del 4,92%. Al momento lo stop non si tradurrà in alcun taglio della forza lavoro. «Il ritorno in servizio del 737 Max in sicurezza resta la nostra priorità», ha affermato la società in una nota. Lo stop temporaneo segue il taglio di un quinto della produzione deciso lo scorso aprile. Boeing ha continuato a produrre 40 aerei 737 Max al mese da marzo, quando le autorità mondiali hanno deciso la messa a terra del velivolo. Ora però la società è costretta a una mossa più estrema in seguito all’incertezza per un ritorno nei cieli del velivolo.

INCERTI I TEMPI PER UN RITORNO AL VOLO

Inizialmente la messa a terra del velivolo sembrava essere destinata a durare un periodo limitato. Ma è da marzo che il 737 Max non vola, e non è chiaro quando e se potrà tornare a volare. Di sicuro, secondo le indicazioni delle autorità americane, nessuna certificazione sarà rilasciata prima degli inizi del 2020. Potrebbe essere gennaio o febbraio. American Airlines non prevede un ritorno in volo prima di marzo. La Federal Administration Aviation non si sbilancia sui tempi, consapevole che la posta in gioco è alta: l’agenzia federale è stata travolta dalla critiche per il 737 Max e per il processo di certificazione attuato. E le rilevazioni delle ultime settimane hanno complicato ulteriormente la posizione della Faa. Secondo indiscrezioni, l’agenzia sapeva già dopo il primo incidente della Lion Air che l’aereo era a rischio ma nonostante questo non è intervenuta. E non lo ha fatto fino all’incidente dell’Ethiopian Airlines.

GLI EFFETTI DELLO STOP SUI CONTI DI BOEING

Per Boeing una sospensione della produzione rappresenta un duro colpo a uno dei suoi modelli di punta: sono 383 i 737 Max a terra da marzo e sono 400 quelli pronti per la consegna ma che sono stati bloccati. E di un colpo costoso: la società ha già visto calare il proprio utile di 5,6 miliardi di dollari per compensare i clienti e ha previsto ulteriori 3,6 miliardi di dollari di costi per il programma 737. La sospensione della produzione potrebbe aumentare la pressione sull’amministratore delegato, Dennis Muilenburg, al quale è già stato strappato il titolo di presidente. Ma lo stop preoccupa anche l’economia americana per la quale Boeing, il maggiore esportatore manifatturiero statunitense, e la sua produzione rappresentano un motore importante. L’incapacità di Boeing di consegnare i velivoli da marzo ha già avuto ripercussioni negative sul deficit commerciale americano.

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Confindustria, a Sud non regge il patto della sfogliatella

Sfuma l'accordo per sostenere Bonomi. Colpa della fuga in avanti del presidente partenopeo Grassi. Così si è sbriciolata l'unità d'intenti degli industriali del Mezzogiorno.

È durato poco l’accordo di unità delle Confindustrie del Sud per sostenere Carlo Bonomi e, come sta avvenendo per le territoriali lombarde, ci si avvia in ordine sparso al confronto per la designazione del nuovo presidente di Confindustria. Ma facciamo un passo indietro. Al Mezzogiorno spetta di diritto un posto nella squadra del presidente, frutto dell’alternanza Nord/Sud prevista dalla riforma Pesenti. Nell’ultimo quadriennio nella squadra di Vincenzo Boccia era stato designato per il Nord il presidente di Bolzano, Stefan Pan. Nel prossimo mandato toccherà dunque a un presidente di una territoriale del Sud.

L’OK A BONOMI IN CAMBIO DI DUE POSIZIONI DI VERTICE

Un paio di mesi fa ci fu il “patto della sfogliatella“. Tutti i presidenti delle territoriali meridionali si ripromisero unità nella corsa al successore di Boccia, promettendo di avere un occhio benevolo verso il lombardo Bonomi, in cambio di due posizioni di vertice, quella di diritto e quella frutto dello scambio per portare compatti i voti del Sud. L’importante è stare uniti e non fare fughe in avanti, si dissero convinti. Strette di mano, pacche sulle spalle e tutti tornarono nelle proprie territoriali. Ma come spesso sanno i cultori delle materie confindustriali, spesso queste intese durano lo spazio di un mattino.

LA FUGA IN AVANTI DI NAPOLI

Passata qualche settimana, la prima a smarcarsi è stata Napoli: il posto di diritto spetta a noi, ha detto all’orecchio di Bonomi il presidente partenopeo Vito Grassi, che tra l’altro si è fatto votare dai suoi iscritti una proroga per non arrivare scaduto al maggio prossimo quando si incoronerà il nuovo leader degli imprenditori italiani. È allora che pugliesi, calabresi, siciliani e tutti gli altri del patto della sfogliatella sono insorti. Ma come, hanno obiettato irritati, noi ci impegniamo a essere uniti e Grassi negozia per conto suo con Bonomi?

Dal Sud sussurrano che a mettere pepe nel sistema ci si sia messo anche il past president D’Amato che ha fatto filtrare la disponibilità di Illy a scendere in campo

Risultato? Si è sbriciolata l’unità di intenti del Sud con grande scorno del presidente di Assolombarda e con il sorriso degli altri contendenti, il bresciano Giuseppe Pasini, il re del legno emiliano Emanuele Orsini, e l’industriale orafa torinese Licia Mattioli. E dal Sud sussurrano che a mettere pepe nel sistema ci si sia messo anche il past president Antonio D’Amato che ha fatto filtrare la disponibilità del triestino Andrea Illy (il più importante cliente della sua società, la Seda) a scendere in campo nella corsa alla presidenza di Confindustria.

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Come può cambiare la governance di Atlantia

In arrivo due Ceo, uno dei quali concentrato sulle attività estere. Vendita di una quota di Aeroporti di Roma. E futuro da scrivere per Mion. le indiscrezioni del Sole 24 Ore.

Un processo di rafforzamento della governance di Atlantia, con l’arrivo di due Ceo, uno dei quali focalizzato sulle attività estere. E poi l’avvio della procedura per la vendita di una quota di Aeroporti di Roma, fino al 49%, insieme a un percorso per la valorizzazione di un pacchetto di Telepass, anche in questo caso rilevante. Sarebbe questa, secondo quanto riportaIl Sole 24 Ore, la strategia messa a punto dalla famiglia Benetton che ha tenuto a Treviso un Consiglio d’amministrazione di Edizione e che si prepara a riscrivere la governance di Atlantia guardando anche ai mercati esteri.

LA POSSIBILE USCITA DI SCENA DI MION

L’articolo racconta che per la famiglia Benetton il prossimo anno rappresenta sotto diversi aspetti un banco di prova e ipotizza anche che, finito il mandato la prossima estate, il presidente di Edizione, Gianni Mion, decida di uscire di scena, con una scelta che sarà definita in prossimità del passaggio di consegne. La famiglia Benetton, invece, «seppure in un sistema che resterà collegiale, dovrà decidere un rappresentante interno che possa sostituire lo storico braccio destro di Gilberto Benetton. Improbabile l’innesto di un manager esterno». È evidente che su Atlantia potranno pesare le decisioni che il governo prenderà sulle concessioni di Autostrade per l’Italia ma gli azionisti si starebbero preparando a riscrivere – riporta Il Sole 24 Ore – governance e struttura di controllo di Atlantia ma anche a rivederne ruolo e obiettivi in termini di investimenti attuali e futuri.

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Eni, al Muse tornano a splendere le casette per l’economia circolare

La multinazionale ha siglato una partnership con il museo trentino per un programma di attività al fine di responsabilizzare i cittadini. A partire da Circular evolutions, installazione visitabile fino a marzo 2020.

Efficienza energetica, meno sprechi e tecnologie innovative. C’è questo alla base del concetto di economia circolare. E questi intendimenti sono l’anima di “Circular Evolutions”, l’installazione di Eni gas e luce che dopo essere stata all’Orto Botanico di Milano, al Fuorisalone 2018 e a Videocittà a Roma, adesso sbarca al MUSE. Il museo delle scienze di Trento, infatti, ha siglato un accordo di collaborazione con Eni, che ha acquisito la qualifica di “Circular Partner”, all’interno di un articolato programma di attività. La prima declinazione di questa collaborazione è appunto “Circular Evolutions”, che ha inaugurato lo scorso 12 dicembre e sarà visitabile nel giardino del MUSE fino a marzo 2020.

UN’INSTALLAZIONE DI 405 CASETTE

Circular Evolutions, frutto di una più ampia collaborazione tra Eni e MUSE sul tema dell’economia circolare, è un’installazione diffusa formata da 405 casette – realizzata da Eni ed Eni gas e luce e ideata dallo studio internazionale di architettura Mario Cucinella Architects in collaborazione con SOS – School of Sustainability – recuperando e rilanciando, in modo circolare, nel nuovo allestimento di Trento, le casette utilizzate in occasione del FuoriSalone 2018. Protagonista dell’installazione è la casa, intesa come luogo di protezione ma anche crescita ed educazione delle persone. Ogni casa rappresenta, infatti, un laboratorio continuo di scelte che possono contribuire ad aumentare la consapevolezza energetica.

L’OBIETTIVO È RESPONSABILIZZARE I CITTADINI

Metafora dell’evoluzione circolare delle risorse, Circular Evolutions parte quindi dal micro – dall’azione virtuosa del singolo all’interno della propria casa e nei confronti dell’ambiente – e arriva al macro, dove genera effetti positivi creando nuove sinergie con le aziende per le città, i territori, le risorse idriche, forestali e agricole. L’individuo, consapevole e responsabilizzato, diventa quindi il principale attore del cambiamento, mentre la città si trasforma in un vero e proprio ecosistema formato da differenti livelli di comunicazione e da un ritrovato rapporto simbiotico con gli elementi naturali che la circondano. Nasce così uno scenario dove i concetti dell’economia circolare vengono applicati dalle persone, nei loro gesti quotidiani, e dalle aziende, nelle loro strategie, dando così impulso a un nuovo sistema di sviluppo e crescita sostenibile.

UN PALINSESTO DI INCONTRI SULL’ECONOMIA CIRCOLARE

Nell’ambito della collaborazione con Eni, il MUSE sta realizzando alcuni contenuti per il portale web EniScuola, sempre dedicati al tema dell’economia circolare e specialmente inerenti ai rifiuti come risorsa, al ciclo di vita della plastica, ai Repair Café per imparare a riparare e riutilizzare e sta ideando un laboratorio-gioco “Chi vuol essere sostenibile”, erogato nelle scuole primarie coinvolte dal progetto Circular School di Eni, incentrato sulle dinamiche di cooperazione tra i ragazzi e supportato da un videotutorial di approfondimento per i docenti. La collaborazione tra MUSE e Eni prevede, per il prossimo anno, un palinsesto di incontri e appuntamenti sui principi dell’economia circolare e delle relative aree di sviluppo, con un format di dialogo a più voci, allo scopo di ispirare e innescare la presa di coscienza della responsabilità personale nel “fare la differenza” tutti insieme.

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Le cose da sapere in vista del viaggio di Luigi Di Maio in Libia

Il ministro degli Esteri arriva in un Paese dilaniato dalla guerra. Previsti bilaterali con Serraj e Haftar. E sul terreno si muovono anche Turchia e Libia. Lo scenario.

Il ministro degli Esteri Luigi di Maio è in Libia. A quanto si apprende, il titolare della Farnesina è atterrato nella mattinata del 17 dicembre a Tripoli dove vedrà Fayez al Sarraj, il vicepresidente del consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro degli Affari esteri Mohamed Siala e il ministro degli Interni Fathi Bashaga. Subito dopo si sposterà a Bengasi per incontrare Khalifa Haftar. Infine Tobruk, per vedere il presidente della Camera dei rappresentanti Aghila Saleh. Al centro dei colloqui il conflitto in corso, la conferenza di Berlino, il memorandum e altri temi centrali. L’ultima visita di un esponente di governo italiano in Libia fu quella del presidente del Consiglio il 23 dicembre dell’anno scorso, quando Conte si recò prima a Tripoli e poi a Bengasi.

UN CONTESTO DI GUERRA PERMANENTE

Sul terreno la tensione è alle stelle: per ore si sono rincorse indiscrezioni da fonti vicine ad Haftar, rilanciate anche dalla tv panaraba Al Arabiya ma non confermate, di un attentato a colpi di arma da fuoco contro il ministro dell’Interno libico Fathi Bashagha nella notte a Misurata, poi fotografato in mattinata sotto l’ombrellone di un caffè di Tripoli. La città a est della capitale, detta ‘la Sparta di Libia’ per la sua potenza militare che garantisce quasi la metà (7.500) dei miliziani impegnati nella difesa di Tripoli, ha annunciato «la dichiarazione dello Stato d’emergenza generale» e la volontà di mobilitare «tutte le proprie capacità» a sostegno di Sarraj e contro «il totalitarismo» incarnato da Haftar.

LA TENUTA DI MISURATA E L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA

Il sostegno di Misurata è la spiegazione più diffusa all’incapacità di Haftar di prendere Tripoli anche dopo aver annunciato, all’inizio di dicembre, lo scoccare dell’ “ora zero” della battaglia decisiva. In un conflitto già trasformatosi in una guerra per procura con l’impiego semi-segreto di forze di altri Stati, la possibilità di un coinvolgimento diretto turco si è fatta ancora più concreta con l’approvazione – da parte della Commissione Esteri del Parlamento di Ankara – della parte sulla “cooperazione militare” del memorandum d’intesa siglato a fine novembre dal presidente Recep Tayyip Erdogan con Sarraj. L’altro accordo invece, quello che stabilisce la controversa demarcazione dei confini marittimi tra i due Paesi, è già stato approvato dal Parlamento turco.

ANCHE L’EGITTO PRONTO A INTERVENIRE

In questo quadro il governo Sarraj ha dichiarato di considerare una «minaccia» di voler intervenire in Libia le frasi pronunciate domenica da Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano ha detto che l’Egitto «sarebbe dovuto intervenire direttamente in Libia» e che è «in grado di farlo», pur aggiungendo di «non averlo fatto perché il popolo libico non dimenticherebbe mai un intervento». Ancora prima della missione di Di Maio, la diplomazia internazionale si era mossa con una telefonata fra il presidente russo Vladimir Putin e la cancelliera tedesca Angela Merkel che hanno «sottolineato l’importanza di evitare un’ulteriore escalation» in Libia. «Solidarietà politica e comune visione in vicende come quelle che coinvolgono da troppo tempo la Libia sono indispensabili e sarebbero giovevoli», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia degli auguri al Corpo diplomatico.

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La sinistra stia alla larga dalla liaison tra Renzi e Salvini

Non ci sono le condizioni per un governo di tutti. Che richiederebbe una tregua inimmaginabile da parte del leader leghista. E porterebbe a un disastro peggiore di questo esecutivo con Di Maio.

Quando un partito che si appresta a vincere le elezioni politiche (secondo i sondaggi) propone agli altri partiti un governo di tregua diretto da un personaggio indiscutibile come Mario Draghi, si dovrebbe sviluppare una gran discussione. Invece accade che Matteo Salvini, su suggerimento di Giancarlo Giorgetti, proponga questo governo e quel primo ministro e nessuno ne parli tranne Matteo Renzi. Su quel “tranne Renzi”, anzi, si è sviluppato un retroscena secondo cui la proposta salviniana è il primo passo per una marcia di avvicinamento reciproca fra i due Matteo, i gemelli separati alla nascita. È probabile.

UNA LUNGA STORIA DI FALLIMENTI

Resta il fatto che la proposta di Salvini è caduta, finora, nel vuoto. Forse la ragione sta nel fatto che questo Paese ha discusso decine di volte di governo di emergenza o solidarietà nazionale o come diavolo volete chiamarli. Alcune discussioni, come quella sul compromesso storico, furono molto alte, altre dettero vita a piccolo cabotaggio parlamentare. Quasi sempre queste esperienze hanno fallito. La sinistra, che avrebbe potuto vincere le elezioni con Pier Luigi Bersani, fu costretta dal Quirinale a ingoiare il governo Monti che, con i suoi esodati e altre decisioni anti-popolari, fece perdere milioni di voti. Quindi, come si dice, “anche basta”. Basta governi di solidarietà nazionale. Tu vinci e governi e io mi ti oppongo fino a farti cadere.

Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno

C’è però un dato innegabile nella proposta di Giorgetti mal raccontata da Salvini ed è che la situazione italiana è effettivamente quella che richiederebbe la Grossa coalizione. Soprattutto lo richiederebbe lo spirito pubblico. E già qui ci scontriamo sulle ragioni per cui la Grossa coalizione non si può fare. Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede una tregua fra le parti, non una pace fra i partiti né la rinuncia alla propria identità e alla polemica fra i partiti, ma la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno. Il giorno che Salvini diventasse civile come una sardina, si ridurrebbe al 5%, cioè sarebbe un Renzi qualsiasi. È la fantasia della guerra civile che alimenta il suo successo oggi minacciato solo dal ritorno a casa della destra tradizionale che vede in Giorgia Meloni la leader dura che sognava.

UN GOVERNO CON SALVINI SAREBBE DISTRUTTIVO

Per la sinistra un governo con Salvini sarebbe distruttivo, peggio di questo governo con Luigi Di Maio. Il prezzo potrebbe essere pagato solo se ci fosse un vero breve programma e una intesa di ferro attorno a ciò che può fare Draghi senza che gli rompano i maroni. Sprecare una grande alleanza e un uomo come Draghi per i postumi di una serata in birreria non vale proprio la pena. Di più: quando si propone un governo di tutti, si propone una analisi della situazione e quello che si pensa debba diventare l’Italia nel caso di successo di questo governo. Solo così la proposta sarebbe credibile. Dire solo che c’è grande casino e quindi bisogna chiamare il pompiere Draghi pronti a incendiargli l’autobotte è pura follia. Se poi Renzi e Salvini vogliono una discussione o addirittura una esperienza di governo che li aiuti a vivere assieme, non cerchino scorciatoie. In fondo viviamo in tempi di amori liberali. Se si vogliono bene, si mettano assieme.

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OpenCUP, l’informazione al centro

Giunto alla fine della seconda fase, il progetto del DiPE, Invitalia e Sogei mette a disposizione i dati sugli investimenti pubblici.

Si è tenuto il 16 dicembre 2019 a Roma presso il Talent Garden, l’evento conclusivo del progetto OpenCUP, dati che creano valore.

L’iniziativa, nata dall’idea del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (DiPE), ha voluto valorizzare la banca dati del Sistema Codice Unico di Progetto – CUP con la pubblicazione in formato open dell’Anagrafe dei progetti d’investimento pubblico sulPortale OpenCUP.  All’indirizzo opencup.gov.it, il portale, infatti, mette a disposizione di tutti, cittadini, istituzioni ed altri enti, i dati, in formato aperto, sulle decisioni di investimento pubblico finanziate con fondi pubblici nazionali, comunitari o regionali o con risorse private registrate con il Codice Unico di Progetto.

L’iniziativa è giunta al compimento della sua seconda fase ed è finanziata dai fondi europei (PON Governance e Capacità istituzionale 2014-2020): l’evento è stato l’occasione per condividere l’esperienza maturata negli ultimi tre anni anche nell’ambito delle solide collaborazioni che si sono instaurate con i partner Invitalia e Sogei; illustrare i risultati raggiunti e prospettare gli sviluppi futuri del progetto OpenCUP.

Tra i presenti, oltre ai protagonisti dell’iniziativa, l’Autorità di Gestione del PON finanziatore del progetto, Invitalia S.p.A. e Sogei S.p.A, i testimonial del riuso dei dati OpenCUP, da Bankitalia fino al caso di Tom Tom che attraverso i dati OpenCUP può creare servizi di geo-referenziazione ad alto valore aggiunto. Presente anche il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Mario Turco, che ha dichiarato: “I sistemi di monitoraggio degli investimenti pubblici sono diventati strumenti cruciali nell’attuazione degli interventi programmati, perché consentono sia di seguirne i progressi, che di evidenziare i casi di blocco nei processi e di effettuare le opportune riprogrammazioni di risorse. Bisogna però precisare che in questo ambito, ci sono ad oggi delle criticità a più livelli che ne impediscono una piena operatività. Il rafforzamento del monitoraggio deve necessariamente passare per un cambiamento culturale che porti gli attori coinvolti, monitoranti e monitorati, ad un dialogo tra centro e periferia per ritenere tale azione non solo come un onere ma anche come un’opportunità.”  

I NUMERI DEL PORTALE OPENCUP

La seconda fase del progetto ha ingrandito e ampliato il pannel dei dati. Opencup.gov.it, online dal dicembre del 2015, ha reso disponibili ad oggi i dati su 3,3 milioni di interventi pubblici (tra questi 1 milione di records riguardano i lavori pubblici (erano già 800mila nel 2015); 2,2 milioni di dati sugli incentivi alle imprese e circa 100mila records sui contributi per la ricostruzione post eventi sismici. Tutto è rilasciato in formato aperto e scaricabile in un unico dataset complessivo.

Durante l’evento il DiPE ha annunciato anche la consegna delle chiavi di accesso al sistema MGO per il monitoraggio delle grandi opere a favore della DIA, per aumentare la legalità e contrastare le infiltrazioni mafiose negli appalti. Attualmente sono monitorate 67 grandi opere per 66 miliardi di euro.

IMPORTANTI COLLABORAZIONI

Un portare che propone, dunque, uno sguardo d’insieme sugli investimenti pubblici. Tutto questo è stato possibile grazie all’interoperabilità tra diversi sistemi informativi e all’ottimizzazione del corredo informativo. Tramite il portale OpenCUP, infatti, è possibile ricercare un determinato progetto e se esistono dati su quest’ultimo, si può cercare anche su altri portali. Le cooperazioni già attive sono con OpenCoesione, OpenCantieri e Italia sicura scuole. Collaborazioni come quella con il Centro Nazionale delle ricerche e il Politecnico di Milano hanno contribuito, infine, all’innalzamento della qualità dei dati.

«Oggi tradurre le esigenze di innovazione del Paese in benefici per i cittadini significa mettere il cittadino stesso al centro dei servizi pubblici e consentirgli di interagire con lo Stato in trasparenza anche attraverso canali e strumenti digitali di Open Government – ha dichiarato Andrea Quacivi, Ad di Sogei. #NoidiSogei supportiamo i nostri Clienti in progetti reali, Open Cup rappresenta una eccellenza dell’Italia, un esempio di progetto innovativo digitale, oltre ad essere un servizio pubblico precursore nell’uso degli Open data, creato e sviluppato per favorire la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini sulle decisioni di investimento pubblico. L’Italia si posiziona al 4’ posto nell’ambito della componente Open data dell’indice DESI 2019, dietro solo all’ Irlanda, alla Spagna e alla Francia, questo è un risultato significativo di cui si parla troppo poco, gli Open data costituiscono una risorsa primaria, un bene comune come l’aria e l’acqua, disponibile senza barriere tecniche, giuridiche, di prezzo».

I RICONOSCIMENTI PER OPERNCUP

Il progetto, per la sua utilità e trasparenza, ha ricevuto importanti riconoscimenti come l’Open Data Maturity Report 2018 – Best practice europea (20 novembre 2018); il Premio “Agenda digitale” dell’Osservatorio del Politecnico di Milano (13 dicembre 2018) e il Premio Innovazione 2018 conferito dal Senato della Repubblica in collaborazione con la Fondazione COTEC (Roma, 4 marzo 2019).

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Il traditore fuori dalla corsa all’Oscar per il miglior film straniero

L'opera di Marco Bellocchio che racconta la storia di Tommaso Buscetta interpretato da Pierfrancesco Favino è fuori dalla shortlist. Ci sono Almodovar e il coreano Parasite.

È finita la corsa italiana per il Best international feature film, nuova definizione dell’Oscar per il miglior film straniero. Il traditore di Marco Bellocchio, che narra le vicende del pentito di mafia Tommaso Buscetta e della sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone, è fuori dalla shortlist diffusa dall’Academy. Una vera delusione per una pellicola che, dopo l’anteprima a Cannes, aveva suscitato molto interesse all’estero, riscuotendo gli applausi del pubblico e di gran parte della critica per la sua capacità di discostarsi dai cliché del “cinema di mafia” e, come ha scritto Liberation, di raccontare i personaggi «non come eroi o antieroi, ma come persone normali, a loro modo perbene, che credono ancora in un’etica all’interno di un mondo dove i valori si sono fatti sempre più rari, ciascuno a modo proprio e ciascuno dalla sua parte».

DELUSE LE SPERANZE DI BELLOCCHIO

Ad alimentare le speranze la superba interpretazione di Pierfrancesco Favino, come di tutto il cast, la ricostruzione fedele dell’epoca, il rispetto e la rivalutazione della lingua siciliana e, soprattutto, il mettere al centro di quest’opera la naturale teatralità, tragicità di questi personaggi degni di un’opera verdiana. Anche Bellocchio sembrava crederci: «Sono contento di questa candidatura. È una possibilità, una chiave per entrare nella grande gara. Non mi faccio illusioni, ma farò tutto il possibile per aiutare Il traditore in questo lungo cammino. Pur da vecchio anarchico pacifista e non violento, sento come un onore e una responsabilità di rappresentare l’Italia in questa sfida», aveva commentato dopo la candidatura.

PARASITE E DOLORE E GLORIA RESTANO IN LIZZA

Dieci i titoli ancora in corsa, tra cui Parasite di Bong Joon-ho (Sud Corea), Dolore e gloria di Pedro Almodovar (Spagna), Atlantics di Mati Diop (Senegal). Se quest’ultimo ricevesse la nomination, sarebbe la prima volta per il Senegal. In maggio Diop è diventata la prima donna di colore a competere per il primo premio a Cannes, andato alla fine a Parasite. Il film ha vinto pero’ il Grand Prix honor.

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Lo spread e la Borsa italiana del 17 dicembre 2019

Attesa per l'avvio delle contrattazioni a Milano. Spread stabile a 156 punti. I mercati in diretta.

La Borsa italiana riparte dal +0,8% del 16 dicembre. Piazza Affari ha fatto segnare un avvio di settimana positivo, in linea coi mercati europei. Rally di Londra a +2,25% seguita da Parigi (+1,23%), Madrid (+1,22%) e Francoforte (+0,94%) .

SPREAD INTORNO A QUOTA 156 PUNTI

Apertura con poche oscillazioni per lo spread tra Btd e Bund. Il differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco si attesta stamani a 156,2 punti mentre il rendimento del Btp è all’1,26%.

I MERCATI IN DIRETTA

7.45 – CHIUSURA BORSA DI TOKYO IN RALZO

La Borsa di Tokyo termina la seduta in aumento, sulla scia dell’ultimo record degli indici azionari statunitensi, sostenuti dalle notizie incoraggianti che arrivano dalle trattative sul commercio internazionale tra Cina e Usa. L’indice Nikkei mette a segno un guadagno dello 0,47%, assestandosi ai massimi in 14 mesi, a quota 24.066,12, aggiungendo 113 punti. Sul fronte dei cambi lo yen si è indebolito sul dollaro a 109,50, e con l’euro a un livello di 122,10

1.34 – APERTURA BORSA DI TOKYO IN RIALZO

La Borsa di Tokyo avvia gli scambi col segno più, sostenuta dall’andamento positivo degli indici azionari statunitensi, freschi di record, sulla scia delle notizie incoraggianti che arrivano dalle negoziazioni sul commercio internazionale tra Cina e Usa. L’indice Nikkei guadagna lo 0,52% a quota 23.077,62, aggiungendo 125 punti. Sul fronte valutario lo yen si è andato deprezzando, sul dollaro a 109,50 e con l’euro poco sopra a un livello di 122.

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Dieci curiosità sui Simpson

La serie creata da Matt Groening ha debuttato il 17 dicembre 1989. Da allora ha conquistato il mondo diventando un cult. Ecco il nostro modo di celebrare Homer & Co.

Trenta anni de I Simpson: il 17 dicembre 1989 sbarcava in prima serata nelle tivù americane il cartoon firmato da Matt Groening e James L. Brooks destinato a entrare nella storia.

A fine novembre però un’indiscrezione ha fatto tremare i polsi ai fan: il compositore Danny Elfman, autore della sigla, in una intervista al sito Joe ha lasciato intendere che la serie sarebbe agli sgoccioli. «Da quello che ho sentito», sono state le sue parole, «si avvicina la fine». Aggiungendo che la prossima stagione potrebbe essere l’ultima.

LEGGI ANCHE: Quali sono i cinque migliori episodi dei Simpson

Notizia presto smentita dal produttore esecutivo Al Jean: «Stiamo realizzando la 32esima stagione, non ci sono piani per fermarci». Rasserenati dalla smentita, celebriamo il 30ennale della famiglia gialla di Springfield con 10 curiosità.

Il cast completo dei Simpson (screenshot da YouTube).

1. IL LIBRO CELEBRATIVO DI FINK

I Simpson. Trent’anni di un mito di Moritz Fink è arrivato puntuale in libreria come regalo di compleanno. Il libro (Leone Editore) ripercorre la storia della famiglia che ha fatto da apripista a diverse serie a cartoni come I Griffin, South Park o Bob’s Burger. Questo di Fink non è certo il primo libro che analizza il successo del cartoon. Nel 2012 uscì La vera storia dei Simpson – La famiglia più importante del mondo di John Ortved.

2. L’EPISODIO PILOTA DEDICATO AL NATALE

Era dedicato al Natale l’episodio pilota che andò in onda in America il 17 dicembre 1989 sul canale Fox. Si intitolava Simpson Roasting on an Open Fire, in italiano Un Natale da Cani: 30 minuti di spasso puro, con Homer alle prese con la tredicesima tagliata dal malvagio Signor Burns.

3. DAL FUMETTO ALLA TIVÙ

In realtà, prima di diventare una serie indipendente nel 1989, I Simpson apparvero come cortometraggio animato nel 1987, all’interno del Tracey Ullman Show come adattamento del fumetto underground settimanale Life in Hell ideato da Groening.

4. LA CRITICA DI GEORGE BUSH

I Simpson furono presi di mira dal presidente degli Stati Uniti George Bush che disse di «voler continuare a rafforzare la famiglia americana, renderla più come i Walton e meno come i Simpson». Lo show, neanche a dirlo, continuò con success. E mentre oggi tutti sanno chi sono Bart, Marge, Lisa o Maggie, quasi tutti googolano ‘Walton’ in cerca di lumi.

5. UNA FAMIGLIA PIÙ TRADIZIONALE DI QUELLO CHE SI POSSA PENSARE

Nel saggio di Paul A. Cantor nel libro I Simpson e la filosofia (Isbn Edizioni) la famiglia di Springfield è definita «ri-creazione post moderna della prima generazione delle sit-com familiari televisive». È ovvio, è il ragionamento, «che non si tratti di un semplice ritorno agli Anni 50 ma il programma fornisce elementi di continuità che lo rendono molto più tradizionale di quello che si possa pensare».

I Simpson andarono in onda per la prima volta il 17 dicembre 1989.

Non è trascurabile il fatto che i Simpson vivano in una cittadina di provincia. «Nonostante lo show si incentri sulla famiglia nucleare», si legge nel saggio, «mette in relazione la famiglia con le grandi istituzioni della vita americana, con la Chiesa, la scuola e persino le stesse istituzioni politiche, come il governo municipale». E anche i Simpson se ne fanno beffe, facendole sembrare ridicole e prive di valore, il cartoon riconosce la loro importanza rispetto alla famiglia. Anche l’avversione di Bart alle regole sotto sotto rispetta l’«archetipo americano» visto che gli Usa sono fondati su un «atto di ribellione».

6. LA VERA SPRINGFIELD

La cittadina in cui vivono i Simpson, come tutti sanno, è Springfield. Matt Groening ha dichiarato di averla chiamata così proprio perché è un nome piuttosto comune negli States. Per questo, nello spettatore scatta facilmente l’identificazione. Ma Springfield – si è scoperto solo in seguito – è anche la città natale dello stesso Groening. La Spingfield di Groening oggi – grazie ai Simpson – è diventata davvero la Springfield di tutti. 

La stella dedicata ai Simpson nella Walk of Fame.

7. UN PALMARES DA RECORD

Nella loro trentennale carriera, i Simpson hanno collezionato un ricco bottino di premi. Il Time li ha definiti la «Miglior serie tivù del secolo»; l’Economist ha scritto che «un qualsiasi fenomeno può dirsi entrato nella cultura di massa solo dopo che è stato rappresentato satiricamente nei Simpson». Del resto, nel suo curriculum, la famiglia gialla vanta 31 Primetime Emmy Awards, 30 Annie Awards e un Peabody Awards. Potevano mai mancare i Simpson sulla Walk of Fame di Hollywood? Certamente no. Ed ecco che Homer&Co si sono beccati la stella. La loro popolarità è sempre stata ripagata dagli ascolti, seppure oggi nettamente inferiori rispetto all’inizio: negli anni 90 veleggiavano su una media di 20 milioni.

8. LA TRASFORMAZIONE DEI PERSONAGGI NEGLI ANNI

Dall’inizio della serie a oggi i personaggi dei Simpson sono parecchio cambiati, sia caratterialmente sia graficamente. I protagonisti hanno acquisito maggiore rotondità. E Homer, in particolare, è lentamente diventato più pigro che irascibile.

9. LA PASSIONE PER LA SCIENZA

Uno degli aspetti più affascinanti della serie sono i tanti rimandi a teoremi, missioni spaziali, e argomenti di attualità tecnico-scientifica. Non a caso fra gli autori della serie ci sono laureati in matematica e fisica. Sull’argomento sono usciti anche due volumi: La formula segreta dei Simpson: Numeri, teoremi e altri enigmi di Simon Singh (Rizzoli, 2014) e La scienza dei Simpson. Guida non autorizzata all’universo in una ciambella di Marco Malaspina (Sirone Editore, 2015). Per lettori un po’ geek.

10. UN ESERCITO DI GUEST STAR

Tante, tantissime le guest star della serie: si parla di più di 600. Da Meryl Streep a Liz Taylor, da Dustin Hoffman a Michelle Pfeiffer passando per Micheal Jackson, Susan Sarandon, Gleen Glose, Katy Perry, Tom Hanks, Ron Howard, Stephen King, tanto per citarne alcuni. Tra i no più eclatanti Bruce Springsteen e Clint Eastwood.

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Maxi sequestro contro il caporalato nel facchinaggio

Sigilli a 120 immobili riconducibili a un imprenditore della logistica, Giancarlo Bolondi, accusato, oltre che di frodi fiscali e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro.

Un maxi sequestro di 120 immobili tra Milano, Lodi, Brescia, Torino, Genova e altre città è stato disposto a carico di un imprenditore della logistica, Giancarlo Bolondi della società Premium Net, accusato, oltre che di frodi fiscali e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro, in particolare di ‘caporalato’ nel facchinaggio. Lo ha deciso la Sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano, su richiesta dei pm Bruna Albertini e Paolo Storari e i sequestri sono stati eseguiti dalla Guardia di finanza di Pavia.

OPERAI COSTANTEMENTE SOTTO MINACCIA

A Bolondi, 63 anni, residente in Svizzera e già ai domiciliari, come si legge nel provvedimento della Sezion presieduta da Fabio Roia, è stato contestato dai magistrati di Pavia di essere stato a capo, tra il 2012 e il 2018, di un «network di consorzi e cooperative», attraverso il quale avrebbe anche «reclutato manodopera in condizioni di sfruttamento», approfittando dello «stato di bisogno dei lavoratori, tenuti costantemente sotto la minaccia di perdere il lavoro». Operai che dovevano accettare condizioni diverse rispetto ai contratti collettivi nazionali su turni, ferie e gestione dei riposi. Nelle oltre 100 pagine del decreto i giudici Rispoli-Cernuto-Pontani spiegano che all’indagine di Pavia è collegata l’amministrazione giudiziaria che venne disposta a maggio per Ceva Logistic Italia srl, ramo della multinazionale leader nel settore della logistica. Un commissariamento per «sfruttamento di manodopera», ossia sempre per un caso di caporalato, il primo che si era concluso con una misura di questo genere da parte dell’autorità giudiziaria.

«SISTEMA FRAUDOLENTO PER EVADERE LE IMPOSTE»

Ceva, che nel Pavese ha la ‘Città del libro’, una sorta di hub logistico per la distribuzione di materiale editoriale, chiariscono i giudici, era proprio «una delle clienti del ‘sistema Bolondi’» e impiegava nella ‘Città del libro’ «manodopera fornita dalla Premium Net». Il consorzio di Bolondi, infatti, spiegano ancora i giudici, era «in grado di interfacciarsi sul mercato dell’outsourcing con i principali attori economici pubblici e privati (nel provvedimento l’elenco delle imprese clienti, ndr)». Allo stesso tempo, almeno dal 2009 l’imprenditore avrebbe portato avanti, tra la Lombardia e il Lazio (un procedimento a suo carico anche dei magistrati di Velletri), «un sistema fraudolento di gestione delle attività economiche finalizzato ad evadere le imposte», affiancato «da un’attività» di «occultamento della provenienza illecita dei profitti», con ‘schermi’ societari e prestanome. Il tutto, tra cui anche proventi di «truffe ai danni del sistema previdenziale e del mancato pagamento ai dipendenti del Tfr (gli operai venivano spesso licenziati e poi riassunti in altre cooperative, ndr)», poi riciclato, secondo i giudici, «in investimenti immobiliari».

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Quando la manovra si blinda sacrificando il parlamento

Nel 2018 il Pd attaccava una legge di bilancio extra-parlamentare con cui il governo calpestava i diritti delle Camere. Ma 12 mesi dopo è successa la stessa cosa. Il 2010 di Berlusconi, il Salva Italia montiano, la scommessa (persa) di Renzi: i precedenti.

«Per la prima volta si fa una legge di bilancio completamente extra-parlamentare. Il governo ha calpestato i diritti del parlamento e nelle ultime ore è stata usata violenza». Lo gridava, ormai a tarda sera, dal suo scranno in Senato, il capogruppo del Partito democratico Andrea Marcucci. Esattamente 12 mesi fa.

TEMPI DELLA DISCUSSIONE ANCORA TAGLIATI

La votazione si concluse alle 3 del mattino del 23 dicembre 2018. Alla Camera il suo compagno di partito, Emanuele Fiano, dopo aver lanciato l’intero testo – un plico di diverse centinaia di fogli – contro i banchi del governo (colpendo il sottosegretario all’Economia, il leghista Massimo Garavaglia) andò oltre, evocando manifestazioni di piazza e l’intervento della Consulta. Il Pd si stringeva attorno alla Costituzione per difendere la centralità del parlamento. Atto più che dovuto, si dirà. Ma 12 mesi dopo è stato il governo giallorosso sostenuto da dem e Movimento 5 stelle a tagliare i tempi della discussione alle Aule. E non è nemmeno la prima volta che accade nella storia repubblicana.

IL RISCHIO DA SVENTARE: L’ESERCIZIO PROVVISORIO

Lo spettro che il governo vuole allontanare è finire nell’esercizio provvisorio. Sarebbe un paradosso dal forte sapore beffardo per un esecutivo nato sul finire dell’estate 2019 esattamente con lo scopo di disarmare le clausole di salvaguardia dell’Iva, che invece si attiverebbero automaticamente nel caso in cui il parlamento non licenziasse la manovra 2020 entro il 31 dicembre.

VALANGA DI 4.500 EMENDAMENTI: TUTTI CADUTI

Soltanto il 18 novembre le Camere bombardavano la finanziaria con una gragnuolata di emendamenti: 4.500 (più di mille quelli presentati dalla stessa maggioranza: 900 dal Pd, 400 dal M5s, 200 da Italia viva). Non sono stati mai discussi. Anzi, la stessa legge di bilancio è stata compattata in un maxi-emendamento di un solo articolo, da votare a scatola chiusa. Con tanto di due soli passaggi nelle assemblee, e il sacrificio inevitabile della terza lettura. Ma ecco i precedenti nella Seconda Repubblica.

2010 – PRIMA LA MANOVRA E POI LA SFIDUCIA (SVENTATA) A SILVIO

La prima volta che la discussione parlamentare fu sacrificata sull’altare della speditezza dei lavori è stato nel 2010. Il 15 novembre di quell’anno si consumò la rottura tra Gianfranco Fini, allora presidente della Camera nonché leader di Futuro e libertà e Silvio Berlusconi, che guidava il governo sostenuto dal Popolo della libertà e dalla Lega Nord di Umberto Bossi.

Gianfranco Fini.

Il 2 dicembre Fini, Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e Raffaele Lombardo chiesero a nome del Terzo polo le dimissioni del presidente del Consiglio, ma vennero prontamente richiamati all’ordine dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, che pretese di congelare la mozione di sfiducia così da dare precedenza a una lettura accelerata della finanziaria. Che fu così licenziata il 7 dicembre, la sfiducia messa ai voti il 14 dello stesso mese, mentre Roma veniva attraversata da un corteo che, tra scontri, auto incendiate e cariche della polizia, chiedeva a gran voce le dimissioni dell’esecutivo.

Silvio Berlusconi e Domenico Scilipoti.

Dimissioni che non arrivarono: nella settimana “in più” che fu concessa al governo, Berlusconi andò a caccia di voti tra gli indecisi (risaltò alle cronache soprattutto il soccorso di due ex dell’Italia dei valori, Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, ma anche quattro finiani tradirono all’ultimo il proprio leader) e il parlamento rinnovò la fiducia al governo, regalandogli altri 11 mesi.

2011 – L’ARRIVO DEI TECNICI E IL SALVA ITALIA A PACCHETTO CHIUSO

Gli eventi del dicembre 2010 sono strettamente connessi alla seconda volta in cui il parlamento fu ridotto al ruolo di mero spettatore nell’iter di approvazione della legge di bilancio, appena 12 mesi dopo. Il governo Berlusconi IV, sopravvissuto a stento a fine 2010, terminò la sua corsa il 12 novembre dell’anno successivo, attanagliato dallo spread e dagli attacchi speculativi subiti in Borsa. Subentrarono in corsa i tecnici guidati da Mario Monti che approntarono in tutta fretta una maxi manovra da 40 miliardi (21,43 per ridurre il debito pubblico e 18,54 miliardi per la ripresa economica e le spese indifferibili). Una cifra monstre che pure non fu discussa dal parlamento. Il decreto Salva Italia fu approvato in via definitiva dal Senato con 257 sì e 41 no tre giorni prima di Natale.

2016 – LA SCOMMESSA (PERSA) DA RENZI E LA LEGGE BLINDATA

L’ultimo episodio risale infine al 2016, quando cioè l’allora premier Matteo Renzi legò la sopravvivenza del proprio esecutivo all’esito del referendum del 4 dicembre. La storia è nota: la riforma costituzionale che avrebbe dovuto scardinare il bicameralismo perfetto fu bocciata dall’elettorato e il governo arrivò a fine corsa. Non prima, però, di licenziare la finanziaria, come richiesto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che voleva che lo Stato concludesse l’anno con i conti in ordine. Solo la Camera ebbe modo di ritoccare il pacchetto di misure da 29 miliardi nella votazione del 28 novembre antecedente alla tornata referendaria. Al Senato il testo arrivò blindato il 7 dicembre con la richiesta di approvarlo in tutta fretta. Alcuni osservatori notarono che la scelta di escludere dalla discussione la Camera Alta costituisse la prova fattuale che la riforma renziana che puntava a ridurne gli ambiti di intervento in campo legislativo fosse ormai realtà nonostante l’esito referendario.

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Le vere cause della bancarotta della Popolare di Bari

Parlare di «fallimento della logica di mercato» è un controsenso: il crack è arrivato, come sempre, per colpa di chi ha agito al di fuori delle regole della compravendita. E di chi gli ha permesso di farlo.

Da Taranto a Bari ci sono meno di 90 chilometri. Due città colpite duramente da vicende economiche rilevanti: la crisi Ilva, con annessa questione spegnimento altiforni da parte di ArcelorMittal e Banca Popolare di Bari di cui Bankitalia ha dovuto avviare (l’ennesimo) commissariamento.

IL PROBLEMA NON È IL MERCATO

Il commento che si sente più spesso fare, quando assistiamo a una bancarotta, è che si tratta di un «fallimento della logica di mercato». Un ragionamento che parla direttamente ad un ventre ferito, lacerato da una ferita fresca che reclama una cura, ma si tratta di un ragionamento che è un vero controsenso. La logica di mercato è tale proprio perché prevede che le cose che non funzionano falliscano. «Follow the money» si ripete più volte nel film Tutti gli uomini del presidente, che racconta – tra l’altro – il mestiere del giornalismo investigativo, un processo lungo e noioso pieno di vicoli ciechi e compiti monotoni, ma che risulta necessario per non delegare ai lettori l’intero percorso.

UNA CRISI CHE ARRIVA DA LONTANO

La situazione della Banca Popolare di Bari era critica da molto tempo, almeno dal 2010 quando iniziarono a girare insistenti voci sull’utilizzo delle sue risorse; non era buona nemmeno quando lo Stato le chiese di intervenire in “salvataggio” di Banca Tercas (Cassa di Teramo), la quale – va ricordato – fu fatta acquisire dalla Pop Bari quando era già in amministrazione controllata, ma nonostante il regime di commissariamento era riuscita comunque a generare esigenze di bilancio.

IL VALORE DELLE AZIONI DETERMINATO DALLA BANCA STESSA

Esigenze che la Popolare di Bari ha “risolto” come molte altre volte (e come molte altre banche: Pop Bari è infatti la dodicesima banca italiana che salta dal 2015), facendosi sottoscrivere nuove azioni da correntisti ignari o con operazioni “baciate” (sottoscrizione di azioni in contropartita a finanziamenti offerti dalla banca stessa), tutte pratiche realizzabili solo “grazie” al fatto che le azioni della banca non sono quotate, non hanno un prezzo di mercato e ai correntisti veniva così comunicato il “valore” delle azioni determinato dalla banca stessa. Esattamente come fecero le banche Venete a loro tempo.

LO SCHEMA RICORRE DI BANCA IN BANCA

A conferma di ciò, il caso Banca Etruria è emblematico: visto che la banca era quotata, invece di raccogliere sottoscrittori sulle azioni, venivano emesse obbligazioni non quotate e fatte sottoscrivere agli ignari clienti della banca stessa. Lo schema è ricorrente: l’abuso verso i correntisti si è perpetrato sempre e solo attraverso gli strumenti non di mercato. Quando Pop Bari ha usato strumenti di mercato, emettendo prestiti obbligazionari subordinati, si sono trovati sottoscrittori di dubbia identità come veicoli di diritto maltese della cui consistenza patrimoniale nulla si sa.

INACCETTABILE L’INDIGNAZIONE DELLA POLITICA

È normale che il comune cittadino “scopra” ora, con l’annuncio del decreto da parte del governo, che la Banca Popolare di Bari entri a far parte dell’elenco delle banche fallite, molto meno normale (anzi inaccettabile) che i protagonisti della politica facciano i consueti proclami e “J’accuse”. Sono tanti e di vario colore i governi che abbiamo avuto dal 2010, nessuno ha mai voluto fare qualcosa sulle banche che sono poi fallite.

LO SCARICABARILE DI CHI GOVERNA

Ogni governo spera che il cerino rimanga in mano a qualcun altro (il che offre anche l’opportunità di denunciare, dall’opposizione, lo scandalo), ma questo accade perché il consenso popolare premia questi comportamenti. La Banca Popolare di Bari è stata esentata dall’adeguarsi alle regole imposte per le Popolari, che le obbligava a trasformarsi in SpA. La bancarotta della banca pugliese, come quella delle banche venete, non è il fallimento della logica di mercato, ma il fallimento di chi ha agito al di fuori del perimetro delle regole di mercato. E l’ha fatto perché gli è stato permesso di farlo.

LE SOLUZIONI NON RISOLVONO MAI LE CAUSE

Ancora oggi, alla dodicesima banca dell’elenco, la soluzione che viene proposta è un misto di statalismo, interventismo, idee come la creazione di una banca d’investimenti pubblica per il Sud, tutto ignorando deliberatamente che l’efficacia delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno si è dimostrata nulla, se non addirittura negativa, trascurando che il caso di Tercas ci ha già insegnato che una banca commissariata può continuare ad allargare il buco che si è scavata. Invochiamo l’intervento di uno Stato risolutore, come se gli organismi pubblici di vigilanza fossero al di sopra di ogni dubbio.

NON LASCIARE AL MANAGEMENT LA POSSIBILITÀ DI AGIRE FUORI DAL MERCATO

Quella che emerge, in questa vicenda, è l’ennesima richiesta di un risolutore che si faccia carico dei problemi e li possa sgarbugliare. Ma ciò che ha permesso il realizzarsi di questo ennesimo caso che coinvolge correntisti, risparmiatori, dipendenti e contribuenti, è la facoltà data al management di agire al di fuori della disciplina di mercato. La confusione che viene alimentata è fra le vicende delle persone coinvolte e le regole di sistema: dietro l’intento nobile di voler proteggere le persone dagli eventi, si nasconde la mancata assunzione di responsabilità, e promettere come soluzione l’intervento pubblico per sterilizzare gli effetti della logica di mercato è, nella migliore delle ipotesi, l’errore del medico clemente che – nella vecchia massima – fa la piaga purulenta.

LE LEZIONI DELLA STORIA E LE RESPONSABILITÀ DEI SINGOLI

La Storia ci ha già insegnato che quando un lato del mondo aspettava da Mosca l’indicazione di quanto grano seminare perché tutte le informazioni e le decisioni erano accentrate, un’altra parte del mondo consentiva ad ognuno di provare a fare ciò che riteneva, assumendosene benefici e rischi. Uno dei due sistemi ha dovuto cedere il passo all’altro, riconoscendogli maggiore efficienza, riconoscendogli il ruolo di miglior generatore e distributore di prosperità. Ragionare di quale sistema sia migliore su base aggregata è diverso dal discutere degli alti e bassi del destino di singoli individui, ma un’offerta politica sana e affidabile si occuperebbe di presentare proposte per generare e distribuire prosperità e benessere, cercando – con i dovuti ammortizzatori – di tutelare le persone che vivono delle difficoltà, anziché sfruculiarle per cavare consenso dai loro drammi personali.

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