Di Maio prova a ricompattare il M5s: arrivano i “facilitatori”

Il leader del Movimento presenta il team che lo affiancherà nelle decisioni: «In questi anni mi sono sentito solo».

L’uomo «solo» al comando dei 5 Stelle prova a far ripartire il Movimento contando sulla condivisione delle responsabilità: oneri e onori. «In questi anni mi sono sentito molto solo, credo pure Grillo lo sia stato. Quando sei solo e prendi decisioni da solo e non ci sono persone legittimate con le quali condividerle tutto è molto difficile», ammette il capo politico del M5s annunciando dal palco del tempio di Adriano la partenza della fase 2 del M5s, quel rilancio nel segno della riorganizzazione della forza politica e della suddivisione delle responsabilità che dovrebbe anche metterlo al riparo dai continue critiche che gli arrivano dall’interno del Movimento. Ha costituito un “team” di 24 persone con dietro, ciascuna di esse, una squadra, per affiancarlo nelle decisioni: a breve seguirà anche la costituzione di un gruppo di facilitatori regionali che serviranno a fare da collante con i territori, il punto debole nella ramificazione del Movimento. «Stasera con questo evento possiamo chiudere un primo step di un processo di riorganizzazione partito quasi un anno fa: non è stato semplice. L’anno che sta per concludersi è quello in cui il Movimento ha raggiunto i dieci anni», ricorda il capo politico deciso a tirare le somme e ripartire con una nuova fase: «Siamo l’unica forza politica che fa decidere direttamente agli iscritti, anche per formare il governo. Gli unici a concepire un programma partecipato, per farlo diventare un programma di governo», ha detto Di Maio presentando il nuovo team. Poi ha aggiunto: «A volte una cosa buona deve finire affinché ne nasca un migliore. Oggi con la nascita del Team del Futuro permettiamo al Movimento di pensare ai prossimi dieci anni». Un punto dal quale ripartire, insomma, sapendo tuttavia che se «oggi nasce il Team del Futuro, non è la panacea di tutti i mali, non risolve tutti i problemi. È fatto di facilitatori, non di decisori. Ma qualcosa, per forza, dovrà cambiare. Lo promette il deputato Emilio Carelli che, ad esempio, va a supervisionare il settore della Comunicazione: «Dobbiamo scrivere un nuovo piano per la comunicazione che metta in luce gli aspetti positivi ma anche le criticità emerse», annuncia il giornalista che non nasconde le pecche a suo giudizio mostrate dalla comunicazione pentastellata. «Dobbiamo cambiare il tono e le strategie per rispondere agli attacchi che ci vengono rivolti e alle critiche, facendo ogni giorno un’analisi puntuale ed una verifica della nostra comunicazione», annuncia Carelli intenzionato ad affiancare l’opera di formazione della squadra di eletti anche attraverso corsi di “public speaking”. Poi c’è il ritorno all’ascolto della base, dei territori e non solo con la creazione dei nuovi facilitatori regionali ma anche con il rilancio del cosiddetto “Activism” che porterà avanti Paola Taverna. «Il Movimento è una piramide rovesciata, la base è il nostro vertice e noi dobbiamo rimanere degli umili portavoce. Chiedo scusa perché spesso si è creata una distanza, che dovrà essere colmata», confessa la vicepresidente del Senato che, dopo aver ammirato il successo di piazza delle Sardine, promette un cambio di regia: «Chiederò di ricominciare dall’ascolto, colmando quella distanza che si e’ venuta a creare con quella parte fondamentale del M5s, che è quella che sta nelle piazze e ai banchetti».

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Il piano del governo per salvare la Banca Popolare di Bari

Un miliardo di fondi dallo Stato tramite Invitalia e la creazione di un polo creditizio tra banche popolari del Sud. Alle 21 il cdm.

Il salvataggio della Popolare di Bari sarà l’occasione per la creazione di un polo creditizio tra alcune banche popolari, una ‘Banca del Sud’ in grado di fare massa per il rilancio dell’economia meridionale. Il decreto messo a punto dal governo prevede l’attribuzione di fondi fino ad un miliardo ad Invitalia, che li girerà alla sua controllata Mediocredito Centrale attraverso un aumento di capitale. Sarà quest’ultima, poi, ad entrare nel capitale della Popolare di Bari: un ingresso azionario che sarà affiancato dal ricorso allo strumento ‘privato’ messo in campo dal sistema bancario, cioè dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd).

IL BRACCIO OPERATIVO DI INVITALIA

Il provvedimento d’urgenza predisposto dal ministero dell’Economia non parla e non cita mai la Popolare di Bari, anche se è chiaro che è stato proprio il precipitare degli eventi, con il commissariamento dell’istituto, a spingere i ministri a riunirsi di domenica. L’impegno economico è diretto a Invitalia, controllata al 100% dal ministero dell’Economia, che sempre di più si trasforma nel braccio operativo pubblico della politica economica e industriale del Paese, una sorta di nuova Iri.

Nell’infografica realizzata da Centimetri la scheda della Banca popolare di Bari. ANSA/CENTIMETRI

Il disegno tracciato punta al sostegno del sistema del credito del Sud, che richiede la presenza di intermediari focalizzati sul territorio in grado di aiutare le famiglie e favorire la crescita delle imprese meridionali. Le risorse previste, per ora, arrivano ad un miliardo, cioè all’importo che è stato identificato come quello necessario per ricapitalizzare la Popolare di Bari e garantire la liquidità dell’istituto. Ma non è escluso che possa servire meno. Molto dipende dalle esigenze che emergeranno dalle verifiche che stanno compiendo i commissari e dall’intervento del Fitd, che riunirà il comitato di gestione il 18 dicembre e il consiglio il 20 dicembre, mercoledì e venerdì.

L’OPERAZIONE SULLO STAMPO DI CARIGE

Al momento l’ipotesi economica punta su intervento del Fondo Interbancario da 500 milioni, al quale si affianca l’apporto dello stesso peso del Mediocredito centrale. Per questo già lunedì un Cda di Invitalia potrebbe ‘girare’ alla sua controllata Mediocredito i primi 500 milioni, attraverso un aumento di capitale e questo a sua volta acquistare le azioni – a 2,38 euro nell’ultima quotazione – della Popolare di Bari. L’operazione segue la falsa riga di quella Carige e trova precedenti anche in Germania e Francia, tanto da non temere rilievi dell’Ue. E punta ad aggregare anche altri intermediari. Si guarda per questo alla partecipazione di altre banche popolari del Sud per realizzare un polo creditizio meridionale che raggiunga una massa tale da diventare un volano per la crescita del Mezzogiorno.

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Perché la Cop25 sul clima di Madrid è stata un mezzo fallimento

Nessun accordo è stato trovato sulla regolazione globale del mercato del carbonio. A fare muro i Paesi più inquinanti come Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Brasile e Arabia Saudita. La rabbia degli ambientalisti.

Delusione di molti Paesi alla Cop25 di Madrid perché non si è riusciti a raggiungere un accordo sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi sulla regolazione globale del mercato del carbonio, il nodo più difficile da sciogliere. La plenaria dei 196 Paesi più l’Ue per il via libera al documento finale non ha trovato un accordo e alcuni delegati stanno ora intervenendo esprimendo la forte delusione su questo punto dell’Agenda dei lavori. Se ne dovrebbe riparlare a Bonn nel giugno 2020.

I Paesi più inquinanti – Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Brasile, Arabia Saudita e altri – si sono sottratti alla loro responsabilità di ridurre le emissioni di gas serra. Nonostante le accese richieste di azione immediata per il clima da parte dei Paesi vulnerabili, della società civile e di milioni di giovani di tutto il mondo, rileva il Wwf, «i grandi responsabili delle emissioni di CO2 hanno ostacolato gli sforzi per accelerare la marcia e mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Sebbene questa conferenza fosse stata definita come la ‘COP dell’ambizione’, a Madrid è stata evidente la mancanza della volontà politica necessaria a rispondere alle indicazioni della comunità scientifica».

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres si è setto «deluso» dai risultati della conferenza sul clima Cop25, affermando che «la comunità internazionale ha perso una opportunità importante per mostrare maggiore ambizione» nell’affrontare la crisi dei cambiamenti climatici.

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Perché la Cop25 sul clima di Madrid è stata un mezzo fallimento

Nessun accordo è stato trovato sulla regolazione globale del mercato del carbonio. A fare muro i Paesi più inquinanti come Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Brasile e Arabia Saudita. La rabbia degli ambientalisti.

Delusione di molti Paesi alla Cop25 di Madrid perché non si è riusciti a raggiungere un accordo sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi sulla regolazione globale del mercato del carbonio, il nodo più difficile da sciogliere. La plenaria dei 196 Paesi più l’Ue per il via libera al documento finale non ha trovato un accordo e alcuni delegati stanno ora intervenendo esprimendo la forte delusione su questo punto dell’Agenda dei lavori. Se ne dovrebbe riparlare a Bonn nel giugno 2020.

I Paesi più inquinanti – Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Brasile, Arabia Saudita e altri – si sono sottratti alla loro responsabilità di ridurre le emissioni di gas serra. Nonostante le accese richieste di azione immediata per il clima da parte dei Paesi vulnerabili, della società civile e di milioni di giovani di tutto il mondo, rileva il Wwf, «i grandi responsabili delle emissioni di CO2 hanno ostacolato gli sforzi per accelerare la marcia e mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Sebbene questa conferenza fosse stata definita come la ‘COP dell’ambizione’, a Madrid è stata evidente la mancanza della volontà politica necessaria a rispondere alle indicazioni della comunità scientifica».

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres si è setto «deluso» dai risultati della conferenza sul clima Cop25, affermando che «la comunità internazionale ha perso una opportunità importante per mostrare maggiore ambizione» nell’affrontare la crisi dei cambiamenti climatici.

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“Il primo Natale”, il vorrei ma non posso di Ficarra e Picone

Commedia natalizia per il duo comico che festeggia 25 anni di carriera assieme. Un approccio ironico per affrontare i problemi della società. Ma senza osare fino in fondo nella critica a religione e tradizioni. Pur strappando comunque diverse risate. La recensione.

Il duo di comici composto da Salvatore Ficarra e Valentino Picone torna nei cinema con la commedia natalizia Il primo Natale che segue le avventure del ladro Salvo e del prete Valentino, trasportati indietro nel tempo e arrivati misteriosamente ai giorni della nascita di Gesù, ritrovandosi così alle prese con l’epoca della dominazione romana, molte incomprensioni e problemi.

I CONTRASTI DI DUE FIGURE QUASI AGLI OPPOSTI

Il salto indietro nel tempo diventa un espediente per affrontare con ironia i problemi della società contemporanea e l’approccio delle persone alla religione, riuscendo non sempre nell’obiettivo nonostante il film strappi diverse risate. Visivamente ben curato, anche grazie al contributo del direttore della fotografia Daniele Ciprì, Il Primo Natale può sfruttare anche la convincente interpretazione di Massimiliano Popolizio nel ruolo dello spietato Erode e il pubblico di tutte le età sarà coinvolto nella divertente narrazione dei tentativi dei due protagonisti, costruiti dai due comici in collaborazione con gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Fabrizio Testini sfruttando i contrasti di due figure quasi in opposizione.

PIÙ ORIGINALE DELLE ALTRE PROPOSTE NATALIZIE

Pur non mantenendo alta la comicità dall’inizio alla fine e non osando fino in fondo criticare in modo tagliente la società o le tradizioni, la commedia riesce comunque a inserirsi con una certa originalità tra le proposte natalizie, sfruttando la simpatia trascinante di Ficarra e Picone.

Una scena del film “Il primo Natale”.

IL PRIMO NATALE IN PILLOLE

LA SCENA MEMORABILE

I due protagonisti vengono coinvolti nella nascita di Gesù.

LA FRASE CULT

«Come bambino sarà tranquillo, poi le cose si complicano dopo i 30 anni: moltiplica i pani, cammina sulle acque… buon Natale!»

TI PIACERÀ SE

Ami la comicità semplice e sincera di Ficarra e Picone.

DEVI EVITARLO SE

Non apprezzi le commedie leggere che cercano di offrire riflessioni su aspetti sociali.

CON CHI VEDERLO

Assieme a chi vuole rilassarsi con una commedia natalizia per tutta la famiglia.

PERCHÉ VEDERLO

Per divertirsi con un film in grado di coinvolgere lo spettatore sfruttando tradizioni e problemi sociali.

Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone; genere: commedia (Italia, 2019); attori: Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Massimo Popolizio, Roberta Mattei, Giacomo Mattia.

1. PROGETTO IDEATO DA TEMPO: TUTTO È NATO DAL PRESEPE

La storia alla base del film Il primo Natale era stata ideata da tempo da Ficarra e Picone e i due hanno sottolineato che volevano avvicinarsi al loro primo progetto destinato a una distribuzione durante le feste senza ricorrere a figure come Babbo Natale o le renne, ma riprendendo il racconto tradizionale del compleanno di Gesù. Nicola Guaglianone ha raccontato che si è quindi partiti dall’idea del presepe per poi ampliare il racconto con molte tematiche e situazioni divertenti.

2. FONTI D’ISPIRAZIONE: TOTÒ, VILLAGGIO, BOLDI E DE SICA

Tra i riferimenti cinematografici a cui si sono ispirati Ficarra e Picone per dirigere la commedia ci sono molti film classici, tra cui Non ci resta che piangere e Ritorno al futuro, e comici del calibro di Totò, Paolo Villaggio, Massimo Boldi e Christian De Sica.

Ficarra e Picone nel loro film di Natale.

3. TEMPI STRETTI PER GIRARE: SOLO 10 SETTIMANE

Il tempo a disposizione per le riprese era di solo 10 settimane e questo ha obbligato il team della produzione e i due registi a prepararsi con grande attenzione fin da mesi prima dell’inizio del lavoro sul set, in modo da prevedere eventuali problemi e individuarne subito le possibili soluzioni.

4. CARRIERA DA CELEBRARE: IL DUO FA 25 ANNI ASSIEME

Il duo composto da Ficarra e Picone festeggia i suoi primi 25 anni di carriera e le celebrazioni iniziano proprio con l’uscita del film Il primo Natale nelle sale per poi proseguire con una tournée teatrale che si concluderà a Natale 2020.

5. SPUNTI PER IL PUBBLICO: L’OBIETTIVO DI FAR RIFLETTERE

La scelta di riflettere sul presente è stata sviluppata fin dall’inizio perché Ficarra e Picone hanno dichiarato: «Ci piace l’idea che il pubblico possa uscire dal cinema con una domanda e che abbia voglia di discutere di quello che ha visto, anche rimanendo della sua opinione».

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Perché nessuno riesce a sfuggire al kitsch di Instagram

Quello che era stigmatizzato come una corruzione dell’arte e del gusto, sul social network delle foto diventa un’estetica e uno stato d’animo. L'estratto del libro di Paolo Landi "Instagram al tramonto".

All’imbrunire Instagram ha un’impennata di “like”: perché milioni di persone, in tutto il mondo, sentono il bisogno di condividere l’immagine del sole che cala? Consultiamo Instagram in modo talmente compulsivo ormai da trascurare di interrogarci sul perché lo facciamo. Paolo Landi, con la sua lunga esperienza nel mondo della comunicazione, crede di aver compreso come mai postiamo le foto del cane, di un tramonto e di una pizza.

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CON 16 IMMAGINI DI OLIVIERO TOSCANI

Con puntigliosità pedagogica vuole condividere queste scoperte: avrebbe voluto farlo in modo ironico e leggero, poi l’enormità dell’ipermercato sempre aperto che si nasconde dietro Instagram lo ha impressionato e il resoconto ha preso un tono qua e là apocalittico. Ma si è divertito a scriverlo, rivelando prima di tutto a se stesso le molte facce di questo social, che seduce e coinvolge, portandoci a condividere pezzi della nostra vita, senza mai farci sospettare che le merci in vendita sui suoi scaffali planetari siamo noi. Nel libro, 16 immagini di Oliviero Toscani sintetizzano i punti salienti del testo, quasi un piccolo reperto di archeologia del presente.

  • Le 16 immagini di Toscani

L’AUTORE: UNA CARRIERA TRA MARKETING E COMUNICAZIONE

Paolo Landi, advisor di marketing e comunicazione per grandi aziende, ha pubblicato Lo snobismo di massa (1991), Il cinismo di massa (1994), Manuale per l’allevamento del piccolo consumatore (2000), Volevo dirti che è lei che guarda te. La televisione spiegata a un bambino (2006), Impigliati nella Rete (2008), La pubblicità non è una cosa da bambini (2009).

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L’autore Paolo Landi. (foto Maki Galimberti)

Lettera43.it pubblica un estratto del libro Instagram al tramonto (La nave di Teseo editore, 112 pagine, 12 euro, Milano 2019).

IL KITSCH

Si sfugge al kitsch di Instagram solo uscendo da Instagram. Si può essere animati dalle migliori intenzioni, sostenuti da una cultura solida e da un gusto impeccabile, ma tutti i mosaici di Instagram sono irrimediabilmente kitsch. Non solo i tramonti, i fiori, i piatti di cibi prelibati, il mare e la prima comunione del figlio: anche gli interni di case altoborghesi, il quadro fotografato al Louvre, la “conchiglia” del Guggenheim, la copertina di un libro Adelphi su Instagram si ammantano della melassa tipica del cattivo gusto.

Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: “Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando”

Ciò che prima era visibile da un occhio intelligente – e in un contesto preciso – ora lo può vedere chiunque, fuori contesto. I milioni di foto che si riversano su Instagram ogni giorno provocano un logoramento insieme morale e sensoriale. Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: “Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando”. E spesso ci intestardiamo di trovare il bello nell’umile o nel banale, cercando di riscattarli con il pathos della realtà. Instagram offre l’esperienza fugace di un mondo senza conflitti, senza sofferenza, senza odio né tragedie, una realtà continuamente abbellita che finisce per presentarsi come una iperrealtà falsa.

Non ci sono più scale gerarchiche e se un fotografo famoso posta le sue foto su Instagram, queste non riusciranno ad emergere nell’appiattimento dei criteri formali che la democratizzazione dell’idea di bellezza di Instagram ha prodotto. Il kitsch, che in epoca moderna era stigmatizzato come una corruzione dell’arte e del gusto, su Instagram diventa un’estetica e uno stato d’animo – il più delle volte inconsapevoli e involontari – legittimi e ampiamente diffusi. Tradizionalmente associata a modelli esemplari – nella Grecia classica, per esempio, l’arte mostrava solo corpi giovani, nella loro perfezione – la bellezza secondo Instagram esiste dappertutto, col risultato di azzerarla ovunque.

Per Instagram non c’è nessuna differenza tra lo sforzo di abbellire il mondo e quello di rivelarne la verità. Instagram reagisce all’idea convenzionale di bellezza dilatando enormemente la nostra idea di ciò che è interessante o piacevole guardare. E lo fa in nome della verità e della convinzione che i suoi mosaici forniscano informazioni reali e importanti sul mondo, inteso come globo ma più spesso e più prosaicamente ridotto a un ambito domestico. La foto famosa e anonima del cadavere del bambino migrante restituito sulla spiaggia dal mare ci ha commossi e indignati perché documenta una sofferenza che Instagram rende vicina, verificabile nella sua verità ma segnandone, nello stesso tempo, la distanza.

Chi ha usato il “repost” per quella foto ha piuttosto voluto comunicare il suo grado di partecipazione e di commozione a quell’evento tragico ma, poiché ogni foto su Instagram è solo un frammento, il suo peso morale ed emotivo varia, dipendendo dal contesto in cui quella foto viene mostrata. Un conto è il profilo di Save The Children, dove l’immagine del cadavere del bambino risulterebbe contestualizzata, un conto il nostro profilo, tra selfie, piatti gourmet e gite fuori porta. Come per ogni altro medium, le fotografie postate su Instagram cambiano a seconda dei contesti in cui vengono inserite: ogni profilo suggerisce un modo diverso di usare una foto, senza riuscire a fissarne il significato.

Instagram riesce a trasformare in oggetto di godimento qualunque cosa, dai condomini concentrazionari di Hong Kong – dove deve essere spaventoso abitare, ma che fotografati sembrano belli e simmetrici – alle favelas colorate di Rio, agli ultimi ritocchi mostrati sul profilo di un chirurgo estetico. Si resta affascinati da quasi tutte le fotografie di Instagram e nello stesso tempo turbati dall’inesorabilità con cui vengono appiattite. È talmente forte la tendenza estetizzante delle foto di Instagram – sia che siano eseguite da gente colta e informata, sia da persone semplici e non acculturate – che nessuna sfugge al kitsch, risultando tutte, anche il tramonto più spettacolare, anche il volto di un bambino, triviali.

Instagram propone un mondo trasformato in un ipermercato dell’immagine, dove ogni soggetto è degradato ad articolo di consumo e promosso a oggetto di ammirazione estetica. Grazie a Instagram diventiamo tutti clienti della realtà, o delle realtà, perché i mondi di Instagram sono tutti arraffabili, nella loro confusione, come la merce in un negozio low cost nel primo giorno di saldi. Kitsch è anche l’impulso indiscriminato a fotografare: Instagram istiga tutti a riprendere qualunque cosa, facendo credere a tutti che qualunque cosa oggetto delle loro foto sia interessante. Ma solo Instagram sa che questa invasione fotografica del mondo, con questa produzione illimitata di appunti sulla realtà, omologa tutto: lo sa perché da questa proliferazione di immagini ci guadagna.

La forza di Instagram è nel far credere che si possano conservare momenti che il normale fluire del tempo sostituisce velocemente, che si possano condividere emozioni che la condivisione rende irrimediabilmente fasulle, che mettere “Mi piace” su una foto sia un modo di accreditarsi verso persone e ambienti che nella realtà restano chiusi e impenetrabili. La debolezza di noi utenti è di non sapere, o di sottovalutare, che ogni social network è un’impresa che fa profitti e che la merce in vendita sugli schermi dei nostri smartphone siamo noi.

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Come è andata la prima riunione nazionale delle Sardine

«Vogliamo tornare prima possibile nelle piazze». A un mese esatto dalla manifestazione di Bologna, partecipano 150 promotori delle iniziative di piazza locali che si sono tenute da metà novembre a oggi.

Cosa sarà del futuro delle Sardine? Hanno cercando di capirlo loro stesse – a un mese esatto dalla prima manifestazione di Bologna e all’indomani della prova romana – durante la prima riunione nazionale delle Sardine, alla quale stanno partecipando circa 150 promotori delle iniziative di piazza locali che si sono tenute in da metà novembre a oggi. L’incontro, a porte chiuse, si è tenuto nello Spin Time Labs, una sorta di centro sociale, a due passi da Piazza San Giovanni, dove alloggiano circa 150 famiglie, con tanto di auditorium dove si organizzano eventi culturali. All’ingresso, un grande striscione: «Viva le sardine, abbasso gli sgombri». Alcuni ragazzi alla porta hanno riferito che si tratta sostanzialmente di un primo contatto fisico tra chi in questo mese ha comunicato solo su Facebook. Una riunione, quindi, prettamente organizzativa, durante la quale si discuterà insieme per fare un primo bilancio sulle manifestazioni, su cosa ha funzionato di più e cosa di meno. Sempre le stesse fonti sostengono che non sia all’ordine del giorno né la decisione né il dibattito sull’eventuale presentazione di liste alle prossime elezioni regionali. «Tornare prima possibile nelle piazze: questo è l’obiettivo di questa riunione in cui ci siamo conosciuti», ha detto al termine dell’incontro Mattia Santori.

Dialogo.Per riassumere in una parola cosa è successo nel primo "congresso" delle Sardine basta una parola. Che passa…

Posted by 6000 sardine on Sunday, December 15, 2019

«Dialogo. Per riassumere in una parola cosa è successo nel primo “congresso” delle Sardine basta una parola. Che passa dall’ascolto, dall’empatia, dalla non violenza, dall’accettazione delle diversità. E da un obiettivo comune: tornare sui territori subito», ha scritto il Movimento delle Sardine su Facebook. «Continuare a presentare un’alternativa alla bestia del sovranismo e alle facili promesse del pensiero semplice. Continueremo a difendere la complessità. E lo faremo in maniera semplice, gratuita, creativa. L’obiettivo delle persone che vedete in questa foto non è decidere o comandare. Ma coinvolgere. Se lo vorrete ci rivedremo presto».

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Tre ragazzi sono morti in un tragico incidente nel Veneziano

Uno schianto frontale avvenuto a Noventa di Piave: le vittime sono due ragazze di 22 e 24 anni e un giovane di 25. Nel Veronese morte una madre e una figlia.

Tragedia in provincia di Venezia dove tre giovani sono morti, questa notte, in un incidente stradale in località Musetta a Noventa di Piave. Le vittime sono due ragazze di 22 e 24 anni e un giovane di 25 anni. Secondo una prima ricostruzione l’incidente è stato causato da un frontale tra una Fiat Punto e una Citroen C3. Nonostante i soccorsi, i tre dopo che sono stati estratti dalle lamiere contorte dei vigili del fuoco, sono stati dichiarati morti dal medico del Suem 118. Le vittime sono Giulia Bincoletto, 25 anni di San Donà, e Chiara Brescaccin, 23, di Eraclea, mentre il ragazzo è un trevigiano residente a Salgareda di 20 anni, Matteo Gava. Secondo fonti delle forze dell’ordine il 20enne e Chiara Brescaccin viaggiavano sulla stessa auto, la Punto, mentre Giulia Bincoletto era da sola sulla Citroen C3.

LE IPOTESI AL VAGLIO DEI CARABINIERI

Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, l’incidente sarebbe stato causato dall’invasione della corsia opposta da parte della Punto guidata da Chiara Brescaccin che aveva al suo fianco Matteo Gava. Giulia Bincoletto, figlia del titolare di un noto locale della zona, da quanto si è appreso, stava tornando a casa da una festa sulla sua Citroen C3. Esclusa, come causa dell’incidente, la nebbia e la presenza di ghiaccio sulla strada. Aperte tutte le altre ipotesi, da una distrazione all’attraversamento di un animale così come l’uso del cellulare.

DUE VITTIME ANCHE NEL VERONESE

Un altro schianto, sempre in Veneto, nella notte tra sabato e domenica: due donne sono rimaste vittime dell’incidente stradale avvenuto in tarda serata a San Gregorio di Veronella, nel Veronese. Le vittime sono madre figlia di 28 e 52 anni i cui corpi sono stati estratti dall’auto rovesciata dai vigili del fuoco. Ferito un 22enne, a bordo di una seconda vettura, ricoverato in ospedale.

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Ritratto di Giulini, presidente del Cagliari che ha stregato la Serie A

La vita da imprenditore. L'inchiesta poi archiviata. L'acquisto del club da Cellino. Il rapporto controverso con la tifoseria, che lo tratta da straniero. Nonostante il quarto posto in classifica. Una storia di odi et amo.

Il milanese. Così, a Cagliari, chiamano Tommaso Giulini. E non lo dicono in senso neutro. Lo fanno proprio per togliergli qualcosa. Il sardo è particolare, cresce educato all’idea che l’ospite è sacro ma è anche estremamente geloso e protettivo della sua appartenenza culturale. Lo straniero è straniero e tale rimane, può essere ospite, appunto, e in quanto tale deve essere trattato con grande gentilezza. Se si incontra un forestiero per strada, nei paesi, lo si accompagna al bar e gli si offre da bere, si cumbida, come dicono nell’isola. Fil’e ferru, mirto, Ichnusa. Rigorosamente qualcosa di alcolico, perché «s’abba», l’acqua, da quelle parti si dà «a is froris», ai fiori. Però forestiero rimane, a meno che non si chiami Gigi Riva. Allora in quel caso cambia tutto.

L’IMPRENDITORE VENUTO DAL CONTINENTE (CON UNA MACCHIA NERAZZURRA)

Giulini è il presidente del Cagliari dall’estate del 2014, quando acquistò la società da Massimo Cellino dopo 22 anni di gestione sostanzialmente ininterrotta (eccezion fatta per una brevissima finestra in cui Cellino lasciò la presidenza a Bruno Ghirardi ed emigrò in Florida, continuando comunque a essere il proprietario della società) e, soprattutto, al termine di mesi di bufale e panzane che si rincorsero in città sull’arrivo degli emiri e su una fantomatica cordata americana misteriosa e anonima con grandi progetti per club e stadio nuovo rappresentata dal mitomane Luca Silvestrone. Giulini pagò in primis il peccato originale di rappresentare il risveglio dall’illusione. Il pubblico di Cagliari, che aveva fatto la bocca a scenari in stile Manchester City, si ritrovò con un imprenditore venuto dal Continente, semi sconosciuto, i cui unici legami con il calcio erano legati al fallimento del fratello col Bellinzona e una sua esperienza nel consiglio d’amministrazione nell’Inter. Eccola, l’altra colpa di Giulini: essere interista, un marchio a fuoco sulla pelle che ancora oggi non riesce a levarsi di dosso.

UN CAMPIONATO DA RECORD, MA LA DIFFIDENZA DEI TIFOSI RESTA

Persino ora, che la squadra è quarta in classifica dopo 15 giornate e appare decisamente difficile criticarne la gestione, c’è chi gli rinfaccia di aver “regalato” Nicolò Barella alla sua squadra del cuore. E pazienza se in realtà l’Inter Barella l’ha pagato 45 milioni (bonus inclusi) e se la fumata bianca è arrivata al termine di un lungo tira e molla in cui Giulini non ha ceduto di un millimetro alle sue richieste iniziali. Pazienza persino se quei 45 milioni sono stati quasi integralmente reinvestiti per acquistare Marko Rog, Nahitan Nandez e Giovanni Simeone e pagare l’ingaggio di Radja Nainggolan.

Joao Pedro, 10 gol in questo campionato. Sullo sfondo, Nahitan Nandez.

C’è pure chi ancora si ostina a chiamarlo “tanalla”, una parola che nel cagliaritano indica una persona poco incline a spendere il proprio denaro. “Giulini tanalla” è un urlo che va avanti da quella dannata prima stagione in cui Giulini sognatore avrebbe lasciato spazio al presidente pragmatico dopo una rincorsa al calcio spettacolo iniziata con la faccia di Zdenek Zeman sugli autobus della municipalizzata Ctm e terminata con il Cagliari terzultimo e retrocesso in Serie B. “Tanalla” è l’equivoco che nasce dagli atteggiamenti oculati di un presidente che non spende un euro più di ciò che ha in cassa, che come ha dichiarato in una recentissima intervista a Vanity Fair cerca «la sostenibilità, la stabilità, la serietà».

LA GESTIONE DI FLUORSID E L’INCHIESTA PER DISASTRO AMBIENTALE

Rampollo di una delle più grandi dinastie industriali in Italia nel settore della produzione e lavorazione dell’alluminio, proprietario del gruppo Fluorsid che ha la sua sede nell’area industriale di Macchiareddu, alle porte di Cagliari, Giulini dice di aver deciso di diventare presidente del club «per restituire qualcosa a un territorio dal quale la mia famiglia ha ricevuto tantissimo». Nel 2005, con l’azienda alle prese con la forte concorrenza cinese, decise di sua sponte, all’insaputa del padre, di varare in totale autonomia un aumento di capitale che salvò numerosi posti di lavoro nell’isola. Nel 2017 il suo nome finì tra i faldoni di un’inchiesta per inquinamento e disastro ambientale per smaltimento di scarti di produzione in un’area di 20 ettari antistante il polo produttivo. La vicenda si è conclusa nel luglio scorso con il patteggiamento di 11 indagati, dirigenti a vari livelli dell’impresa, ma Giulini ne era già uscito pulito da tempo: la sua posizione venne immediatamente stralciata e archiviata in quanto estraneo ai fatti, e l’azienda si è fatta carico di un piano da 20 milioni per la completa bonifica dell’area.

QUELLA PROMESSA CHE STRIZZA L’OCCHIO ALLA PROFEZIA

Il Giulini di oggi è profondamente diverso dal Giulini di qualche anno fa, diverso da quando giocava in porta e si buttava sui piedi degli attaccanti nelle categorie inferiori, diverso da chi l’ha preceduto alla guida del Cagliari. È uomo di equilibrio, nelle scelte societarie e nelle uscite pubbliche, così distante dallo stile che fu di Cellino. Dopo quella prima stagione già citata, ha tenuto lo stesso allenatore, Massimo Rastelli, per due anni e mezzo, e ora si trova alla seconda stagione con Rolando Maran. Non prende scelte avventate, ragiona e pondera, non si lascia influenzare dal sentimento popolare che circonda la squadra.

Nel 2014 Giulini promise un nuovo stadio e la Champions League per il centenario del club, fondato nel maggio del 1920

Eppure continua a camminare in bilico sul filo che divide il sogno dal pragmatismo, come se fosse il protagonista, o meglio ancora l’autore, di un romanzo che fa eco al realismo magico di Marquez o Borges. Quando arrivò nel 2014 promise un nuovo stadio e la Champions League per il centenario del club. Il Cagliari è stato fondato nel maggio del 1920 e, mentre la data fatidica si avvicina, ciò che resta del Sant’Elia semi distrutto osserva placido il piccolo impianto temporaneo della Sardegna Arena. E lo stadio nuovo rimane ancora solamente su carta, ben lontano dall’essere realizzato. In compenso la squadra è quarta in classifica, non perde da 13 partite, ha il terzo attacco del campionato e un brasiliano – Joao Pedro – che ha segnato 10 gol nelle prime 15 giornate, eguagliando il record di Riva.

GIULINI RESTA “IL MILANESE” E “LA TANALLA”

Giulini, però, continua a essere “il milanese”, l’interista, per qualcuno, nonostante tutto, addirittura “la tanalla”. Non si è mai trasferito a Cagliari e non ha intenzione di farlo, preferisce osservare la sua creatura da lontano e godersi il momento nella tranquillità che lui e la sua famiglia si sono costruiti “nel Continente”. E non se la prende se tanti sardi provano nei suoi confronti ancora un sentimento di diffidenza. Lui, col tempo, ha imparato a conoscerli e apprezzarli per ciò che sono. Chissà che un giorno non possa essere pienamente ricambiato.

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L’endorsement di Di Maio alle Sardine

«Bella piazza, sarebbe bello lavorare insieme», ha detto il leader del M5s dopo la manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma. E sulla Popolare di Bari dice: «Va nazionalizzata».

Alla fine le Sardine si sono prese anche piazza San Giovanni a Roma, luogo storico della sinistra, stipate a decine di migliaia. Più di 100 mila per gli organizzatori. Un terzo circa, per la questura. E proprio le Sardine sono uno dei due argomenti principali di una lunga intervista di Luigi di Maio al Corriere. «Bella piazza, si può lavorare insieme», ha detto il ministro degli Esteri. «Ogni nostra convergenza è sempre sul programma. Ma facciamo così: per ipotesi, sarebbe bello lavorare insieme su ambiente, giustizia, diritti sociali, lavoro, casa e aiuto alle persone in difficoltà».

SULLA POPOLARE DI BARI: «COMMISSIONE D’INCHIESTA SULLE BANCHE»

Invece della Popolare di Bari, ultima patata bollente finita sul tavolo del Governo, Di Maio pensa che vada «nazionalizzata». «Se una banca fallisce», ha spiegato il capo politico del M5 sempre al Corriere, «non è colpa dei risparmiatori. La solidità del sistema è fondamentale, ma se ci sono manager che hanno prestato soldi allo scoperto, devono pagare. Il tempo del silenzio è finito», sostiene. E sulla necessità di salvare prima i risparmi di 70 mila famiglie, ha osservato: «Possiamo fare tutte e due le cose: avviare in Consiglio dei ministri il procedimento che metta agli atti i nomi di chi ha ricevuto soldi allo scoperto, facendo chiarezza sui legami politici locali, e contestualmente mettere al riparo i risparmi. E bisogna far partire la commissione d’inchiesta sulle banche». Se lo Stato – ha aggiunto – «deve mettere soldi per salvare i conti correnti, dobbiamo fare in modo che quella banca sia nazionalizzata. Il nostro progetto è la banca pubblica degli investimenti». E in merito al decreto: «Daremo due risposte, una ai mercati, l’altra ai cittadini».

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Perché la lotta all’evasione fiscale non è una missione così impossibile

Imposte troppo alte? Il sistema andrebbe riformato in modo sostenibile. E non con singole norme scoordinate. Partendo dalla riduzione del "nero": limite del contante, tracciabilità dei pagamenti, fatturazione elettronica, split payment e altro: i consigli del libro "Giù le tasse, ma con stile!".

Facile dire «abbassiamo la pressione fiscale». Però come? Di quanto? Giù le tasse, ma con stile! è un libro si propone di offrire un piccolo contributo di idee per delineare un sistema fiscale che si possa realmente qualificare come un insieme coordinato di norme, che sia più equilibrato tra l’imposizione diretta e quella indiretta, più garante dell’equità tra i contribuenti e più giusto, visto che una “giusta imposta” non solo costituisce il collante di una società bene ordinata, ma rappresenta lo strumento per garantire sia il sostegno delle spese pubbliche necessarie alla collettività sia lo sviluppo economico.

NORME DISPARATE CHE GENERANO INIQUITÀ

Anche perché ormai abbiamo superato il più esasperato limite di sopportabilità e sostenibilità. Ma ciò di cui necessitiamo in Italia non sono singole misure scoordinate tra loro che generano inique disparità di trattamento, come è stato fatto finora, bensì di una radicale riforma che lo ricostruisca secondo i principi e l’assetto voluto e imposto dalla Costituzione.

L’AUTORE: ESPERTO DI DIRITTO TRIBUTARIO

L’autore del libro è Fabio Ghiselli, dottore commercialista e revisore legale, specializzato in diritto tributario. Ha svolto la sua carriera professionale come Tax director di primarie aziende industriali e finanziarie. Studioso ed esperto di politiche fiscali e del lavoro, è stato docente ai Master tributari di Ipsoa – Wolters Kluwer, dell’Università Bocconi, e relatore in conferenze e convegni specialistici. Autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di alcuni volumi su temi di diritto tributario, scrive sulle riviste del settore e sui quotidiani specializzati.

Lettera43.it pubblica un estratto di Giù le tasse, ma con stile! (Editore Franco Angeli, 2019, 25 euro, 232 pagine).

LOTTA ALL’EVASIONE: UNA MISSIONE IMPOSSIBILE?

È possibile che non si riesca a ridurre l’evasione fiscale? Nonostante gli interventi di contrasto messi in atto in questi ultimi tempi, come lo split payment e la lotta alle frodi “carosello” da sempre condotta dalla Guardia di finanza con risultati positivi, sembra che la risposta a questa domanda sia negativa. Questo è un tema fondamentale perché l’evasione alimenta e perpetua lo stato di iniquità del sistema con evidenti ripercussioni sulla stabilità e sulla coesione sociale, e rappresenta una componente che distorce la concorrenza tra le imprese a danno di quelle che scelgono di comportarsi correttamente o di quelle che non si trovano nelle condizioni di poter evadere. Quest’ultimo aspetto dovrebbe destare un particolare interesse nelle organizzazioni imprenditoriali, posto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di tutelare gli interessi di tutti i propri iscritti, che potrebbero accentuare il loro impegno sia nei confronti del governo, per spingerlo ad adottare adeguati provvedimenti di contrasto all’evasione, sia nei confronti dei propri associati attraverso la diffusione, come moral suasion, di best practices comportamentali. […]

Ci sarebbero alcuni interventi concreti che potrebbero dare un contributo al contrasto all’evasione (alcuni hanno già iniziato a darlo), come, per esempio:

  1. Limitare l’uso del contante nelle transazioni: l’attuale valore di 2.999 euro – innalzato a decorrere dal primo gennaio 2016 dalla legge di stabilità 2016 rispetto al precedente limite di 1.000 euro – appare sproporzionato rispetto alle necessità correnti, che dovrebbero limitarsi ai piccoli acquisti. Non è ammissibile che in Italia l’86% delle transazioni avvenga in contanti (come la Spagna e la Grecia). Abbiamo la rete più estesa, come numero, di Pos ma il tasso di utilizzo di “strisciate” più basso (da 1,5 a 10 volte inferiore). […]
  2. Prevedere l’effettiva tracciabilità dei pagamenti: soprattutto per determinate transazioni, come gli acquisti di servizi professionali, i canoni di locazione, le spese che danno luogo a oneri deducibili o detraibili. La tecnologia in uso è già perfettamente in grado di supportare tale sviluppo, mentre ciò che manca è la conoscibilità delle transazioni da parte dell’AF che potrebbe avvenire, almeno nella fase iniziale, utilizzando adeguati criteri di sicurezza e di anonimato nell’elaborazione e nell’accesso ai dati;
  3. La fatturazione elettronica: ormai l’obbligo riguarda sia i rapporti commerciali B2B sia quelli con i privati B2C (dal 2019 con la legge di bilancio 2018). Sono note le critiche sollevate nei primi mesi dell’anno dagli operatori, imprese e consulenti, sulla rigidità dello strumento informatico sia nella fase di formazione del documento, sia in quella della sua trasmissione telematica. Se in parte, l’atteggiamento negativo può essere stato indotto da un naturale blocco psicologico verso ogni rivoluzione che sconvolge le nostre abitudini, in larga misura è stato determinato da ragioni tecniche che avrebbero potuto essere risolte se la fase di realizzazione del sistema fosse stata effettivamente condivisa con le organizzazioni imprenditoriali e professionali, imparando dalle esperienze vissute da quei Paesi che prima di noi l’hanno adottata. Anche se relativamente al primo blocco di invii avvenuti entro il 18 febbraio il sistema ha scartato solo il 4,4% delle fatture emesse, su 228 milioni, si tratta sempre di oltre 10 milioni di problemi tecnici che prima gli operatori non avevano. Se l’uso ripetuto dello strumento lo renderà più gestibile, sarebbe importante realizzare comunque interventi migliorativi e semplificativi affinché gli operatori percepiscano la fattura elettronica come uno strumento in grado di produrre vantaggi nella gestione del tempo e delle procedure, ossia minori costi di stampa, di spedizione e archiviazione, di integrazione dei processi e una più efficace gestione dei pagamenti. Una duplice funzione, insomma: garantire la conoscenza dei dati e delle operazioni in tempo reale da parte dell’AF al fine di effettuare controlli tempestivi, e consentire un risparmio di costi per gli emittenti. Per tali ragioni, la fatturazione elettronica dovrebbe essere considerata come metodologia standard di emissione delle fatture: non è pensabile che alcune di esse (per es. quelle verso soggetti non residenti) siano emesse con metodologie differenti e parallele. Questo complica la gestione amministrativa delle imprese innalzando i relativi costi. Altro aspetto è quello della funzione anti-evasiva della fattura elettronica. Per questo fine la legge istitutiva ha previsto maggiori incassi per il 2019 pari a 2 miliardi di euro che, però, non è detto che saranno raggiunti. Perché l’aumento delle entrate tributarie registrato nei primi sei mesi del 2019 (pari a 2,475 mld di euro) sarebbe dovuto solo per 300 milioni al maggior gettito Iva sugli scambi interni, in particolare grazie alla fatturazione elettronica (Audizione del DG Finanze F. Lapecorella dinanzi le Commissioni congiunte V Bilancio del Senato e della Camera dei deputati, del 16.7.2019). Ma fatta salva la validità dello strumento, non basta la sua presenza per contrastare l’evasione.
  4. Split payment e reverse charge si sono dimostrati un valido strumento per contrastare il mancato versamento dell’Iva e ben potrebbero essere estesi ad altri settori economici e tipologie di transazioni. Invece l’Italia si è impegnata con l’Unione europea a non chiedere una proroga dello split payment oltre il 30 giugno 2020, una volta attuata la e-fattura. Quello che occorrerebbe evitare è l’insorgere di un danno a carico delle imprese e dei professionisti, implicito nella mancata disponibilità di denaro per il periodo intercorrente tra la data del pagamento della fattura e quello della liquidazione periodica e del relativo versamento dell’imposta. Premesso che sarebbe il caso di uscire dalla logica che vede l’imposta incassata, di competenza dell’erario, come una fonte di finanziamento dell’attività, il problema potrebbe essere risolto, almeno in gran parte, estendendo ai soggetti interessati dalla procedura la possibilità di chiedere il rimborso mensile o trimestrale del credito Iva maturato e garantendo tempi di erogazione del medesimo più “europei”, ossia in termini di giorni o poche settimane, e non di mesi come avviene oggi. Va tenuto presente, tuttavia, che esiste la possibilità di utilizzare la procedura di compensazione (del credito Iva con i debiti per altre imposte e contributi) prevista dall’art. 34, co. 1, l. n. 388/2001, per la quale potrebbe essere elevato o addirittura eliminato il limite massimo pari a 700 mila euro, ma non i controlli introdotti dal Dl n. 50/2017. Se lo split payment ha una funzione specifica, come abbiamo visto, qualche dubbio fa sorgere l’estensione dello strumento alle società quotate (nei confronti dei rispettivi fornitori), perché si pongono due soggetti privati in concorrenza tra loro avvantaggiando, dal punto di vista finanziario, le società quotate, che non ne avrebbero bisogno, avendo una struttura finanziaria più solida;
  5. Estendere l’applicazione della ritenuta d’acconto – oggi prevista a carico solo dei lavoratori autonomi nella misura del 20%, ex art. 25, Dpr n. 600/73 – anche alle operazioni economiche (cessioni di beni e prestazioni di servizi) effettuate da e tra tutti i soggetti Iva. L’aliquota potrebbe essere inferiore a quella del 20%, allo scopo di evitare la trappola della liquidità a danno delle imprese, dovuta al fatto che, per queste ultime, l’incidenza dei costi sul fatturato e le variazioni in aumento e in diminuzione dell’utile di bilancio, sono maggiori, rispetto ai lavoratori autonomi. Anche se le imprese avrebbero comunque la possibilità di operare non solo la compensazione verticale (nell’ambito della stessa imposta), ma anche quella orizzontale (con imposte diverse e contributi). La titolarità di un credito nei confronti dell’erario per ritenute d’acconto subite, indurrebbe il contribuente a dichiarare il reddito correlato al fine di utilizzare il credito. È vero che un contribuente potrebbe scomputare le ritenute senza dichiarare il reddito, ma questa operazione genererebbe un’incoerenza contabile che potrebbe essere abbastanza semplicemente verificata in sede di controllo da parte dell’AF, tanto che l’analisi del Nens citata in nota, prevede che sia «ragionevole ritenere che l’evasione intermedia dovrebbe scomparire del tutto». Questa misura non inciderebbe sull’evasione perpetrata dai soggetti che operano sul mercato finale di consumo, ma potrebbe essere contrastata dall’introduzione dell’obbligo di tracciabilità dei pagamenti (almeno di quelli superiori a un determinato ammontare minimo);
  6. Abrogazione della disciplina sulle c.d. “società di comodo” e utilizzo dei dati dichiarativi in possesso dell’AF per avviare una campagna di verifiche sistematiche allo scopo di contrastare fenomeni di evasione (e non di elusione, come qualcuno ancora pensa si tratti), generati dall’interposizione reale di soggetti giuridici. […]

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Le donne di successo sono definite sempre per il loro genere

Il gender gap priva le giovani di modelli di riferimento sui testi scolastici. Così quelle che ce la fanno diventano dei simboli. Sarebbe bello che non fosse più così.

«Quando sono arrivata da Dior, nessuno si domandava se avessi talento o meno. Tutti però osservavano come fossi la prima donna nominata alla direzione creativa della maison». A dire il vero lo hanno anche scritto. In tanti. Una volta ce lo disse perfino il tassista che ci accompagnava alla sfilata, aggiungendovi una punta di derisione sciovinista: «Ah, chez Dior, on avait juste besoin d’une italienne, et une femme en plus». Non abbiamo di certo mai mancato di scrivere quel che pensassimo di ogni singola collezione di Maria Grazia Chiuri, che è una manager di grande successo nonostante talvolta ci sembri che vada un po’ troppo per le spicce sull’approfondimento del pensiero creativo, ma quella volta ci accapigliammo con l’autista.

UNA “DOPPIA OFFESA”

La doppia offesa – donna, italiana – era intollerabile a prescindere. Immaginiamo che cosa debbano essere stati quei primi mesi, e che cosa debba essere tuttora, a quasi quattro anni dalla nomina, la vita “chez Dior”, e questo nonostante la grandiosa risposta al suo lavoro in termini di vendita e di notorietà del marchio. Prima di lei, e a dispetto del genio assoluto di John Galliano, Dior era un marchio amato dalle signore, relativamente difficile da portare, complesso da intelligere. Adesso, sono le ragazzine a desiderare ogni singolo abito e accessorio, a sognare Dior per la festa del diciottesimo e per il dono del compleanno, e dunque non possiamo che rallegrarci con il lavoro di Chiuri e con la guida sapientissima della maison da parte di Pietro Beccari.

LA LEZIONE DI CHIURI

Invitata per la lecture di apertura del Master in Science of Fashion dell’Università La Sapienza, di fronte agli studenti internazionali, tantissimi ed entusiasti, che affollavano l’Aula Magna di Lettere, la mattina del 13 dicembre Maria Grazia Chiuri ha parlato a lungo della barriera culturale che, di certo non solo in Italia, prevede ancora che una donna sia giudicata innanzitutto in quanto tale, cioè come portatrice e simbolo di un genere prima che, di un talento o di una professione, portando ad esempio il suo concretissimo e volenteroso contributo a un processo di cambiamento che, siamo oneste, negli ultimi 40 anni non ha fatto grandi passi avanti.

MANCANO MODELLI SUI LIBRI DI SCUOLA

In queste righe abbiamo scritto a lungo, quasi ogni settimana, delle cause di queste difficoltà, additando via via le carenze di testi scolastici che, dalle scuole elementari in poi, portino all’attenzione delle bambine e delle pre-adolescenti esempi di ruolo e modelli ai quali ispirarsi e da cui trarre forza (davvero non è pensabile che, in un panorama foltissimo di intellettuali, le uniche poetesse cinquecentesche segnalate sui testi in adozione presso i licei siano Gaspara Stampa e Veronica Franco, e quest’ultima in particolare con una strizzatina d’occhio nei riguardi della sua posizione di cortigiana), ma anche le cause per così dire endogene. Autoindotte. Il semplice fatto che le donne si mostrino, che ci mostriamo tutte, acquiescenti nei confronti di chi sottolinea che siamo «le prime» a ottenere una certa carica, e grate per averla ottenuta, di solito a carissimo prezzo: direttori creativi di quel mondo molto maschile che è l’alta moda, direttori di quotidiani, amministratori delegati di multinazionali dell’acciaio, presidenti di istituzioni fondamentali per lo sviluppo (Francesca Bria, Fondo Innovazione) o della Corte Costituzionale.

UNA PRESSIONE IN PIÙ

Ci ha colpito molto la gaffe emotiva di una donna pure fortissima come Marta Cartabia che, al momento della nomina alla massima carica giuridica nazionale, ha dichiarato di aver «rotto il vetro di cristallo»: nel piccolo qui pro quo mostrava non solo di sentire il peso del proprio ruolo, ma anche il suo portato simbolico: non era solo «il nuovo presidente della Corte Costituzionale». Era «la prima donna» ad esserlo diventato. Che è risultato importante, importantissimo. Ma lo sarà ancora di più quando non dovremo usare il marker del genere per festeggiarlo.

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