Perché la Disney ha sbagliato (quasi) tutto con Star Wars

Il 18 dicembre è uscito L'ascesa di Skywalker, ultimo capitolo della nuova trilogia. Il film ha riscosso timide critiche e chiuso un cerchio non facile. Dimostrando tutte le lacune della produzione.

Diventare il conglomerato più grosso di Hollywood non è stato sufficiente a maneggiare una delle saghe più delicate della cinematografica contemporanea. Potrebbe essere sintetizzato così il tormentato rapporto tra la Walt Disney Company e il mondo di Star Wars. E l’uscita nelle sale di Star Wars – L’ascesa di Skywalker rappresenta l’epilogo di questa produzione travagliata. Il 18 novembre l’episodio nove della serie partorita dalla mente di George Lucas è sbarcato in sala. E le timide reazioni di critica e pubblico hanno confermato che il cerchio non si è chiuso al meglio. Il problema è che la parabola iniziata nel 2015 con l’uscita del Ritorno della forza ha subito talmente tante correzioni che centrare l’obiettivo era impossibile.

UN FILM TROPPO DENSO PER ESSERE APPREZZATO

Partiamo dal finale, ovviamente senza spoiler. Nelle oltre due ore e 22 minuti J.J. Abrams, che è tornato dietro la macchina da presa e alla sceneggiatura dopo la parentesi di Rian Johnson, è stato costretto agli straordinari. Sì, perché la direzione di Johnson, oltre a scontentare ampiamente i fan più ortodossi, aveva scardinato quasi completamente i piani originali di Abrams delineati due anni prima con l’episodio sette. La sensazione, mano mano che la pellicola scorre, è quella di vedere due film.

SMANTELLATA L’EREDITÀ DI JOHNSON

La prima ora circa è un film a sé. Smonta pezzo per pezzo quanto fatto ne Gli Ultimi Jedi, e riannoda i fili con il capitolo del 2015. Allo stesso tempo il vero episodio nove ha solo un ora e 20 per tirare le conclusioni. Ecco quindi che il montaggio è serrato, pure troppo. I personaggi, e gli spettatori, praticamente non respirano mai. Mancano i momenti per gustarsi i paesaggi e le situazioni, come ha scritto Adi Robertson su The Verge. Si può avere un’idea di questa altalena nei primi minuti forsennati quando il personaggio di Poe Dameron, interpretato da Oscar Isaac, guida il Millennium Falcon in una serie di salti nell’iperspazio che fanno più che altro girare la testa. Il resto del film risponde a molte delle domande che erano rimaste in sospeso. Johnson le aveva semplicemente ignorate, Abrmas, che le aveva poste, salva capra e cavoli cercando risposte coerenti, anche se non sempre ci riesce. Al termine della forsennata corsa dei personaggi resta un buon finale, scontato, ma non troppo, fedele ai fan, ma fino a un certo punto. Il problema è che in questa fetta restano indietro diversi dettagli che avrebbero meritato più respirto e che forse potrebbero trovare posto in spin-off dedicati.

Adam Driver nei panni di Kylo Ren in una scena di Star Wars – L’ascesa di Skywalker

GLI EFFETTI DELLE “INNOVAZIONI” DI JOHNSON SULLA SAGA

La sensazione è che Abrams abbia voluto sconfessare quanto fatto dal predecessore. E questo è uno dei limiti di questa nuova trilogia. Ci sono film simili, il primo e il terzo, e il secondo che si erge come barriera tra i due. Le “colpe” di Johnson sono evidenti. Ha deluso i fan soprattutto per non aver rispettato i personaggi, distorcendo quelle che erano le loro caratteristiche e questo ha complicato tutta la storyline principale. Quello che ha fatto il regista di Silver Spring non è stato però tutto da buttare. Gli Ultimi Jedi ha introdotto e allargato l’universo Jedi innovando, a modo suo, anche in maniera curiosa. E infatti quegli spunti sono rimasti anche nell’ultimo capitolo. La dicotomia tra Rian e Abrams non è però il frutto di due modi diversi in intendere la saga, ma dei pesanti limiti della produzione Disney.

I LIMITI DELLA PRODUZIONE DISNEY

Visti tutti e tre insieme, i film della trilogia targata Disney sembrano slegati, sfilacciati. Sono capitoli consecutivi di una stessa storia che però procedono per contro proprio e questo non può essere responsabilità di questo o quel regista, ma delle scelte dei vertici che non hanno saputo disegnare un progetto coerente. La carenza più grave risiede nel fatto che è stato portato avanti un lavoro senza aver bene in mente dove arrivare. Quando negli Anni 80 Lucas si occupò degli episodi cinque e sei, lasciò sceneggiatura e regia ad altri per preoccuparsi della produzione. E infatti uscirono i migliori film dell’intera saga. Lucas aveva delineato i soggetti costruendo una storyline coerente che poi altri avevano arricchito. Così non ha fatto la Disney. Quando nel 2012 la major di Burbank completò l’acquisizione della Lucasfilm, Lucas lasciò in eredità un plot che indicava la possibile eredità dei personaggi, in particolare la famiglia Skywalker, ma in casa Disney venne ignorato tutto.

Daisy Ridley interpreta Rey in una scena di Star Wars – L’ascesa di Skywalker.

PERCHÈ A STAR WARS SAREBBE SERVITO UNO SHOWRUNNER

Kathleen Kennedy, storica produttrice dei film di Steven Spielberg, nel 2012 venne messa a capo della Lucasfilm e da allora si è occupata di creare, ammodernare ed espandere l’universo di Star Wars. Il problema è che ciò è stato portato avanti senza progettualità. Soprattutto nel gestire la trilogia è mancata una figura centrale di coordinamento. Una specie di “showrunner” che, come nelle serie tivù, si occupasse della coerenza interna. Qualcuno che tenesse a bada l’estro di Johnson e rendesse i tre film più amalgamati. Kennedy, intervistata da Rolling Stone in occasione dell’uscita de L’ascesa di Skywalker, ha spiegato che ogni film della trilogia «è difficile da completare. Non c’è materiale su cui basarsi. Non abbiamo i fumetti. Non abbiamo romanzi da 800 pagine. Non abbiamo altro che narratori pieni di passione che si riuniscono e parlano di quale potrebbe essere la prossima avventura». Un problema sicuramente reale, ma forse si poteva fare meglio e paradossalmente la Disney aveva la soluzione in casa.

COSA POTEVA FARE DISNEY PER GESTIRE LA SAGA

In anni recenti, dove il pubblico nutrito a base di Netflix si è abituato alla serialità, è paradossalmente diventato difficile costruire saghe cinematografiche. Ne sa qualcosa ad esempio la Warner Bros che ha cercato di creare un’universo intorno ai personaggi dei fumetti DC mancando il bersaglio, pur mettendo insieme degli stand-alone, come Wonder Woman e Aquaman, che hanno sbancato i botteghini. Il punto però è che Disney aveva in casa il know-how necessario per provare a fare qualcosa di meglio, e questo già dal 2009 quando ha acquisito la Marvel. In particolare la soluzione aveva un nome cognome: Kevin Feige. O meglio il suo metodo.

Il presidente dei Marvel Studios Kevin Feige.

UN “METODO FREIGE” PER SALVARE LA COERENZA DELLA SAGA

Proprio quest’anno con Endgame si è chiuso l’ampio ciclo del Marvel Cinematic Universe, unico, e per ora solo, esperimento riuscito di universo cinematografico. I giganteschi fumettoni Marvel, pur con tutti i limiti che queste produzioni portano con sé, avevano il merito di avere una visione, una linea abbastanza coerente. Vien da chiedersi se un po’ di questa esperienza non sarebbe servita alla Lucasfilm. Forse il “metodo Feige” resta più adatto per lo sviluppo dei fumetti, ma probabilmente avrebbe aiutato a sviluppare una saga in modo più equilibrato.

Ma in casa Disney non è tutto da buttare. Il 12 novembre 2019, con il lancio della propria piattaforma di streaming, Disney+, è stata resa disponibile The Mandalorian, serie ambientata tra il capitolo sei e sette e che vede tra i protagonisti un cacciatore di taglie e una nuova-vecchia creatura che ha fatto impazzire i social: Baby Yoda. Un prodotto che ha subito riscosso il plauso dei fan. Una serie costata moltissimo, quasi 100 milioni di dollari e ideata da Jon Favreau, lo stesso Favreau che ha prodotto e diretto i primi due Iron Man, un caso? Forse no.

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Upday lancia earli e punta a raggiungere tutte le piattaforme iOS e Android

Axel Springer pronto a lanciare la nuova famiglia di app. Già pronta earliAudio per i podcast, in arrivo anche quella per le "flash news".

Upday si espande. La società dell’editore tedesco Axel Springer che cura l’app di news Upday for Samsung, ha lanciato una nuova gamma di prodotti sotto il marchio earli con l’obiettivo di approdare su tutti gli smartphone oltre quelli del marchio coreano.

LANCIATA LA PRIMA APP PER PODCAST

La prima app, già disponibile su Play Store e App Store, è stata earliAudio dedicata tutta al mondo del podcasting e che propone agli utenti podcast basati sui propri interessi. L’app di podcast è disponibile in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, olandese e polacco. Le diverse edizioni possono essere utilizzate in contemporanea. EarliAudio, però, prepara il terreno anche ai prossimi prodotti. L’app infatti è dotata di una sezione per le “Flash News” dedicata alle principali notizie del giorno.

VERSO UN APP PER LE NEWS

Al fianco di earliAudio nelle prossime settimane arriverà anche un’altra applicazione per le news, earliNews, app di notizie concepita come Upday e che unisce l’esperienza giornalistica con l’intelligenza artificiale. Come per la gemella dedicata ai podcast, anche earliNews sarà disponibile in 12 lingue e 16 Paesi europei, tra cui l’Italia.

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Pietro Gaffuri lascia la Rai

Viale Mazzini perde l'uomo a cui era stata affidata la direzione per la messa in opera del piano industriale. Un'altra tegola per l'azienda, già scossa dalle tensioni tra Foa e Salini.

Avevamo titolato “un 2019 da dimenticare per la Rai“, e ne abbiamo avuto conferma dopo la riunione del Cda e della Commissione di Vigilanza di giovedì 19 dicembre. Come se non bastasse, si aggiunge anche l’uscita di un dirigente di peso come Pietro Gaffuri. Ma andiamo con ordine.

IL GELO TRA FOA E SALINI

È gelo tra Marcello Foa e Fabrizio Salini sulle conseguenze della finta mail firmata Tria e spedita da un sedicente avvocato ginevrino al presidente di Viale Mazzini su cui i due hanno dato interpretazioni diametralmente opposte. Se il presidente ha lamentato la vulnerabilità informatica dell’azienda, sottolineando di aver chiesto più volte all’ad di provvedere ad alzare il livello di sicurezza, al contrario Salini ha riferito che Foa non aveva sollevato alcuna obiezione né perplessità sul contenuto della mail, che altro non era che un tentativo di estorsione attraverso una richiesta di soldi. Come se non bastasse, nel corso dell’audizione in Cda che doveva fornire un aggiornamento sullo sviluppo del piano industriale, il direttore generale Corporate Alberto Matassino e il Transformation Officer, Gaffuri, hanno ammesso che la partenza operativa del piano industriale targato Salini- Foa non potrà avvenire prima dell’autunno 2020.

LA MANCATA NOMINA DI TEODOLI

In questo quadro non desta stupore la mancata nomina di Angelo Teodoli alla direzione distribuzione dei generi che avrebbe rappresentato comunque un primo tassello per l’avvio del nuovo progetto. Ma la notizia incredibile che Lettera43.it è riuscita ad avere in via confidenziale è che Gaffuri, a cui Salini e Matassino avevano affidato la direzione cruciale per la messa in opera del piano industriale non più tardi del maggio di quest’anno, ha firmato con la Rai la sua uscita dall’azienda a far data dal 31 marzo 2020. Non sono note le ragioni dell’uscita, ma certo è che Salini e Matassino dovranno fare presto a individuare un sostituto capace di assumere l’incarico e di entrare nell’operatività immediata per evitare uno stop che allungherebbe ulteriormente i tempi di un piano che, complice la paralisi su nomine e i veti incrociati, nonostante agli inizi di ottobre abbia ricevuto il via libera del Mise, non è riuscito ancora a partire.

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Caso Salvini-Gregoretti: Italia viva vuole fare da ago della bilancia

Renzi tiene il governo in stand-by sull'autorizzazione a procedere in Giunta a Palazzo Madama. Entro il 20 gennaio il voto.

«Leggeremo le carte e decideremo, senza isterismi e senza sventolare cappi e manette, come si fa nei Paesi civili», ha scritto in un post su Facebook il capogruppo di Italia Viva in Senato Davide Faraone, tornando sulla vicenda del voto sulla vicenda della nave Gregoretti. «E adesso la domanda è: quindi salvate Salvini dal processo?», scrive Faraone: «Noi non usiamo le questioni giudiziarie a fini politici, non lo abbiamo mai fatto e mai lo faremo. Oppure il garantismo vale per gli amici, mentre per gli avversari politici si diventa giustizialisti?».

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Ottimismo e sangue freddo: identikit del buon investitore

Sappiamo che nei momenti peggiori si colgono le migliori opportunità. Peccato però che quando poi ci si trova a tu per tu con un calo del 50%, le teorie crollano e le emozioni (negative) dominano. Ecco come e perché tenerle a bada.

Nel processo di controllo (e autocontrollo) dei propri investimenti visto nelle ultime settimane occorre analizzare l’ultimo passaggio fondamentale per il risparmiatore alle prime armi: inserire il pilota automatico. Che i mercati non possano solo salire lo sappiamo tutti. Così come tutti, nei momenti peggiori, ci diciamo: «Nelle discese più profonde si colgono le migliori opportunità». Peccato però che quando poi ci si trova a tu per tu con un calo del 50%, le teorie crollano e le emozioni (negative) dominano. La verità, infatti, è che appena i mercati iniziano a scendere riaffiorano i comportamenti irrazionali, e con questi la voglia di entrare e uscire dai mercati, anticipare i crolli, investire nei minimi per uscire sui massimi: comportamenti che nel 99,99999999% dei casi non riescono mai a produrre l’effetto desiderato.

LE VOSTRE SCELTE FORMANO I PREZZI DEI PRODOTTI FINANZIARI

I mercati (azionari, obbligazionari o di qualunque altro tipo) semplicisticamente non sono che la somma di tutte le scelte di acquisto e di vendita di tutti i partecipanti ai mercati stessi. Le scelte formano i prezzi dei singoli prodotti finanziari e determinano i rialzi e i ribassi di un determinato mercato. Può essere interessante osservare come negli ultimi 11 anni, a partire dalla pesantissima crisi del 2008, l’indice della paura, il cosiddetto «VIX» (Volatility Index), utilizzato dalla maggioranza degli analisti per «prevedere» l’imminente crollo dei mercati, abbia dato a più riprese una serie di falsi segnali spiazzando completamente chi, più furbo degli altri, aveva pensato di uscire dal mercato per poi rientrarci a prezzi più convenienti. Bene, in quest’ultimo decennio i «furbetti del mercatino» sono più volte rimasti a bocca asciutta, proprio perché, a dispetto delle previsioni, il mercato ha continuato a salire senza soluzione di continuità. Il singolo investitore, in pratica, può essere paragonato alla classica goccia in un oceano formato da tantissime goccioline che oscillano, scivolano le une sulle altre, creano onde, si mischiano e fluttuano, ma in cui nessuna può condizionare il movimento complessivo del mare. Tutte ne fanno parte, ma nessuna può avere la forza di andare contro corrente, può solo accettare l’evoluzione delle onde.

LA CONSAPEVOLEZZA FINANZIARIA PRIMA DI TUTTO

Per questo per investire bene bisogna maturare buone abitudini finanziarie, quelle piu volte suggerite in questa rubrica, inserire il pilota automatico (magari aiutati da un fedele e professionale consulente-copilota) e lasciarsi trasportare dalla propria consapevolezza (finanziaria). Quella consapevolezza che è stata sempre il vero e unico motivo per cui scrivo. Questa rubrica compie oggi cinque anni e negli oltre 250 articoli scritti per questo giornale non vi ho mai parlato di marche di prodotti. Non vi ho mai consigliato uno specifico strumento. Non ho mai magnificato una determinata griffe. Perché non era e non è l’obiettivo di questa rubrica, che tenta solo di farvi maturare più consapevolezza e sicurezza quando entrate in un negozio e il commesso vi accoglie con la classica frase: «Prego, di cosa ha bisogno? Posso esserle d’aiuto?».

BISOGNA SAPERE SCHIVARE CERTE PRESSIONI

Ma, come già sapete, nei «negozi finanziari» i prodotti non si acquistano, si vendono. I commessi-consulenti vi accolgono con la frase: «Ho questo prodotto per lei, lo deve acquistare», senza nemmeno chiedervi se soddisfa i vostri bisogni. Ecco: spero, mi auguro che in questi cinque anni abbiate avuto quasi tutti gli elementi per acquistare un prodotto e schivare certe pressioni. Un po’ come avviene quando entrate in un negozio per acquistare una cravatta avendo già bene in mente che:
• dovete abbinarla a un abito formale scuro e scarpe classiche nere;
• dovete indossarla per una cerimonia in un ambiente molto chic;
• dovete indossarla in piena estate.
Consapevoli di tutto questo, non credo che riuscirete a farvi convincere dal commesso-venditore ad acquistare una cravatta di lana a motivi floreali di colori sgargianti. Buon Natale a voi tutti.

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La Cina si sta comprando anche le università italiane

L'allarme del sinologo Scarpari ha fatto discutere tra gli accademici del nostro Paese. Ma è fondato. Cosa sono e come operano gli Istituti Confucio.

Da qualche giorno nel mondo universitario italiano – per essere precisi in quella nicchia di specialisti che si occupano di Cina, i sinologi, – “volano stracci”, come si direbbe in modo forse poco accademico ma efficace. Probabilmente in pochi se ne sono accorti, ma la maretta che si è scatenata nell’ambiente sta montando e rischia di diventare un autentico tsunami. In Italia i poli universitari specializzati nell’ambito degli Studi Orientali sono storicamente due: Venezia, con l’università Ca’ Foscari, e Napoli, con l’università L’Orientale. A questi, che vantano una tradizione più che centenaria nel settore, nel tempo si sono aggiunti Torino, Roma e, in piccola parte anche Milano, che all’Università Bicocca ha inaugurato da qualche anno un corso di laurea in cinese.

L’ENTRATA A GAMBA TESA DI SCARPARI

A far scoppiare il bubbone è stato un veterano tra i sinologi italiani, Maurizio Scarpari, con un suo intervento pubblicato da La Lettura sul sito del Corriere della Sera, dal titolo (insolitamente diretto per un mondo di studiosi abituato a discettare e confrontarsi utilizzando sempre toni “alti” e usualmente poco comprensibili ai comuni mortali) “Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane”. Il professor Scarpari è un’autorità riconosciuta nel settore: ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 proprio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha firmato innumerevoli pubblicazioni sulla Cina, tra le quali spicca Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, pubblicato da Il Mulino nel 2015. Ma cosa ha potuto scrivere un austero professore universitario di così provocatorio, da scatenare repliche e contro repliche, dibattiti, critiche e anche pindariche difese d’ufficio della Cina odierna, da parte dei suoi – solitamente misuratissimi – colleghi?

UNO SQUARCIO IN UN VELO DI IPOCRISIA

Per riassumerla in poche parole, Scarpari ha squarciato il velo dell’ipocrisia e della doppia morale praticata – secondo lui – da molti suoi colleghi quando sulla Cina si affrontano (anzi, si evitano accuratamente, a sentir lui) argomenti considerati “sensibili” dal regime di Pechino. Accusando senza mezzi termini i suoi colleghi cattedratici di essere «evidentemente restii a prendere posizione, considerando inopportuno affrontare argomenti che possano risultare sgraditi alle autorità cinesi e mescolare cultura e politica, come se i due ambiti non fossero legati». Ma non basta, perché l’illustre sinologo si è anche spinto più in là, tirando in mezzo al dibattito, senza tanti giri di parole, il ruolo preoccupante che la rete di Istituti di culturacinese all’estero – diretta emanazione del governo di Pechino, i Confucius Institute.

Il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”

Diffusi in tutto il mondo e ben presenti anche nel nostro Paese, influenzerebbero pesantemente l’insegnamento universitario sulla Cina in Italia, attraverso interventi finanziari ed esplicite pressioni e ricatti nei confronti degli accademici del nostro Paese, affinché si facciano diligenti divulgatori della propaganda ufficiale del regime sui temi appunto “sensibili”, e non solo. Come per esempio la repressione della minoranza musulmana nello Xinjiang, le vicende di Hong Kong, la questione di Taiwan e più in generale lo spinoso problema del (non) rispetto dei diritti umani in Cina. A questo punto, come si può ben immaginare, apriti cielo. In molti tra i suoi colleghi hanno preso carta e penna e hanno spedito repliche al Corriere, per contestare le affermazione del professor Scarpari.

In realtà il tema è importante e molto delicato, e chi scrive se ne è occupato in più occasioni anche da queste colonne. Innanzitutto va detto che il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”, per gli addetti ai lavori, delle quali si evita accuratamente di parlare. Scarpari ha avuto l’oggettivo merito di far emergere il problema e di porre la all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che, fino a oggi, era rimasto confinato all’ambito accademico, ma che finisce per intrecciarsi in modo preoccupante con le scelte strategiche dell’attuale governo e di quelli precedenti in politica estera e quindi con la politica tutta.

UN FIORE ALL’OCCHIELLO DEL SOFT POWER CINESE

Come ignorare, infatti, un tema tanto delicato tenendo conto, come correttamente nota Scarpari, che gli Istituti Confucio sono un «fiore all’occhiello del soft power cinese, creati nel 2004 dallo Hanban, il potente ente statale, emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito comunista, cui è affidato il compito di diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero»? «Una struttura imponente», continua il professore, «che dispone di grandi mezzi finanziari e che si sta espandendo in tutto il mondo». Con il nemmeno troppo celato obiettivo – continua lo studioso veneziano – «di creare un’immagine positiva e attrattiva della Cina, in un momento in cui il Paese ha avviato un ambizioso progetto di espansione egemonica in tutto l’Occidente».

Gli Istituti Confucio sono inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone

La gravità della situazione richiamata da Scarpari emerge con chiarezza quando si considera che, a differenza di altri istituti culturali, gli Istituti Confucio sono ormai stabilmente inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone variabile e la concessione di benefit e finanziamenti a docenti, ricercatori, studenti. Una commistione pericolosa e un “abbraccio mortale” che ha fatto sì che, ormai da anni, all’estero, la loro collocazione nelle università sia stata motivo di un acceso dibattito. Per questo molti atenei hanno scelto di non avere IC e, tra quelli che li avevano, non pochi li hanno chiusi. A tutto questo si aggiunga il dato di fatto che diversi Istituti Confucio nel mondo si sono rivelati essere anche centrali di spionaggio cinese all’estero, come nel caso del Canada e recentemente quello del Belgio, dove la Vrije Universiteit Brussel (VUB), uno dei principali istituti di istruzione superiore del Paese, ha deciso di chiuderne la sede dopo che il servizio di intelligence belga aveva accusato formalmente il suo direttore di essere una spia per conto di Pechino.

UNA POLEMICA CHE RISCHIA DI CONTAGIARE LA POLITICA

Insomma, un sasso – quello lanciato dall’intervento di Scarpari – che rotola tra le nascoste e silenziose dinamiche che sovrintendono al funzionamento di diversi atenei italiani, e che potrebbe trasformarsi facilmente in una valanga che rischia di travolgere non solo una fetta del mondo accademico italiano, ma anche buona parte di quello politico. Un allarme fondato, senza ombra di dubbio, visto che un altro illustre sinologo universitario italiano, Fiorenzo Lafirenza, intervenendo a sua volta su questo tema su La Lettura, ha ammesso: «I miei studenti per le tesi evitano argomenti sensibili. Dicono: e poi, come ci andiamo a lavorare in Cina?».

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Fca rassicura i sindacati su investimenti e posti di lavoro dopo l’accordo con Psa

Il responsabile Europa di Fiat Chrysler ha incontrato le associazioni di categoria: «Avanti con il piano da 5 miliardi per l'Italia e nessuna chiusura di stabilimenti».

Il piano di investimenti da 5 miliardi per l’Italia va avanti. Lo ha detto ti il responsabile delle attività europee di Fca Pietro Gorlier nell’incontro a Mirafiori richiesto dalle organizzazioni sindacali dopo la firma dell’accordo con Psa per la fusione. Lo riferiscono fonti sindacali presenti alla riunione. All’incontro partecipano i segretari generali di Fil, Uilm, Fismic, Ugl metalmeccanici e Quadri. Al termine Gorlier vedrà i vertici della Fiom.

«Piena occupazione entro il 2022»: lo rende noto Marco Bentivogli, segretario generale Fim, al termine dell’incontro tra Fca e sindacati dopo la firma dell’accordo con Psa per la fusione.

«I 3,7 miliardi di euro di risparmi annuali, da conseguire a regime con la fusione Fca-Psa, saranno raggiunti non con chiusure di stabilimento, bensì soprattutto da economie di scala su investimenti e forniture. Il nostro compito resta comunque quello di vigilare su eventuali ricadute occupazionali, poiché ogni fusione per sua natura comporta sia opportunità sia rischi», ha detto Rocco Palombella segretario generale della Uilm dopo l’incontro tra Fca e sindacati.

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Il parlamento britannico ha dato il primo via libera alla Brexit

Con 358 sì e 234 no Westminster ha approvato in seconda lettura il testo modificato dal governo Johnson in vista dell'addio a Bruxelles.

Primo sì del Parlamento britannico alla legge sulla ratifica della Brexit entro il 31 gennaio. Il testo, modificato dal governo di Boris Johnson dopo la vittoria elettorale del 12 dicembre, ha ottenuto il via libera della Camera dei Comuni nella cosiddetta seconda lettura con 358 sì e 234 no, come largamente previsto data la larga maggioranza assoluta conquistata dai Tory nelle urne. Ora l’iter proseguirà dopo la pausa natalizia dei lavori di Westminster, per essere completato nelle attese prima di metà di gennaio.

SUPERATA LA MAGGIORANZA DI 44 VOTI

La maggioranza è stata di 124 voti, 44 in più di quella che il gruppo Tory può garantire sulla carta – in caso di assemblea al completo – al governo Johnson. Uno scarto ulteriore significativo a favore del premier, legato secondo le informazioni dei media ad alcune astensioni di singoli deputati laburisti – malgrado la linea ufficiale del partito fosse per il no – e a un certo riallineamento degli unionisti nordirlandesi del Dup: che pur essendo pro Brexit avevano criticato il deal raggiunto da Johnson con Bruxelles sul divorzio, temendo fra le possibili conseguenze dei meccanismi concordati per eliminare la clausola del cosiddetto backstop l’introduzione di un confine doganale di fatto fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. A seguire l’aula ha approvato anche una mozione governativa sul calendario della ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa natalizia, che scatta stasera. A partire dal completamento dell’iter ai Comuni della legge sull’uscita dall’Ue (EU Withdrawal Agreement Bill) fra il 7 e il 9 gennaio.

BRUXELLES: «PRONTI A CHIUDERE L’ACCORDO ANCHE IN UE»

Un portavoce della Commissione Ue ha commentato la notizia dicendo che i vertici Ue hanno preso nota del voto alla Camera dei Comuni e seguiranno il processo di ratifica nel Regno Unito da vicino. «Siamo pronti a fare i passi formali per chiudere l’accordo anche in Ue», ha concluso.

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Cosa sappiamo sull’esposizione dei dati di 267 milioni di utenti di Facebook

Nuova fuga di dati per il gigante di Menlo Park. Tra il 4 e 19 dicembre comparso online un database con milioni di dati. La società: «Dati rubati prima del cambio di policy».

Nuova tegola per il gigante di Menlo Park. Facebook è alle prese con un altro caso di esposizione dei dati personali degli utenti. La società di sicurezza Comparitech avrebbe individuato un database contenente dati personali di 267 milioni di utenti del social network e ne ha dato notizia sul suo sito. La mole di informazioni personali poteva essere consultata liberamente in rete, senza necessità di inserire password. Il database è rimasto online per circa due settimane, dal 4 al 19 dicembre, ed è risultato scaricabile anche tramite un forum hacker fino a che il provider che lo ospitava non ha deciso di rimuoverlo, a seguito della segnalazione da parte dei ricercatori.

DISPONIBILI ID, NOMI UTENTE E NUMERI DI TELEFONO

Secondo Comparitech i dati potrebbero essere stati estrapolati dalla piattaforma legata gli sviluppatori di applicazioni (API). Oppure attraverso una operazione di ‘scraping‘, una tecnica di estrazione dei dati da un sito usando appositi software. Nell’archivio erano contenute informazioni come lo ‘user ID’, che identifica l’utente, nome e numero di telefono. Oltre al complesso scandalo Cambridge Analytica, non è la prima volta che i dati di milioni di utenti di Facebook vengono divulgati in rete. Lo scorso settembre, un ricercatore ha scoperto un database ancora più grande di questo: 419 milioni di dati collegati agli account del social network.

LA SOCIETÀ: «FUGA DI DATI PRECEDENTE AL CAMBIO DELLA PRIVACY»

Facebook, per bocca di uno dei suoi portavoce, ha fatto sapere che sono incorso approfondite analisi in merito alla pubblicazione del database. «Stiamo esaminando questo problema», hanno spiegato, «ma crediamo che si tratti di informazioni ottenute molto probabilmente prima dei cambiamenti che abbiamo apportato negli ultimi anni per proteggere meglio le informazioni delle persone».

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La vera rivoluzione delle Sardine è ispirare fiducia

Sui social la prima regola è diffidare di tutto e sempre, dalle notizie che possono essere false a chi ti sembra amico. Il movimento anti-Salvini ha rotto questa Rete. Spingendo le persone a scendere in piazza e a tornare a credere nei fondamenti della convivenza umana.

La lettera dei quattro organizzatori delle Sardine, pubblicata da la Repubblica, è fresca e simpatica proprio come le facce e la parlata degli autori. «Eravamo quattro trentenni come ce ne sono tanti», quattro trentenni al bar, insomma, come nella canzone di Gino Paoli, e grazie ad alcune iniziative spontanee nate su Facebook prende corpo l’idea di una manifestazione importante, che si contrapponga al comizio di Matteo Salvini a Bologna. Successo oceanico, e da lì tutto il resto.

CAPTATA UN’ESIGENZA: LA VOGLIA DI PARTECIPAZIONE

I quattro delle Sardine, in sostanza, raccontano che hanno semplicemente ascoltato quello che già stava accadendo, hanno captato un’esigenza, un’inquietudine che era voglia di partecipazione e l’hanno soltanto comunicata, condivisa, organizzata.

QUASI MEZZO MILIONE DI PERSONE USCITE DI CASA

La parte più interessante del loro resoconto di come sono andate le cose non è tanto quella politica – anche se tutto, ovviamente, è politica. La parte interessante è il loro stesso stupore, misto a entusiasmo, per il quasi mezzo milione di persone (sommando tutte le varie manifestazioni) che «sono uscite di casa, al freddo e sotto la pioggia».

PRESENZA FISICA OLTRE LA RETE

L’hanno fatto, dicono, «per dire che la loro idea di società non rispecchia affatto quella presentata dalla destra». Può darsi. Forse alcuni sì e alcuni no. Ma è probabile che la maggior parte sia andata lì soprattutto per uscire dalla Rete, per ritrovare e dare valore alla presenza fisica, benché la Rete sia stata essenziale ai fini organizzativi. Tutte quelle persone, sottolinea la lettera, «si sono fidate, e hanno continuato a fidarsi».

Flash mob delle Sardine nel piazzale della stazione ferroviaria di Venezia. (Ansa)

CONTRO IL WEB CHE TI SPINGE SOLO A DIFFIDARE DI TUTTO

Ecco. La fiducia. Cioè una delle cose più preziose che la pervasività dei social network ha messo in crisi. “Non fidarsi di nessuno” è la prima regola che si impara stando sui social o comunque sul web. Diffidare di tutti e sempre, anche di coloro che ti sembrano simili e amici. Facebook ha disintegrato il concetto stesso di amicizia, trasformandola in collezionismo di facce.

ONLINE SIAMO SEMPRE OSSERVATI E MONITORATI

Ormai tutti abbiamo imparato che ogni nostra attività online è osservata e monitorata per conoscere i nostri desideri, i nostri pensieri, la nostra disponibilità all’acquisto di qualunque cosa. Che puntualmente ci viene proposta, imposta, sbattuta davanti agli occhi con il cartellino del prezzo.

Un momento della manifestazione in Piazza Vittoria a Brescia. (Ansa)

LA FIDUCIA È ALLA BASE DELLA CONVIVENZA UMANA

La fiducia, si sa, è la base stessa della società, dell’economia, della cultura. Se nessuno si fida più di nessuno, si sgretolano i fondamenti della convivenza umana, della civiltà. Se ogni notizia può essere falsa, se ogni account, ogni persona può essere falsa, non è più possibile nessuna interazione virtuosa.

SUI SOCIAL INVECE RESTIAMO SPETTRI DESOLATI

Per questo il movimento delle Sardine, ancorché esprimere una posizione politica, sembra trasmettere in primo luogo una rivolta contro le maglie di una Rete che rendendoci tutti virtuali ci ha reso spettri diffidenti e desolati. Più volte, nella lettera, i quattro esultano al fatto di «essere finalmente liberi». Proprio come pesci che erano finiti nella rete del pescatore e sono riusciti a tornare nel mare aperto delle piazze. Contro i piazzisti della paura e dell’odio.

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L’ex ad di France Telecom condannato per l’ondata di suicidi in azienda

Per i giudici l'azienda portò avanti mobbing «morale e istituzionale» nei confronti dei suoi dipendenti. Il mega-manager francese dovrà scontare un anno di carcere, di cui otto mesi con la condizionale.

L’ex amministratore delegato di France Télécom, Didier Lombard, è stato condannato per mobbing «morale e istituzionale» nel processo legato all’ondata di suicidi dei dipendenti che 10 anni fa scosse il colosso francese delle Tlc. Il mega-manager francese, ex numero uno di France Télécom, dovrà scontare un anno di carcere di cui otto mesi con la condizionale. Condannati alla stessa pena anche altri due dirigenti di France Télécom e la stessa azienda, che dovrà pagare una multa 75 mila euro. Secondo il tribunale di Parigi, tra il 2007 e il 2008, dai vertici del gruppo si diffuse una clima nocivo di molestie «morali e istituzionali», anche se i giudici non appurano alcun legame diretto tra gli autori e le vittime. Una nozione, quella del mobbing morale e istituzionale, che con questa sentenza entra per la prima volta a far parte della giurisprudenza francese.

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In Vaticano mille denunce di abusi sessuali in un anno: «È uno tsunami»

John Joseph Kennedy, il capo Ufficio della sezione disciplinare della Congregazione per la dottrina della fede: «Se avessi un bambino maltrattato, probabilmente smetterei di andare a messa».

Sopraffatti dalle denunce, letteralmente. L’ufficio vaticano che riceve le denunce di abusi sessuali da parte del clero ha registrato quest’anno la cifra record di 1.000 casi segnalati da tutto il mondo, anche da Paesi di cui non aveva mai sentito parlare prima, e potrebbe non essere finita qui. John Joseph Kennedy, il capo Ufficio della Sezione Disciplinare nella Congregazione per la dottrina della fede, lo ha detto all’agenzia di stampa americana Associated press, precisando che l’enorme afflusso di denunce ha “sopraffatto” il personale

«STIAMO ASSISTENDO A UNO TSUNAMI DI CASI»

Per evadere tutti i documenti relativi al 2019, il quadruplo di quanti se ne gestivano un decennio fa, il personale – ha spiegato Kennedy – «dovrebbe lavorare sette giorni alla settimana». «Stiamo effettivamente assistendo a uno tsunami di casi, al momento, in particolare da Paesi di cui non abbiamo mai sentito parlare prima», ha detto, riferendosi ai casi più eclatanti emersi in Argentina, Messico, Cile, Italia, Polonia e Stati Uniti. «Suppongo che se non fossi un prete e se avessi un bambino maltrattato, probabilmente smetterei di andare a messa», ha detto Kennedy. Ma il Vaticano – ha ricordato – si è impegnato a combattere gli abusi e ha solo bisogno di tempo per esaminare tutti i casi. «Li esamineremo dal punto di vista forense e garantiremo il giusto risultato – ha aggiunto -. Non si tratta di riconquistare la gente, perché la fede è qualcosa di molto personale. Ma almeno diamo alla gente la possibilità di dire: ‘Forse diamo alla chiesa una seconda possibilità di ascoltare il messaggio’».

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Autogrill, Barbara Cominelli nominata Amministratore non esecutivo

Il Consiglio di Amministrazione, riunitosi ieri, ha incaricato la manager in sostituzione di Marco Patuano.

Il Consiglio di Amministrazione di Autogrill S.p.A. ha nominato mediante cooptazione Barbara Cominelli quale Amministratore non esecutivo, in sostituzione di Marco Patuano che ha rassegnato le sue dimissioni in data 24 giugno 2019.

Il nuovo Consigliere ha dichiarato di essere in possesso dei requisiti di indipendenza, ai sensi dell’art. 147-ter, comma 4, e dell’art. 148, comma 3, D. Lgs. 58/98, nonché del principio 3.C.1 del Codice di Autodisciplina delle Società Quotate, come recepito dall’art. 3.1 del vigente Codice di Autodisciplina di Autogrill e dall’art. 10 dello Statuto Sociale.

Barbara Cominelli è il COO, Direttore Marketing e Operations di Microsoft Italia, con la responsabilità sulle diverse linee di business. Dal 2010 al 2018 è stata Direttore Digital, Commercial Operations e Wholesale di Vodafone Italia, alla guida di un team di 3000 persone, gestendo i canali fisici e digitali. Le sue esperienze precedenti includono Tenaris, A.T.Kearney, E.V. Capital e Università Bocconi. Laureata con lode in Economia Aziendale presso l’Università Bocconi, ha un Master in International Management presso la stessa Università. Vanta una significativa esperienza internazionale avendo studiato e lavorato in U.K., Olanda, Lussemburgo e Spagna. Inclusa due volte tra le “50 donne più influenti in Europa nel campo della tecnologia” da InspiringFifty, ha vinto numerosi premi in Italia e all’estero per progetti di Trasformazione Digitale e eccellenza nella Customer Experience.

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Smart&Start Italia si rinnova, le novità per le startup

Dal 20 gennaio al via le domande per le agevolazioni con i nuovi criteri, tra questi nuove premialità e l’incremento del finanziamento agevolato

Arrivano nuovi criteri per l’assegnazione degli incentivi che sostengono la nascita e la crescita delle startup innovative su tutto il territorio nazionale. Smart&Start Italia, l’incentivo del Mise gestito da Invitalia, si rinnova e porta in campo, con la Circolare n. 439196 del 16 dicembre 2019 della Direzione generale per gli incentivi alle imprese (secondo la nuova disciplina introdotta dal Decreto del Ministro dello sviluppo economico del 30 agosto 2019), diverse novità. La semplificazione dei criteri di valutazione e di rendicontazione; l’introduzione di nuove premialità, l’incremento del finanziamento agevolato fino al 90%; fondo perduto fino al 30% per le imprese del Sud e un periodo di ammortamento più lungo, sono solo alcune delle news introdotte secondo le quali sarà possibile presentare domanda di agevolazione a partire dal 20 gennaio 2020.

A CHI SI RIVOLGE NELLO SPECIFICO

Smart&Start Italia finanzia come detto le startup innovative, nello specifico quelle costituite da non più di 60 mesi e iscritte alla sezione speciale del registro delle imprese. Tra gli ammessi a chiedere un finanziamento ci sono tutte le startup innovative di piccola dimensione, costituite da non più di 60 mesi, i team di persone fisiche che vogliono costituire una startup innovativa in Italia, anche se residenti all’estero, o cittadini stranieri in possesso dello “startup Visa” e le imprese straniere che si impegnano a istituire almeno una sede sul territorio italiano.

TUTTE LE NOVITÀ

Si parte dal nuovo anno dunque con i nuovi criteri dell’incentivo rivolto alle startup innovative. Le novità riguardano la semplificazione dei criteri di valutazione per la concessione delle agevolazioni e l’introduzione di nuove premialità in caso di collaborazione con organismi di ricerca, incubatori e acceleratori d’impresa, compresi i Digital Innovation Hub, e di realizzazione di piani di impresa al sud da parte di start up già operative al centro-nord. E ancora in campo una nuova definizione dei piani di impresa e delle spese ammissibili, incluso il riconoscimento di una quota di finanziamento per la copertura delle esigenze di capitale circolante per il periodo di realizzazione del piano; l’incremento del finanziamento agevolato fino all’80% delle spese ammissibili e al 90% nel caso di società costituite da sole donne, da under 36 oppure se un socio ha il titolo di dottore di ricerca. Aumenta anche il fondo perduto per le imprese localizzate al Sud Italia fino al 30% dell’importo concesso per gli investimenti. Le rendicontazioni diventano più semplici, con la possibilità di ottenere le erogazioni per stati di avanzamento con fatture non quietanzate (i cui pagamenti possono essere dimostrati, entro sei mesi, al successivo stato di avanzamento) e contestuale erogazione della quota proporzionale di finanziamento inerente il capitale circolante; rendicontazione dei costi di personale con la modalità dei costi standard. Si estende, infine, il periodo di ammortamento per la restituzione del finanziamento fino a 10 anni.

COSA FINANZIA LA MISURA

Ricordiamo che Smart&Start Italia finanzia progetti compresi tra 100 mila euro e 1,5 milioni di euro, con la copertura delle spese d’investimento e dei costi di gestione. I piani d’impresa possono comprendere spese destinate all’acquisto di beni di investimento, servizi, spese del personale e costi di funzionamento aziendale. Per essere approvato è necessario che il progetto imprenditoriale possegga un significativo contenuto tecnologico e innovativo o sia orientato allo sviluppo di prodotti, servizi o soluzioni nel campo dell’economia digitale, dell’intelligenza artificiale, della blockchain e dell’internet of things o ancora che sia finalizzato alla valorizzazione economica dei risultati della ricerca pubblica e privata.

COME PRESENTARE DOMANDA

La presentazione della domanda è da farsi esclusivamente online sulla piattaforma di Invitalia. Le domande già presentate prima della pubblicazione della nuova circolare, per le quali non vi siano provvedimenti già adottati, potranno essere riformulate entro 60 giorni dalla data del 20 gennaio 2020. Chi ha presentato la domanda prima del 16 dicembre 2019 e non ha ricevuto l’esito della valutazione, può comunicare con Invitalia tramite PEC all’indirizzo smartstart@pec.invitalia.it indicando preferibilmente nell’oggetto l’ID della domanda. Sarà, in ogni caso, possibile presentare una nuova domanda anche oltre questo termine.

Per presentare la domanda per richiedere le agevolazioni previste dalla misura è necessario registrarsi ai servizi online di Invitalia indicando un indirizzo di posta elettronica ordinario, compilare online la domanda e caricare il business plan e gli allegati. Per tutta la procedura è necessario disporre di firma digitale e di un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC). Al termine della compilazione del piano di impresa e dell’invio telematico della domanda e dei relativi allegati, verrà assegnato un protocollo elettronico.

Ricordiamo inoltre che non ci sono scadenze né graduatorie. Invitalia valuta le domande in base all’ordine di arrivo, fino ad esaurimento dei fondi. Ogni valutazione prevede una verifica formale e una valutazione di merito, compreso il colloquio con gli esperti di Invitalia, e si conclude in 60 giorni, salvo eventuali richieste di integrazione dei documenti.

I NUMERI DI SMART&START ITALIA

La misura del MISE è partita con la sua prima edizione, dedicata alle sole regioni del Mezzogiorno, il 4 settembre 2013 per rinnovarsi il 16 febbraio 2015 con l’allargamento della platea a tutte le startup innovative d’Italia. Fino ad oggi sono 1.007 le startup innovative finanziate mettendo in campo 340 milioni di agevolazioni concesse che hanno contribuito a creare tanti nuovi posti di lavoro, 5.504 per la precisione.

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Prima intesa sull’Ilva tra i commissari e ArcelorMittal

Messe nero su bianco le basi della futura negoziazione che si protrarrà fino al 31 gennaio per trovare un accordo vincolante. Resta irrisolta la questione degli esuberi.

I commissari straordinari dell’Ilva e ArcelorMittal hanno raggiunto un’intesa di base per la trattativa della ristrutturazione del contratto originario di affitto e vendita degli stabilimenti e per l’operazione finanziaria di rilancio del polo siderurgico con base a Taranto. «Mi risulta che si stia firmando in questo momento un documento che si chiama heads of agreement che si limita a indicare le basi per una futura negoziazione che si svolgerà fino al 31 gennaio al fini dei raggiungere un accordo vincolante», ha confermato uno degli avvocati di Arcelor Mittal in tribunale a Milano. L’avvocato Ferdinando Emanuele, uno dei legali che assistono il gruppo franco-indiano, davanti all’aula dove si terrà l’udienza con al centro il ricorso cautelare presentato dai commissari dell’ Ilva ha spiegato che anche loro, come ha fatto la controparte, chiederanno un rinvio.

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L’impeachment non scalfirà Trump ma era una questione di valori

Il Senato repubblicano salverà il presidente dalla messa in stato d'accusa. Eppure bisognava farlo: per difendere la democrazia contro la corruzione. C'entrano giustizia, etica e morale. Un giorno l'America si libererà di questo despota senza scrupoli.

Dopo Andrew Jackson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, Donald J. Trump è il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti a essere messo in stato d’accusa: il Congresso ha votato per l’impeachment. Benché sia un’accusa estremamente grave, starà al Senato decidere se le sue azioni sono gravi abbastanza da rimuoverlo dalla sua posizione di presidente. Se dovesse succedere, cosa molto improbabile, la presidenza passerà al vicepresidente Mike Pence. Insomma, gli americani passerebbero dalla padella alla brace.

THE DONALD CONTINUERÀ A ESSERE POPOLARE

Alla fine, dunque, chi ha vinto? C’è chi pensa che malgrado tutto, Trump e i repubblicani ne escano vincitori: dopo tutto l’economia sta andando molto bene e il tasso di approvazione di Trump non è cambiato di molto durante questo periodo. I repubblicani potrebbero passare come i vincitori perché malgrado la gravità dell’impeachment, il presidente ne uscirà senza nessun danno permanente: continuerà a essere popolare tra i suoi fedeli come lo era all’inizio di questo processo.

IL SISTEMA NON FUNZIONA A DOVERE

Inoltre, in questi mesi è riuscito a raccogliere milioni di dollari per la campagna elettorale per la presidenza del 2020, presentandosi come vittima del complotto democratico che dall’inizio della sua candidatura ha cercato di cacciarlo. Immaginiamo l’inimmaginabile: nel 2020 Trump viene rieletto. Sicuramente cadrà ancora nella trappola della disonestà, come ha fatto in questi anni decine di volte. Cosa succederà a quel punto? Ci potrà essere un altro tentativo di impeachment nei suoi confronti? Probabilmente no. Insomma, malgrado la sua dimostrabile corruzione, finora il sistema, creato apposta per prevenire azioni corrotte, non è stato in grado di funzionare come avrebbe dovuto. Non con Trump.

PELOSI POTREBBE PROLUNGARE L’ATTESA

E i democratici? Malgrado un quasi sicuro insuccesso al Senato, forse hanno ancora una carta da giocarsi. Potrebbero non consegnare i documenti necessari al Senato per procedere fino a quando i repubblicani concordano nel condurre un vero processo, con tanto di testimoni, cosa che per adesso rifiutano di fare. L’impeachment, dunque, potrebbe rimanere irrisolto per molto tempo: non scade. Nancy Pelosi, per ora, non ha commentato se deciderà di seguire questa possibilità, ma se scegliesse di farlo la conclusione dell’impeachment potrebbe diventare molto lunga, addirittura oltrepassare la data delle elezioni.

I DEM HANNO DIFESO LA COSTITUZIONE AMERICANA

I dem sono stati assaliti da insulti, attacchi alla loro integrità e trattati come bugiardi dai repubblicani, eppure tutto questo non li ha intimiditi. Hanno mantenuto la loro calma, la loro professionalità e sono andati avanti, come richiesto dalla Costituzione. Come tutti i rappresentanti del Congresso, hanno giurato che avrebbero difeso la Costituzione a spada tratta. E così hanno fatto: hanno deciso di prendere la strada di giustizia, etica e morale che il loro ruolo richiede. Sanno bene che al prossimo giro, e cioè durante le discussioni in Senato, di maggioranza repubblicana, le probabilità che il presidente sia rimosso dal suo ruolo sono molto basse, anzi inesistenti. Ma almeno sanno che in coscienza hanno mantenuto fede ai valori che rendono questa una democrazia: hanno scelto la strada della giustizia a quella della corruzione.

L’ERA DEL DESPOTA SENZA SCRUPOLI FINIRÀ

Hanno detto e ripetuto che nessuno, neanche il presidente, è al di sopra della legge, e che la Costituzione è nata dal desiderio non essere mai guidati da sovrani. Durante il suo discorso conclusivo Adam Schiff, a capo della Commissione Giustizia del governo, invoca uno dei principali redattori della Costituzione, Alexander Hamilton. Nel 1792 fu lungimirante quando mise in guardia gli americani sulla possibilità, un giorno, di essere guidati da un uomo senza scrupoli, despota, capace di imbarazzare il governo, pronto a tutto pur di mantenere il suo potere. Quando questo succederà, continua Hamilton, marcherà la fine della democrazia e il ritorno alla monarchia. Direi, caro Alexander, che quel despota senza scrupoli è arrivato e non ha nessuna intenzione di andarsene. Faremo di tutto per liberarcene.

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Perché la Libia ha chiesto aiuto all’Italia e altri 4 Paesi

L'esercito di Haftar ha lanciato un ultimatum di tre giorni al governo. Che si è rivolto a noi, Regno Unito, Usa, Algeria e Turchia domandando di intervenire in difesa di Tripoli.

La richiesta è stata lanciata dal palcoscenico più autorevole della comunità internazionale, diretta all’Italia e ad altri quattro Paesi, tra cui non a caso non figura la Francia di Emmanuel Macron. Il premier del governo di accordo nazionale libico, Fayez al Sarraj, ha chiesto a Italia, Usa, Regno Unito, Algeria e Turchia di «attivare gli accordi di cooperazione di sicurezza» per «respingere l’attacco a Tripoli, condotto da qualsiasi gruppo armato». Sarraj ha inoltre chiesto ai cinque Paesi di «cooperare con il governo di accordo nazionale nella lotta alle organizzazioni terroristiche», all’immigrazione clandestina e ai trafficanti di esseri umani.

L’ULTIMATUM DI HAFTAR: VERSO LA BATTAGLIA SU MISURATA

Contemporaneamente Ahmed al Mismari, il portavoce dell’ esercito nazionale libico (Lna) guidato dal generale Khalifa Haftar ha lanciato in un video sul canale facebook dell’ Lna un ultimatum. Tre giorni al massimo, con scadenza alla mezzanotte di domenica 22 dicembre perchè Misurata ritiri «le proprie milizie da Tripoli e Sirte». «Prendere per obiettivo Misurata proseguirà ogni giorno senza sosta e in maniera intensiva, senza precedenti, se Misurata non ritirerà le sue milizie da Tripoli e Sirte al massimo in tre giorni, con scadenza domenica a mezzanotte», ha detto Mismari.

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Perché la schietta Meloni ha futuro e il soggettone Salvini no

La leader di Fratelli d'Italia, premiata dai sondaggi, va di moda. A destra appare come il ritorno alla normalità, la realizzazione del sogno di Fini. E si giova dei difetti del "ragazzo della birreria" che se non parla di immigrati è muto.

Giorgia Meloni comincia a essere di moda da quando i sondaggi la premiano. Massimo Gramellini sul Corriere della Sera la elogia per le cose dette sulla madre nigeriana di Sondrio, Fausto Bertinotti la giudica molto bene, e si potrebbero citare altri entusiasti ammiratori. Il suo successo è parallelo all’insuccesso crescente di Matteo Salvini, uomo di molti voti virtuali che sta diventando antipatico come Matteo Renzi. In Meloni, nel suo avanzare nelle simpatie popolari, confluiscono più elementi.

UNA DESTRA TOSTA, FRANCA E BRUTALE

In primo luogo non dobbiamo mai dimenticare che questo Paese ha una forte componente di destra popolare, o forse, come diceva il mio amico Massimo D’Alema per richiamare alla realtà i sognatori di sinistra, «è un Paese di destra». Una destra tostissima, nostalgica al punto giusto ma non di quelle che si fanno incastrare nelle celebrazioni del passato, che parla con una franchezza che sfiora la brutalità.

TROPPI DIFETTI EVIDENTI DI SALVINI

In verità oggi Meloni si giova degli evidenti difetti di Salvini e del fatto che quel “soggettone” leghista se non parla di immigrati è praticamente muto. Tuttavia c’è dell’altro nel successo di Meloni, oltre il riemergere di una destra di tradizione e la sua migliore immagine rispetto a quella di Salvini. La Meloni appare, a destra, come il ritorno alla normalità.

GLI ITALIANI SONO STANCHI DELLE BIZZARRIE

Cerco di spiegarmi meglio. Gli italiani sono stanchi di tutto questo ambaradan culminato nelle bizzarrie del Movimento 5 stelle e nel furore xenofobo leghista. Anche chi detesta la sinistra con tutte le proprie forze, e in Italia sono milioni di persone, cerca strade maestre e non scorciatoie inconcludenti. Dal lato opposto questo vociare razzista e con toni da guerra civile ha risvegliato le coscienze. Mi dispiace per i detrattori delle sardine che speravano di battere la destra con la vecchia lotta di classe, ma, come è sempre avvenuto nella storia, la prima fase della rivoluzione è “democratica”.

INTANTO I BUONI STANNO PROVANDO A RIBELLARSI

Le sardine, come si può leggere bene nella lettera che hanno inviato a la Repubblica, sono uno straordinario movimento civico che incrocia e contrasta lo spirito bellico di questi anni. I “buoni” si sono ribellati e hanno scoperto che la piazza non è naturaliter di destra. È probabile che in un tempo medio tutto ciò porterà a una formazione politica originale in grado di competere elettoralmente con la destra. Per ora non è così.

GIORGIA CORONA IL SOGNO DI FINI

Giorgia Meloni rappresenta l’inveramento del sogno di Gianfranco Fini. L’uomo lo abbiamo tutti dimenticato, ma ebbe un momento di celebrità che minacciò la popolarità di Silvio Berlusconi e questo segnò il suo destino. L’Italia di destra si fidava di più di questo ragazzo attempato in doppio petto, che parlava come un liberal ma che aveva solidi radici di destra. Fini era forse un po’ troppo un punto di compromesso fra passato e futuro della destra. Meloni, invece, ha talmente segnato su se stessa la sua natura di destra che non corre il rischio di apparire una che sta facendo mutare pelle al suo popolo.

PIÙ SOLIDA DEL LINGUAGGIO IMBROGLIONE SALVINIANO

La caratteristica che sembrava nuocerle, la sua romanità, anzi il suo essere donna di un quartiere bellissimo come la Garbatella, le ha dato il carattere di schiettezza che è cosa più solida del linguaggio imbroglione di Salvini.

ANCHE SE I GIORNALI NORDISTI STANNO ANCORA CON MATTEO

I giornali di destra non si sono accorti ancora di lei. Sono ancora tutti presi dal ragazzo della birreria anche perché i direttori di quei giornali sono nordisti nel profondo dell’anima. E poi Salvini sembra uno che i direttori di questi giornali possono manipolare mentre la “destra” Meloni non è gestibile.

ALLA LEGA RESTANO LE BUFFONATE DI MARIO GIORDANO

Sta di fatto che l’avanzare della Meloni è uno dei tanti segnali che la ricreazione sta finendo. Per i cinque stelle è finita tant’è che Beppe Grillo predica la buona educazione e un asse comune con la sinistra. La Lega di Salvini, che ha capito anzitempo gli umori neri del suo popolo, ora crede alle buffonate (intese come esibizioni clownesche) di Mario Giordano. Dura minga.

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Chi sono i cantanti di Sanremo giovani 2020

Da Leo Gasmann agli Eugenio in via di Gioia: i protagonisti che si sono aggiudicati il palco dell'Ariston. Che vedrà anche Tiziano Ferro presente tutte le sere.

I magnifici otto sono stati scelti. Il 19 dicembre i nomi dei partecipanti a Sanremo giovani 2020 sono stati finalmente svelati e così il prossimo festival targato Amadeus inizia a prendere forma. In attesa di conoscere i nomi dei Big e gli ospiti delle cinque serate in programma dal 4 all’8 febbraio – il conduttore ha già spiegato che Tiziano Ferro sarà presente tutte le sere, le porte dell’Ariston si sono spalancate agli otto cantanti che parteciperanno tra i Giovani.

DA LEO GASMANN A TECLA VINCITRICE DI SANREMO YOUNG

Leo Gassmann (con Va bene così), Fadi (Due noi), Marco Sentieri (Billy Blu), Fasma (Per sentirmi vivo), Eugenio in via di Gioia (Tsunami) sono i cinque protagonisti, in diretta tv su Rai1, si sono sfidati a colpi di duelli e musica per conquistare un posto in prima fila all’Ariston. A loro si aggiungono, da Area Sanremo, Gabriella Martinelli e Lula (Il gigante d’acciaio, dedicata a Taranto e alle vicende dell’ex Ilva) e Matteo Faustini (Nel bene e nel male). Approda di diritto all’Ariston anche la giovanissima Tecla Insolia, vincitrice di Sanremo Young.

TEMI SOCIALI E MALESSERE GENERAZIONALE

Temi sociali e malessere generazionale corrono tra i brani, gli stessi che arriveranno a febbraio. Sfide secche, dentro o fuori. Per quella che qualcuno considera l’occasione della vita, qualcuno un passaggio obbligato verso il successo. Sono emozionati i ragazzi (e si vede, dalle mani che si contorcono, dagli sguardi persi, dalle gambe che non stanno ferme), anche se molti di loro hanno già alle spalle talent e gavetta. Come Thomas che arriva da Amici, ma deve cedere il passo a Leo Gassmann, da X Factor, figlio di Alessandro – che via Twitter fa il tifo: be brave and rock on! – e nipote di Vittorio (e più di uno gli ricorda che porta un cognome “ingombrante”, mentre la rete ipotizza raccomandazioni, ma lui ribatte che «è la musica a vincere»). Gli Eugenio in via di Gioia portano una ventata di allegria e lasciano fuori il bravo Avincola (con un brano sui rider). Eliminati anche Shari e i Reclame.

I CINQUE GIUDICI SENIOR

A decidere i più meritevoli sono televoto, Commissione musicale del festival, giuria demoscopica e giuria televisiva, ovvero i cinque senatori del festival Pippo Baudo, Antonella Clerici, Carlo Conti, Gigi D’Alessio e Piero Chiambretti, alla quale spettava l’ultima parola in caso di parità. E non è mancata qualche stoccata via social, come quella di Enzo Mazza, ceo della FIMI, che in un tweet ha polemicamente sottolineato le differenze d’età tra giudicanti e giudicati. «Date di nascita super giuria #sanremogiovani: 1936, 1956, 1961, 1962, 1967. Artisti in gara secondo regolamento: non aver superato i 36 anni. Ovvero non essere nati dopo 1983. Età media utilizzatori di Spotify: 25 anni, ovvero nati nel 1994». I giudici, tutti veterani del festival, non raccolgono la provocazione, arrivata già nei giorni della loro ufficializzazione. Appuntamento, dunque, al 4 febbraio (e prima anche a Potenza con il Capodanno di Rai1, sempre condotto da Amadeus) con in testa già le canzoni

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La lettera in cui le Sardine spiegano di non voler diventare un partito

I quattro fondatori pubblicano un lungo messaggio su Repubblica. E spiegano: «Siamo un movimento pacifico, incorniciarlo sarebbe come mettere confini al mare».

«La pentola era pronta per scoppiare, le Sardine le hanno permesso semplicemente di fischiare. L’ Italia è nel mezzo di una rivolta popolare pacifica che non ha precedenti negli ultimi decenni. Chi cercherà di osteggiarla sentirà solo più acuto il fischio, chi tenterà di cavalcarla rimarrà deluso». Scrivono così i quattro fondatori delle Sardine – Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori e Giulia Trappoloni – in una lettera a Repubblica in apertura di prima pagina. E aggiungono: «La forma stessa di un partito sarebbe un oltraggio a ciò che è stato e che potrebbe essere. E non perché i partiti siano sbagliati, ma perché veniamo da una pentola e non è lì che vogliamo tornare».

«CI SENTIAMO IMPREPARATI, MA LIBERI»

«Chiedere che cornice dare a una rivolta è come mettere confini al mare. Noi ci chiediamo ogni giorno come fare e ci sentiamo ridicoli, inadatti e impreparati… ma finalmente liberi», scrivono i quattro ragazzi. «L’unica certezza che abbiamo è che siamo stati sdraiati per troppo tempo. E che ora abbiamo bisogno di nuotare». I quattro trentenni raccontano il percorso che li ha portati dalla manifestazione del 14 novembre a Bologna a quella del 14 dicembre in piazza San Giovanni a Roma, fino alla riunione del giorno seguente. Oggi «siamo quattro trentenni come ce ne sono tanti in Italia. Il processo che abbiamo contribuito a creare sarà lungo, ma intanto è iniziato. E per quanto possiamo essere qualcuno all’interno delle piazze, dei nostri collettivi e dei nostri circoli, non siamo nessuno all’interno di questo processo», osservano.

«LE SARDINE SONO SOLO UN PRETESTO»

«Le Sardine non esistono, non sono mai esistite. Sono state solo un pretesto. Potevano essere storioni, salmoni o stambecchi. La verità è che la pentola era pronta per scoppiare. Poteva farlo e lasciare tutti scottati. Per fortuna le sardine le hanno permesso semplicemente di fischiare», sottolineano. «Non è stato grazie a noi, né tanto meno a chi ha organizzato le piazze dopo di noi. È stato grazie a un bisogno condiviso di tornare a sentirsi liberi. Liberi di esprimere pacificamente un pensiero e di farlo con il corpo, contro ogni tentativo di manipolazione imposto dai tunnel solipsistici dei social media. La condivisione dello stesso male ci ha resi alleati coesi, ha unito il fronte».

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In Piemonte voto di scambio con la ‘ndrangheta, arrestato l’assessore di Fdi Rosso

Responsabile dei diritti civili nella giunta di centrodestra, a lungo era stato parlamentare di Forza Italia. Eseguite altre sette misure di custodia cautelare.

Il blitz contro la ‘ndrangheta non si ferma e dopo la maxi operazione del 19 dicembre e gli arresti eseguiti in Valle D’Aosta, questa volta le indagini toccano il Piemonte. Roberto Rosso, assessore ai Diritti civili della Regione Piemonte, a lungo parlamentare di Forza Italia, per cui all’inizio degli anni ’90 é stato candidato sindaco di Torino, e ora in Fratelli d’Italia, è stato arrestato la mattina del 20 dicembre dalla guardia di di Finanza nell’ambito di un’inchiesta sulla ‘ndrangheta che ipotizza anche il voto di scambio.

ACCUSE SULLE ULTIME ELEZIONI REGIONALI

Le accuse nei suoi confronti riguarderebbero le ultime elezioni regionali. Oltre all’arresto di Rosso le fiamme gialle hanno eseguito altre sette ordinanze di custodia cautelare e sequestri di beni nei confronti di soggetti legati alla ‘ndrangheta e operanti a Torino: tra i reati contestati c’è anche lo scambio elettorale politico-mafioso.

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Liguria in allerta rossa per il maltempo

Chiusi porti, scuole e la A6. Ma il codice è arancione anche per Piemonte, Emilia Romanga e Lombardia.

Allerta rossa per il maltempo il 20 dicembre in Liguria: chiusi porti e
scuole; chiusa la A6 tra Savona e Altare; è attesa una
perturbazione “molto violenta”, avverte l’assessore alla
Protezione civile Giampedrone.

ALLERTA ARANCIONE IN TRE REGIONI

Allerta arancione invece sempre in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna; gialla in Sardegna, Campania, Lazio, Toscana, Umbria e Friuli Venezia Giulia.

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La narrazione distorta dello spettacolo teatrale sulle banche venete

Il Comunale di Vicenza chiude le porte a "Una Banca Popolare". Che ha debuttato a Venezia tra perplessità e indignazione. Effetto di una lettura del terremoto BpVI sbilanciata a favore di Zonin.

Al teatro Comunale di Vicenza hanno già deciso. Commenti non ne filtrano, ma la scelta è netta: Una Banca Popolare, novità di Romolo Bugaro prodotta dal Teatro Stabile del Veneto, che ha debuttato al Goldoni di Venezia a metà dicembre, non approderà nella città più ferita dal tracollo delle Popolari venete. Nessuna sorpresa. Si parla di un palcoscenico che dista meno di 100 metri da quello che fu il quartier generale della Banca Popolare di Vicenza, l’istituto di credito presieduto da Gianni Zonin, fallito trascinando nel crac oltre 100 mila soci. Le finestre dell’ultimo piano del palazzo di via Framarin, dove si trovavano gli uffici dei Vip e la sala del consiglio di amministrazione, danno proprio sul teatro progettato da Gino Valle e aperto nel 2007. BpVI era fra i soci fondatori, aveva due rappresentanti nel consiglio della Fondazione costituta ad hoc dal proprietario, il Comune di Vicenza, per la gestione. E supportava con un sostanzioso contributo – 200 mila euro all’anno – le attività di spettacolo.

BELTOTTO, DA ZAIA AL TEATRO STABILE

Sono passati due anni e mezzo dal crollo e molto è cambiato. Banca Intesa, che al prezzo di un euro ha rilevato la Popolare fallita, in consiglio non c’è e ha dimezzato il contributo. Rimane importante la presenza della Regione, più incisiva da quando l’Amministrazione comunale di Vicenza, a giugno del 2018, si è allineata a centrodestra con quella veneta. Il dettaglio non è privo di significato. La Regione ha nello Stabile l’istituzione teatrale di riferimento: fra l’altro, il presidente è Giampiero Beltotto, in passato (dopo essere stato caporedattore della Rai a Venezia) per cinque anni portavoce di Luca Zaia, inamovibile governatore. E questo fa capire che dire no allo Stabile, anche solo per la distribuzione di un allestimento, non è così semplice. Il fatto è che questo spettacolo – ampiamente pubblicizzato prima dell’andata in scena come lettura delle vicende bancarie venete “dalla parte dei cattivi” – appare decisamente sbilanciato in una prospettiva che si può definire solo come “filo-zoniniana”.

L’opera è stata prodotta dal Teatro Stabile del Veneto.

A Venezia, il debutto e le repliche sono caduti in una certa pubblica indifferenza e in varie private indignazioni. Alla prima il teatro era tutt’altro che pieno e le accoglienze non sono state propriamente entusiastiche. Devono essere bastati i resoconti molto cauti della carta stampata per indurre un gruppetto di poche persone a recarsi al Goldoni, assistere all’ultima replica, non applaudire e “aspettare fuori” l’autore e il regista, Alessandro Rossetto. Volevano “chiedere spiegazioni” si è letto in una cronaca del quotidiano Nuova Venezia, difficile che quelle avute da una aiuto-regista (gli altri asseritamente non erano presenti) siano state soddisfacenti.

Dall’8 al 12 gennaio la partita si sposterà al Verdi di Padova, città decisamente più coinvolta di Venezia nel terremoto BpVI

Passate le feste, dall’8 al 12 gennaio la partita si sposterà al Verdi di Padova, città decisamente più coinvolta di Venezia nel terremoto BpVI. E si vedrà quale accoglienza sarà riservata al debutto nella drammaturgia dell’autore di casa Bugaro, avvocato-scrittore che gode di buona notorietà per una serie di romanzi spesso ad ambientazione veneta che gli sono valsi anche due ingressi nella cinquina del premio Campiello, nel 1998 e nel 2007. La sua scrittura teatrale, però, appare sostanzialmente deludente. E la sua lettura del caso banche venete sembra andare in direzione di una narrazione che è singolarmente sovrapponibile a quella che Gianni Zonin sta portando avanti da quando ha deciso di tornare in pubblico, di rispondere ai giornalisti e di partecipare alle udienze del processo in cui è imputato.

BUGARO E «I NAZISTI DELLA BCE»

È la narrazione di una gestione bancaria che è fallita per avere voluto pervicacemente fare l’interesse dell’economia del territorio e che riconduce il crollo alla capziosità dei controlli di Bankitalia e della Bce («i nazisti della Bce» fa dire testualmente Bugaro al suo presidente della fittizia Popolare del Nordest). Scrollandosi di dosso con arrogante sicumera ogni responsabilità per qualsiasi “mala gestio”, per qualsiasi comportamento illegale. Tutto questo avviene in un lunghissimo monologo (45 minuti peraltro ben sostenuti dall’attore Fabio Sartor) che come tutti i monologhi non prevede contradditorio, prospettiva diversa, sviluppo dialettico. Il banchiere Gianfranco Carrer (così si chiama il personaggio nello spettacolo) racconta la sua verità: un singolare spot teatrale per le tesi difensive dell’ex banchiere Zonin in tribunale a Vicenza. Che in questo dovesse consistere la pur interessante scelta di portare sulla scena il grande crac del Veneto è revocabile in dubbio.

Una scena di “Una Banca Popolare”.

Bugaro si limita ad abbozzare (nella prima parte) il ruolo e le miserie del “cerchio magico” che stava intorno al presidente della Banca Popolare: imprenditori e professionisti che hanno goduto di un trattamento privilegiato, si sono prestati a operazioni poche chiare spesso (ma non sempre) risolte in cospicui rovesci finanziari e solo alla fine, quando è esplosa la crisi, hanno scaricato il loro “benefattore”. Ma il lungo monologo finale cancella anche questo pur parziale tentativo di articolare di più e meglio il discorso. Che mai accende una luce sul colossale tradimento della fiducia di decine di migliaia di risparmiatori. Altri elementi, poi, sono destinati ad alimentare le polemiche.

IL PASSATO DI BELTOTTO ALLA BPVI

Sorprende ad esempio che alla produzione di uno spettacolo così a tesi (ne è prevista una versione cinematografica) partecipi la “Jole Film” di Marco Paolini, il popolare autore-attore che completa in questo modo un inedito percorso di avvicinamento allo Stabile, già contrassegnato da una significativa presenza nei suoi cartelloni. E incuriosisce, diciamo così, il fatto che Beltotto sia stato l’ultimo responsabile della comunicazione, prima del definitivo tracollo, della Banca Popolare di Vicenza. In quei mesi, Beltotto era già vicepresidente dello Stabile e lo era anche successivamente, quando il suo predecessore, Angelo Tabaro, decise di concretizzare il progetto di Una Banca Popolare. Infine, nell’ottobre 2018 Beltotto è diventato presidente. È stato lui, quindi, a seguire la definitiva realizzazione dello spettacolo. Al limite, come testimone del crollo, avrebbe anche potuto esserne un personaggio.

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Le quotazioni di Borsa e spread del 20 dicembre 2019

Piazza Affari si prepara all'apertura dopo una giornata positiva. Il differenziale Btp Bund a 161 punti. I mercati in diretta.

La Borsa italiana si prepara all’apertura dopo aver chiuso in aumento dello 0,34% a 23.708 a punti, l’Ftse All Share in crescita dello 0,29% a quota 25.835. In Piazza Affari giornata di forti acquisti per Nexi dopo l’accordo con Intesa nei sistemi di pagamento: il titolo della società dei pagamenti digitali ha chiuso in aumento del 4% mentre più cauto è stato il titolo Intesa, che ha concluso in aumento dello 0,6%.

Bene anche Ubi (+2,5%) con Ferragamo, Prysmian e Unicredit, tra gli altri, in aumento di oltre un punto percentuale. Nel paniere principale, deboli Cnh (-1,1%), Pirelli (-1,6%) e soprattutto Buzzi, che ha concluso in ribasso del 2,1%. Tra i titoli a bassa capitalizzazione, prosegue l’ottovolante per Il Sole 24 Ore, sceso del 7% dopo le recenti corse, mentre è stato un debutto ottimo per Doxee sul mercato Aim: +24% finale a 3,74 euro.

LO SPREAD A 161 PUNTI BASE

Lo spread tra Btp e Bund chiude in rialzo a 161 punti base dai 159 della chiusura di ieri dopo aver toccato un massimo di seduta a quota 163. Il rendimento del Btp è pari all’1,38% e nel corso della seduta era risalito all’1,40%, il livello più alto da agosto.

I MERCATI IN DIRETTA

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