Alta tensione in Libia: Erdogan pronto ad aumentare gli aiuti militari

Le truppe del generale Haftar hanno sequestrato un cargo turco e Ankara ha fatto sapere che potrebbe mandare più armi e soldati a Tripoli.

Sale alle stelle la tensione in Libia: le forze di Khalifa Haftar hanno annunciato il sequestro di un cargo con a bordo diversi marinai turchi, mentre da Ankara il presidente Recep Tayyip Erdogan afferma di essere pronto a sostenere militarmente Tripoli in ogni modo. La Turchia «può elevare il proprio sostegno militare navale, aereo e terrestre al governo legittimo libico se richiesto», ha ribadito oggi il Sultano dopo la ratifica, ad Ankara e Tripoli, dell’accordo bilaterale sulla cooperazione militare. Erdogan ha poi sottolineato che la politica turca «in Libia e Siria non cambierà», annunciando inoltre che entro il 2027 verranno schierati nel Mediterraneo sei sottomarini di nuova generazione. «Rimarremo al fianco dei nostri fratelli libici finché la pace e la sicurezza non verranno assicurate, come stiamo facendo in Siria», ha sottolineato dal canto suo il ministro della Difesa di Ankara.

SEQUESTRATO UN CARGO TURCO

Erdogan è intervenuto dopo l’incidente avvenuto davanti alle coste dell’Est libico, dove le forze navali di Haftar hanno sequestrato un cargo con equipaggio turco. «Nel corso di un pattugliamento delle acque territoriali libiche, al largo delle coste di Derna», si legge in un comunicato sulla pagina Facebook del portavoce di Haftar, al Mismari, «la Brigata navale Sussa ha sequestrato un mercantile battente bandiera di Grenada e comandato da un’equipaggio turco». La nota è a corredo di un video che mostra le fasi salienti dell’operazione. «Il cargo è stato rimorchiato al porto di Ras Lanuf per controllo e perquisizione del carico e per adottare le misure necessarie», si prosegue. A bordo, secondo quanto si è appreso, ci sarebbero almeno tre marinai turchi.

ULTIMATUM DI HAFTAR ALLE MILIZIE DI MISURATA

Le forze navali di Haftar hanno quindi annunciano lo stato di allerta massima in previsione del probabile «invio di armi e soldati dalla Turchia in forza dell’accordo con il governo» di Tripoli, bollato come l’intesa «della vergogna». «Abbiamo le forze necessarie per respingere qualsiasi violazione turca delle acque libiche», ha avvertito il generale Mahdawi. I ribelli dell’Est hanno intensificato nelle ultime 24 ore i raid aerei su Tripoli e altre città libiche, mentre giovedì scorso sono stati dieci, secondo alcune fonti, i raid contro Misurata. E alla mezzanotte scade l’ultimatum di Haftar proprio alle forze militari di Misurata, a cui è stato intimato di lasciare Tripoli e Sirte o sarà un diluvio di fuoco.

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Lo sfogo di Lapo Elkann contro la Juve dopo il 3-1 dalla Lazio

L'erede di casa Agnelli dopo la sconfitta dei bianconeri in finale di Supercoppa italiana: «Juve vergognati».

La Lazio ha vinto la Supercoppa italiana, battendo la Juventus 3-1, e qualcuno non l’ha presa bene. «Juve VERGOGNATI. COMPLIMENTI alla Lazio», è stato il commento di Lapo Elkann su Twitter. L’erede di casa Agnelli, proprietaria del team, è convalescente dopo un incidente avvenuto in Israele circa due settimane fa.

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La polemica sulle parole di Bossi al congresso della Lega

Diventa virale la dichiarazione del fondatore del partito: «I meridionali aiutiamoli a casa loro perché se no straripano al Nord». Salvini alla fine si dissocia dal Senatur.

Il fondatore della Lega Umberto Bossi sembra non aver cambiato alcune sue convinzioni sul tema Nord-Sud. E anche se il partito ha dovuto cambiare pelle per esigenze elettorali, al Congresso di sabato è venuto fuori tutto l’animo della vecchia Lega Nord.

«Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo a casa loro straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa, non è stata aiutata e ci arrivano tutti addosso», ha detto il Senatùr alla platea di fianco a Matteo Salvini, che indaffarato con il telefono non ha voluto rettificare le parole del vecchio leader. Il video del discorso ha iniziato a circolare sui social, con sempre più voci che chiedevano al nuovo “Capitano” di dissociarsi dall’”Umberto”. 

Dopo aver fatto indigestione di gol (il Milan di oggi inguardabile, peggio del governo PD-5Stelle) si riparte!Incontri con la gente previsti stasera a Chieti, domani a Pescara, Ancona, Cesena, Crevalcore e Sant’Agata Bolognese.Una preghiera per Gaia e Camilla, non si può morire così a 16 anni🙏.

Posted by Matteo Salvini on Sunday, December 22, 2019

Alla fine Salvini è stato costretto a prendere le distanze. «Se qualcuno pensa che ci sia una parte del Paese che merita meno dell’altra ha sbagliato. Qualcuno è fermo al passato. Solo uniti si vince», ha detto domenica pomeriggio in diretta Facebook. Così come il congresso ha sancito l’esistenza di due partiti, Lega Nord e Lega con Salvini, così lo scontro sul meridione ha rimesso in luce quelle che sembrano ancora essere le due anime del Carroccio: quella a vocazione nazionale e quella ancora legata alla battaglia per il secessionismo.

IL M5S: «LA LEGA NORD È TRAVESTITA DA LEGA SALVINI»

«Aiutiamoli a casa loro altrimenti straripano al Nord? Che Bossi avesse certe idee in testa non è una novità. Ma Salvini prenderà le distanze? O pensa anche lui che i cittadini del Sud debbano essere tenuti in gabbia? Diffidate dalla Lega Nord travestita da Lega Salvini: evidentemente sono la stessa cosa», aveva detto la deputata M5s Anna Macina.

FORZA ITALIA: «DISSENSO TOTALE»

«Dissento totalmente dalle inaccettabili parole in libertà del Senatore Bossi ricordandogli che quando la gente del Sud è andata a lavorare al Nord d’Italia ha realizzato strade, ponti, infrastrutture, ha creato diritto e ha tirato su intere generazioni di italiani ‘del Nord’», ha scritto su Twitter il senatore di Forza Italia Renato Schifani.

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La polemica sulle parole di Bossi al congresso della Lega

Diventa virale la dichiarazione del fondatore del partito: «I meridionali aiutiamoli a casa loro perché se no straripano al Nord». Salvini alla fine si dissocia dal Senatur.

Il fondatore della Lega Umberto Bossi sembra non aver cambiato alcune sue convinzioni sul tema Nord-Sud. E anche se il partito ha dovuto cambiare pelle per esigenze elettorali, al Congresso di sabato è venuto fuori tutto l’animo della vecchia Lega Nord.

«Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo a casa loro straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa, non è stata aiutata e ci arrivano tutti addosso», ha detto il Senatùr alla platea di fianco a Matteo Salvini, che indaffarato con il telefono non ha voluto rettificare le parole del vecchio leader. Il video del discorso ha iniziato a circolare sui social, con sempre più voci che chiedevano al nuovo “Capitano” di dissociarsi dall’”Umberto”. 

Dopo aver fatto indigestione di gol (il Milan di oggi inguardabile, peggio del governo PD-5Stelle) si riparte!Incontri con la gente previsti stasera a Chieti, domani a Pescara, Ancona, Cesena, Crevalcore e Sant’Agata Bolognese.Una preghiera per Gaia e Camilla, non si può morire così a 16 anni🙏.

Posted by Matteo Salvini on Sunday, December 22, 2019

Alla fine Salvini è stato costretto a prendere le distanze. «Se qualcuno pensa che ci sia una parte del Paese che merita meno dell’altra ha sbagliato. Qualcuno è fermo al passato. Solo uniti si vince», ha detto domenica pomeriggio in diretta Facebook. Così come il congresso ha sancito l’esistenza di due partiti, Lega Nord e Lega con Salvini, così lo scontro sul meridione ha rimesso in luce quelle che sembrano ancora essere le due anime del Carroccio: quella a vocazione nazionale e quella ancora legata alla battaglia per il secessionismo.

IL M5S: «LA LEGA NORD È TRAVESTITA DA LEGA SALVINI»

«Aiutiamoli a casa loro altrimenti straripano al Nord? Che Bossi avesse certe idee in testa non è una novità. Ma Salvini prenderà le distanze? O pensa anche lui che i cittadini del Sud debbano essere tenuti in gabbia? Diffidate dalla Lega Nord travestita da Lega Salvini: evidentemente sono la stessa cosa», aveva detto la deputata M5s Anna Macina.

FORZA ITALIA: «DISSENSO TOTALE»

«Dissento totalmente dalle inaccettabili parole in libertà del Senatore Bossi ricordandogli che quando la gente del Sud è andata a lavorare al Nord d’Italia ha realizzato strade, ponti, infrastrutture, ha creato diritto e ha tirato su intere generazioni di italiani ‘del Nord’», ha scritto su Twitter il senatore di Forza Italia Renato Schifani.

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La dea fortuna di Ozpetek non è il solito film sulle famiglie arcobaleno

Una coppia gay in crisi (Accorsi-Leo) si trova a gestire i due bambini di un'amica (Trinca). Ma la storia fa riflettere sulla genitorialità di tutti, a prescindere dall'orientamento sessuale. Una raffica di sentimenti, emozioni, risate e qualche lacrima.

Ferzan Ozpetek torna alla regia con La dea fortuna, film con cui esplora nuovamente il tema della famiglia tramite il racconto della coppia composta da Alessandro (Edoardo Leo) e Arturo (Stefano Accorsi) che fa i conti con un rapporto in difficoltà e la cui quotidianità viene stravolta dall’entrata in scena di Annamaria (Jasmine Trinca), la migliore amica di Alessandro, e dei suoi due figli.

TROPPO IN SECONDO PIANO GLI ATTORI NON PROTAGONISTI

La sceneggiatura, scritta dal filmmaker in collaborazione con Gianni Romoli e Silvia Ranfagni, riesce a delineare i protagonisti con grande attenzione, permettendo ad Accorsi e Leo di regalare due ottime interpretazioni che sostengono una narrazione in cui i personaggi secondari, nonostante propongano degli spunti narrativi interessanti come nel caso di chi deve fare i conti con l’Alzheimer, restano purtroppo sempre in secondo piano.

RACCONTO DIVERTENTE E A TRATTI COMMOVENTE

La bravura delle due star riesce però a proporre un racconto emozionante, divertente e a tratti commovente di un amore che si rinnova e si mette alla prova, trovando nei giochi di contrasti la formula quasi perfetta per coinvolgere gli spettatori nel susseguirsi di situazioni, musica, scambi di battute e suggestioni visive.

LA FOTOGRAFIA VALORIZZA LE LOCATION

La luminosa fotografia valorizza inoltre le location scelte, passando da Roma alla Sicilia, e facendo quasi dimenticare l’irrealtà del mondo creato da Ozpetek fatto anche di terrazzi e palazzi che rispecchiano l’apertura o la chiusura mentale di chi ci abita.

Jasmine Trinca interpreta il ruolo di Annamaria, la mamma dei due bambini.

FILM NON SENZA DIFETTI MA CHE LASCIA IL SEGNO

La dea fortuna non è un film privo di difetti, tuttavia riesce a mantenersi ben ancorato alla realtà grazie ai sentimenti e alle emozioni portate in scena, regalando ai fan di Ozpetek un nuovo racconto che lascia il segno.

LA DEA FORTUNA IN PILLOLE

LA SCENA MEMORABILE

Alessandro e Arturo affrontano i compiti dei due bambini.

LA FRASE CULT

«Mettiamoci ancora più nei guai!».

TI PIACERÀ SE

Ami lo stile del regista e il suo approccio alla rappresentazione di situazioni reali.

DEVI EVITARLO SE

Non apprezzi i racconti pieni di sentimenti ed emozioni.

CON CHI VEDERLO

Con la propria famiglia, per riflettere sui sentimenti che legano le persone tra loro.

PERCHÉ VEDERLO

Per apprezzare l’approccio pieno di speranza che offre il racconto.

Regia: Ferzan Ozpetek; genere: commedia (Italia, 2019); attori: Stefano Accorsi, Edoardo Leo, Jasmine Trinca, Sara Ciocca, Edoardo Brandi.

1. L’OBIETTIVO: PARLARE DELLA GENITORIALITÀ

Ferzan Ozpetek ha spiegato che il suo obiettivo non era di affrontare il tema delle famiglie arcobaleno, ma di riflettere sul fatto che essere genitori «non è una questione genetica, ma di cuore, cervello e moralità». Il regista, presentando il suo nuovo film, ha voluto ribadire: «Si è genitori dalla cintura in su, non dalla cintura in giù».

2. LO SPUNTO PER OZPETEK: UNO SCENARIO COI SUOI NIPOTI

Alla base del progetto c’è un’esperienza personale vissuta dal regista: alcuni anni fa suo fratello si è gravemente ammalato e sua moglie gli ha chiesto, nel caso in cui fosse successo qualcosa anche a lei, di occuparsi assieme al compagno dei suoi due figli. Questa situazione ha portato Ozpetek ad affrontare dei dubbi e delle paure personali inedite, non sapendo come avrebbe reagito alla possibile entrata nella sua vita quotidiana dei nipoti 12enni. La dea fortuna nasce quindi come esplorazione di quelle emozioni e di quei dubbi, cercando di offrire a se stesso e a gli spettatori delle risposte.

3. CHE FEELING SUL SET: LA COMPLICITÀ TRA I PROTAGONISTI

Stefano Accorsi ha svelato di essere rimasto sorpreso dall’essere riuscito a creare subito la giusta complicità con Edoardo Leo, potendo così rappresentare una coppia che sta insieme da oltre 10 anni in modo naturale ed efficace. La collaborazione tra di loro, secondo l’attore, è stata molto facile. Il suo collega ha confermato questo elemento lodando la capacità del cast di comprendere con bravura la storia proposta dalla sceneggiatura e le caratteristiche uniche dei personaggi.

4. IL SOGNO DIVENTATO REALTÀ DI LEO: LAVORARE COL REGISTA

Edoardo Leo ha raccontato che lavorare con Ferzan Ozpetek è sempre stato un suo sogno e da anni sperava di ricevere una proposta per collaborare con lui. L’attore ha sottolineato che entrare a far parte della famiglia creata dal regista è un’esperienza unica e gli ha permesso di mettersi alla prova come attore, in particolare dal punto di vista emotivo che ha richiesto un grande impegno.

5. L’APPROCCIO AL LAVORO: CAMBI A SORPRESA SUL SET

Accorsi ha raccontato che quando si lavora con Ozpetek si arriva sul set senza sapere esattamente cosa accadrà, pur avendo un’idea di quello che si dovrebbe girare. L’attore ha spiegato che la scena in cui si balla sotto la pioggia inizialmente mostrava tutti che fuggivano tranne Annamaria, interpretata da Jasmine Trinca. Il regista è però arrivato sul set e ha cambiato tutto perché ha detto che la reazione dei personaggi sarebbe stata proprio l’opposto, cioè uscire sotto la pioggia a danzare.

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Lo stilista franco-italiano Emanuel Ungaro è morto

Figlio di un antifascista pugliese, aveva 86 anni.

Si è spento la sera del 21 dicembre a Parigi lo stilista Emanuel Ungaro. Aveva 86 anni ed era uno dei grandi della moda del XX Secolo. Nato in Francia, ad Aix en-Provence, il 13 febbraio 1933, Ungaro aveva chiare origini italiane. Il padre, pugliese di Francavilla Fontana, era un antifascista e fu costretto a emigrare in Provenza durante il Ventennio. Ungaro lascia la moglie Laura Bernabei e la figlia Cosima. I funerali sono in programma la mattina del 23 dicembre a Parigi.

GLI INIZI COL PADRE

Ungaro era stato avviato all’attività sartoriale proprio dal padre, che l’aveva preso come apprendista fin dalla più tenera età, a nove anni. Dalla Provenza si trasferì prima a Parigi e poi a Barcellona, dove cominciò a lavorare con Balenciaga. Con lui passò sei anni, prima di andare a lavorare per altri due con Courrèges. Una “gavetta” che l’avrebbe portato a creare la sua griffe nel 1965, arrivando a presentare la sua prima collezione a 32 anni.

TRA I GRANDI DELLA MODA PARIGINA

Tornato a Parigi, Ungaro aprì il suo negozio principale all’inizio dell’Avenue Montaigne, arrivando negli anni Ottanta a essere considerato uno dei cinque nomi più importanti dell’alta moda parigina. La sua azienda è stata acquistata dal gruppo italiano Ferragamo nel 1996. A 63 anni, Ungaro decise di ritirarsi dalle gestione del marchio, per poi allontanarsi definitivamente dalla moda il 26 maggio 2004, dopo un’attività personale durata 35 anni. Nel 2012 la produzione e distribuzione del marchio è ripresa sotto l’egida di un’altra azienda italiana, la Aeffe.

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L’agghiacciante report dei Legionari di Cristo sulla pedofilia

Accertati 175 casi in 78 anni. Sessanta da parte del fondatore Maciel. Responsabili 33 sacerdoti.

Praticamente due casi di pedofilia ogni anno. E anche qualcosa in più. La Congregazione dei Legionari di Cristo ha pubblicato un Rapporto riguardante gli abusi sessuali su minori commessi da membri dell’associazione nel corso della sua storia e i numeri sono agghiaccianti: 175 casi in 78 anni, 33 sacerdoti responsabili. Il rapporto, che sarà presentato il 20 gennaio a Roma in occasione del Capitolo generale della Congregazione, precisa che il fondatore di essa, il padre messicano Marcial Maciel, è responsabile di almeno 60 casi di abusi di minori. Lo studio, si è inoltre appreso, è stato realizzato durante sei mesi da una commissione interna e riguarda la storia dei Legionari dalla fondazione in Messico, il 3 gennaio 1941, ad oggi.

CONDANNA DEGLI ABUSI

Nella presentazione del documento, pubblicato nel portale ceroabusos.org, si sottolinea che con esso «i Legionari di Cristo desiderano fare un ulteriore passo per conoscere e riconoscere il fenomeno dell’abuso sessuale su minori e favorire la riconciliazione con le vittime». Il Rapporto inoltre «condanna e deplora» gli abusi commessi, così come «quelle pratiche istituzionali o personali che possano aver favorito o propiziato qualsiasi forma di abuso o rivittimizzazione». Dopo aver sottolineato che fra i 175 minori abusati sono inclusi le 60 vittime dello stesso fondatore della Congregazione, padre Maciel, lo studio precisa che i 33 sacerdoti responsabili degli abusi rappresentano il 2,44% dei 1.353 legionari ordinati nel corso della storia dell’associazione.

27 PRETI PEDOFILI ANCORA VIVI

Dei responsabili, «sei sono morti, otto hanno abbandonato il sacerdozio, uno ha lasciato la Congregazione e 18 vi sono rimasti. Di questi ultimi, il 100% è escluso da rapporti pastorali con minori, quattro hanno restrizioni nell’esercizio del ministero e osservano un piano di sicurezza, mentre 14 non esercitano il ministero sacerdotale pubblico».

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Poveri, disabili, anziani: le voci degli ultimi di Hong Kong

Mentre le proteste infuriano, lontano dallo sguardo delle telecamere un popolo di dimenticati fatica a sopravvivere, tra affitti fuori portata e sussidi insufficienti. In un contesto economico sempre più deteriotato. Il reportage.

Poveri, disabili, anziani: sono loro le voci dimenticate delle proteste di Hong Kong. Mentre il mondo intero guardava preoccupato ai disordini e al crescere della violenza nell’ex colonia, mentre lo sguardo dei media internazionali si focalizzava su ciò che stava accadendo dentro i campus universitari della città, dove i più irriducibili tra gli studenti in lotta restavano asserragliati, braccati e circondati dalle forze dell’ordine, c’era qualcuno di cui nessuna testata o televisione si preoccupava. In una metropoli che è considerata, a tutti gli effetti, la Montecarlo dell’Asia, dove l’affitto di un miniappartamento in centro può costare molte decine di migliaia di euro al mese e dove ancora oggi si immatricolano più Ferrari, Rolls Royce e Mercedes che in qualsiasi altra parte del mondo, esiste un popolo di dimenticati, che devono sopravvivere nella città più costosa del globo con quelli che qui sono poco più di una manciata di spiccioli.

Per esempio chi, nonostante il caos e il pericolo, dietro le barricate del campus ormai quasi vuoto dell’Università di Hong Kong ha continuato a lavorare. Perché, molto semplicemente, non aveva scelta. Come Mak Hon Kau, che ha proseguito diligentemente a fare il suo lavoro di giardiniera, spazzando foglie e piantando fiori sotto il sole rovente in quello che, un attimo prima, era un cortile dall’aspetto sereno e un attimo dopo era diventato un campo di battaglia, cercando riparo in qualche modo. Mak, una lavoratrice a contratto, è tra le migliaia di poveri di Hong Kong le cui vite sono state duramente colpite da sei mesi di proteste sempre più violente le quali, a loro volta, hanno innescato una crisi economica senza precedenti per la città-stato.

So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?

Mak Hon Kau, 68 anni, giardiniera

«So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?», dice a Lettera43.it Mak, 68 anni, che guadagna circa 6 mila dollari di Hong Kong (poco più di 650 euro) al mese. Uno stipendio con il quale si potrebbe anche sopravvivere in maniera dignitosa in Italia, ma non qui. «Sono un lavoratore a contratto», ripete lei, «non posso scegliere dove mi mandano a lavorare. Anche se è un posto pericoloso».

UN’ECONOMIA IN CADUTA LIBERA

In una città in cui una persona su cinque (ovvero quasi 1 milione e mezzo di persone) vive al di sotto della soglia di povertà assoluta, calcolata in 4 mila dollari di Hong Kong (meno di 500 euro) al mese per famiglia, la vita, per questo esercito di “ultimi”, di “dimenticati”, ignoti alle cronache delle proteste, sta diventando una scommessa sempre più difficile. La rivolta ha colpito duramente l’economia della città, con il turismo in caduta libera, le compagnie aeree come la Cathay Pacific costrette a tagliare stipendi e “bonus di fine anno” (la nostra 13esima), aziende che licenziano personale ogni giorno e le vendite al dettaglio che precipitano. La città è entrata in una recessione tecnica, con l’economia in calo del 3,2% nel terzo trimestre. Le cifre fanno paura: le esportazioni sono diminuite del 9,2% in ottobre, mentre gli arrivi turistici sono crollati sotto il 50% nella prima metà del mese. Gli esperti prevedono che il Pil di Hong Kong diminuirà dell’1,4% quest’anno.

UNA LOTTA QUOTIDIANA PER RESTARE A GALLA

I più colpiti sono quelli che vivono ai margini di questa società basata sull’opulenza e la ricchezza: anziani, disabili, minoranze etniche e lavoratori poveri, mentre la loro lotta quotidiana per rimanere a galla in un ambiente di estrema disuguaglianza diventa ancora più dura. E mentre i ristoranti chiudono, gli eventi vengono annullati e i cantieri sospesi, molti lavoratori a tempo parziale e a basso salario hanno subito un colpo terribile; altri sono stati colpiti dall’aumento dei costi, con le proteste che paralizzano regolarmente la città. Per i pendolari che ogni giorno devono recarsi al lavoro nelle zone centrali, dai distretti popolari dove vivono, spostarsi è diventato un affare costoso e complicato. Molti pazienti anziani non sono stati in grado di rispettare gli appuntamenti in ospedale. O sono troppo spaventati per uscire di casa.

Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati

Lee, 60 anni, disoccupata

La signora Lee, una ex lavapiatti di circa 60 anni, si è trasferita a Hong Kong dal Guangdong due decenni fa. Lei e il figlio ormai adulto dormono su letti adiacenti in un minuscolo monolocale di Shau Kei Wan, dove riuscire a pagare il pur minimo affitto mensile pari a 200 euro è sempre stata un’autentica lotta. «Non lavoro più», dice con la voce rotta dal pianto, «ma se qualcuno mi offrisse un posto lo prenderei al volo». «Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati». Lee vive ormai solo dei suoi risparmi e con i pochi aiuti pubblici che le vengono dati. Dopo aver pagato l’affitto, le restano poco più di 100 euro per vivere tutto il mese: una sfida impossibile in una città cara come Hong Kong.

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NON BASTANO

Samson Tse, professore nel dipartimento di assistenza sociale e amministrazione sociale dell’Università di Hong Kong, afferma che le statistiche del governo sulla povertà offrono un quadro solo parziale del fenomeno dei “nuovi poveri”. «La definizione data dal governo della soglia di povertà non descrive l’intero problema o la piena complessità delle difficoltà che queste persone affrontano», dice. «Il povero farà sempre più fatica a rimanere a galla durante questi periodi di estrema contrazione economica. Non c’è rete di sicurezza, non ci sono ammortizzatori sociali che bastino», conclude Tse.

IN FILA PER IL CIBO GRATIS FUORI DAI RISTORANTI

Proprio dietro l’angolo del fabbricato popolare dove vivono la signora Lee e il figlio, un gruppo formato da una dozzina di persone anziane è in fila fuori dal ristorante Ho Win Roasted Meat, in attesa delle scatole per il pranzo gratuite che vengono distribuite tre volte alla settimana. Una signora sulla settantina, di nome Lo, è arrivata con tre ore di anticipo per assicurarsi di ottenere almeno una delle scatole. La dividerà in due e ne rivenderà una parte per circa tre euro. Col rimanente dovrà nutrirsi per due giorni. «Certo, la mia vita è stata influenzata dalle proteste», dice Lo, che vorrebbe lasciare il suo monolocale nella vicina Chai Wan, spesso interessata dai violenti scontri tra polizia e manifestanti. «Il gas lacrimogeno mi fa stare male e i giovani si feriscono», dice, mentre sembra più preoccupata per loro che per se stessa.

DISEGUAGLIANZE SEMPRE PIÙ MARCATE

Eugene Chan, ex candidato del consiglio distrettuale di Shau Kei Wan, spiega che le interruzioni del traffico causate dalle proteste hanno reso più difficile per gli oltre 30 mila anziani nella sua zona recarsi al vicino Pamela Nethersole Eastern Hospital. «Il livello di povertà qui è significativo», afferma Chan, aggiungendo che la maggior parte dei residenti anziani nell’area guadagna meno del reddito medio della città – stimato in circa 2 mila euro al mese – e si affida all’assistenza sanitaria per anziani sovvenzionata dal governo. Il cosiddetto “Voucher Scheme” per il pagamento delle spese mediche. «Questa tragedia è reale», conclude Chan. «Sei mesi di proteste ci hanno lasciato una società devastata, dove le disuguaglianze sono diventate ancora più drammatiche e profonde. Quando tutto questo finirà, dovremo affrontarne le conseguenze».

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Non saranno gli Usa a curare Londra dalle ferite della Brexit

Se il Regno pensa di vedersi offrire su un piatto d'argento il libero accesso al mercato statunitense, si sbaglia di grosso. Il nazionalismo costerà caro agli inglesi. Come preconizzato da George Orwell.

Prima di archiviare la lunga saga Brexit e in attesa di vedere fra un paio d’anni le vere conseguenze, è bene assicurarsi che venga archiviata nello scaffale giusto. Che è quello dei sogni. A volte si realizzano. A volte no. Non c’è dubbio che si tratta dell’ultimo grande exploit del nazionalismo inglese. Convinto, come diceva nel 1999 Margaret Thatcher cacciata nove anni prima dalla guida del governo dagli uomini del suo stesso partito anche per la sua durezza anti Ue, che «noi siamo certamente il miglior Paese in Europa» e che «nel corso della mia vita tutti i problemi sono venuti dal continente, e tutte le soluzioni sono venute dai Paesi di lingua inglese disseminati in giro per il mondo». L’ex premier “lady di ferro” morirà nel 2013. Anche il grande Mercato Unico di cui la premier Thatcher fu negli Anni 80 uno dei più convinti creatori è stato un problema venuto dal continente?

Thatcher guidava il partito che aveva portato il Regno Unito nel Mec e diventò decisamente anti Ue solo dopo il profilarsi della riunificazione tedesca. Milioni di inglesi vogliono ora sbattere la porta, l’hanno sbattuta, con molti che si scrollano si direbbe anche la polvere dai calzari, ispirati idealmente da una Thatcher che Boris Johnson ha usato come una novella Giovanna d’Arco alla riconquista dell’indipendenza. Persino Winston Churchill che invece fu, perso l’Impero, un convinto europeista, è stato gabellato come brexiteer. Intanto, tutti parlano per sentito dire. Quello della Brexit è un argomento da tempo noioso perché rimasto a bagnomaria per oltre tre anni ma, archiviandolo, occorre sapere che la storia non finisce qui. Non si tratta infatti solo dell’uscita legale, che ci sarà il 31 gennaio prossimo, dell’ultimo ammainabandiera a Bruxelles e Strasburgo e della scomparsa della già rara bandiera azzurrostellata dell’Unione dagli edifici pubblici britannici.

LA SAGA DELLA BREXIT NON È FINITA

Ridisegnare i rapporti tra Londra e il continente è infatti un’operazione gigantesca e inedita. Si tratta dell’uscita reale dalla enorme rete cha a partire dal 1973 ha integrato l’economia del Regno Unito con quella continentale, e non solo l’economia, e del disegno complesso dei futuri rapporti commerciali. Johnson ha ribadito martedì 17 dicembre che si uscirà del tutto comunque a fine 2020. Quindi una hard Brexit, probabilmente; i mercati hanno subito reagito male. D’altra parte una soft Brexit vorrebbe dire restare agganciati al sistema Ue, come regole, e questo Johnson lo definiva già un anno fa un “vassallaggio”. Johnson ha vinto grazie agli errori clamorosi del corbynismo (si veda Corbyn consegnerà il Regno Unito alla brexit di Farage del 19 maggio scorso) e dei liberaldemocratici e sulla base di due promesse, ma mantenere la prima promessa rende difficilmente realizzabile la seconda.

Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni

La prima promessa ora ribadita dice “usciremo definitivamente a fine dicembre 2020”, cioè fra un anno. Ciò significa che per un anno cambia poco nei rapporti economici fra Londra e Bruxelles, e dopo cambia tutto. La seconda promessa assicura un’economia in rapida crescita spinta anche dalla spesa pubblica, investimenti notevoli nelle aree delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale, aree ex minerarie e operaie, da un secolo o poco meno tenacemente laburiste, che in nome della Brexit si sono in parte notevole, determinando le dimensioni della vittoria, schierate con i Tory, passaggio prima impensabile. Ma sarà possibile un’economia in crescita se i duri del partito conservatore e Nigel Farage che già ha lanciato anatemi impongono comunque un’uscita definitiva dai meccanismi economici e doganali fra un anno? Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni.

L’INTEGRAZIONE CON GLI USA NON SARÀ MAI PARI A QUELLA CON L’UE

Se Londra esce fra un anno sarà inevitabile adottare le regole del Wto, il che significa dazi, tariffe, dogane e controlli. Farage non va sottovalutato. Non ha conquistato nemmeno un seggio il 12 dicembre con il suo Brexit party, ma si è presentato in meno di metà dei collegi per disturbare il minimo possibile Johnson. E Farage, con la sua retorica iper nazionalista e sopra le righe a dir poco, resta l’uomo politico più influente del Paese, vero pontefice della Brexit. È lui che ha imposto il dibattito nazionale a partire dal voto del 2013 e dalle europee del 2014, spingendo i Tory a cercare di essere più anti Ue di lui. È la logica degli estremismi di cui il nazionalismo, a differenza del patriottismo, fa parte. Johnson parla della «grande avventura» in cui il Paese si è lanciato «riconquistando» la propria indipendenza e tratteggia i contorni di un Regno Unito nuovamente «imperiale».

Sostenitori della Brexit dopo il trionfo di Boris Johnson.

Un impero soft fatto di eccellenza economica, di finanza, di centralità globale della piazza londinese, di ricerca e alta tecnologia, di supremazia intellettuale insomma, quella stessa che i burocrati bruxellesi e, diciamolo pure, le stranezze e la mediocrità di un continente che un certo tipo di inglesi ha sempre guardato dall’alto in basso, impedivano. È un esercizio nel quale il suo lungo mestiere da giornalista lo aiuta, e appartiene per ora al mondo dei sogni. Sogni? La risposta è sempre stata: avremo un magnifico trattato commerciale con gli Stati Uniti. Donald Trump in effetti lo ha promesso, con l’obiettivo di usare il Regno Unito come grimaldello per sfasciare la Ue, che è troppo grossa commercialmente e infastidisce un’America di un certo tipo di cui Trump è il portabandiera, l’America iper nazionalista e, che lo ammetta o no, neo isolazionista e che non sa che farsene ormai del “mondo occidentale”. Ma qui occorre un semplice ragionamento.

È difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche

Fino a oggi, e fino al 31 dicembre 2020, l’economia britannica, 66 milioni di abitanti , è integrata in un mercato di 512 milioni di persone, senza dazi e senza vincoli. Uscendo rinuncia quindi al libero accesso a un mercato di 450 milioni e il più ricco, come capacità totale di spesa della popolazione, del mondo. Gli Stati Uniti non si integreranno mai in analoga misura, per molto tempo almeno, con il mercato britannico, ma Trump ha promesso e Johnson continua a citare un «accordo fantastico». Difficilmente ci sarà nel corso del 2020, anno dominato dall’impeachment e ancor più dalla campagna elettorale che lascerà probabilmente agli elettori il giudizio finale sul presidente. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Qualsiasi trattativa sarà bilaterale, non multilaterale come quella che ha creato il Mercato Unico europeo più di 30 anni fa. Ed è difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche, visto che i due mercati sono ben lontani dall’esserlo.

GLI ISTINTI PROTEZIONISTI MADE IN USA

È chiaro infatti che il libero accesso al mercato Usa vale potenzialmente per i prodotti britannici assai di più, cinque volte tanto, del libero accesso al mercato Uk per i prodotti Usa. Inoltre va considerato anche, come l’ex Cancelliere dello scacchiere conservatore Kenneth Clark (fra i moderati giubilati da Johnson) ricordava ai Comuni alcuni mesi fa, che gli Stati Uniti sono fortemente condizionati nelle trattative commerciali da un Congresso dove gli istinti protezionisti, sollecitati di continuo dalle molte lobby, e la perfetta coscienza delle asimmetrie fra i due mercati peseranno certamente. Non c’è che da aspettare e vedere. Ma la vittoria del nuovo partito conservatore nazional-brexista-populista (in omaggio al nuovo elettorato delle Midlands) non è che l’ennesima incarnazione del vecchio nazionalismo inglese, condiviso dalle classi superiori e inferiori, e anzi in queste ultime spesso ancora più tenace. Di nuovo, a rafforzarlo, c’è solo l’immigrazione. Il resto è un déja-vu.

L’insularità degli inglesi, il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro

George Orwell

Senza perdersi dietro le cronache delle ultime settimane con interviste “alla gente”, basta ricordare quanto diceva Alexis de Tocqueville quando confrontava il francese ansioso che guarda in alto nel timore che qualcuno possa essergli superiore, e l’inglese che unicamente «abbassa il suo sguardo per contemplare con soddisfazione». Oppure, uscendo dall’800, l’epitaffio sulla Brexit può essere quello di George Orwell, quando diceva in The Lion and the Unicorn (1941), splendido e affettuoso ritratto del suo Paese e dei suoi connazionali, che l’errore degli inglesi è non avere mai preso sul serio i continentali, ritenendosi troppo superiori. La classe operaia, diceva, detesta gli stranieri (vedi ancora le Midlands). «L’insularità degli inglesi», aggiungeva Orwell, «il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro».

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La finanza indaga sui soldi di Onorato a Grillo e Casaleggio

Non solo i soldi a Open, ora anche quelli versati al Movimento 5 Stelle e al blog di Beppe Grillo..

Non solo i soldi a Open, ora anche quelli versati al Movimento 5 Stelle e al blog di Beppe Grillo riportano l’armatore Vincenzo Onorato sotto la lente d’ingrandimento della Guardia di finanza. Una segnalazione dell’Unità antiriciclaggio di Bankitalia ha infatti indicato come oltre ai 150 mila euro elargiti alla fondazione che ha contribuito a portare Matteo Renzi fino a Palazzo Chigi (50 mila a titolo personale, 100 mila versati dalla sua società), il patron di Moby e Tirrenia ne abbia pagati circa 800 mila alla società che gestisce il blog di Beppe Grillo e alla Casaleggio associati.

10 MILA EURO AL MESE PER UNO SPOT

Secondo Corriere della Sera, la Stampa e il Messaggero, che hanno ricostruito la vicenda, si tratterebbe di due accordi diversi. Il primo è una partnership di due anni (2018 e 2019) con la Beppe Grillo srl, l’azienda che gestisce il blog del fondatore del Movimento 5 stelle da 120 mila euro l’anno in cambio di uno spot al mese da pubblicare anche su Facebook, Twitter e Instagram. Gli investigatori stanno conducendo verifiche sui prezzi offerti ad altri inserzionisti per capire se si tratti di una tariffa esagerata che dunque potrebbe nascondere un finanziamento politico volto a ottenere vantaggi normativi. Il secondo accordo è quello siglato con la Casaleggio Associati il 7 giugno 2018 e prevede la «stesura di un piano strategico e la gestione di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Prezzo: 600 mila euro con alcune clausole legate al raggiungimento di determinati risultati.

LA BATTAGLIA PER I MARITTIMI ITALIANI

Ed è proprio sul fronte dei benefici fiscali del Registro internazionale alle navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari che gira la questione. È una vecchia battaglia di Onorato, che in più occasioni della scelta di ingaggiare solo marittimi italiani ha fatto un vanto per la sua azienda. E che per questo richiede vantaggi fiscali. È per questo motivo che secondo la procura di Firenze avrebbe finanziato Open: per ottenere benefici dai governi di centrosinistra. E i fondi elargiti a Grillo e Casaleggio potrebbero suggerire una ripetizione dello schema per cercare di garantirsi una sponda da diverse forze politiche. Un appoggio che sicuramente ottenne, anche in forma pubblica, da parte di Grillo, che nel settembre 2018 pubblicò un tweet rilanciando un articolo sul suo blog a sostegno della battaglia di Onorato per i marittimi italiani.

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SOTTO LA LENTE DELL’UE

Le somme elargite da Onorato al M5s sono ritenute sospette «sia per gli importi, sia per la descrizione generica della prestazione ricevuta, che per la circostanza di essere disposti a beneficio di persone politicamente esposte», scrive l’Uif nel documento inviato alla guardia di finanza. La compagnia di Onorato ha il monopolio su alcune rotte marittime ed è titolare di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno finita in un’istruttoria dell’Unione europea nel sospetto che possa trattarsi di «aiuti di Stato».

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Il caso dei 2 miliardi bloccati per cultura e turismo

C'è un tesoretto che potrebbe salvare il patrimonio storico di molte piccole comunità d'Italia. Soldi stanziati ma non ancora spesi o neppure programmati. Ritardi burocratici, territori in attesa e poche spiegazioni dal ministro Franceschini: radiografia di un pantano.

Almeno 2 miliardi di euro per cultura e turismo bloccati. Un tesoretto che potrebbe aiutare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio storico, spesso di piccole comunità. Ma che è finito alla voce “soldi stanziati e non ancora spesi”.

ASSEGNAZIONE CON RENZI E GENTILONI

Si tratta infatti di fondi già assegnati nella precedente legislatura, prima dal governo Renzi e poi da quello presieduto da Paolo Gentiloni, per lavori mai partiti in molti casi. O che, in alcune situazioni, si trovano nella fase iniziale dopo aver superato le procedure burocratiche.

ESEMPI: CAPITALI DELLA CULTURA E INTERVENTI ANTICENDI

Secondo la tabella che Lettera43.it ha visionato, addirittura lo stanziamento di 8 milioni per l’iniziativa Capitali italiane della Cultura risulta assegnato, ossia a disposizione, ma non ancora elaborato per la sua attuazione pratica. Situazione simile si è verificata per il decreto di programmazione straordinaria di fondi risalenti al 2007/2013 per interventi antincendio: si parla di oltre 12 milioni e mezzo assegnati e nemmeno ancora messi in programma.

DIVERSI MILIONI IN ATTESA DI DESTINAZIONE

Del Piano operativo stralcio cultura e turismo 2014-2020, invece, ci sono 231 milioni ancora in attesa di destinazione: dei 740 assegnati infatti ne sono stati programmati solo 509. In altri contesti, per esempio per Matera, lo scenario è lievemente migliore: il totale (per il progetto Capitale della Cultura e per l’intervento su rione Sassi) è di 48 milioni di euro stanziati e in gran parte pianificati.

UN PROBLEMA GENERALE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Insomma, un quadro complesso per un settore molto delicato. Il ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini, ha spiegato: «C’è un problema generale della Pubblica amministrazione italiana che è avere risorse e non avere capacità di spesa adeguate, mentre avremmo un grande bisogno di fare investimenti, di attuarli, sia per le opere sia per i parametri da rispettare che ci richiede l’Unione europea».

MA NELLO SPECIFICO PERCHÉ QUEL PANTANO?

Il titolare del Mibact ha quindi generalizzato la questione. Nel caso specifico, però, ci sono in ballo circa due miliardi di euro per vari interventi e progetti legati al suo ministero. Un insieme di risorse nazionali e comunitarie e per politica di coesione che, stando a quanto riferito in Aula da Italia viva, risulta in gran parte impantanato.

IL CASO È SBARCATO ALLA CAMERA

Il caso è finito così all’attenzione del parlamento. Il deputato di Iv Marco Di Maio ha presentato un’interrogazione alla Camera per avere un chiarimento. Franceschini si è difeso, sostenendo di non aver «trovato riscontro di questa cifra dei 2 miliardi» ed elencando una serie di interventi: «Per il programma operativo “Cultura e sviluppo”, 490 milioni sono stati interamente programmati e in corso d’attuazione, tant’è vero che questo ha consentito, raggiungendo gli obiettivi di target e performance, di riprogrammare 29 milioni. I fondi Fesr e FdR sono 161 progetti, 426 milioni, 22 in fase di gara, 80 cantieri in corso, 28 cantieri conclusi». Tutto bene, quindi? Non proprio. «Ci sono 15 operazioni, per un importo di 314 milioni, che presentano dei ritardi attuativi», ha detto Franceschini nell’Aula di Montecitorio.

MENTRE I TERRITORI RESTANO IN ATTESA

Fatto sta che su quei due miliardi non è arrivata la delucidazione richiesta dall’interrogazione. Il deputato renziano Di Maio ha spiegato a Lettera43.it: «Questi non sono solo numeri, dietro ai fondi fermi ci sono progetti di grande impatto per piccole comunità, per territori che attendono da tempo la riqualificazione del proprio patrimonio, per pezzi di Italia che insieme formano una parte fondamentale della nostra identità nazionale». Insomma «l’investimento in cultura e turismo sarà uno dei vettori che potrà trainare la crescita nei prossimi anni e generare nuove opportunità di occupazione».

FRANCESCHINI HA PROMESSO IL SUO IMPEGNO

Franceschini ha comunque garantito il suo impegno per velocizzare le procedure di svolgimento dei lavori: «Prevedremo un servizio apposito che si occupi di contratti, quindi gare, relativi ai beni culturali, un ufficio apposito che si occupi di monitoraggio costante sullo stato di attuazione delle gare e, contemporaneamente, insisteremo nell’utilizzo, come sono le indicazioni di carattere generale, di Invitalia come stazione appaltante».

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Due indagati per maltrattamenti in casa famiglia a Mantova

Una donna di 62 anni e un uomo di 25 allontanati dalla struttura per abusi su giovani, minorenni e disabili.

Maltrattavano con regolarità i giovani di cui si sarebbero dovuti prendere cura. Gli agenti della polizia di Stato di Mantova hanno eseguito una misura cautelare di allontanamento dalla casa familiare nei confronti di una donna di 62 anni e di un uomo di 25 per maltrattamenti aggravati e continuati ai danni di ragazzi, in prevalenza minorenni e alcuni affetti da disabilità, affidati alla casa famiglia da loro gestita con altre persone. Le indagini si sono basate su due reportage diffusi dalla trasmissione Le Iene a marzo, su acquisizioni documentali e intercettazioni ambientali.

PERQUISIZIONI E SEQUESTRI

Il provvedimento è stato chiesto dalla procura di Mantova che da tempo sta conducendo le indagini nei confronti dei due allontanati e di altre persone. Al momento della notifica dell’ordinanza gli uomini della squadra mobile e della sezione di polizia giudiziaria della polizia hanno eseguito perquisizioni e sequestri. I ragazzi rimasti nella struttura di accoglienza sono stati affidati dagli agenti ad altre persone e sono stati avvisati gli organi competenti per la presa in carico dei minori.

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Le notizie sul maltempo del 22 dicembre 2019

Il primo giorno d'inverno è accompagnato da bufere su tutta la Penisola. Un uomo schiacciato da un albero è morto a Napoli. Frane in Liguria, esondazioni in Toscana. Mareggiate sul Lazio e la Sardegna.

Il maltempo che imperversa su gran parte della Penisola in questi giorni che precedono il Natale sta facendo le sue vittime. A Napoli un uomo di 62 anni è morto schiacciato da un albero di grosse dimensioni, a Chiavari una persona è rimasta ferita da una frana. Disagi e pericoli anche nella Capitale, dove tre persone sono rimaste uccise in due incidenti mortali legati comunque alla forte pioggia che si è abbattuta sulla capitale, facendo cadere anche degli alberi.

UN MORTO A NAPOLI

Si chiamava Mohamed Boulhaziz e aveva 62 anni l’uomo rimasto ucciso schiacciato da un albero a Napoli. Il fatto è accaduto intorno alle 7 del mattino in via Nuova Agnano, alla periferia occidentale della città. L’uomo, di nazionalità marocchina, è stato soccorso dal 118 ma in ospedale i medici hanno potuto solo constatarne il decesso. Mohamed Boulhaziz risiedeva regolarmente a Maddaloni (Caserta) e lavorava come commerciante. Sul posto è intervenuta la polizia. La bufera di vento che ha colpito la Campania nelle prime ore del mattino ha provocato la caduta di numerosi altri alberi e cartelloni pubblicitari in tutta la città.

FRANA SULL’AURELIA, UNA FERITA A CHIAVARI

Una automobilista è rimasta lievemente ferita in un incidente stradale causato da una frana caduta all’alba sulla statale Aurelia nei pressi della galleria delle Grazie nel comune di Chiavari. L’utilitaria, proveniente da Rapallo, è transitata all’uscita della galleria proprio mentre scendeva la frana ed è andata a sbattere contro la massa di detriti e fango. La frana, staccatasi da una collina, ha invaso entrambe le corsie di transito. Il traffico è stato bloccato. I vigili del fuoco e gli uomini della polizia locale hanno controllato che sotto le macerie non vi fossero mezzi, ma l’ipotesi è stata scongiurata. La donna è stata soccorsa dal personale del 118 e trasportata al pronto soccorso di Lavagna in codice giallo. Uomini e mezzi dell’Anas stanno verificando le condizioni della collina per capire se la frana è ancora attiva o se possono cominciare la rimozione dei detriti. Unica alternativa al transito per raggiungere il Tigullio orientale da Zoagli a Rapallo è l’autostrada A12. Un’altra frana c’è stata nella notte sulla statale del Turchino, nel ponente genovese, vicino a Mele. Parte della carreggiata è stata ripulita ed è stato istituito il senso unico alternato.

MAREGGIATA SUL LITORALE ROMANO

Una forte mareggiata ha colpito il litorale romano. Particolarmente critica la situazione a Fregene Sud, dove l’acqua ha circondato le strutture balneari e sulle dune di Focene aggredite dalle onde. Il vento, che a tratti supera anche i 100 chilometri orari, sta provocando problemi anche agli alberi, alcuni caduti in giardini di abitazioni private a Fregene, a strutture e palizzate, oltre che a trascinare detriti sulle strade. Al Passo della Sentinella, nella zona abitata alla foce del Tevere, a Fiumicino, una persona è stata soccorsa a causa delle mareggiate che ne avevano allagato la casa. Il cimitero di via Portuense è stato chiuso a causa del crollo di un albero. Un altro albero è caduto in viale Traiano all’altezza del Ponte 2 Giugno; a Parco Leonardo sono volati calcinacci dal cantiere in corso; a Largo Formichi un albero caduto ha invaso la carreggiata; il semaforo all’incrocio tra viale di Porto e via della Veneziana è stata abbattuto e anche i semafori sul viadotto di via dell’aeroporto risultano danneggiati. Un grosso ramo ha invece invaso la carreggiata di via Casale Sant’Angelo. Un albero è caduto anche a Ladispoli. L’amministrazione comunale di Fiumicino «invita alla prudenza, poiché il vento di burrasca proseguirà anche nelle prossime ore». In azione, per interventi e monitoraggio, Protezione civile e polizia locale di Fiumicino.

UN AUTOMOBILISTA SALVATO NEL PISANO

Decine glil interventi dei vigili del fuoco in Toscana per allagamenti e rimozione di alberi e rami pericolanti a causa dal maltempo che continua a interessare la regione. Un automobilista è stato tratto in salvo dai vigili del fuoco a San Miniato (Pisa) perché era rimasto intrappolato su un ponticello in località Serra in seguito allo straripamento di un corso d’acqua per le intense piogge delle scorse ore. L’allarme è scattato intorno alle 6: il conducente dell’auto non ha riportato danni. Il tratto stradale è stato chiuso al traffico. Disagi si sono verificati anche nel resto della provincia di Pisa, da Volterra al mare, per le forti raffiche di vento che hanno spezzato rami e portato detriti sulle sedi stradali. Sull’Aurelia, tra Pisa e Livorno, un grosso ramo si è spezzato e ha travolto un’auto in transito: miracolosamente illesa la conducente. Danni anche a Madonna dell’Acqua per una piccola tromba d’aria. Complessivamente su tutto il territorio sono una quarantina le richieste di intervento pervenute nel corso della notte alla sala operativa dei vigili del fuoco. A Livorno i pompieri hanno soccorso gli occupanti di un’auto rimasti bloccati, con l’auto in panne, in un sottopasso allagato di via Firenze. Per le forti raffiche di Ponente che stanno sferzando il canale di Piombino (Livorno) fermi poi i traghetti in arrivo e in partenza dall’isola d’Elba.

TORRENTE SOTTERRANEO SOLLEVA LE PIAZZE NELL’AVELLINESE

Evacuate 300 persone nel centro storico di San Martino Valle Caudina, in provincia di Avellino, dopo le abbondanti e violenti piogge delle ultime ore. La piazza principale del paese è in condizioni di dissesto a causa delle acque sotterranee di un torrente ‘tombato’ negli anni scorsi, il cui livello è cresciuto a dismisura sollevando il manto stradale. Bilancio pesante anche nel Vallo di Lauro. A Moschiano, nella frazione San Michele, è franato un costone collinare. Per precauzione alcune famiglie che abitano in zona sono state evacuate. A Forino una frana ha invaso le carreggiate di due strade provinciali mentre a Montoro uno smottamento con un fronte di 15 metri ha invaso la strada che collega a Contrada e Avellino.

MERCANTILE INCAGLIATO A SUD DELLA SARDEGNA

A causa delle cattive condizioni meteo-marine, una nave mercantile battente bandiera italiana si è incagliata a Sant’Antioco, nella Sardegna sud occidentale. L’imbarcazione, partita da Cagliari, dove aveva sbarcato un carico di caffè, era ripartita alla volta della Spagna. Il mare grosso e il forte vento hanno fatto propendere per un rientro in porto, ma il cargo ha urtato gli scogli rimanendo bloccato. La Capitaneria di Porto e della protezione civile hanno messo in salvo i 12 membri di equipaggio. Per il trasbordo sono stati messi a disposizione due mezzi navali della guardia costiera e un elicottero. Secondo le prime notizie nessuno è rimasto ferito. A Sant’Antioco sono intervenuti anche i sommozzatori e un equipaggio dei vigili del fuoco di Cagliari e un’ambulanza del 118, inviata in via precauzionale.

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Due ragazze di 16 anni uccise in da un’auto a Ponte Milvio

Gaia e Camilla stavano attraversando Corso Francia. A investirle è stato un giovane di 20 anni che se le sarebbe trovate davanti all'improvviso.

Avevano 16 anni e passavano un sabato come tanti, nella zona della movida romana, a Ponte Milvio. Gaia e Camilla, residenti poco distanti alla Collina Fleming, stavano attraversando il viadotto di corso Francia, quando, all’altezza del McDonald’s, sono state investite e uccise da una Renault Koleos guidata da un giovane di 20 anni che si è immediatamente fermato per prestare soccorso. L’autista è stato trasportato sotto choc in ambulanza in ospedale dove è stato sottoposto agli esami del sangue per capire se fosse sotto l’effetto di alcol o droghe.

STRADA BAGNATA

La strada era bagnata dalla pioggia che è scesa copiosa sulla città già da ieri sera. I vigili urbani indagano sulla dinamica dell’incidente. Dai primi accertamenti pare che il ragazzo di 20 anni fosse appena ripartito dall’incrocio con il semaforo verde e che all’improvviso si sia ritrovato davanti le due giovani in un tratto a visibilità ridotta, non riuscendo a evitarle. L’impatto è stato molto violento e le ragazze sono morte sul colpo. Sul posto, poco dopo l’impatto, sono giunti gli amici con cui Gaia e Camilla erano uscite, i familiari sono stati avvisati dagli stessi e dagli agenti della Municipale. I pm hanno aperto un’indagine per omicidio stradale.

123 MORTI IN UN ANNO

Poche ore dopo, intorno alle 7 di mattina di domenica 22 dicembre, un altro incidente mortale è avvenuto in via Marco Polo, in zona Ostiense, dove un’auto ha travolto un motorino elettrico uccidendo il conducente dello scooter. Le morti per incidenti stradali a Roma sono salite a 123 nel 2019, 45 delle vittime sono pedoni. Se si include la provincia di Roma, i decessi salgono a 142.

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I soldi sauditi per la Supercoppa italiana non puzzano più?

Juventus-Lazio si gioca a Riad dopo il precedente con polemiche di Gedda. Ma l'indignazione (anche se ipocrita) della precedente edizione è svanita. Eppure l'Arabia è sempre lo stesso Paese che calpesta i diritti umani. La Lega Serie A tira dritto e pensa ai guadagni.

Lo stadio dell’Università Re Sa’ud è pronto. Domenica 22 dicembre 2019 alle 17.45 (ora italiana) Riad ospita la Supercoppa italiana, per la seconda volta consecutiva in Arabia Saudita dopo il precedente di Gedda. E se a fine 2018 la vigilia della partita tra Juventus e Milan fu accompagnata da una lunga serie di polemiche, stavolta Juventus e Lazio si apprestano a vivere la loro sfida nel silenzio generale. L’indignazione che nemmeno 12 mesi prima si era sollevata per la scelta di andare a giocare in uno dei Paesi che più calpesta i diritti umani sembra svanita nel nulla.

ATTIVISTE FEMMINISTE IN CARCERE

Eppure l’Arabia Saudita è sempre l’Arabia Saudita, in un anno non è cambiato poi granché. È vero, le donne ora possono viaggiare e guidare un’auto, ma continuano ad aver bisogno del permesso di un tutore maschio per sposarsi, andare a scuola e ottenere un passaporto. Intanto le attiviste femministe continuano a essere chiuse in carcere, dove le pratiche che violano i diritti umani continuano a essere perpetrate. Gli arresti arbitrari sono ancora all’ordine del giorno, come quello di Anas al-Mazrou, professore della stessa università che dà il nome allo stadio in cui si giocherà Juventus-Lazio, che nel marzo 2019 è finito in cella per aver parlato in pubblico a sostegno degli attivisti per i diritti delle donne detenute.

LA SCALA E QUEL CONTRATTO STRACCIATO

Sempre a marzo, sull’onda lunga dell’indignazione per quella Supercoppa a cui le donne avrebbero avuto accesso soltanto in un settore speciale riservato a loro, occupante il 15% dello stadio, il Teatro alla Scala stracciò il contratto che portava all’ingresso nel consiglio d’amministrazione della sua Fondazione del governo saudita. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala annunciò la rinuncia a 15 milioni di euro in tre anni e la restituzione dei 3 già versati come acconto dagli arabi alla Fondazione. La Lega Serie A, per giocare la Supercoppa a Riad, di milioni ne prende esattamente la metà, 7,5 per tre edizioni, 2,5 l’anno, ma non ha mai pensato di poter rinunciare a una cifra che in realtà non sposta poi di molto il bilancio complessivo dei club partecipanti (a cui va il 90% della somma) e del calcio italiano in generale (alla Lega resta appena il 10%, 750 mila euro).

POLITICA DI ESPORTAZIONE PER LA SERIE A

Nemmeno l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista saudita per il Washington Post, fortemente critico nei confronti del governo di Re Salman, torturato e massacrato nella sede del consolato arabo a Istanbul nell’ottobre del 2018, riuscì a cambiare lo stato delle cose. D’altra parte la Serie A aveva già intrapreso da anni la sua politica di esportazione della Supercoppa, con nove edizioni giocate all’estero prima di quella del gennaio 2019, spesso in Paesi non proprio celebri per il rispetto dei diritti umani (oltre a due negli Stati Uniti, se ne sono giocate infatti tre in Cina, due in Qatar e una Libia nel 2002, quando il Paese era ancora sotto il governo di Gheddafi, i rapporti del rais con Silvio Berlusconi erano ben oltre la semplice cordialità, e il figlio di Mu’ammar, Saadi, era appena diventato azionista della Juventus. In quelle edizioni la Lega guadagnò ancora meno dei 7,5 milioni che prende dall’Arabia Saudita: lo fece, piuttosto, per provare a rendere più globale il prodotto calcio italiano, ma verosimilmente anche in quanto strumento di diplomazia e geopolitica internazionale.

Selfie con Ciro Immobile per i tifosi arabi. (Getty)

CONTINUIAMO A VENDERE ARMI AI SAUDITI

L’Italia che non vuole i sauditi alla Scala è la stessa che continua a vendere loro armi per la guerra contro lo Yemen, le bombe fabbricate in Sardegna dalla tedesca Rwm, ma non solo. Secondo la relazione annuale sulla vendita di armi verso paesi stranieri che il governo ha presentato in parlamento a giugno, solo nel 2018 l’Italia ha spedito a Riad 108 milioni di euro in armamenti. Il calcio, insomma, non è che lo specchio di un Paese ipocrita che continua a fare affari e siglare intese con uno Stato da cui a parole prende le distanze.

Il trofeo della Supercoppa a Riad. (Getty)

GERMANIA E FRANCIA HANNO REAGITO

Eppure una via diversa è possibile. L’ha indicata la Federcalcio tedesca nel decidere che la Germania non avrebbe più giocato amichevoli contro nazionali di Paesi in cui non vige la parità di genere. L’ha fatto, in parte, anche la Spagna, dove all’indignazione per un accordo della Liga del tutto analogo a quello concluso dalla Serie A (la Supercoppa di Spagna si gioca a Gedda per tre edizioni in un nuovo formato che prevede un quadrangolare) è seguita la netta presa di posizione della tivù di Stato, la Tve, che ha deciso di non trasmettere gli incontri sui suoi canali. La Figc, invece, si è limitata a invitare al Barbera di Palermo, per la partita tra Italia e Armenia del 18 novembre, una delegazione di donne iraniane, costrette ancora a forti limitazioni all’accesso agli stadi nel loro Paese.

L’ITALIA FATICA PURE CON L’ANTI-RAZZISMO

La Serie A, però, non cambia idea. E dopo essersi mossa goffamente e con estremo ritardo sul fronte della lotta al razzismo negli stadi, sembra del tutto sorda agli appelli per il rispetto dei diritti umani in Arabia Saudita. Con buona pace di Kashoggi, della parità di genere, del rispetto dei diritti umani. Che evidentemente contano meno di una manciata di milioni e dell’esportazione di un brand che persino Cristiano Ronaldo fa fatica a risollevare a livello globale.

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Il nuovo lusso del Natale è stare a casa per stanchezza

Niente voli lontani verso Paesi al caldo. Dopo un anno di stress da super lavoro la tendenza chic è sedersi a tavola il 24 dicembre per rialzarsi attorno al 5 gennaio. In mezzo, due settimane di letto a guardare Netflix, dormire e giocare coi bambini. Chi ci sta?

Forse l’avrete notato, i viaggi di Natale nei Paesi caldi sono finiti anche al cinema. Il cinepanettone dell’anno è un viaggio a ritroso nel tempo siglato Ficarra e Picone, che di certo non assomiglia neanche lontanamente a quella meraviglia del Pinocchio di Matteo Garrone, ma non è nemmeno un cattivissimo film. Non che non si vada ai Caraibi o alle Maldive, naturalmente, per chi può e chi vuole e magari in un resort non troppo affollato. Ma la tendenza chic e snob del momento è un’altra e ha molto a che vedere con il suo dato sociale speculare, e cioè con un tasso di disoccupazione nazionale che, pur sceso dello 0,2% da settembre, veleggia ancora al 9,7%, uno fra i più alti di tutta Europa. Dunque, lo stress da super lavoro, e il viaggiare molto tutto l’anno per attendere ai vari impegni, si è trasformato nel segno del benessere.

AL MASSIMO SI VOLA DALLA FAMIGLIA

L’altra mattina, alla prima colazione di Natale organizzata da Diego Della Valle per i saluti di fine anno (quasi scomparse le cene e le colazioni di auguri; la brioche e il wholegrain stellati del primo mattino sono il corollario di quanto si va postulando) non si è sentito evocare un solo viaggio lontano: chi avesse preso l’aereo, l’avrebbe fatto solo per raggiungere la famiglia in Sicilia, sedersi dichiaratamente a tavola il 24 e rialzarsene attorno al 5 gennaio, giusto in tempo per sedersi alla cena di gala della nuova edizione di Pitti Uomo il 6 (lamenti pur soddisfatti d’obbligo).

ANCHE IL MONDO DELLA MODA AGOGNA IL RITORNO A CASA

Per tutti gli altri, l’orizzonte prevedeva nell’ordine: due settimane di letto a vedere serie su Netflix, o in alternativa tre sciate nella casa di famiglia in montagna, molto giocare con i bambini (sensi di colpa d’obbligo) e molto dormire. D’altronde, il mondo un po’ meno ma ancora viziatissimo della moda e del lusso, che nell’ultimo anno ha viaggiato continuamente fra New York, Parigi, Shanghai, Marrakech, Miami, Los Angeles, Roma più addentellati ed excursus, che cosa potrebbe ancora agognare se non la propria casa?

GRAZIE MILLE PER QUELLA SCATOLA DI TISANE SPECIALI

E dunque ecco i ringraziamenti affettuosissimi al department store sempre più sostenibile che ha regalato un overall raffinato in cashmere per rilassarsi, all’amica che ha esagerato con il buono per la spa di Armani, all’altro amico che ha esagerato con la scatola di tisane speciali. Se solo fino a 15 anni fa il massimo del lusso era avere tempo per sé e 10 anni fa, in piena crisi post-bolla dei mutui subprime, ricevere in dono olio e generi alimentari di prima necessità in vista di qualche guerra civile che, almeno per il momento, non pare dover scoppiare, il massimo dell’eleganza è lo stare a casa.

PERCHÉ STAYING HOME IS THE NEW GOING OUT

Come diceva il New York Times di recente, con una di quelle antitesi che in inglese riescono sempre meglio “staying home is the new going out”. Dunque, in caso doveste rimanere a casa per Natale per mancanza di fondi, sappiate che non sareste mai più chic e in tendenza. Potrete perfino vantarvi un po’.

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