Woody Allen torna a New York (nonostante il #Metoo)

Dopo le accuse di molestie della figlia che hanno complicato l'uscita del film, il regista americano arriva nelle sale con un'opera che rievoca i suoi vecchi lavori: dai personaggi ai dialoghi brillanti.

Le polemiche ritornate a galla con la nascita del movimento #MeToo hanno impedito a lungo di portare nelle sale Un giorno di pioggia a New York. Il film racconta la storia di Gatsby (Timothée Chalamet), che vive nella Grande Mela, e Ashleigh (Elle Fanning), che si occupa del giornale dell’università dell’Arizona dove ha conosciuto il fidanzato, i cui progetti di trascorrere un weekend romantico vengono stravolti.

Woody Allen ritorna a New York e lo fa riportando in scena situazioni e figure già proposte nella sua filmografia: il regista plasma su se stesso lo studente Gatsby che ama il cinema del passato e si ritrova alle prese con la sorella minore di una sua ex, Shannon (Selena Gomez), mentre Ashleigh, che viene trascinata nel complicato mondo del filmmaker Roland Pollard (Liev Schreiber) che deve intervistare, avrebbe potuto essere in passato affidata a Diane Keaton.

La splendida fotografia di Vittorio Storaro crea un’atmosfera malinconica e suggestiva in cui si muovono figure che appaiono versioni contemporanee di personaggi già conosciuti. Chi ama il cinema di Allen non potrà quindi che gioire: le buone performance delle giovani star, l’esperienza dei co-protagonisti e i consueti dialoghi brillanti, che mescolano leggerezza e riflessioni sulla vita, sostengono un film confezionato con maestria che paga forse un po’ troppo le sue radici nel passato per rivolgersi agli spettatori che dovrebbero riconoscersi nei protagonisti.

Un giorno di pioggia a New York riesce però a inserirsi tra le migliori opere del suo autore grazie alla freschezza dei suoi interpreti, a un ritmo incalzante e all’esperienza di Woody Allen che si muove sicuro tra triangoli sentimentali, dubbi esistenziali, contrasti sociali e cambiamenti.

UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK: 5 COSE DA SAPERE

I guai dopo le accuse di molestie della figlia

Woody Allen ha raggiunto un accordo con Amazon Studios dopo che il regista aveva deciso di procedere per vie legali a causa della conclusione anticipata del contratto che prevedeva il finanziamento e la distribuzione di quattro film, tra cui anche Un giorno di pioggia a New York. Lo studio aveva deciso di interrompere la collaborazione dopo che erano riemerse le accuse di Dylan Farrow, la figlia del regista che da anni sostiene di essere stata molestata. Amazon riteneva che la situazione impedisse di ottenere i benefici, economici e di immagine, alla base dell’accordo, portando quindi Allen a coinvolgere gli avvocati per riuscire a ottenere circa 68 milioni di dollari per compensare le perdite subite.

Un gioco di contrasti tra luci e ombre

Vincenzo Storaro ha scelto di usare luci diverse e momenti di camera differenti per enfatizzare le due personalità di Gatsby e Ashleigh: il ragazzo ama la New York nuvolosa e piovosa, mentre Ashleigh è maggiormente estroversa e piena di passione, venendo quindi associata a colori più caldi. Le scene con al centro la giovane sono poi state girate usando una steadicam, elemento scelto per sottolineare il bisogno di libertà e di movimento del personaggio affidato a Elle Fanning, mentre per quelle dedicate a Gatsby la macchina da presa è stabile.

Allen e il rapporto indissolubile col cinema

Il regista, in una recente intervista, ha rivelato di non aver mai pensato di ritirarsi dal mondo del cinema nonostante le ripercussioni della pubblicazione delle notizie legate alle accuse che gli rivolge la figlia Dylan. Allen ha sottolineato: «Fin da quando ho iniziato a lavorare ho sempre cercato di concentrarmi sul mio lavoro, a prescindere da quello che accade nella mia famiglia o dagli aspetti politici. Non penso ai movimenti sociali. Il mio cinema è sui rapporti umani e sulle persone. E cerco di metterci dell’umorismo. Se dovessi morire probabilmente accadrebbe su un set cinematografico, e potrebbe succedere davvero».

Il prossimo progetto: Rivkin’s Festival

I problemi affrontati da Allen negli Stati Uniti potrebbero portare il filmmaker a proseguire la sua carriera solo in Europa, dove riesce ancora a ottenere i finanziamenti necessari. Il suo nuovo progetto si intitola, fino a questo momento, Rivkin’s Festival e ha come protagonisti Elena Anaya, Sergi Lopez, Gina Gershon, Wallace Shawn, Christoph Waltz e Louis Garrel. La storia è ispirata al San Sebastian Film Festival dove una coppia americana viene travolta dalla magia dell’evento e la donna inizia una relazione con un regista francese, mentre il marito si innamora di un’affascinante abitante della città.

Le reazioni del cast alle accuse di molestie

Le accuse rivolte a Woody Allen hanno diviso i membri del cast tra chi ha annunciato di rimpiangere la propria decisione di lavorare con il regista e chi, invece, lo ha difeso o sostenuto di non avere abbastanza informazioni per avere un’opinione obiettiva. Griffin Newman ha donato il proprio salario all’associazione Rainn (Rape and Incest National Network), stessa scelta compiuta da Timothée Chalamet che ha però diviso la cifra aiutando anche Time’s Up e Lgbt Center di New York.

Selena Gomez, seppur non dura nella propria opinione come i colleghi, ha donato oltre 1 milione di dollari a Time’s Up, organizzazione sostenuta anche da Rebecca Hall che ha ribadito comunque di ritenere la situazione complessa e di condannare i processi pubblici. A sostegno di Allen si erano poi schierati Jude Law, che considerava una vergogna che il film non venisse distribuito, e Cherry Jones che, dopo aver cercato ed esaminato ogni informazione relativa alle accuse, ha deciso di ritenere Allen innocente.

IL FILM DI WOODY ALLEN IN PILLOLE

La scena memorabile: Gatsby scopre i sentimenti di Shannon.

La frase cult: «La vita reale è per chi non sa fare di meglio».

Ti piacerà se: ami il cinema di Woody Allen e i suoi personaggi complicati e un po’ nevrotici.

Devi evitarlo se: vorresti vedere dei protagonisti inediti nella filmografia del regista.

Con chi vederlo: con la persona amata, per riflettere sugli ostacoli affrontati ogni giorno.

Perché vederlo: per apprezzare le interpretazioni di un cast di talento valorizzato da dialoghi e battute brillanti e un po’ romantiche.

Regia: Woody Allen; genere: commedia (Usa, 2018); attori: Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Rebecca Hall, Cherry Jones, Liev Schreiber, Diego Luna.

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Woody Allen torna a New York (nonostante il #Metoo)

Dopo le accuse di molestie della figlia che hanno complicato l'uscita del film, il regista americano arriva nelle sale con un'opera che rievoca i suoi vecchi lavori: dai personaggi ai dialoghi brillanti.

Le polemiche ritornate a galla con la nascita del movimento #MeToo hanno impedito a lungo di portare nelle sale Un giorno di pioggia a New York. Il film racconta la storia di Gatsby (Timothée Chalamet), che vive nella Grande Mela, e Ashleigh (Elle Fanning), che si occupa del giornale dell’università dell’Arizona dove ha conosciuto il fidanzato, i cui progetti di trascorrere un weekend romantico vengono stravolti.

Woody Allen ritorna a New York e lo fa riportando in scena situazioni e figure già proposte nella sua filmografia: il regista plasma su se stesso lo studente Gatsby che ama il cinema del passato e si ritrova alle prese con la sorella minore di una sua ex, Shannon (Selena Gomez), mentre Ashleigh, che viene trascinata nel complicato mondo del filmmaker Roland Pollard (Liev Schreiber) che deve intervistare, avrebbe potuto essere in passato affidata a Diane Keaton.

La splendida fotografia di Vittorio Storaro crea un’atmosfera malinconica e suggestiva in cui si muovono figure che appaiono versioni contemporanee di personaggi già conosciuti. Chi ama il cinema di Allen non potrà quindi che gioire: le buone performance delle giovani star, l’esperienza dei co-protagonisti e i consueti dialoghi brillanti, che mescolano leggerezza e riflessioni sulla vita, sostengono un film confezionato con maestria che paga forse un po’ troppo le sue radici nel passato per rivolgersi agli spettatori che dovrebbero riconoscersi nei protagonisti.

Un giorno di pioggia a New York riesce però a inserirsi tra le migliori opere del suo autore grazie alla freschezza dei suoi interpreti, a un ritmo incalzante e all’esperienza di Woody Allen che si muove sicuro tra triangoli sentimentali, dubbi esistenziali, contrasti sociali e cambiamenti.

UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK: 5 COSE DA SAPERE

I guai dopo le accuse di molestie della figlia

Woody Allen ha raggiunto un accordo con Amazon Studios dopo che il regista aveva deciso di procedere per vie legali a causa della conclusione anticipata del contratto che prevedeva il finanziamento e la distribuzione di quattro film, tra cui anche Un giorno di pioggia a New York. Lo studio aveva deciso di interrompere la collaborazione dopo che erano riemerse le accuse di Dylan Farrow, la figlia del regista che da anni sostiene di essere stata molestata. Amazon riteneva che la situazione impedisse di ottenere i benefici, economici e di immagine, alla base dell’accordo, portando quindi Allen a coinvolgere gli avvocati per riuscire a ottenere circa 68 milioni di dollari per compensare le perdite subite.

Un gioco di contrasti tra luci e ombre

Vincenzo Storaro ha scelto di usare luci diverse e momenti di camera differenti per enfatizzare le due personalità di Gatsby e Ashleigh: il ragazzo ama la New York nuvolosa e piovosa, mentre Ashleigh è maggiormente estroversa e piena di passione, venendo quindi associata a colori più caldi. Le scene con al centro la giovane sono poi state girate usando una steadicam, elemento scelto per sottolineare il bisogno di libertà e di movimento del personaggio affidato a Elle Fanning, mentre per quelle dedicate a Gatsby la macchina da presa è stabile.

Allen e il rapporto indissolubile col cinema

Il regista, in una recente intervista, ha rivelato di non aver mai pensato di ritirarsi dal mondo del cinema nonostante le ripercussioni della pubblicazione delle notizie legate alle accuse che gli rivolge la figlia Dylan. Allen ha sottolineato: «Fin da quando ho iniziato a lavorare ho sempre cercato di concentrarmi sul mio lavoro, a prescindere da quello che accade nella mia famiglia o dagli aspetti politici. Non penso ai movimenti sociali. Il mio cinema è sui rapporti umani e sulle persone. E cerco di metterci dell’umorismo. Se dovessi morire probabilmente accadrebbe su un set cinematografico, e potrebbe succedere davvero».

Il prossimo progetto: Rivkin’s Festival

I problemi affrontati da Allen negli Stati Uniti potrebbero portare il filmmaker a proseguire la sua carriera solo in Europa, dove riesce ancora a ottenere i finanziamenti necessari. Il suo nuovo progetto si intitola, fino a questo momento, Rivkin’s Festival e ha come protagonisti Elena Anaya, Sergi Lopez, Gina Gershon, Wallace Shawn, Christoph Waltz e Louis Garrel. La storia è ispirata al San Sebastian Film Festival dove una coppia americana viene travolta dalla magia dell’evento e la donna inizia una relazione con un regista francese, mentre il marito si innamora di un’affascinante abitante della città.

Le reazioni del cast alle accuse di molestie

Le accuse rivolte a Woody Allen hanno diviso i membri del cast tra chi ha annunciato di rimpiangere la propria decisione di lavorare con il regista e chi, invece, lo ha difeso o sostenuto di non avere abbastanza informazioni per avere un’opinione obiettiva. Griffin Newman ha donato il proprio salario all’associazione Rainn (Rape and Incest National Network), stessa scelta compiuta da Timothée Chalamet che ha però diviso la cifra aiutando anche Time’s Up e Lgbt Center di New York.

Selena Gomez, seppur non dura nella propria opinione come i colleghi, ha donato oltre 1 milione di dollari a Time’s Up, organizzazione sostenuta anche da Rebecca Hall che ha ribadito comunque di ritenere la situazione complessa e di condannare i processi pubblici. A sostegno di Allen si erano poi schierati Jude Law, che considerava una vergogna che il film non venisse distribuito, e Cherry Jones che, dopo aver cercato ed esaminato ogni informazione relativa alle accuse, ha deciso di ritenere Allen innocente.

IL FILM DI WOODY ALLEN IN PILLOLE

La scena memorabile: Gatsby scopre i sentimenti di Shannon.

La frase cult: «La vita reale è per chi non sa fare di meglio».

Ti piacerà se: ami il cinema di Woody Allen e i suoi personaggi complicati e un po’ nevrotici.

Devi evitarlo se: vorresti vedere dei protagonisti inediti nella filmografia del regista.

Con chi vederlo: con la persona amata, per riflettere sugli ostacoli affrontati ogni giorno.

Perché vederlo: per apprezzare le interpretazioni di un cast di talento valorizzato da dialoghi e battute brillanti e un po’ romantiche.

Regia: Woody Allen; genere: commedia (Usa, 2018); attori: Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Rebecca Hall, Cherry Jones, Liev Schreiber, Diego Luna.

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Dl Fisco, la maggioranza trova l’accordo sul carcere ai grandi evasori

Il Governo trova l'intesa. Confindustria preoccupata «Preoccupazione per il continuo ampliamento della sfera penale ai fatti economici».

La tanto attesa fumata bianca sul dl Fisco è finalmente arrivata. La maggioranza, infatti, ha trovato l’accordo sull’inasprimento del carcere ai grandi evasori, uno dei punti imprescindibili per il M5s. Due emendamenti dei relatori riducono l’aumento delle pene per i comportamenti non fraudolenti, come la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione, e rivedono sia la disciplina della confisca per sproporzione, prevista per i reati più gravi, sia la responsabilità amministrativa delle imprese. Entrambi gli emendamenti sono attesi alla Camera e dovrebbero essere votati già nella serata di domenica 1 dicembre 2019.

AUMENTA LA TASSA DI SOGGIORNO

Solo poche le città che avranno la possibilità di aumentare la tassa di soggiorno fino a 10 euro, prevista dal dl Fisco. Si tratta dei Comuni capoluogo di provincia «che abbiano avuto presenze turistiche in numero venti volte superiore a quello dei residenti». A dirlo è il ministero per i Beni culturali. «Nessun aumento della tassa di soggiorno per i comuni italiani», spiega. «I sindaci se lo riterranno, potranno usufruire di questa norma», mentre per Roma e Venezia già era possibile.

PREVISTI LAVORI PER LA RETE FERROVIARIA

Tra gli emendamenti del governo al dl Fisco si trova anche un cospicuo tesoretto per il miglioramento della rete ferroviaria nazionale. Per la precisione «una spesa da 460 milioni per il finanziamento di investimenti infrastrutturali»

GLI EMENDAMENTI CHE SPAVENTANO CONFINDUSTRIA

L’accordo all’interno della maggioranza è stato preso nello stesso giorno in cui Confindustria aveva diramato un comunicato «contro la criminalizzazione delle imprese». L’organizzazione rappresentativa delle imprese aveva da poco ribadito la sua «profonda preoccupazione per il continuo ampliamento della sfera penale ai fatti economici». Il punto toccato da Confindustria e quello inerente all’ambito applicativo del decreto 231 ai reati tributari. Si tratta di «un approccio iper repressivo. Questo non è certamente questo proliferare di interventi penali, volti a criminalizzare il mondo dell’impresa, il modo corretto per combattere l’evasione e far crescere l’economia del Paese», si legge nel comunicato.

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Freeganismo, quando la spesa si fa nel cassonetto

Si cibano di alimenti raccolti nella spazzatura. Frutta, verdura e prodotti scaduti da poco. Oppure raccolgono gli "scarti" dei ristoranti. Non sono clochard, ma freegan antispreco. Una "moda" che sta arrivando anche in Italia.

Si procacciano il cibo rovistando nella spazzatura, nei cassonetti dei supermercati o chiedendo ai banchi dei mercati e ai ristoranti l’invenduto della giornata, ma non sono né poveri, né clochard. Sono i freegan (crasi di free, gratis, e vegan, vegani) e il loro modo alternativo di fare la spesa è una protesta contro il consumismo e lo spreco, non più sostenibile, del sistema capitalista.

LEGGI ANCHE: Quali sono i cibi a maggior impatto ambientale

CONTRO IL CONSUMISMO FUORI CONTROLLO

Nell’articolo Not buying it de The New York Times datato 21 giugno 2007, Steven Kurutz li definiva «spazzini del mondo sviluppato» tracciandone un profilo. Il freegan è una persona colta e spesso appartenente a classi sociali abbienti, con alle spalle un cambiamento di vita radicale, che mangia scarti recuperati dalla spazzatura dei supermercati (prodotti leggermente ammaccati o scaduti da poco), si veste con abiti riciclati e arreda la propria casa con oggetti trovati per strada, nel tentativo di ridurre il proprio impatto sul Pianeta prendendo le distanze da ciò che percepisce come un consumismo fuori controllo.

LEGGI ANCHE: Il foraging e il successo delle erbe selvatiche in cucina

TRA ANTI-GLOBALIZZAZIONE E CONTRO CULTURA

Kurutz faceva risalire il freeganismo alla metà degli Anni 90 quando, sulla scia dell’anti-globalizzazione e dei movimenti ambientali, si era sviluppata una rete di piccole organizzazioni che offriva cibo vegetariano e vegano gratuito, recuperato in gran parte dalla spazzatura del mercato. Il freeganismo, sottolineava il giornalista, aveva legami anche con realtà come i Diggers, una compagnia teatrale anarchica di strada con sede a Haight-Ashbury, il quartiere di San Francisco dove nacque la controcultura.

L’identikit del freegan: colto, deciso a ridurre il proprio impatto sull’ambiente e di classe abbiente.

I PREGIUDIZI ITALIANI

In Europa il freeganismo ha iniziato a fare capolino nell’ultimo decennio, in Italia da qualche anno, anche se fa ancora fatica ad attecchire perché sono molti i pregiudizi da superare. «Non sono un freegan radicale», dice a Lettera43.it Francesco, 42 anni, informatico milanese. «Simpatizzo, ma non sono mai andato a frugare nei cassonetti. L’unica cosa che faccio per risparmiare e limitare il mio impatto sull’ambiente è fare la spesa dal fruttivendolo e dal panettiere, acquistando a fine giornata parte del loro invenduto a un prezzo decisamente inferiore». Francesco ha un lavoro, una casa e una famiglia. La “spesa” freegan contempla solo prodotti leggermente ammaccati, appena scaduti, che vengono regolarmente buttati dalla grande distribuzione, e il cibo in eccesso regalato a fine servizio da locali, negozi e ristoranti.

LEGGI ANCHE: Come funziona il mercato degli influencer del cibo

SOLO NEL 2019 SONO STATI SPRECATI 16 MILIARDI DI ALIMENTI

A ben vedere il freeganismo ha senso eccome. Secondo il rapporto sullo Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2019 (Sofa) presentato dalla Fao e ripreso da Coldiretti, solo nel 2019  nel nostro Paese sono finiti nel bidone alimenti e bevande per un valore di 16 miliardi di euro. Lo spreco, 36 kg all’anno pro capite, a livello nazionale, riguarda soprattutto verdura e frutta fresca. Lo spreco casalingo rappresenta il 54% del totale, superiore a quello della ristorazione (21%), della distribuzione commerciale (15%), dell’agricoltura (8%) e della trasformazione (2%). Il cibo che ogni anno buttiamo ha anche un impatto notevole sull’ambiente. Per la produzione di questi alimenti, si immettono nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra, si consumano 250 chilometri cubi di acqua e 1,4 miliardi di ettari di terreno. Meglio seguire allora il professore Tristram Stuart, autore del libro Waste, «compra solo quello di cui hai bisogno, e mangia tutto ciò che compri». 

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Freeganismo, quando la spesa si fa nel cassonetto

Si cibano di alimenti raccolti nella spazzatura. Frutta, verdura e prodotti scaduti da poco. Oppure raccolgono gli "scarti" dei ristoranti. Non sono clochard, ma freegan antispreco. Una "moda" che sta arrivando anche in Italia.

Si procacciano il cibo rovistando nella spazzatura, nei cassonetti dei supermercati o chiedendo ai banchi dei mercati e ai ristoranti l’invenduto della giornata, ma non sono né poveri, né clochard. Sono i freegan (crasi di free, gratis, e vegan, vegani) e il loro modo alternativo di fare la spesa è una protesta contro il consumismo e lo spreco, non più sostenibile, del sistema capitalista.

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CONTRO IL CONSUMISMO FUORI CONTROLLO

Nell’articolo Not buying it de The New York Times datato 21 giugno 2007, Steven Kurutz li definiva «spazzini del mondo sviluppato» tracciandone un profilo. Il freegan è una persona colta e spesso appartenente a classi sociali abbienti, con alle spalle un cambiamento di vita radicale, che mangia scarti recuperati dalla spazzatura dei supermercati (prodotti leggermente ammaccati o scaduti da poco), si veste con abiti riciclati e arreda la propria casa con oggetti trovati per strada, nel tentativo di ridurre il proprio impatto sul Pianeta prendendo le distanze da ciò che percepisce come un consumismo fuori controllo.

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TRA ANTI-GLOBALIZZAZIONE E CONTRO CULTURA

Kurutz faceva risalire il freeganismo alla metà degli Anni 90 quando, sulla scia dell’anti-globalizzazione e dei movimenti ambientali, si era sviluppata una rete di piccole organizzazioni che offriva cibo vegetariano e vegano gratuito, recuperato in gran parte dalla spazzatura del mercato. Il freeganismo, sottolineava il giornalista, aveva legami anche con realtà come i Diggers, una compagnia teatrale anarchica di strada con sede a Haight-Ashbury, il quartiere di San Francisco dove nacque la controcultura.

L’identikit del freegan: colto, deciso a ridurre il proprio impatto sull’ambiente e di classe abbiente.

I PREGIUDIZI ITALIANI

In Europa il freeganismo ha iniziato a fare capolino nell’ultimo decennio, in Italia da qualche anno, anche se fa ancora fatica ad attecchire perché sono molti i pregiudizi da superare. «Non sono un freegan radicale», dice a Lettera43.it Francesco, 42 anni, informatico milanese. «Simpatizzo, ma non sono mai andato a frugare nei cassonetti. L’unica cosa che faccio per risparmiare e limitare il mio impatto sull’ambiente è fare la spesa dal fruttivendolo e dal panettiere, acquistando a fine giornata parte del loro invenduto a un prezzo decisamente inferiore». Francesco ha un lavoro, una casa e una famiglia. La “spesa” freegan contempla solo prodotti leggermente ammaccati, appena scaduti, che vengono regolarmente buttati dalla grande distribuzione, e il cibo in eccesso regalato a fine servizio da locali, negozi e ristoranti.

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SOLO NEL 2019 SONO STATI SPRECATI 16 MILIARDI DI ALIMENTI

A ben vedere il freeganismo ha senso eccome. Secondo il rapporto sullo Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2019 (Sofa) presentato dalla Fao e ripreso da Coldiretti, solo nel 2019  nel nostro Paese sono finiti nel bidone alimenti e bevande per un valore di 16 miliardi di euro. Lo spreco, 36 kg all’anno pro capite, a livello nazionale, riguarda soprattutto verdura e frutta fresca. Lo spreco casalingo rappresenta il 54% del totale, superiore a quello della ristorazione (21%), della distribuzione commerciale (15%), dell’agricoltura (8%) e della trasformazione (2%). Il cibo che ogni anno buttiamo ha anche un impatto notevole sull’ambiente. Per la produzione di questi alimenti, si immettono nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra, si consumano 250 chilometri cubi di acqua e 1,4 miliardi di ettari di terreno. Meglio seguire allora il professore Tristram Stuart, autore del libro Waste, «compra solo quello di cui hai bisogno, e mangia tutto ciò che compri». 

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Abbiamo un debito fuori controllo ma temiamo il Mes

Più i sovranisti attaccano in modo sconclusionato il Salva Stati e più ottengono l'effetto di un Trattato scritto in modo improvvido: confermano ai mercati che i nostri conti pubblici sono davvero qualcosa da cui stare alla larga.

Mes sta per Meccanismo europeo di stabilità (o Esm, European stability mechanism), meglio noto agli italiani come Meccanismo salva Stati. «E rovina famiglie», aggiungono ora molti nel nostro Paese. Quando tutto è stato detto sul Mes, quando attorno a esso sono state combattute tutte le battaglie possibili, commessi (da parte del governo Conte I e Conte II) vari errori di mancata informazione e coinvolgimento del parlamento e da parte di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni e di altri sono state fatte squillare tutte le trombe più stonate del nazionalismo anti Ue, restano due domande ineludibili.

COSA RESTA DEL POLVERONE SUL MES

La prima e più importante è questa: ma quanto pensiamo di potere andare avanti con un debito pubblico in costante crescita e non lontanissimo ormai dal ferale traguardo psicologico del 140% del Prodotto interno lordi (Pil) e dei 2.500 miliardi di euro, superato il quale tutto si complicherà ancor più? Siamo infatti oggi a 2.439 miliardi e al 137,7% del Pil. Secondo la Commissione Ue, a politiche costanti il debito aumenterebbe di 10 punti di Pil in meno di un decennio; secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) salirebbe – e anche questa come quella dell’Ue è una previsione del luglio 2019 – al 160% del Pil in circa 15 anni. La classe politica italiana – e con lei molti milioni di cittadini – rifiuta di porsi questa domanda; quando altri la mettono nero su bianco si adontano, rifiutano di ammettere che il primo problema è il debito in sé, non il fatto che gli altri ce lo ricordino.

I DUBBI SENSATI DI GALLI

La seconda domanda recita: ma questo meccanismo del Mes a noi conviene? Chi ha additato molto di recente tutti i problemi e indicato la necessità di alcuni cambiamenti nella riforma del trattato Mes, come l’economista Giampaolo Galli in una recente audizione alla Camera, ha comunque una risposta chiara, che quanti fra le file della Lega e altrove hanno utilizzato la parte critica del suo intervento si sono regolarmente dimenticati di menzionare.

Le proposte di riforma formulate dall’Eurogruppo presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un Paese come l’Italia

Giampaolo Galli, economista

«Il Mes», dice Galli concludendo, «è un’istituzione molto utile che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia. Le proposte di riforma che sono state formulate dall’Eurogruppo (i ministri economici della zona euro, ndr) dello scorso giugno presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un Paese come l’Italia…». Ugualmente parziale è stato l’uso delle parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che comunque ha chiaramente espresso preoccupazione per alcuni passaggi della proposta di riforma. Va aggiunto il recente e chiarissimo avvertimento del presidente Abi Antonio Patuelli: se il testo definitivo Mes avrà clausole che di fatto indeboliscono da subito la credibilità del debito pubblico italiano le banche, che hanno oggi circa 400 miliardi di titoli sovrani italiani in portafoglio, ridurranno gli acquisti.

IL SALVA STATI, PICCOLO FONDO MONETARIO DEI PAESI EURO

Il Mes è nato nel 2011 per volontà degli allora 17 e oggi 19 Paesi dell’area euro, della Commissione e della Bce, ed è attivo dal 2012; inglobava forme già esistenti ma meno strutturate di aiuto dell’Unione monetaria a chi fra i Paesi membri fosse in difficoltà, in particolare di fronte a una sfiducia dei mercati e a un rischio di default. I primi crediti sono andati a Portogallo, Irlanda e Grecia e completano la lista di quanto concesso a Spagna e Cipro. È una specie di “piccolo” Fondo monetario dei Paesi euro. Come il Fondo fa dal 1946 per un numero crescente di Paesi – 26 all’inizio e oggi 189 – il Mes indica le condizioni del suo aiuto, che possono arrivare a una ristrutturazione del debito, come noto con conseguenze, tra l’altro, per i creditori.

Il leader della Lega Matteo Salvini.

In definitiva, il Mes fa quello che la Bce, data la sua natura sovranazionale, ha difficoltà a fare, e cioè il prestatore di ultima istanza. È autonomo dalla Commissione, che come la Bce partecipa ai suoi lavori ma senza diritto di voto, e ha una struttura con sede a Lussemburgo, quasi 190 dipendenti, un segretario generale di fresca nomina, uomo chiave della struttura, che è italiano, Nicola Giammarioli (quindi non è vero che non c’è nessun italiano, come detto da Claudio Borghi). Ha un capitale di 500 miliardi di euro assicurato, e di cui solo una quota minore è disponibile, dagli Stati dell’euro e proporzionale alla loro quota di partecipazione alla Bce; il Mes inoltre si finanzia all’occorrenza sul mercato obbligazionario con titoli garantiti dal sistema Ue.

ABBIAMO UN DEBITO FUORI CONTROLLO MA TEMIAMO IL MES

Sarebbe lungo elencare nei dettagli le “criticità” per l’Italia e altri, dettagli tutti importanti in questioni di questo tipo e tutti analizzati ad esempio da Galli, il cui chiarissimo intervento alla Camera, una decina di cartelle, è reperibile sul sito personale Giampaologalli.it. Basti dire che ciò che viene lamentato dai critici – in primis Matteo Salvini, in modo però troppo enfatico, catastrofico e irresponsabile, tipico della permanente campagna elettorale italiana – è la inevitabile creazione di due categorie di Paesi, i “buoni” e i “cattivi”. I “cattivi” sarebbero quindi subito svantaggiati sui mercati. Questo vuol dire Salvini quando afferma in vari modi che il nuovo Mes danneggia gli italiani.

Arrivato a un certo punto ogni debito pubblico è un rischio nazionale e danneggia anche i partner di un’unione economica e monetaria

Questo ovviamente va evitato a ogni costo, anche perché ci sono due verità solo apparentemente contraddittorie che convivono: la prima è che arrivato a un certo punto ogni debito pubblico è un rischio nazionale e danneggia anche i partner di un’unione economica e monetaria; la seconda è che per valutare non questo debito, fatto oggettivo, ma la sua sostenibilità va considerato il quadro complessivo di un Paese, dai conti con l’estero al risparmio ad altro, tutti fattori che l’Italia cita molto spesso a sostegno della chiara sostenibilità della sua situazione. È anche per questo che, giustamente, insieme ad alcuni altri Paesi l’Italia è tiepida verso una riforma che accentua l’autonomia iniziale del Mes rispetto alla Commissione Ue, sede più adatta per valutazioni politiche, mentre con il Mes sono i governi e il Consiglio che preferiscono tenere il pallino in mano.

uscita italia euro conseguenze borghi
Claudio Borghi.

Quello che ci dimentichiamo volentieri è la realtà dei conti pubblici e il fatto che prima o poi qualcuno, i mercati in ultima istanza e prima ancora eventualmente il Mes, ci diranno di usarla quella massa di risparmio per avviare la discesa del debito, ad esempio con un prestito forzoso e quindi assai doloroso. Se va avanti così, se nessuna finanziaria riesce a invertire la rotta dei conti pubblici, non potrà che accadere, a qualche punto nel prossimo decennio. E allora, sarà colpa del Mes, di Bruxelles, o di Berlino, o sarà prima di tutto colpa nostra, e dei politici che non solo non ci hanno messo sull’avviso, non solo non ci hanno provato, ma dicevano che era tutta «colpa dell’Europa»? Il senatore Salvini dovrebbe guardare per primo con grande timore a questo redde rationem.

QUELLE PAROLE DI BORGHI PERICOLOSE PER I MERCATI

Certo, Berlino vuole ora, con altri, la riforma Mes perché ha il problema di alcune sue banche a partire da Deutsche Bank ma non solo, e presto sarà assai costoso salvarle, e vuole dare più sostanza alla triade Mes -Unione bancaria- avvio (prudente) di un bilancio comune dell’area euro. Ma è proprio su questo do ut des che si doveva e si deve trattare, mercanteggiare in perfetto stile Ue, creandosi alleati, e difendendo le buone ragioni italiane. Indebolite da tempo, tuttavia, dall’intrattabilità del debito. Oggi Salvini minaccia querele, fa circolare sindromi da complotto anti italiano, parla di tradimento, termine cruciale per ogni nazionalista quando passa dalla contesa politica alla criminalizzazione dell’avversario. Ma Salvini e con lui Luigi Di Maio non si sono macchiati di nessuna forma di tradimento quando per propri vantaggi elettorali hanno aggiunto ai conti nazionali voci di spesa ingenti e discutibili come il Reddito di cittadinanza e Quota 100?

La polemica sul Mes ha fatto uscire in fretta e alla grande Borghi dal sottoscala dove la apparente semi-conversione salviniana sui temi europei

E come fa l’ineffabile Claudio Borghi a tuonare contro il «pericolo devastante» del nuovo Mes, lui che ha dato – l’anno scorso soprattutto – un contributo notevole con le sue parole avventate a indebolire il valore dei Btp e di altri titoli sovrani italiani, per arrivare poi al capolavoro monetario da Repubblica delle banane dei minibot? La polemica sul Mes ha fatto uscire in fretta e alla grande Borghi dal sottoscala dove la apparente semi-conversione salviniana sui temi europei, vana illusione, sembrava averlo confinato. Ora è di nuovo un combattente per la libertà dall’Europa e dall’euro, emblema di una nazione alla deriva. Più attaccano in modo sconclusionato il Mes e più fanno ciò che ugualmente fa e farebbe un Trattato scritto in modo improvvido sui temi del debito: confermano ai mercati nel dubbio che i nostri conti pubblici sono davvero qualcosa da cui stare alla larga. L’ultima asta dei titoli di Stato italiani è risultata infatti la settimana scorsa un mezzo flop.

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Gli aggiornamenti sul dibattito del Mes del 1 dicembre

Salvini attacca ancora il premier: «Se passa danno grave per l'Italia». Ma Martina chiede a Di Maio di non dare altra benzina al leader del Carroccio per appiccare nuovi incendi.

Continua a tenere banco, tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione, la questione sul Mes. Ecco che anche domenica 1 dicembre i leader dei principali partiti sono tornati a parlare sul Meccanismo europeo di stabilità. Come sempre il più agguerrito è stato Matteo Salvini. Ma non sono mancate nemmeno le dichiarazioni di Giorgia Meloni e Maurizio Martina.

COSA HA DETTO SALVINI SUL MES

«Domani sarò a Roma da italiano, curioso di sentire se il presidente del Consiglio ha capito quello che faceva e ha tradito. Oppure molto semplicemente non ha capito quello che stava facendo, perché tutto è possibile», ha detto Salvini a margine dell’incontro elettorale a favore di Lucia Borgonzoni in riferimento all’informativa sul Mes del premier Conte di lunedì 2 dicembre alle Camere. «E poi martedì sarò a Bruxelles perché non voglio che l’Italia sia rappresentata da qualcuno che cede nella battaglia ancora prima di cominciarla», ha aggiunto. Il leader del Carroccio ha anche detto che l’approvazione del Meccanismo europeo di stabilità «sarebbe un danno enorme per l’Italia e gli italiani».

MELONI AUSPICA LA CADUTA DEL GOVERNO

Anche Giorgia Meloni si è omologata al pensiero salviniano. Questa volta cambiando destinatario e passando da Conte a Di Maio. «Credo che dovrebbe cadere il governo sul Mes. Nel senso che se Di Maio ha un briciolo di dignità questo è il momento in cui lo deve dimostrare. Basta proclami, Luigi Di Maio. I numeri in Parlamento ce li hai tu», ha detto a margine dell’evento organizzato dal gruppo al Senato di FdI al teatro EuropAuditorium di Bologna. «Se non vuoi che il Mes venga sottoscritto devi dire che ritiri il sostegno del Movimento 5 stelle dal Governo nel caso passi. Basta fare i pagliacci e fare finta di dire una cosa per poi farne un’altra», ha aggiunto.

MARTINA GETTA ACQUA SUL FUOCO

«Io mi auguro che Di Maio non voglia dare altra benzina a Salvini per appiccare fuochi pericolosi per l’Italia. Salvini è un esperto di questa logica folle, Di Maio eviti di dargli una mano perché in gioco c’è la forza del nostro
Paese non il destino di una persona sola», ha invece detto Maurizio
Martina
ai microfoni di Sky Tg24.

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Giulio Lolli è stato estradato dalla Libia e arrestato in Italia

Il 54enne imprenditore italiano era stato fermato a Tripoli nel 2017 con l'accusa di terrorismo. Il suo ritorno in patria è coinciso anche con il fermo firmato dal gip di Roma.

Giulio Lolli, l’imprenditore bolognese condannato all’ergastolo in Libia per terrorismo e fiancheggiamento di un gruppo estremista separatista, è arrivato in Italia dopo l’estradizione. Quando era stato arrestato a Tripoli nel 2017 l’uomo era già considerato latitante per la giustizia italiana da nove anni. Ovvero da quando il sostituto procuratore Davide Ercolani, lo aveva indagato per associazione per delinquere, truffa, falso e appropriazione indebita.

L’ARRESTO E L’ESTRADIZIONE DI LOLLI

Lolli è stato consegnato al Ros dei Carabinieri grazie all’intervento diplomatico dell’Ambasciata Italiana di Tripoli, dell’Ufficiale di Collegamento della Polizia di Stato, in accordo con il Ministero della Giustizia, Ministero degli Esteri e sotto l’impulso della Procura della Repubblica di Rimini e quindi del sostituto procuratore Davide Ercolani. Al suo arrivo in Italia l’uomo è stato preso in consegna dai militari della Sezione PG-Carabinieri della Procura della Repubblica di Rimini insieme ad altri militari della Stazione dei Carabinieri di Bellaria e della Capitaneria di Porto.

IL PERICOLO TERRORISMO

Secondo il gip di Roma Cinzia Parasporo ci sarebbe il «concreto e attuale pericolo che Lolli possa commettere reati in armi e di terrorismo, stanti la gravità dei fatti e l’inserimento in un chiaro contesto eversivo». Queste le parole con cui il gip ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del 54enne italiano. Il gip ha inoltre definito Lolli come un soggetto «dall’elevatissima pericolosità che ha vissuto in Libia diversi anni figurando tra i comandanti del cartello islamista denominato Majlis Shura Thuwar, formazione jihadista controllata dall’organizzazione terroristica Ansar Al Sharia (affiliata ad Al Qaeda), molto attiva nel 2017 a Bengasi, fino al suo definitivo scioglimento avvenuto due anni fa, e con base operativa a Misurata».

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L’incognita della continuità territoriale marittima pesa sull’economia della Sardegna

La convenzione scade nel 2020 e il tempo stringe. Un eventuale aumento dei costi del trasporto via mare metterebbe a rischio 500 lavoratori del settore estrattivo. Il punto.

Accettato il paradosso tutto isolano di un porto dedicato alle merci ma fermo – a caccia di investitori e con 200 lavoratori in cassa integrazione – presto per la Sardegna dovrà risolvere il rebus. Quello della continuità territoriale marittima che regge gli spostamenti calmierati via mare per passeggeri residenti e merci. La scadenza della convenzione attuale è imminente, luglio 2020. A queste regole – e soprattutto ai relativi costi di trasporto – è legata l’economia sarda in «ripresina». Questo il termine che si ritrova nell’ultimo rapporto Svimez in cui fanno da traino, ancora, i servizi con un apporto anche dell’industria. Ed è proprio da uno dei comparti industriali che è arrivato l’ultimo appello, rilanciato dal nuovo assessore ai Trasporti della Giunta di centrodestra, Giorgio Todde.

L’INCOGNITA DEI PREZZI METTE A RISCHIO 500 POSTI DI LAVORO

A chiedere un intervento urgente sono le tre principali aziende che producono piastrelle e che gestiscono anche le cave sarde. Ceramica Mediterranea, Svimsa e Maffei silicati sardi contano un fatturato di 70 milioni l’anno. Le prime due operano nel Sud – attorno a Cagliari – l’altra nel Nuorese: a loro fanno riferimento piccole e medie cave da cui viene estratta la sabbia e altri minerali (come il caolino) destinati alle fabbriche dell’Italia settentrionale, soprattutto a quelle del distretto emiliano della ceramica. I siti di estrazione sono distribuiti in tutta l’Isola: da Ottana a Orani, da Guspini a Escalaplano. Da qui i camion partono alla volta del continente, ovviamente via nave. Ma con l’imminente incognita dei prezzi di trasporto l’intero comparto potrebbe essere a rischio e con esso, anche i 500 posti di lavoro tra diretti e indotto (operai, gruisti, trasportatori). Una realtà produttiva che esiste da decenni che ora ha difficoltà a programmare le attività oltre la prossima estate.

UN MOVIMENTO DI 2 MILIONI DI TONNELLATE DI SABBIA L’ANNO

La spola dei camion – la stima è di 50 mila l’anno, per 2 milioni di tonnellate di materiale – viaggia sulle rotte Olbia o Cagliari verso Livorno di solito effettuate da Moby e Tirrenia (da tre anni entrambre nel Gruppo Onorato Armatori) e del concorrente Grimaldi. Si tratta del 25% del totale dei movimenti dei tir dalla Sardegna verso la penisola. L’ipotetico aumento dei prezzi significherebbe – secondo le aziende – la fuga certa dei clienti verso cave meno costose, in Grecia o in altre zone del sud Europa. Perché sul costo finale di trasporto, la metà è per quella traversata in nave. Su cui ci sono stati dei rincari già a gennaio 2019, tra tante polemiche degli operatori e dure prese di posizione di Confapi Sardegna. Rispetto al 2018 – infatti – le tariffe sono aumentate dal 25 al 40%, una mossa simultanea per Tirrenia, Moby e Grimaldi proprio sulle rotte più battute. Un esempio concreto: per far viaggiare un autoarticolato si possono spendere fino a 600 euro. 

L’ALLARME DELL’ASSESSORE REGIONALE AI TRASPORTI

I dubbi e le incertezze delle aziende sono state fatti propri dall’assessore regionale ai Trasporti Todde. Dalle colonne de La Nuova Sardegna ha rilanciato il caso dopo un incontro con i loro rappresentanti: «Presto quei lavoratori potrebbero restare tutti a casa», ha detto. «Il motivo è semplice. Senza certezze sulla convenzione non possono andare avanti. I costi di trasporto sarebbero troppo alti per restare competitivi sul mercato. Non possiamo assistere passivi a questo disastro». 

IL SILENZIO DI ROMA

L’assessore Todde ribatte sul silenzio da parte di Roma (con l’alternanza estiva di due governi) e nessun bando di gara pronto in vista dell’estate. I tempi sono davvero stretti e si fa strada l’ipotesi di una proroga dell’attuale convenzione (che vale 72 milioni l’anno trasferiti dallo Stato a Cin Tirrenia su rotte mantenute attive tutto l’anno anche se in perdita). Le alternative – già citate dal governatore Christian Solinas – sarebbero l’applicazione del modello spagnolo che prevede per le sue isole un rimborso direttamente al passeggero su singolo biglietto e non alla compagnia, oppure di quello corso che mantiene prezzi fissi per gli utenti ed è aperto a più operatori. Ma la Regione può solo chiedere incontri al governo e aspettare. Perché a differenza della continuità aerea gestita dalla Regione, quella marittima è materia dello Stato con l’ente locale di fatto spettatore. Nel 2012, da ricordare, il tentativo di infrangere l’esclusiva con la Flotta sarda: navi prese a nolo per sabotare quello che veniva definito ‘monopolio dei mari‘. Un progetto dell’allora presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e del suo assessore ai Trasporti, Christian Solinas diventato ora governatore. L’eredità è nota: un buco da 10 milioni di euro nelle casse regionali, il fallimento della compagnia controllata Saremare e una procedura d’infrazione Ue. 

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La lettera dei Benetton per chiarire il loro rapporto con Autostrade

La famiglia ha chiesto maggiore rispetto nei suoi confronti. Ma anche chiarezza nel dare le notizie: «Non abbiamo mai gestito Auto strade. Siamo solo azionisti al 30% di Atlantia». Poi una stoccata alla politica: «Questi attacchi sono assurdi».

Rispetto e serietà. Queste le parole usate dalla famiglia Benetton in una lettera inviata ad alcuni quotidiani nazionali. «Trovo necessario fare chiarezza su un grande equivoco: nessun componente della famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade. La famiglia Benetton è azionista al 30% di Atlantia che a sua volta controlla Autostrade», si legge nella lettera a firma di Luciano Benetton. Un chiarimento che è anche una risposta agli attacchi politici arrivati, soprattutto dal M5s, dopo il crollo del Ponte Morandi e la manutenzione dei tratti autostradali gestiti da Autostrade per l’Italia. «Non cerco giustificazioni ma questi attacchi sono assurdi. Credo anche che chi ha sbagliato deve pagare ma è inaccettabile la campagna scatenata contro la nostra famiglia», ha aggiunto il patron della famiglia veneta.

LE MOTIVAZIONI DELLA FAMIGLIA BENETTON

Luciano Benetton ha avuto modo anche di chiarire le notizie degli ultimi giorni in cui si parlava di falsi report legati all’agibilità di alcuni viadotti in realtà a rischio cedimento. «Le notizie su omessi controlli, su sensori guasti non rinnovati o falsi report, ci colpiscono e sorprendono in modo grave, allo stesso modo in cui colpiscono e sorprendono l’opinione pubblica. Ci sentiamo feriti come cittadini, come imprenditori e come azionisti. Come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa». Parole queste che non nasconde il mea culpa per quanto è accaduto a Genova quel 14 agosto del 2018. «Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di aver contribuito ad avallare la definizione di un management che si è dimostrato non idoneo, un management che ha avuto pieni poteri e la totale fiducia degli azionisti e di mio fratello Gilberto che, per come era abituato a lavorare, di sicuro ha posto la sicurezza e la reputazione dell’azienda davanti a qualunque altro obiettivo. Sognava che saremmo stati i migliori nelle infrastrutture», si legge ancora.

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Condannato a 30 anni per femminicidio si toglie la vita dopo la sentenza

Francesco Mazzega si è impiccato nella notte di sabato 30 novembre dopo la sentenza in appello. Nel 2017 aveva ucciso la fidanzata 21enne che aveva deciso di lasciarlo.

Francesco Mazzega si è suicidato all’età di 38 anni dopo essere stato condannato a 30 anni per la morte di Nadia Orlando in sentenza d’appello. L’uomo è stato trovato privo di vita – secondo le prime informazioni si sarebbe impiccato – nella notte di sabato 30 novembre nel giardino della sua abitazione in Friuli a Muzzana del Turgnano in provincia di Udine. Mazzega era infatti agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico in attesa della sentenza. Venerdì 29 novembre in appello era stata confermata la condanna di primo grado a 30 anni con le porte del carcere che si sarebbero dovute aprire da lì a poco.

IL RITROVAMENTO DEL CORPO

Secondo quanto riportato dal Messaggero Veneto a ritrovare il corpo di Francesco Mazzega sarebbero stati i parenti dell’uomo. Il 38enne si sarebbe legato una corda al collo impiccandosi nel giardino di casa. Immediata la chiamata ai sanitari del 118 che arrivati sul posto hanno provato a rianimarlo per 40 minuti. Le manovre sono tuttavia risultate vane e i medici ne hanno constatato il decesso.

L’OMICIDIO DI NADIA ORLANDO

L’omicidio di Nadia Orlando risale alla sera del 31 luglio 2017. La ragazza, all’epoca appena 21enne e originaria di Vidulis di Dignano in provincia di Udine, era stata assassinata a pochi passi da casa. Il suo femminicida l’aveva poi messa nel bagagliaio della propria auto vagando alla guida per tutta la notte sino al crollo e all’arresto. Il motivo dell’omicidio sarebbe stato la volontà da parte di Nadia di interrompere la loro relazione ormai diventata insanabile.

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I deputati anti-Maduro Magallanes e de Grazia arrivano in Italia

I due dissidenti vivevano da maggio nell'ambasciata dopo essere finiti nel mirino del regime. Fondamentale anche l'intervento di Casini.

Mariela Magallanes e Americo de Grazia sono pronti a essere accolti dall’Italia. I due parlamentari vivevano da maggio 2019 nell’ambasciata italiana di Caracas. Questo dopo che il regime di Nicolas Maduro li aveva accusati di un tentativo di colpo di Stato oltre che incitamento all’insurrezione. Magallanes e de Grazia sono stati eletti nell’Assemblea nazionale esautorata con decreto dallo stesso Maduro e sostituita con l’Assemblea nazionale costituente.

IL VIAGGIO DI CASINI IN VENEZUELA

Con loro anche Pierferdinando Casini che si è mosso in prima persona per portare in Italia i due dissidenti del regime di Maduro.

«Finalmente in volo da Caracas verso Roma con i colleghi Mariela Magallanes e Americo De Grazia, costretti dal maggio scorso a vivere nell’Ambasciata italiana. Sono grato di aver dato un contributo ad una giusta causa umanitaria. Ringrazio la Farnesina e l’Incaricato d’Affari Placido Vigo», ha scritto su Twitter postando alcune foto che li ritraggono insieme e pronti a partire con l’aereo.

LE ORIGINI ITALIANE DEI DUE DISSIDENTI

L’operazione è stata resa possibile anche grazie ad alcuni requisiti che hanno permesso la Farnesina e l’ambasciata di intervenire. Magallanes, infatti, è sposata con un cittadino italiano e con lui aveva tentato di lasciare il Paese quando il Tribunale Supremo di Giustizia le aveva tolto, insieme ad altri sei deputati, l’immunità. La donna era arrivata in aeroporto dove però era stata respinta ai controlli. Storia simile a quella di de Grazia, figlio di un italiano e anche lui finito nel mirino di Maduro. Entrambi si sono così rifugiati nell’ambasciata sino all’epilogo di domenica 1 dicembre.

L’APPLAUSO DI RENZI

Ad applaudire il senatore Casini è stato anche Matteo Renzi. «Molto bravo Pierferdinando Casini. Nel silenzio dei più ha fatto una gran cosa sia per il Venezuela che per la credibilità dell’Italia», ha scritto il leader di Italia Viva.

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A Hong Kong manifestanti di nuovo in piazza e chiedono aiuto a Trump

Non si ferma la protesta pro-democrazia. In molti hanno marciato con bandiere americane e slogan in favore del tycoon. Intanto Pechino critica l'Onu per le parole di Michelle Bachelet.

Anche il primo dicembre i manifestanti di Hong Kong sono scesi in piazza per protestare a favore della democrazia. Un ritorno che fa seguito alle due settimane di pausa elettorale. Non sono mancate neanche questa volta attimi di tensione con le forze dell’ordine. In particolare nella tarda notte dove un gruppo di facinorosi è entrato in contatto con la polizia. Lo scontro è stato inevitabile ma non ci sarebbero stati feriti.

L’APPELLO A DONALD TRUMP

Nel corso della manifestazione, oltre agli immancabili slogan contro la censura cinese, in molti hanno marciato con la bandiera americana posta sui cappelli o disegnata sulle maschere che coprono i volti. Ci sono stati anche svariati ed espliciti appelli a Donald Trump. Tra i più gettonati quello in cui si chiedeva al presidente degli Stati Uniti d’America di liberare Hong Kong dal gioco cinese. Mentre un altro recitava «Make Hong Kong Great Again», rimodellando in chiave asiatica il motto con cui il tycoon ha vinto le elezioni presidenziali (Make America Great Again). Alcune centinaia di dimostranti si sono simbolicamente anche diretti al consolato Usa.

PECHINO ATTACCA L’ONU

Intanto Pechino ha accusato l’Alto commissario Onu per i Diritti dell’Uomo, Michelle Bachelet, di «fomentare la violenza radicale a Hong Kong». Bachelet in un editoriale apparso sul South China Morning Post nella giornata di sabato 30 novembre, aveva raccomandato che la governatrice Carrie Lam avviasse un’indagine imparziale sulla polizia per «uso eccessivo della forza» contro i manifestanti e contestualmente aprisse una linea di dialogo con il movimento di protesta per risolvere la crisi. Immediata la replica della Cina che attraverso l’ambasciata di Ginevra, dove si trova la sede dell’agenzia Onu, ha accusato Michelle Bachelet di «esercitare pressione sul governo (autonomo) e avrà il risultato di fomentare i facinorosi a condurre azioni di violenza ancora più radicale».

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Mi si nota di più se scompaio? Parla Margiela, il Banksy della moda

Al tempo della civiltà dell'immagine ha deciso di sparire, lasciando la sua casa di moda. Ora un documentario dà voce al più concettuale degli stilisti. E a noi offre una lezione.

Mentre aspettavamo di conoscere i risultati economici del Black Friday europeo 2019, una giornata di saldi natalizi anticipati senza che si sia speso nemmeno un euro per il tacchino di Thanksgiving, abbiamo avuto modo di apprezzare il secondo documentario prodotto su Martin Margiela, «il Banksy della moda» come ormai viene chiamato, dopo l’affascinante short movie che Alison Charnick girò nel 2015 con il sostegno di Yoox, cioè di uno dei protagonisti assoluti della corsa agli acquisti ribassati.

Una delle creazioni di Martin Margiela per la mostra “Margiela: The Hermes Years” allestita al museo delle aerti decorative di Parigi dalla primavera all’autunno 2018. (PHILIPPE LOPEZ/AFP via Getty Images)

DELL’UOMO CHE RIVOLUZIONÒ LO STILE CI RESTA SOLO LA VOCE

Se il filmato di quattro anni fa si intitolava The artist is absent, richiamo speculare alla celebre performance di Marina Abramovic, ed era affidato alle testimonianze dei giornalisti, dei critici e degli artisti che hanno collaborato a vario titolo con lo stilista che un’intera generazione di giovani conosce solo per nome, questo nuovo film diretto da Reiner Holzemer permette di ascoltare almeno la voce dell’uomo che, dopo aver rivoluzionato la moda al pari di Rei Kawakubo, nel 2009 ha lasciato la propria azienda nelle mani di Renzo Rosso ed è letteralmente sparito nel nulla.

La modella Leon Dame sulla passarella della Parigi Fashion week per la collezione Primavera – Estate 2020 di Maison Margiela (Thierry Chesnot/Getty Images)

Già lo si vedeva pochissimo prima e bisognava appostarsi fuori dai suoi uffici di Parigi per giornate intere per coglierne lo sguardo; dopo la cessione a OtB e, si dice, mesi di contrasto con mr Diesel, Margiela è diventato l’equivalente di J. Salinger, anzi peggio perché dell’autore del Giovane Holden almeno si conosceva l’indirizzo di casa, benché nessuno sia mai riuscito a varcarne il cancello. Martin Margiela in his own words è stato presentato pochi giorni fa al festival del documentario a New York (sì, insieme con Unposted, starring Chiara Ferragni, preferiremmo evitare i paragoni), e non si sa ancora se e quando farà la sua comparsa in Italia.

«L’ANONIMATO È MOLTO IMPORTANTE, MI DÀ EQUILIBRIO»

Due affermazioni del grande stilista belga, però, possono diventare oggetto di riflessione e spunti di conversazione interessanti in questi nostri tempi di social mania, di autoscatti reiterati e di caccia ai like, di questi nostri continui e festosi “Instagram al tramonto”, come da titolo del nuovo, interessantissimo saggio di Paolo Landi sull’ascesa del media più vanitoso ed esibizionista che sia mai stato inventato. Se uno degli uomini più interessanti della moda degli ultimi trent’anni dice che per lui «l’anonimato è molto importante» e che di «essere una celebrità gli è sempre importato zero», vale la pena di capire il perché. Lo spiega lui stesso, voce off di se stesso: «Mi aiuta, essere uguale a tutti gli altri, mi dà equilibrio. A me interessa che la gente ami quel che faccio, non la mia faccia».

MICHELE, PRADA, ARMANI: I POCHI CHE DICONO NO ALL’APPARIRE

Se vi sembra poco, common knowledge, provate a pensare all’evoluzione che la moda e i suoi stilisti hanno subito negli ultimi centocinquant’anni, da Charles Frederick Worth a oggi, e agli altri due documentari presentati a New York fra i tanti realizzati in questi anni: Ferragni, appunto, e Ralph Lauren. Nessuno è sfuggito, anche post mortem come Yves Saint Laurent; qualcuno ha esagerato, autocelebrandosi prima del tempo e rimettendoci le penne professionali come Frida Giannini. Tutti trascorrono il tempo fra feste, eventi, presentazioni e selfie. Fra i pochi che mantengano il basso profilo, nonostante la ricchezza della moda che costruisce, c’è Alessandro Michele. Sul suo account Instagram, Lallo25, è davvero difficile trovare selfie, ed è noto che non ami rilasciare interviste. Idem Miuccia Prada, che da sempre esce al termine delle sue sfilate quasi a mezza figura: una gamba, un braccio, la testa e via. Giorgio Armani si concede con parsimonia, pur essendo garbato e disponibilissimo con gli sconosciuti che lo fermano per strada. Per quasi tutti gli altri, la presenza sui social, gestita da account manager, oppure agli eventi del brand, proprio o di appartenenza, è diventata una parte integrante della professione e dello speciale “culto dello stilista” che va costruendosi e sviluppandosi dal giorno in cui il baffuto inglese decise che le signore della buona società parigina avrebbero dovuto indossare quello che diceva lui, e a carissimo prezzo.

DAL PRIMO BOOM DEI NOVANTA ALL’ESAURIMENTO

Dalla metà degli Anni Ottanta fino al suo primo boom, nei Novanta, e ancora oggi, il belga Margiela, di cui tanti ignorano perfino la pronuncia corretta del cognome (volendo, su Youtube trovate un divertentissimo duo che si esercita), è amatissimo nel mondo della moda per il concettualismo delle sue creazioni, che si materializza in proporzioni oversize, decostruzione, riciclo e uso totalizzante dei tessuti (fu fra i primi a mettere le cimase a vista), linee e capi “piatti”, quasi bidimensionali, oltre che per i suoi iconici stivali tabi, ispirati all’estetica giapponese. Non è un caso, infatti, che in Giappone Margiela funzioni meglio che in Italia, dove la maggior parte delle donne ama ancora presentarsi scollata-strizzata-popputa, quasi fosse un marchio di origine doc della merce, e non è affatto per caso che, dopo la sua uscita dalla Maison eponima, Rosso abbia chiamato alla direzione creativa John Galliano, un altro visionario delle proporzioni. L’etichetta bianca, senza nome, dei suoi capi, un logo-no logo fermato da quattro punti in cotone bianco, è diventata un simbolo della moda colta, raffinata, intellettuale. Da cui, però, il suo stesso interprete ha preferito staccarsi: «Sentivo troppa pressione attorno a me, ero stanco del sistema, di dover creare così tante collezioni all’anno. Mi sono ammalato. Ho avuto bisogno di un anno solo per recuperare dallo stress», dice nel documentario. Per tornare a volersi occupare di moda ne ha messi altri nove. Anche questo lo lega a Galliano: l’esaurimento.

«Senti di aver detto tutto quello che hai da dire nella moda», gli chiede il regista. «No». «Non credo che tornerò mai come direttore creativo di una maison o di un marchio, ma credo che se una grande società volesse una linea firmata da me, ecco, questo potrebbe accadere». Potrebbe essere una bella notizia, ma resta da vedere che cosa questo mondo iper connesso possa ancora volere dall’uomo scomparso. Jean Paul Gaultier, il suo boss nei primi anni di carriera, dice che «la sua capacità di sottrarsi, di non apparire, è molto potente». Ma monsieur Gaultier è un quasi settantenne che, a dispetto del proprio spirito iconoclasta, ha inevitabilmente la mentalità di un signore nato poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma che cosa possono pensare, i ventenni, di un uomo che produce moda concretamente astratta, rifiutandosi di spiegarla? Giocare fra assenza e presenza è l’esercizio più difficile che attende l’essere umano o, meglio, l’animale sociale, dalla nascita fino alla morte, come emerge chiaramente anche dall’ultimo saggio di Lorenza Foschini attorno al carteggio fra Marcel Proust e il musicista Reynaldo Hahn, «Il vento attraversa le nostre anime», da cui capiamo quanto fosse difficile per un presenzialista per mestiere e per passione come l’autore della Recherche saper assecondare l’esigenza di intimità e gli spazi intimi dell’amico e, per qualche anno, amante (il libro, già di successo, verrà presentato il 3 dicembre alla Società Dante Alighieri di Roma, in caso vi trovaste in città non perdetelo). Saper scomparire nella civiltà dell’immagine è un’arte ancora più sottile. E l’anonimato assoluto un lusso davvero per pochi. Adesso Margiela vuole tornare. Ma non sa come farlo senza abbattere il proprio mito.

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Al tempo della civiltà dell'immagine ha deciso di sparire, lasciando la sua casa di moda. Ora un documentario dà voce al più concettuale degli stilisti. E a noi offre una lezione.

Mentre aspettavamo di conoscere i risultati economici del Black Friday europeo 2019, una giornata di saldi natalizi anticipati senza che si sia speso nemmeno un euro per il tacchino di Thanksgiving, abbiamo avuto modo di apprezzare il secondo documentario prodotto su Martin Margiela, «il Banksy della moda» come ormai viene chiamato, dopo l’affascinante short movie che Alison Charnick girò nel 2015 con il sostegno di Yoox, cioè di uno dei protagonisti assoluti della corsa agli acquisti ribassati.

Una delle creazioni di Martin Margiela per la mostra “Margiela: The Hermes Years” allestita al museo delle aerti decorative di Parigi dalla primavera all’autunno 2018. (PHILIPPE LOPEZ/AFP via Getty Images)

DELL’UOMO CHE RIVOLUZIONÒ LO STILE CI RESTA SOLO LA VOCE

Se il filmato di quattro anni fa si intitolava The artist is absent, richiamo speculare alla celebre performance di Marina Abramovic, ed era affidato alle testimonianze dei giornalisti, dei critici e degli artisti che hanno collaborato a vario titolo con lo stilista che un’intera generazione di giovani conosce solo per nome, questo nuovo film diretto da Reiner Holzemer permette di ascoltare almeno la voce dell’uomo che, dopo aver rivoluzionato la moda al pari di Rei Kawakubo, nel 2009 ha lasciato la propria azienda nelle mani di Renzo Rosso ed è letteralmente sparito nel nulla.

La modella Leon Dame sulla passarella della Parigi Fashion week per la collezione Primavera – Estate 2020 di Maison Margiela (Thierry Chesnot/Getty Images)

Già lo si vedeva pochissimo prima e bisognava appostarsi fuori dai suoi uffici di Parigi per giornate intere per coglierne lo sguardo; dopo la cessione a OtB e, si dice, mesi di contrasto con mr Diesel, Margiela è diventato l’equivalente di J. Salinger, anzi peggio perché dell’autore del Giovane Holden almeno si conosceva l’indirizzo di casa, benché nessuno sia mai riuscito a varcarne il cancello. Martin Margiela in his own words è stato presentato pochi giorni fa al festival del documentario a New York (sì, insieme con Unposted, starring Chiara Ferragni, preferiremmo evitare i paragoni), e non si sa ancora se e quando farà la sua comparsa in Italia.

«L’ANONIMATO È MOLTO IMPORTANTE, MI DÀ EQUILIBRIO»

Due affermazioni del grande stilista belga, però, possono diventare oggetto di riflessione e spunti di conversazione interessanti in questi nostri tempi di social mania, di autoscatti reiterati e di caccia ai like, di questi nostri continui e festosi “Instagram al tramonto”, come da titolo del nuovo, interessantissimo saggio di Paolo Landi sull’ascesa del media più vanitoso ed esibizionista che sia mai stato inventato. Se uno degli uomini più interessanti della moda degli ultimi trent’anni dice che per lui «l’anonimato è molto importante» e che di «essere una celebrità gli è sempre importato zero», vale la pena di capire il perché. Lo spiega lui stesso, voce off di se stesso: «Mi aiuta, essere uguale a tutti gli altri, mi dà equilibrio. A me interessa che la gente ami quel che faccio, non la mia faccia».

MICHELE, PRADA, ARMANI: I POCHI CHE DICONO NO ALL’APPARIRE

Se vi sembra poco, common knowledge, provate a pensare all’evoluzione che la moda e i suoi stilisti hanno subito negli ultimi centocinquant’anni, da Charles Frederick Worth a oggi, e agli altri due documentari presentati a New York fra i tanti realizzati in questi anni: Ferragni, appunto, e Ralph Lauren. Nessuno è sfuggito, anche post mortem come Yves Saint Laurent; qualcuno ha esagerato, autocelebrandosi prima del tempo e rimettendoci le penne professionali come Frida Giannini. Tutti trascorrono il tempo fra feste, eventi, presentazioni e selfie. Fra i pochi che mantengano il basso profilo, nonostante la ricchezza della moda che costruisce, c’è Alessandro Michele. Sul suo account Instagram, Lallo25, è davvero difficile trovare selfie, ed è noto che non ami rilasciare interviste. Idem Miuccia Prada, che da sempre esce al termine delle sue sfilate quasi a mezza figura: una gamba, un braccio, la testa e via. Giorgio Armani si concede con parsimonia, pur essendo garbato e disponibilissimo con gli sconosciuti che lo fermano per strada. Per quasi tutti gli altri, la presenza sui social, gestita da account manager, oppure agli eventi del brand, proprio o di appartenenza, è diventata una parte integrante della professione e dello speciale “culto dello stilista” che va costruendosi e sviluppandosi dal giorno in cui il baffuto inglese decise che le signore della buona società parigina avrebbero dovuto indossare quello che diceva lui, e a carissimo prezzo.

DAL PRIMO BOOM DEI NOVANTA ALL’ESAURIMENTO

Dalla metà degli Anni Ottanta fino al suo primo boom, nei Novanta, e ancora oggi, il belga Margiela, di cui tanti ignorano perfino la pronuncia corretta del cognome (volendo, su Youtube trovate un divertentissimo duo che si esercita), è amatissimo nel mondo della moda per il concettualismo delle sue creazioni, che si materializza in proporzioni oversize, decostruzione, riciclo e uso totalizzante dei tessuti (fu fra i primi a mettere le cimase a vista), linee e capi “piatti”, quasi bidimensionali, oltre che per i suoi iconici stivali tabi, ispirati all’estetica giapponese. Non è un caso, infatti, che in Giappone Margiela funzioni meglio che in Italia, dove la maggior parte delle donne ama ancora presentarsi scollata-strizzata-popputa, quasi fosse un marchio di origine doc della merce, e non è affatto per caso che, dopo la sua uscita dalla Maison eponima, Rosso abbia chiamato alla direzione creativa John Galliano, un altro visionario delle proporzioni. L’etichetta bianca, senza nome, dei suoi capi, un logo-no logo fermato da quattro punti in cotone bianco, è diventata un simbolo della moda colta, raffinata, intellettuale. Da cui, però, il suo stesso interprete ha preferito staccarsi: «Sentivo troppa pressione attorno a me, ero stanco del sistema, di dover creare così tante collezioni all’anno. Mi sono ammalato. Ho avuto bisogno di un anno solo per recuperare dallo stress», dice nel documentario. Per tornare a volersi occupare di moda ne ha messi altri nove. Anche questo lo lega a Galliano: l’esaurimento.

«Senti di aver detto tutto quello che hai da dire nella moda», gli chiede il regista. «No». «Non credo che tornerò mai come direttore creativo di una maison o di un marchio, ma credo che se una grande società volesse una linea firmata da me, ecco, questo potrebbe accadere». Potrebbe essere una bella notizia, ma resta da vedere che cosa questo mondo iper connesso possa ancora volere dall’uomo scomparso. Jean Paul Gaultier, il suo boss nei primi anni di carriera, dice che «la sua capacità di sottrarsi, di non apparire, è molto potente». Ma monsieur Gaultier è un quasi settantenne che, a dispetto del proprio spirito iconoclasta, ha inevitabilmente la mentalità di un signore nato poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma che cosa possono pensare, i ventenni, di un uomo che produce moda concretamente astratta, rifiutandosi di spiegarla? Giocare fra assenza e presenza è l’esercizio più difficile che attende l’essere umano o, meglio, l’animale sociale, dalla nascita fino alla morte, come emerge chiaramente anche dall’ultimo saggio di Lorenza Foschini attorno al carteggio fra Marcel Proust e il musicista Reynaldo Hahn, «Il vento attraversa le nostre anime», da cui capiamo quanto fosse difficile per un presenzialista per mestiere e per passione come l’autore della Recherche saper assecondare l’esigenza di intimità e gli spazi intimi dell’amico e, per qualche anno, amante (il libro, già di successo, verrà presentato il 3 dicembre alla Società Dante Alighieri di Roma, in caso vi trovaste in città non perdetelo). Saper scomparire nella civiltà dell’immagine è un’arte ancora più sottile. E l’anonimato assoluto un lusso davvero per pochi. Adesso Margiela vuole tornare. Ma non sa come farlo senza abbattere il proprio mito.

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Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

Centinaia di contestatori arrestati. Chiese attaccate dai paramilitari. Il Paese da un anno vive in uno stato d'assedio. Tornato dall'esilio in Costa Rica, il direttore de El Confidencial si dice pronto a lottare contro il regime di Managua. E ripercorre la speranza tradita della rivoluzione sandinista. L'intervista.

«Non torno in Nicaragua perché la situazione è migliorata. Torno per lottare», dice a Lettera43.it Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial ed erede di una famiglia che ha fatto la storia del Paese centroamericano da un anno infiammato dalle proteste anti-Ortega.

L’omicidio nel 1978 del padre di Chamorro, il giornalista Pedro Joaquín Chamorro Cardenal scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre Violeta Barrios Torres de Chamorro a capo dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle Presidenziali del 1990.

In quell’occasione, i quattro figli si divisero: due si schierarono con la madre, due con Daniel Ortega, tra cui Carlos Fernando al tempo direttore del giornale sandinista Barricada. Dopo quella parentesi, è però passato all’opposizione e lo scorso gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua per trasferirsi in Costa Rica. Da pochi giorni, però, ha fatto ritorno in patria. «Il regime non è riuscito a schiacciare gli oppositori», spiega, «continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri delle vittime che reclamano giustizia, dei giornalisti. Sono tornato proprio per unirmi alla loro lotta».

Carlos Fernando Chamorro con aka moglie Desiree Elizondo al suo ritorno in Nicaragua lo scorso 25 novembre.

DOMANDA. Perché a gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua?  
RISPOSTA. C’era una situazione critica. La mia redazione era stata occupata dalla polizia senza alcun mandato, il giornale sequestrato. Erano stati arrestati i giornalisti Miguel Mora e Lucia Pineda. Inoltre ero venuto a conoscenza di piani e ordini per catturare altri colleghi, me compreso. Così sono andato in esilio per preservare la mia libertà e quella di mia moglie.

Non ha abbandonato il giornalismo, però.
Esatto, non ho mai smesso di lavorare. In Costa Rica siamo riusciti a riorganizzare la nostra produzione televisiva grazie alla solidarietà di Teletica. Espulsi dall’etere e dal cavo, ci siamo trasferiti su YouTube e sui social network. La mia redazione si è dispersa: una parte è andata in esilio, molti giornalisti sono rimasti in Nicaragua. Ma abbiamo sempre continuato a raccontare storie.

La situazione in Nicaragua è ancora tesa. Cosa l’ha spinta a fare ritorno?
Abbiamo valutato il rischio, e ci siamo presi una grande responsabilità, perché in effetti in Nicaragua non ci sono garanzie. Ma torno per fare pressione, per chiedere la restituzione del Confidencial, e per riprendere a fare giornalismo in questo Paese a contatto diretto con la sua realtà e la sua gente. In Costa Rica restano decine di migliaia di rifugiati che non possono tornare fino a quando non ci sarà un cambio democratico e saranno smantellati i paramilitari. Si vive di fatto in uno stato d’assedio. Dopo la crisi in Bolivia nelle ultime settimane si è registrata una escalation nella repressione. Ma il regime ha fallito, perché non è riuscito a schiacciare l’opposizione. Continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri degli assassinati che reclamano giustizia, dei giornalisti che cercano di garantire la libertà di stampa. La mia decisione di tornare è per appoggiare la loro lotta.

Proteste anti-governative a Managua, Nicaragua.

A luglio la Rivoluzione sandinista ha celebrato i suoi 40 anni. Immaginava nel 1979 che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere? 
La rivoluzione, con il rovesciamento di Somoza, fu un momento di speranza in un cambio profondo. Ma in seguito ha generato i suoi demoni. Il Paese ha vissuto grandi trasformazioni, ma la guerra civile ha causato ferite profonde. La rivoluzione si concluse nel febbraio 1990, con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista che da allora entrò in crisi. Ci fu un tentativo di democratizzazione con la creazione del Movimento rinnovatore sandinista che cercò e che cerca ancora di essere un partito di sinistra democratica.

Cosa non ha funzionato?
Ortega ha monopolizzato i simboli e le bandiere della rivoluzione. E quando è tornato al potere, nel 2007, ha dato vita a un governo autoritario, neoliberale, sfociato in una dittatura sanguinaria. Come avremmo potuto prevedere che un rivoluzionario che aveva contributo a sconfiggere Somoza si sarebbe trasformato in un dittatore? È qualcosa che supera ogni immaginazione.

Daniel Ortega con la moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

Lei era uno stretto collaborare di Ortega. Riesce a spiegare i motivi profondi di questa trasformazione?
Ortega non era il solo leader del Fronte sandinista, è uno Stalin tropicale, assolutamente incapace di ogni autocritica, e completamente manipolato dalla moglie, vicepresidente. Ormai la gente non parla più di Ortega, ma di Ortega e Murillo: gli Ormu. Un duo indissolubile che si aggrappa disperatamente al potere, sono una coppia che è peggio di quella di House of Cards

Eppure la storia insegna che a ogni rivoluzione segue un “Terrore”. Davvero non era prevedibile anche in Nicaragua?
Forse abbiamo sofferto la carenza di cultura democratica a causa del cosiddetto caudillismo latinoamericano. Ortega non è stato l’unico ad avere intrapreso un percorso del genere. Credo che il peccato originale della rivoluzione sia stato non aver sottoposto il potere al controllo dei cittadini. Ne è derivato un regime assoluto non solo di un partito, ma di una famiglia. Esattamente come era accaduto con Somoza.

Tutta l’America Latina in questo momento si sta infiammando. Cosa accade?
Sono movimenti spesso imprevedibili come nel caso cileno. Fenomeni con dinamiche e soggetti differenti. In alcuni casi si protesta per la mancanza di opportunità, per la mancanza di equità, per la mancanza di partecipazione politica. In altri contro brogli elettorali, come in Bolivia. Ma il mondo di Ortega è chiuso tra Caracas e L’Avana. Le dimissioni e la fuga di Evo Morales, secondo l’analisi del regime, sono solo il frutto di un complotto. La soluzione è semplice: aumentare la repressione.

Dopo l’assedio della cattedrale di Managua, i paramilitari hanno circondato una chiesa di San Miguel a Masaya dove un sacerdote e 13 madri di detenuti politici erano in sciopero della fame.
E dire che quando Ortega cominciò la campagna per tornare al potere, tra il 2003 e il 2004, chiese pubblicamente perdono per gli errori della rivoluzione sandinista e gli abusi contro la Chiesa. Con la crisi del regime, si era rivolto ai vescovi per instaurare un dialogo nazionale, visto che erano gli unici a godere del rispetto e della fiducia della popolazione. Ma quando il tentativo è fallito Ortega non ci ha pensato due volte e ha cominciato ad attaccare chiese e prelati. Adesso si assiste a una nuova escalation perché la Chiesa continua a stare a fianco delle vittime del regime. Ciò che è accaduto nella chiesa di San Miguel dimostra che il regime è in fase terminale ed è quindi più pericoloso. Attaccando la Chiesa, Ortega si sta tagliando tutte le possibili vie di fuga.


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Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

Centinaia di contestatori arrestati. Chiese attaccate dai paramilitari. Il Paese da un anno vive in uno stato d'assedio. Tornato dall'esilio in Costa Rica, il direttore de El Confidencial si dice pronto a lottare contro il regime di Managua. E ripercorre la speranza tradita della rivoluzione sandinista. L'intervista.

«Non torno in Nicaragua perché la situazione è migliorata. Torno per lottare», dice a Lettera43.it Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial ed erede di una famiglia che ha fatto la storia del Paese centroamericano da un anno infiammato dalle proteste anti-Ortega.

L’omicidio nel 1978 del padre di Chamorro, il giornalista Pedro Joaquín Chamorro Cardenal scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre Violeta Barrios Torres de Chamorro a capo dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle Presidenziali del 1990.

In quell’occasione, i quattro figli si divisero: due si schierarono con la madre, due con Daniel Ortega, tra cui Carlos Fernando al tempo direttore del giornale sandinista Barricada. Dopo quella parentesi, è però passato all’opposizione e lo scorso gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua per trasferirsi in Costa Rica. Da pochi giorni, però, ha fatto ritorno in patria. «Il regime non è riuscito a schiacciare gli oppositori», spiega, «continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri delle vittime che reclamano giustizia, dei giornalisti. Sono tornato proprio per unirmi alla loro lotta».

Carlos Fernando Chamorro con aka moglie Desiree Elizondo al suo ritorno in Nicaragua lo scorso 25 novembre.

DOMANDA. Perché a gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua?  
RISPOSTA. C’era una situazione critica. La mia redazione era stata occupata dalla polizia senza alcun mandato, il giornale sequestrato. Erano stati arrestati i giornalisti Miguel Mora e Lucia Pineda. Inoltre ero venuto a conoscenza di piani e ordini per catturare altri colleghi, me compreso. Così sono andato in esilio per preservare la mia libertà e quella di mia moglie.

Non ha abbandonato il giornalismo, però.
Esatto, non ho mai smesso di lavorare. In Costa Rica siamo riusciti a riorganizzare la nostra produzione televisiva grazie alla solidarietà di Teletica. Espulsi dall’etere e dal cavo, ci siamo trasferiti su YouTube e sui social network. La mia redazione si è dispersa: una parte è andata in esilio, molti giornalisti sono rimasti in Nicaragua. Ma abbiamo sempre continuato a raccontare storie.

La situazione in Nicaragua è ancora tesa. Cosa l’ha spinta a fare ritorno?
Abbiamo valutato il rischio, e ci siamo presi una grande responsabilità, perché in effetti in Nicaragua non ci sono garanzie. Ma torno per fare pressione, per chiedere la restituzione del Confidencial, e per riprendere a fare giornalismo in questo Paese a contatto diretto con la sua realtà e la sua gente. In Costa Rica restano decine di migliaia di rifugiati che non possono tornare fino a quando non ci sarà un cambio democratico e saranno smantellati i paramilitari. Si vive di fatto in uno stato d’assedio. Dopo la crisi in Bolivia nelle ultime settimane si è registrata una escalation nella repressione. Ma il regime ha fallito, perché non è riuscito a schiacciare l’opposizione. Continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri degli assassinati che reclamano giustizia, dei giornalisti che cercano di garantire la libertà di stampa. La mia decisione di tornare è per appoggiare la loro lotta.

Proteste anti-governative a Managua, Nicaragua.

A luglio la Rivoluzione sandinista ha celebrato i suoi 40 anni. Immaginava nel 1979 che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere? 
La rivoluzione, con il rovesciamento di Somoza, fu un momento di speranza in un cambio profondo. Ma in seguito ha generato i suoi demoni. Il Paese ha vissuto grandi trasformazioni, ma la guerra civile ha causato ferite profonde. La rivoluzione si concluse nel febbraio 1990, con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista che da allora entrò in crisi. Ci fu un tentativo di democratizzazione con la creazione del Movimento rinnovatore sandinista che cercò e che cerca ancora di essere un partito di sinistra democratica.

Cosa non ha funzionato?
Ortega ha monopolizzato i simboli e le bandiere della rivoluzione. E quando è tornato al potere, nel 2007, ha dato vita a un governo autoritario, neoliberale, sfociato in una dittatura sanguinaria. Come avremmo potuto prevedere che un rivoluzionario che aveva contributo a sconfiggere Somoza si sarebbe trasformato in un dittatore? È qualcosa che supera ogni immaginazione.

Daniel Ortega con la moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

Lei era uno stretto collaborare di Ortega. Riesce a spiegare i motivi profondi di questa trasformazione?
Ortega non era il solo leader del Fronte sandinista, è uno Stalin tropicale, assolutamente incapace di ogni autocritica, e completamente manipolato dalla moglie, vicepresidente. Ormai la gente non parla più di Ortega, ma di Ortega e Murillo: gli Ormu. Un duo indissolubile che si aggrappa disperatamente al potere, sono una coppia che è peggio di quella di House of Cards

Eppure la storia insegna che a ogni rivoluzione segue un “Terrore”. Davvero non era prevedibile anche in Nicaragua?
Forse abbiamo sofferto la carenza di cultura democratica a causa del cosiddetto caudillismo latinoamericano. Ortega non è stato l’unico ad avere intrapreso un percorso del genere. Credo che il peccato originale della rivoluzione sia stato non aver sottoposto il potere al controllo dei cittadini. Ne è derivato un regime assoluto non solo di un partito, ma di una famiglia. Esattamente come era accaduto con Somoza.

Tutta l’America Latina in questo momento si sta infiammando. Cosa accade?
Sono movimenti spesso imprevedibili come nel caso cileno. Fenomeni con dinamiche e soggetti differenti. In alcuni casi si protesta per la mancanza di opportunità, per la mancanza di equità, per la mancanza di partecipazione politica. In altri contro brogli elettorali, come in Bolivia. Ma il mondo di Ortega è chiuso tra Caracas e L’Avana. Le dimissioni e la fuga di Evo Morales, secondo l’analisi del regime, sono solo il frutto di un complotto. La soluzione è semplice: aumentare la repressione.

Dopo l’assedio della cattedrale di Managua, i paramilitari hanno circondato una chiesa di San Miguel a Masaya dove un sacerdote e 13 madri di detenuti politici erano in sciopero della fame.
E dire che quando Ortega cominciò la campagna per tornare al potere, tra il 2003 e il 2004, chiese pubblicamente perdono per gli errori della rivoluzione sandinista e gli abusi contro la Chiesa. Con la crisi del regime, si era rivolto ai vescovi per instaurare un dialogo nazionale, visto che erano gli unici a godere del rispetto e della fiducia della popolazione. Ma quando il tentativo è fallito Ortega non ci ha pensato due volte e ha cominciato ad attaccare chiese e prelati. Adesso si assiste a una nuova escalation perché la Chiesa continua a stare a fianco delle vittime del regime. Ciò che è accaduto nella chiesa di San Miguel dimostra che il regime è in fase terminale ed è quindi più pericoloso. Attaccando la Chiesa, Ortega si sta tagliando tutte le possibili vie di fuga.


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