La Libia non è un porto sicuro e Sarraj vuole armi

L'allarme dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite: «Tra gennaio e novembre, oltre 8.600 migranti sono stati intercettati in mare dalla Guardia costiera e riportati indietro dove sono vittime di violenze e abusi». Intanto il premier ricorda la sua richiesta: «Da Roma nessuna risposta ufficiale»

Nel giorno in cui le Nazioni Unite ricordano che la Libia non è un porto sicuro, il primo ministro Fayez Sarraj sottolinea di averci chiesto armi per la guerra di Tripoli.

QUEGLI 8.600 RIPORTATI IN LIBIA

Il 23 dicembre in una nota l ‘Alto Commissariato dell’Onu per i diritti Umani (Ohchr) ha lanciato l’allarme: «Tra gennaio e novembre, oltre 8.600 migranti sono stati intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e riportati in Libia, che ovviamente non può essere considerato in nessun modo come un porto sicuro per lo sbarco». «Migranti e rifugiati in Libia «continuano a essere regolarmente sottoposti a violazioni e abusi tra cui uccisioni extragiudiziali e arbitrarie, detenzione arbitraria, sparizioni forzate, torture, violenza sessuale e di genere, rapimento per riscatto, estorsione e lavoro forzato da parte di funzionari statali, trafficanti e trafficanti », denuncia l’Onu.

SARRAJ CHIAMA L’ITALIA NON RISPONDE

Intanto il premier libico Fayez Sarraj intervistato dal Corriere della Sera ha dichiarato: «Noi avevamo chiesto le armi a tanti Paesi, inclusa l‘Italia, che pure ha diritto di scegliere la politica che più le aggrada e con cui i rapporti restano comunque ottimi. Da Roma, in verità, non sono mai giunte risposte ufficiali». «Con Di Maio – spiega Sarraj – abbiamo avuto un ricco scambio d’opinioni. Quanto invece alla sua tappa a Bengasi dal nostro aggressore (il generale Haftar, ndr) e Tobruk non ho visto alcuna sostanza, oltre a generiche dichiarazioni di amicizia che lasciano il tempo che trovano. Così, la comunità internazionale risulta divisa. Da una parte i Paesi disposti ad armare i nostri avversari-aggressori. A loro – prosegue – si contrappongono altri Paesi, tra cui l’Italia, che credono tutt’ora alla formula per cui l’unica soluzione resta il dialogo politico». «Ma si tenga a mente – sottolinea – che qui siamo sotto attacco militare, con sofferenze indicibili per la popolazione vittima di bombardamenti, morti, feriti, con centinaia di migliaia di sfollati».

TRA PUTIN, ERDOGAN, GLI USA E LA GERMANIA

Alla domanda se alla fine saranno Putin ed Erdogan a dettare le regole del gioco, risponde: «È uno scenario difficile, reso ancora più complesso dagli interventi stranieri. Non credo però che l’intera questione possa venire risolta solo dai colloqui tra Putin ed Erdogan. È un processo caratterizzato da continui contatti bilaterali e multilaterali, in cui non mancano le voci degli Stati Uniti, della Germania impegnata con l’Onu a preparare la conferenza di Berlino e degli altri partner europei. Il nostro aggressore ha già fallito. Al momento del suo improvviso attacco il 4 aprile diceva che avrebbe preso Tripoli entro 48 ore. Nove mesi dopo la guerra continua»

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