Poche persone disabili assunte, l’ultimo spreco italiano

Nonostante gli obblighi di legge, ci sono 145 mila posti vacanti per le categorie protette. Eppure gli iscritti alle liste di collocamento mirato sono 775 mila. Ci rimettono la società e le aziende. Ma non ci stancheremo di proporre le nostre competenze nel mercato del lavoro.

Hollie-Ann Brooks, giornalista inglese con disabilità, si è scagliata contro le dichiarazioni di Sally-Ann Hart, candidata conservatrice alle elezioni nel Regno Unito, che, se reffettivamente rilasciate, sarebbero false e molto discriminatorie.

PREGIUDIZI CHE OSTACOLANO IL DIRITTO AL LAVORO

La rappresentante politica avrebbe infatti detto che il salario minimo non dovrebbe essere applicato ai lavoratori con disabilità cognitive perché «non capiscono il valore dei soldi». Che abbia pronunciato queste parole è verosimile, cioè è un esempio dei pregiudizi che ancora ostacolano il diritto al lavoro di tante persone disabili.

STEREOTIPI E DISCRIMINAZIONI IN ITALIA

Ma i nostri compagni inglesi non sono gli unici a dover combattere la discriminazione sul mercato del lavoro. Anche in Italia ci difendiamo bene in quanto a stereotipi che, ahinoi, hanno ripercussioni concrete sulle nostre carriere professionali e chi ancora non ci crede può leggere questa interessante ricerca promossa dalla Fondazione studi consulenti del lavoro (qui un riassunto).

DATI SCONCERTANTI SUGLI OCCUPATI

Al di là dell’esiguo numero dei lavoratori disabili assunti dalle aziende, delle disparità di genere, regionali e intergenerazionali – tutte informazioni già note – ciò che mi ha colpito maggiormente riguarda i posti di lavoro riservati alle persone con disabilità ma ancora vacanti. Sono 145 mila a fronte di solo 360 mila lavoratori disabili occupati dichiarati dalle aziende. Il dato è sconcertante se si pensa che il numero di iscritti alle liste di collocamento mirato, secondo i ricercatori, ammonta a 775 mila ed è in continuo aumento.

EPPURE CI SONO LEGGI CHE TUTELANO LA CATEGORIA

Quasi la metà delle ditte tenute ad adempiere agli obblighi di legge in materia di assunzioni di lavoratori appartenenti alle categorie protette non li rispettano o lo fanno solo parzialmente. Eppure in Italia esistono buone leggi che tutelano il diritto al lavoro delle persone disabili, in primis la 68/99. Come mai non riusciamo a farla rispettare?

IL (BASSO) RISCHIO DI SANZIONI NON BASTA

I datori di lavoro preferiscono incorrere nel rischio delle sanzioni previste per chi viola la normativa piuttosto che mettersi in regola. Probabilmente questo succede anche perché sanno che il pericolo di subire dei controlli è molto basso a causa della scarsità del personale deputato a fare gli accertamenti e degli strumenti necessari per effettuare le verifiche. A loro quindi conviene correre il basso rischio di essere sanzionati piuttosto che assumere un lavoratore ipoteticamente meno produttivo dei suoi colleghi “abili” ed essere magari pure costretti a investire denaro per rendere accessibile il luogo di lavoro.

SINTOMO DI ARRETRATEZZA CULTURALE

Ennesima dimostrazione di come un sistema basato sulle sanzioni sia fallimentare. Far leva solo sugli obblighi di legge e sul denaro – inteso sia in termini di contravvenzioni per chi commette infrazioni sia come incentivi destinati a chi assume – significa agire solo sul piano legale ed economico. Questo è un errore perché l’elevatissimo tasso di disoccupazione delle persone con disabilità è soprattutto conseguenza dell’imperdonabile arretratezza culturale e socio-politica di cui sono intrise le teorie di senso comune rispetto al valore (o piuttosto disvalore) di questi lavoratori.

PERSA L’OPPORTUNITÀ DI AVERE UNA RISORSA IN PIÙ

Le leggi sono necessarie ma devono essere accompagnate, se non addirittura precedute, dal contrasto del pregiudizio secondo cui le persone disabili non sono idonee per il mercato del lavoro. Questa teoria ormai vecchia e soprattutto falsa dovrebbe essere definitivamente sepolta e invece persiste nella mentalità comune, provocando danni sia alle persone con disabilità, a cui viene negato il diritto/dovere di lavorare, sia ai datori di lavoro che perdono l’opportunità di una risorsa in più nella squadra.

RICCHEZZA POTENZIALE NON SFRUTTATA

L’omologazione dei tempi e delle modalità di produzione non c’entra proprio niente con l’enorme varietà della specie umana e le differenze individuali che ciascuno può apportare all’interno di un team sono un’enorme ricchezza potenziale che consentirebbe a tutti, se venisse adeguatamente sfruttata, di essere più efficaci ed efficienti.

LO SMART WORKING PUÒ AIUTARE

Inoltre le migliorie nell’organizzazione aziendale utili ad alcuni specifici lavoratori potrebbero rivelarsi soluzioni ottimali anche per altri. Non mi riferisco solo agli adattamenti dell’ambiente fisico di lavoro, ma anche a modalità di esercitare la propria professione che stanno prendendo piede, ancora troppo lentamente, in questi ultimi anni. Il telelavoro o lo smart working sono degli esempi di come si possa lavorare dalla propria abitazione o in un luogo diverso dalla sede aziendale.

ALTERNATIVE CONTRO LE BARRIERE ARCHITETTONICHE

Potrebbero costituire delle valide alternative non solo per chi è impossibilitato a presentarsi nella sede della propria impresa a causa delle barriere architettoniche presenti o, per ipotesi, per via di particolari condizioni di salute. Anche altre categorie di lavoratori ne trarrebbero vantaggio: per esempio chi ha figli piccoli o coloro che abitano distanti dalla sede. Anche i datori di lavoro ne guadagnerebbero perché aumentare la qualità della vita dei propri dipendenti significa metterli nella condizione di produrre di più e soprattutto meglio.

MA NON CI STANCHEREMO DI PROPORRE LE NOSTRE COMPETENZE

Nonostante queste considerazioni mi paiano ovvietà l’Italia è ultima in Europa sia rispetto al lavoro da casa sia relativamente allo smart working, ossia la possibilità di esercitare la propria professione ovunque. Il panorama italiano è quindi in generale molto desolante, ma noi possiamo nel nostro piccolo cercare di contrastare il senso comune non stancandoci di proporre le nostre competenze all’interno del mercato del lavoro e facendo conoscere tutte quelle realtà – e non sono poche – che credono nel nostro valore come lavoratori.

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