Perché Trump e il Congresso Usa non sono allineati su Hong Kong

Da una parte, lo schiaffo del Senato alla Cina. Dall'altra, la cautela del presidente. Che teme la polarizzazione dello scontro. E vuole tener fede alla propria retorica sovranista. v

Schiaffo del Congresso americano alla Cina. Il Senato ha approvato un disegno di legge a favore dei dimostranti di Hong Kong, spingendo così la Casa Bianca a imporre delle sanzioni ai funzionari del governo cinese che violino i diritti umani. Il testo prevede, tra l’altro, che venga elaborata una strategia per tutelare i cittadini statunitensi nell’ex colonia britannica. «Il Senato degli Stati Uniti ha preso una posizione a sostegno del popolo di Hong Kong», ha affermato il senatore repubblicano Jim Risch in un comunicato. «Approvare questo disegno di legge è un importante passo avanti nel ritenere il Partito comunista cinese responsabile della sua erosione dell’autonomia di Hong Kong e della sua repressione delle libertà fondamentali». Parole condivise anche dal collega democratico, Ben Cardin.

Durissima la reazione di Pechino, con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che ha sostenuto che la norma «viola gravemente il diritto internazionale e le leggi basilari che regolano i rapporti internazionali. La Cina lo condanna e si oppone fermamente». Lo scorso ottobre, la Camera dei Rappresentanti aveva già approvato un provvedimento simile a larghissima maggioranza. I due rami del Congresso dovranno quindi ora ratificare un testo comune da inviare a Donald Trump, il quale dovrà a sua volta decidere se concedere la propria firma o porre il veto.

LA SVOLTA DEL 2008 NEI RAPPORTI CON LA CINA

Che il Campidoglio fosse abbastanza agguerrito nei confronti di Pechino sulla questione di Hong Kong non è del resto esattamente una novità: a partire da alcuni settori del Partito Repubblicano, che vedono nella Repubblica Popolare un crescente pericolo. Si tratta d’altronde di una linea che non nasce oggi ma che affonda, se vogliamo, le proprie radici soprattutto nella crisi economica del 2008. Sino ad allora, i repubblicani avevano mantenuto un atteggiamento relativamente aperto nei confronti della Cina, soprattutto in ossequio a logiche economiche energicamente liberoscambiste. E, in tal senso, avevano in gran parte spalleggiato a livello parlamentare la politica di amichevolezza commerciale condotta negli Anni 90 dall’allora presidente democratico, Bill Clinton. Beninteso, questo non vuol dire che non si siano verificati anche attriti (basti pensare al delicato dossier di Taiwan). Ma, in generale, l’Elefantino tendeva a mostrare un atteggiamento di apertura.

LA LINEA DURA DEL PARTITO REPUBBLICANO

A seguito della recessione, la situazione è mutata, con molti repubblicani che hanno iniziato a vedere nella Cina un pericoloso concorrente sul piano geopolitico, militare ed economico. In particolare, negli ultimissimi anni, a risultare decisamente attivi nella linea dura contro Pechino si sono rivelati i senatori repubblicani Ted Cruz, Tom Cotton e Marco Rubio. Proprio quest’ultimo è stato del resto tra i principali promotori dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, approvato al Senato.

Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta

A fronte di questa postura non poco assertiva da parte del Congresso, la Casa Bianca ha finora scelto una linea molto più cauta. Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta. Pur sostenendo di non escludere alcuna opzione (soprattutto qualora la Cina ricorresse all’intervento dell’esercito), il capo del Dipartimento di Stato ha tuttavia affermato di voler tutelare il principio “un Paese, due sistemi”. Trump teme d’altronde che un’eccessiva sottolineatura della questione dei diritti umani possa portare a una polarizzazione dello scontro tra Washington e Pechino. Senza poi contare che un intervento diretto sul dossier di Hong Kong rischierebbe per così dire di inficiare la sua dottrina di politica estera: una dottrina che ha sempre trovato il proprio centro gravitazionale nella difesa e nel rispetto del principio di sovranità nazionale.

I TIMORI DI TRUMP E L’IMPASSE DEL 1989

Pur condividendo con i senatori repubblicani preoccupazione e ostilità nei confronti di Pechino, l’inquilino della Casa Bianca è rimasto finora convinto che la leva principale da usare nel confronto con la Cina debba infatti essere quella della pressione commerciale. In altre parole, nella sua ottica realista, Trump teme che una battaglia in gran parte incentrata sui diritti umani rischi di far deragliare completamente le relazioni con la Repubblica Popolare. Il presidente americano potrebbe quindi dover affrontare un’impasse simile a quella in cui si ritrovò George H. W. Bush nel 1989, ai tempi delle proteste di Piazza Tienanmen, quando – come racconta Henry Kissinger nel suo libro On China – dovette barcamenarsi tra le esigenze del realismo geopolitico e le istanze di chi – soprattutto al Congresso – invocava la linea dura contro Pechino.

trump xi jinping
I presidenti di Cina e Usa, Xi Jinping e Donald Trump.

Tutto questo non deve comunque portare automaticamente a ritenere che il realismo politico equivalga ipso facto a un disinteresse nei confronti dei manifestanti dell’ex colonia britannica. L’estate scorsa, l’inquilino della Casa Bianca ha infatti vincolato i progressi nelle trattative commerciali anche alle reazioni del governo cinese verso i dimostranti. Sotto questo aspetto, non bisogna trascurare un elemento importante. La guerra dei dazi in corso tra Washington e Pechino ha determinato duri contraccolpi per entrambi i Paesi: se gli Stati Uniti stanno soffrendo soprattutto nel settore agricolo, la Cina ha riscontrato forti problemi nel manifatturiero. Il punto è che, a causa di queste tensioni commerciali, la Repubblica Popolare sta iniziando a dover affrontare anche questioni legate alla disoccupazione e a un welfare state in affanno: due fattori, questi ultimi, che rischiano di produrre serie conseguenze anche sul piano della politica interna cinese.

LE DIFFICOLTÀ DI XI E IL BIVIO DI DONALD

Tutto ciò evidenzia come, quello attuale, non possa esattamente definirsi un periodo felice per il presidente Xi Jinping: se i fatti di Hong Kong lo hanno posto sotto i riflettori di una sempre più critica opinione pubblica internazionale, le tensioni commerciali con Washington possono determinare un’erosione del suo potere interno. Trump, dal canto suo, è chiamato a scegliere quale strategia adottare. Rompere con il Congresso (come accaduto sullo Yemen). Oppure cercare un’articolata coordinazione, che permetta agli Stati Uniti di portare compattamente avanti il confronto con Pechino, pur su piani differenti.

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