L’uccisione di Soleimani è un colpo al riformismo iraniano

L'attacco degli Usa spinge ulteriormente il Paese tra le braccia dei Pasdaran. Anche in vista delle elezioni per il rinnovo del parlamento. Dallo stretto di Hormuz all'Iraq: le possibili risposte di Teheran.

«Esportare la rivoluzione islamica ovunque, passando per Baghdad»: Qassem Soleimaini è, era, l’incarnazione di questa formidabile consegna, di questo ordine imperativo dell’ayatollah Khomeini del 1982. Le strategie di Soleimaini , la sua tattica, la sua rete personale di relazioni internazionali -a iniziare da un rapporto strettissimo con Vladimir Putin– si sintetizzano in quella consegna. E i suoi successi nell’allargare a tutto il Medio Oriente l’influsso e l’egemonia rivoluzionaria del khomeinismo, dal Mediterraneo sino ai confini del Pakistan sono stati enormi. Da quella consegna bisogna dunque ora partire per tracciare i possibili scenari della obbligata risposta iraniana alla sua clamorosa, geometrica, esecuzione.

A partire da un dato di fatto: l’Iran degli ayatollah, del “clero combattente”, l’Iran di quei Pasdaran che controllano direttamente il 40% dell’economia iraniana, è tenuto ora, innanzitutto di fronte a se stesso, a dare una risposta all’altezza dell’affronto, del danno immenso che ha subito. Deve dimostrare che l’atto di potenza -di onnipotenza- inferto dal “diavolo americano” sarà punito con pari o maggiore danno. E proprio Soleimaini ha messo a punto un formidabile dispiegamento di forza militare perfettamente adeguato a questa risposta, che può colpire da più fronti. Può colpire Israele con il lancio dei 15 mila missili a corto-medio raggio installati dai Pasdaran in Siria. Può bloccare -tentare di bloccare – con gli insidiosi barchini d’attacco lo stretto di Hormuz, la giugulare da cui passa il 40% del petrolio (anche saudita) del pianeta. Può incendiare con la Jihad islamica, al diretto comando di Teheran, il fronte di Gaza. Può rendere caldo, rovente, il confine tra Libano e Israele. Può infine, ma non per ultimo, anzi, continuare a sviluppare l’ultima strategia messa in atto da Soleimaini, che ha diretto e ordinato non a caso il recentissimo assalto all’ambasciata americana a Baghdad.

UNA ESCALATION ANNUNCIATA

Colpire dove si è stati colpiti è quasi una scelta obbligata e la crisi politica innescata dalle enormi manifestazioni anti sciite e anti iraniane delle ultime settimane in tutto l’Iraq offre ora a Teheran e ai Pasdaran l’occasione per perseguire due obiettivi contemporanei in quell’Iraq che Soleimaini considerava una provincia iraniana: vendicarsi dell’affronto subito colpendo duramente i militari americani -e i civili- sul suolo iracheno e contemporaneamente ribadire il comando politico assoluto e rigido della rivoluzione sciita sui destini di Baghdad, dell’Iraq. Le prossime ore saranno dunque cruciali in Iraq, come hanno ben compreso i vertici militari Usa che hanno deciso l’escalation dell’esecuzione di Soleimaini ben consci dell’enorme offesa inferta e quindi della certezza di una risposta iraniana simmetrica e parimenti -se non di più- violenta.

A Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla

Rimane lo stupore per l’assenso pieno dato da Donald Trump a questa mossa che ha una sola risposta logica -ammesso che Trump abbia una logica- nella scelta a freddo di sviluppare una campagna presidenziale all’insegna non più del rigido disimpegno militare all’estero sinora perseguito, ma del suo opposto, della risposta dura agli altrettanti duri attacchi degli ayatollah. Di un nuovo, intenso, impegno militare bellico degli Usa in Medio Oriente. Sia come sia, a Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla. Ma l’esecuzione di Soleimaini ha anche un risvolto immediato nella scena interna dell’Iran.

Qassem Soleimani.

Soleimaini infatti dentro i confini iraniani era il simbolo di quel assetto di “un Paese, due sistemi” che l’ayatollah Khomeini ha costruito ben prima di Deng Tsiao Ping in Cina. L’Iran infatti si regge sull’equilibrio tra due missioni: la prima, la più importante e strategica è, appunto, “esportare la rivoluzione islamica”. La seconda missione, parallela e subordinata alla prima e che con quella non deve interferire, è l’amministrazione di una normale politica interna basata sul welfare Islamico: la distribuzione immediata dei proventi del petrolio, sotto forma di reddito personale, a decine di milioni di iraniani. Le elezioni politiche e presidenziali iraniane riguardavano e riguardano solo il secondo ambito, tanto che spesso è stato possibile avere presidenti soi distant “riformisti”. Ma la strategia di fondo del regime iraniano era ed è “esportare la rivoluzione”, a Teheran non si è mai parlato di “rivoluzione in un Paese solo”. Per gli ayatollah messianici figli di Khomeini sarebbe un controsenso, un tradimento.

VERSO LE ELEZIONI LEGISLATIVE

Soleimaini era appunto il leader indiscusso e onnipossente della applicazione di questa strategia a cui tutto il “sistema Paese” iraniano è stato piegato; basti pensare che si calcola che le campagne dei Pasdaran in Iraq, Siria, Yemen, Libano e Gaza siano costate negli ultimi cinque anni non meno di 10 miliardi di dollari. Per questo è stata feroce nelle ultime settimane la repressione, sempre ad opera dei Pasdaran, delle enormi manifestazioni popolari che hanno scosso tutto l’Iran, che protestavano appunto contro gli enormi costi di quella “esportazione della rivoluzione”. Ora, con il Paese in guerra virtuale e materiale contro gli Usa, lo spazio politico per le proteste popolari iraniane si chiude. E questa chiusura si riverbererà sulle imminenti elezioni per il rinnovo del Majlis, il parlamento di Teheran. C’è da scommettere quindi che si imporranno i candidati legati ai Pasdaran (anche perché ad altri verrà semplicemente impedito di correre). Nel nome appunto del “martire” Qassem Soleimaini. Solo l’Europa continuerà a perdersi nell’illusione di un percorso riformista dell’Iran rivoluzionario. Questa illusione è ormai preclusa al popolo iraniano.

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