Com’è fatto il drone che ha ucciso Soleimani

Il velivolo, un MQ-9 Reaper, ha un'apertura alare di oltre 20 metri e supera i 400 km orari di velocità. È stato assistito da un MQ-1C Grey Eagle.

Con una gittata di 1.800 chilometri e la possibilità di raggiungere i 15 mila metri di altitudine l’MQ-9 Reaper, originariamente conosciuto come Predator B, è un drone sviluppato dalla statunitense General Atomics Aeronautical Systems (GA-ASI). È stato un velivolo di questo tipo, coadiuvato da un altro della stessa famiglia di Predator, a sparare quattro missili contro i due Suv su cui viaggiavano il generale iraniano Qassem Soleimani e altri alti ufficiali, da poco atterrati all’aeroporto internazionale di Baghdad con un volo di linea proveniente da Damasco.

Il drone – che costa circa dieci milioni di dollari, sensori compresi – è in dotazione da circa dieci anni anche all’Aeronautica Militare italiana, che lo usa disarmato, per compiti di sorveglianza e ricognizione. Uno di questi esemplari, utilizzato per la missione Mare Sicuro e appartenente al Gruppo velivoli teleguidati del 32/o Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Foggia), è precipitato lo scorso novembre in Libia per cause ancora non chiarite.

Questo tipo di drone, come si legge sul sito ufficiale dell’Aeronautica statunitense, è specializzato nel condurre offensive mirate, contro target specifici. Il primo prototipo si è alzato in volo nel 2001. «Data la sua lunga autonomia, i sensori a largo raggio, le componenti di comunicazione e le armi di precisione – spiega il sito – fornisce una capacità unica di eseguire attacchi contro obiettivi di alto valore». Ma l’aereo, con un’apertura alare di oltre 20 metri e una velocità superiore ai 400 km orari, garantisce elevate prestazioni anche nelle operazioni di pattugliamento, ricerca e soccorso, così come in quelle di intelligence, sorveglianza, acquisizione di bersagli e ricognizione.

Nell’attacco condotto contro il generale Soleimani, è stato coadiuvato anche da un altro drone, l’MQ-1C Grey Eagle, anch’esso facente parte del sistema Predator, che è composto essenzialmente da tre elementi: il velivolo; la stazione di controllo a terra, una vera e propria cabina di pilotaggio che grazie ad un collegamento satellitare può guidare l’aereo durante le operazioni anche a centinaia di chilometri di distanza; una stazione di raccolta dati, dove vengono analizzate in tempo reale le immagini ricevute dal velivolo e, attraverso un nodo di telecomunicazioni, ritrasmesse alle unità operative. È

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

I rischi per i militari italiani all’estero dopo l’uccisione di Soleimani

Basi blindate e spostamenti limitati. Anche in patria innalzato il livello di vigilanza.

Il raid Usa in cui è rimasto ucciso il generale Qassem Soleimani espone a rischio anche i militari italiani schierati nelle aree in cui l’Iran potrebbe attuare la sua ritorsione e la Difesa innalza ovunque le misure di sicurezza dei contingenti, blindando le basi e limitando al minimo gli spostamenti. La decisione è dello stesso ministro Lorenzo Guerini, che da subito dopo l’attacco americano è in contatto continuo con il Coi, la struttura che gestisce tutte le operazioni fuori area, e con gli organismi di intelligence.

In queste ore l’allerta è ai massimi livelli. Anche per quanto riguarda il fronte interno, la vigilanza è altissima. Non vengono segnalate minacce specifiche, ma sono stati potenziati alcuni servizi di controllo, in particolare quelli su siti riconducibili agli interessi americani e iraniani in Italia, come le rappresentanze diplomatiche o le sedi delle compagnie aeree.

Il presidente del Copasir Raffaele Volpi si accinge a convocare i vertici dei servizi segreti per avere un quadro aggiornato della situazione. Le ragioni dei rischi cui è esposta l’Italia, li spiega il generale Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore della Difesa e dell’Aeronautica, un ufficiale che di crisi internazionali ne ha viste parecchie. “Per la prima volta – afferma il generale – target dei raid Usa è stato non un ‘semplice’ terrorista, ma ma un personaggio politico di altissimo spessore. Ed avere attaccato il livello politico dell’avversario vuol dire avere innalzato l’escalation ad un gradino dove non si era mai arrivati prima. E’ stata varcata la linea rossa e non sappiamo cosa c’è dietro”.

Secondo Camporini “è difficile dire cosa succederà ora, ma di sicuro l’Iran dovrà reagire, non può perdere la faccia. In che modo? Nei confronti delle truppe americane sul terreno, forse, ma le truppe Usa sono modeste. Oppure contro Israele, che è il principale alleato degli Stati Uniti nell’area. A questo riguardo ricordiamo che in Libano la situazione politica è a dir poco confusa, gli Hezbollah sono filo iraniani ed è ipotizzabile una ritorsione contro Israele che passa attraverso la ‘Linea blu’, dove sono schierati 12.000 uomini delle Nazioni unite e un migliaio di italiani che hanno il comando della missione. E poi non dimentichiamo che abbiamo 800 addestratori proprio in Iraq e 300 militari in Libia, dove c’è un nostro ospedale”.

Un altro generale, Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della Fondazione Icsa, condivide le preoccupazioni di Camporini. “Gli Usa con l’uccisione del generale Soleimani – afferma – hanno colpito un’icona, il simbolo della forza al servizio della teocrazia nata dalla rivoluzione. E’ uno step fondamentale e preoccupante di una escalation che dura da tempo e che si inserisce in un quadro già esplosivo con sullo sfondo la lotta secolare tra Iran ed Arabia Saudita, sciiti e sunniti”. “Si tratta – aggiunge – di un’ulteriore dissennata destabilizzazione dagli esiti incerti e senza apparente logica. Rabbia ed odio potrebbero essere difficilmente gestibili e le reazioni potrebbero essere di natura e dimensioni imprevedibili, anche per il nostro Paese”.

Al Coi, il Comando operativo di vertice interforze, cioè la struttura della Difesa che gestisce tutte le operazioni italiane all’estero, c’è un filo diretto con i contingenti potenzialmente più esposti. Subito dopo l’attacco è stato fatto un punto di situazione con il ministro Guerini e con il capo di Stato maggiore della Difesa, Enzo Vecciarelli, che si è concluso con la decisione di innalzare ovunque le misure di sicurezza e di limitare al minimo gli spostamenti al di fuori delle basi.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Perché l’uccisione di Soleimani è un boomerang per gli Usa

Il generale era l’architetto degli equilibri in Libano, Iraq e Siria. E aveva trattato più volte con gli americani. Senza di lui in Iran e nella regione avranno mano libera gli ultraconservatori. Un rischio enorme, anche per i contingenti occidentali. Intervista a Nicola Pedde.

Un colpo grosso per le Presidenziali Usa del 2020, ma ben presto un altro boomerang in Medio Oriente per gli americani. L’omicidio mirato del generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq, da parte delle forze statunitensi che per decenni avevano negoziato (non solamente sull’Iraq) con lo stratega e comandante dei pasdaran, è per Donald Trump l’ultimo asso da calare nella campagna elettorale. «L’operazione può portare internamente dei vantaggi agli Stati Uniti, ma solo a breve termine e in particolar modo al presidente americano» spiega a Lettera43.it il direttore dell’Institute of global studies (Igs) Nicola Pedde, a lungo capo-analista della Difesa e tra i più profondi conoscitori dell’Iran

ASSIST AGLI ULTRACONSERVATORI

Per il resto la decapitazione dei vertici delle milizie sciite irachene, e prima di tutto l’uccisione della mente iraniana dietro le forze sciite sparse dal 1979 in Medio Oriente, crea – in un momento di grave vuoto politico a Baghdad – un vuoto organizzativo e militare «subito colmato da Teheran con un comandante più allineato con i vertici ultraconservatori dei pasdaran». A dispetto della retorica sull’ineffabile comandante che tutto o quasi poteva in Medio Oriente, «Soleimani era un pragmatico, non certo un radicale, abituato a trattare anche con gli Stati Uniti», precisa Pedde. Cade con lui un’architrave, a garanzia della «tenuta di Paesi chiave in Medio Oriente come l’Iraq e il Libano dove operano importanti contingenti italiani».

Iraq Iran morte Soleimani Usa Trump guerra
L’Iran sciita a lutto per la morte del generale Soleimani. GETTY.

DOMANDA. Soleimani, dal 1998 a capo delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione (pasdaran) è stato ucciso dopo una lunga coabitazione tra americani e iraniani in Iraq, i governi sciiti di Baghdad erano appoggiati da entrambi. Un atto di guerra di Trump?
RISPOSTA. La conseguenza è quella. Anche se certo l’Iran non potrà vendicarsi con un’aggressione diretta. Bensì con una guerra asimmetrica con gli Stati Uniti e con i suoi alleati regionali, radicalizzando ancor di più la contrapposizione. Così monterà l’antiamericanismo nel modo più violento possibile, e salterà la tenuta del Medio Oriente.

L’Iraq ha un premier dimissionario per le proteste popolari, esplose anche contro il legame politico e militare soffocante con Teheran. Trump avrà forse cercato di approfittare del momento di debolezza dell’Iran, per spezzare il predominio sciita nell’era post-Saddam.
Ma otterrà l’esatto opposto. Soleimani aveva costruito degli equilibri regionali non solo combattendo, ma trattando più volte anche con gli americani. Non era un estremista e non la pensava sempre come gli altri vertici dei pasdaran. La sua morte dà un grande vantaggio agli ultra-conservatori iraniani: tra i Guardiani della rivoluzione si consoliderà la loro linea, annullando ogni possibilità di dialogo.

All’azzardo di Trump ha contribuito l’escalation dell’ambasciata americana in Iraq, di regia iraniana?
Il climax di questi giorni a Baghdad, nel crescendo di ostilità riaperte dalla Casa Bianca con l’Iran, ha favorito il raid contro Soleimani. Che, attenzione, serve anche come vittoria mediatica per l’imminente campagna presidenziale di Trump. Internamente, come in Iran, il colpo porta vantaggi a Trump in risposta anche all’impeachment. Ma solo a breve termine.

La radicalizzazione andrà di pari passo con l’antiamericanismo, non solo in Iraq

Come nel 2003 contro Saddam Hussein, gli Stati Uniti seminano instabilità. Tanto più in territori appena liberati dai terroristi islamici, con pericolosi vuoti di potere e popolazioni martoriate.
Senza Soleimani si apre un vaso di Pandora in tutto il Medio Oriente, con rischi enormi. Intanto in Iraq l’uccisione nel raid anche di Abu Mahdi al Muhandis, leader degli Hezbollah iracheni, fa saltare la convivenza tra i militari americani e le milizie filo-iraniane. Quest’evoluzione pericolosissima trasforma la sicurezza irachena e più in generale la politica irachena.

GLI ITALIANI IN LIBANO

I contingenti Usa sono ormai sotto attacco anche delle milizie sciite, parte integrante della Difesa irachena,  che avevano lottato con loro contro l’Isis. Aumenteranno? L’Iraq si incendierà?
La radicalizzazione andrà di pari passo con l’antiamericanismo, e non solo in Iraq. Le architetture del generale Soleimani, per esempio attraverso le milizie e il partito politico Hezbollah, erano erano diventate fondanti anche in Libano.

Dove si è aperta un’altra grave crisi politica, a ridosso di Israele e della Siria dove gli Hezbollah siriani e iracheni dell’Iran hanno riconquistato i territori dall’Isis…
Territori, dall’Iraq al Libano, dove anche l’Italia ha uomini sul terreno, con contingenti importanti. Per i quali, vista la situazione, sarebbe opportuno il governo si ponesse qualche domanda.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

La difesa di Salvini sul caso della nave Gregoretti

Il leader della Lega tira in ballo il ruolo del premier Conte e coinvolge pure i vescovi italiani. La Giunta del Senato deve decidere sull'autorizzazione a procedere per sequestro di persona.

Matteo Salvini si difende sul caso della nave Gregoretti, tenuta al largo dei porti italiani quando era ministro dell’Interno e che ha portato il leader della Lega a essere incriminato per sequestro di persona.

LEGGI ANCHE: Cosa può succedere a Salvini sul caso della nave Gregoretti

STAVOLTA LA GIUNTA POTREBBE DARE L’OK

L’autorizzazione a procedere da parte della Giunta per le immunità del Senato, venuto meno il sostegno a Salvini da parte del M5s, questa volta ha buone chance di essere concessa prima delle elezioni regionali in programma il 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Poi sarà l’Aula di Palazzo Madama ad avere l’ultima parola.

SALVINI RIVENDICA UNA GESTIONE COLLEGIALE

Salvini ha depositato in Giunta una memoria difensiva in cui cita tutti i colleghi del governo gialloverde coinvolti nella chiusura dei porti. Ci sono dichiarazioni pubbliche e interviste di Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio, ma il documento mette nel mirino soprattutto il premier Giuseppe Conte. Si legge infatti che «il 26 luglio 2019 la presidenza del Consiglio aveva inoltrato formale richiesta di redistribuzione di migranti ad altri Paesi europei». Il leader della Lega ha tirato in ballo pure i vescovi italiani, affermando che con la Cei era stato raggiunto un accordo per l’accoglienza dei naufraghi. «È dunque evidente come fosse il governo, in modo collegiale, a gestire tale attività», si legge ancora nella memoria difensiva.

AFFINITÀ E DIVERGENZE CON IL CASO DICIOTTI

Salvini, in sostanza, sostiene di aver agito nell’interesse dell’Italia, col pieno coinvolgimento di Palazzo Chigi e dei ministeri competenti, in modo perfettamente sovrapponibile a quanto accaduto per la nave Diciotti. Ma Conte e Di Maio sostengono che si tratti di due casi diversi, perché la decisione di lasciare la Gregoretti in mezzo al mare sarebbe stata presa in maniera autonoma dall’ex responsabile del Viminale.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

L’uccisione di Soleimani è un colpo al riformismo iraniano

L'attacco degli Usa spinge ulteriormente il Paese tra le braccia dei Pasdaran. Anche in vista delle elezioni per il rinnovo del parlamento. Dallo stretto di Hormuz all'Iraq: le possibili risposte di Teheran.

«Esportare la rivoluzione islamica ovunque, passando per Baghdad»: Qassem Soleimaini è, era, l’incarnazione di questa formidabile consegna, di questo ordine imperativo dell’ayatollah Khomeini del 1982. Le strategie di Soleimaini , la sua tattica, la sua rete personale di relazioni internazionali -a iniziare da un rapporto strettissimo con Vladimir Putin– si sintetizzano in quella consegna. E i suoi successi nell’allargare a tutto il Medio Oriente l’influsso e l’egemonia rivoluzionaria del khomeinismo, dal Mediterraneo sino ai confini del Pakistan sono stati enormi. Da quella consegna bisogna dunque ora partire per tracciare i possibili scenari della obbligata risposta iraniana alla sua clamorosa, geometrica, esecuzione.

A partire da un dato di fatto: l’Iran degli ayatollah, del “clero combattente”, l’Iran di quei Pasdaran che controllano direttamente il 40% dell’economia iraniana, è tenuto ora, innanzitutto di fronte a se stesso, a dare una risposta all’altezza dell’affronto, del danno immenso che ha subito. Deve dimostrare che l’atto di potenza -di onnipotenza- inferto dal “diavolo americano” sarà punito con pari o maggiore danno. E proprio Soleimaini ha messo a punto un formidabile dispiegamento di forza militare perfettamente adeguato a questa risposta, che può colpire da più fronti. Può colpire Israele con il lancio dei 15 mila missili a corto-medio raggio installati dai Pasdaran in Siria. Può bloccare -tentare di bloccare – con gli insidiosi barchini d’attacco lo stretto di Hormuz, la giugulare da cui passa il 40% del petrolio (anche saudita) del pianeta. Può incendiare con la Jihad islamica, al diretto comando di Teheran, il fronte di Gaza. Può rendere caldo, rovente, il confine tra Libano e Israele. Può infine, ma non per ultimo, anzi, continuare a sviluppare l’ultima strategia messa in atto da Soleimaini, che ha diretto e ordinato non a caso il recentissimo assalto all’ambasciata americana a Baghdad.

UNA ESCALATION ANNUNCIATA

Colpire dove si è stati colpiti è quasi una scelta obbligata e la crisi politica innescata dalle enormi manifestazioni anti sciite e anti iraniane delle ultime settimane in tutto l’Iraq offre ora a Teheran e ai Pasdaran l’occasione per perseguire due obiettivi contemporanei in quell’Iraq che Soleimaini considerava una provincia iraniana: vendicarsi dell’affronto subito colpendo duramente i militari americani -e i civili- sul suolo iracheno e contemporaneamente ribadire il comando politico assoluto e rigido della rivoluzione sciita sui destini di Baghdad, dell’Iraq. Le prossime ore saranno dunque cruciali in Iraq, come hanno ben compreso i vertici militari Usa che hanno deciso l’escalation dell’esecuzione di Soleimaini ben consci dell’enorme offesa inferta e quindi della certezza di una risposta iraniana simmetrica e parimenti -se non di più- violenta.

A Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla

Rimane lo stupore per l’assenso pieno dato da Donald Trump a questa mossa che ha una sola risposta logica -ammesso che Trump abbia una logica- nella scelta a freddo di sviluppare una campagna presidenziale all’insegna non più del rigido disimpegno militare all’estero sinora perseguito, ma del suo opposto, della risposta dura agli altrettanti duri attacchi degli ayatollah. Di un nuovo, intenso, impegno militare bellico degli Usa in Medio Oriente. Sia come sia, a Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla. Ma l’esecuzione di Soleimaini ha anche un risvolto immediato nella scena interna dell’Iran.

Qassem Soleimani.

Soleimaini infatti dentro i confini iraniani era il simbolo di quel assetto di “un Paese, due sistemi” che l’ayatollah Khomeini ha costruito ben prima di Deng Tsiao Ping in Cina. L’Iran infatti si regge sull’equilibrio tra due missioni: la prima, la più importante e strategica è, appunto, “esportare la rivoluzione islamica”. La seconda missione, parallela e subordinata alla prima e che con quella non deve interferire, è l’amministrazione di una normale politica interna basata sul welfare Islamico: la distribuzione immediata dei proventi del petrolio, sotto forma di reddito personale, a decine di milioni di iraniani. Le elezioni politiche e presidenziali iraniane riguardavano e riguardano solo il secondo ambito, tanto che spesso è stato possibile avere presidenti soi distant “riformisti”. Ma la strategia di fondo del regime iraniano era ed è “esportare la rivoluzione”, a Teheran non si è mai parlato di “rivoluzione in un Paese solo”. Per gli ayatollah messianici figli di Khomeini sarebbe un controsenso, un tradimento.

VERSO LE ELEZIONI LEGISLATIVE

Soleimaini era appunto il leader indiscusso e onnipossente della applicazione di questa strategia a cui tutto il “sistema Paese” iraniano è stato piegato; basti pensare che si calcola che le campagne dei Pasdaran in Iraq, Siria, Yemen, Libano e Gaza siano costate negli ultimi cinque anni non meno di 10 miliardi di dollari. Per questo è stata feroce nelle ultime settimane la repressione, sempre ad opera dei Pasdaran, delle enormi manifestazioni popolari che hanno scosso tutto l’Iran, che protestavano appunto contro gli enormi costi di quella “esportazione della rivoluzione”. Ora, con il Paese in guerra virtuale e materiale contro gli Usa, lo spazio politico per le proteste popolari iraniane si chiude. E questa chiusura si riverbererà sulle imminenti elezioni per il rinnovo del Majlis, il parlamento di Teheran. C’è da scommettere quindi che si imporranno i candidati legati ai Pasdaran (anche perché ad altri verrà semplicemente impedito di correre). Nel nome appunto del “martire” Qassem Soleimaini. Solo l’Europa continuerà a perdersi nell’illusione di un percorso riformista dell’Iran rivoluzionario. Questa illusione è ormai preclusa al popolo iraniano.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Passanti accoltellati nella città francese di Villejuif

L'aggressore, ucciso dalla polizia, mentre colpiva ha urlato «Allah Akbar!». Una vittima e due feriti gravi.

Nel parco della cittadina francese di Villejuif, comune alle porte di Parigi, un individuo non identificato ha accoltellato i passanti urlando «Allah Akbar!». L’uomo è poi fuggito in direzione di un vicino supermercato, ma è stato ucciso dalle forza di polizia. Il bilancio è pesante: una delle persone aggredite a colpi di coltello è morta, altre due sono rimaste ferite gravemente. Alcuni testimoni hanno detto ai media francesi che l’aggressore indossava una djellaba, abito tradizionale del Nord Africa, e che mentre colpiva avrebbe invocato Allah.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Chi è Esmail Qaani, il generale che sostituirà Qassem Soleimani

L'Iran ha nominato il nuovo capo delle forze Quds. Meno carismatico del predecessore, l'ufficiale può però contare sull'esperienza militare e sul supporto dell'ayatollah Khamenei.

Il generale Esmail Qaani è stato nominato dalla Guida suprema Ali Khamenei nuovo comandante della Forza Quds dei Pasdaran dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani. Lo riferisce l’agenzia iraniana Irna. Qaani è stato finora il numero due di Soleimani. Già nel 2013, in un rapporto del think tank Aei, si faceva il nome di Qaani come possibile successore del generale, anche grazie al profondo legame con l’ayatollah Khamenei. L’ufficiale è sempre stato descritto come un uomo poco carismatico e meno illustre del predecessore. Ma allo stesso tempo gli è stata riconosciuta una certa capacità sul campo di battaglia.

LEGGI ANCHE: Chi era il capo delle forze Quds Qassem Soleimani

L’ASCESA NEI PASDARAN DOPO LA RIVOLUZIONE

Classe 1957, Qaani è entrato nei Pasdaran nel 1982, tre anni dopo la rivoluzione che cacciò lo Scià. Da quel momento è stato impegnato in tutti i fronti caldi del Paese nella regione. Negli Anni 80 è rimasto ferito durante la guerra tra Iran e Iraq mentre verso la fine del decennio è stato promosso a comandante della quinta divisione Nasr. Negli anni è stato attivo anche come agente nella repressioe – come nel caso delle sommosse contadine nel 1992 a Mashhad -, mentre a metà degli Anni 90 è diventato il capo dell’Ansar Corps, responsabile regionale per l’Afghanistan e il Pakistan. In quegli anni oltre a combattere i signori della droga che operavano lungo il confine, ha fornito supporto all’Alleanza del Nord in funzione anti talebana. Nel corso del decenni ha scalato altre posizioni fino a diventare il numero due di Soleimani. Non solo. Accanto all’attività di vice per le forze Quds è stato a capo della divisione di intelligence almeno fino al 2006, quando poi ha ricoperto solo il ruolo di capo in seconda.

IL TRAFFICO D’ARMI PER LE MILIZIE SOSTENUTE DA TEHERAN

Stando a diverse rilevazioni delle agenzie di intelligence, tra le operazioni più note condotte dal nuovo capo ci sarebbero quelle legate al supporto delle varie milizie sostenute dall’Iran in tutto il Medio Oriente. Qaani sarebbe infatti responsabile del traffico di armi e soldi verso gruppi armati in Afghanistan, Libano e Yemen. Tra il 2009 e 2012 l’ex vice di Soleimani ha preso parte a diversi viaggi diplomatici tra Venezuela, Bolivia, Brasile, Gambia e Senegal, come anche Iraq e Siria.

UN MILITARE ABILE, MA POCO CARISMATICO

Sempre secondo il rapporto dell’Aei, Qaani ha la stessa dote che ha reso celebre Soleimani: l’abilità di improvvisazione in scenari militari complessi. Tuttavia, non ha lo stesso carisma. Tanto era convincente e accalorato Soleimani nei suoi discorsi, tanto è freddo e impersonale Qaani. Gli stessi atteggiamenti allontanano i due capi: il vecchio generale era più diretto e chiaro, mentre il suo successore preferisce giri retorici e formule più burocratiche.

IL LEGAME SPECIALE CON KHAMENEI

Sia Soleimani che Qaani fanno parte dello stesso network, ma il secondo nel corso degli anni ha dimostrato di avere un forte legame con la massima guida spirituale del Paese, l’ayatollah Khamenei. I due condividerebbero amici comuni e un legame che affonda le radici nella guerra tra Teheran e Baghdad, anche grazie ad amici comuni nella fitta rete dei Pasdaran.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

A fine anno Xi Jinping batte Mattarella

I discorsi dei due presidenti riflettono la differenza di prospettiva che divide Italia e Cina. In cui solo la seconda è realmente proiettata verso il futuro.

Facciamo un quiz: più o meno tutti noi italiani abbiamo seguito quello che ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, a reti unificate; ma qualcuno si ricorda cosa ha detto il Presidente Donald Trump per il nuovo anno? Invece in molti hanno seguito con interesse la traduzione italiana del video del discorso alla Nazione del presidente-a-vita cinese Xi Jinping. Segni dei tempi. Che cambiano. E se volessimo stilare un risultato, come faremmo in una partita di calcio, non ci sarebbe storia: il responso sarebbe a favore del presidente cinese. Uno a zero e palla al centro. Anzi, la palla era e resta più che mai nel campo di Pechino.

Certo, il nostro Mattarella ha fatto un discorso ottimo, “alto”, diremmo, pieno di richiami e di riferimenti ai principi “nobili” della nostra nazione e della nostra società civile. Con più di un pensiero rivolto ai giovani, al clima e al senso del dovere. Nel tentativo di infonderci un po’ di fiducia in noi stessi. Il Capo dello Stato ha anche provato a ricordarci i passi avanti compiuti nel 2019 (quali? Non si è capito, in realtà, ma beato chi li ha notati) ben sapendo che tra infrastrutture che cadono a pezzi, crisi dei principali assets industriali della Nazione – dall’Alitalia all’Ilva – crescita ormai bloccata da tempo su numeri che qualunque matematico definirebbe “ininfluenti”, c’è ben poco da stare allegri. Così ha ripiegato su un più saggio richiamo alla coesione nazionale, invitando tutti a frenare – in nome dell’interesse comune – lo scontro tra le parti politiche, a tutti i livelli. Come dire: “qua si mette sempre peggio, se non la smettete di litigare, finiamo tutti quanti come i capponi di Renzo nei Promessi Sposi…. Tutti insieme, litigando, nel baratro”.

Al “povero“ Mattarella, per non rischiare di deprimerci ancor di più con i nostri guai, non è rimasto che invitarci tutti a «guardare l’Italia dallo Spazio»

Così, al “povero“ Mattarella, per non rischiare di deprimerci ancor di più con i nostri guai, non è rimasto che invitarci tutti a «guardare l’Italia dallo Spazio» – come la vede il nostro Parmitano dalla Stazione spaziale, lui sì, – almeno – una delle poche “glorie nazionali” che ci rimangono. Insomma, se la guardiamo da lontano, sembra dirci il nostro amato Presidente, (ma molto-molto da lontano), i guasti e le brutture di questa nostra disastrata Italia diventano così piccoli, che possiamo illuderci per un attimo che non ci siano.

UN ANNO DA PROTAGONISTA PER LA CINA

Cambio di latitudine, continente e – soprattutto – prospettiva, ascoltando il discorso di fine anno del presidente cinese dalla sua scrivania – tutto sommato modesta – di Pechino. Basti dire che anche lui ha accennato allo Spazio, ma non per invitare i suoi quasi 1500 milioni di connazionali a consolarsi guardando la Cina da lontano, ma rivendicandone addirittura la conquista: ad opera della sonda lunare cinese Chang-e 4 che «per la prima volta nella storia dell’umanità, è atterrata sulla faccia nascosta della Luna», così ha detto, orgogliosamente. E poi, da lì, un elenco – tanto lungo da risultare quasi noioso – di successi, conquiste, primati e progressi cinesi che hanno costellato il 2019. Praticamente in ogni campo dell’umana esistenza. Dall’inaugurazione del più grande aeroporto del mondo, a Pechino, al lancio del missile March 5; dal piano del governo per combattere la povertà (8 milioni in meno di poveri in Cina solo nel 2019), fino al varo della prima portaerei interamente costruita in Cina. Successo dopo successo, conquista dopo conquista, nel suo discorso XI ha ripercorso un anno di eventi che hanno visto la Cina protagonista indiscussa sullo scenario mondiale, malgrado le proteste di Hong Kong (che ha richiamato solo di sfuggita, come fossero un minuscolo e fastidioso insetto da schiacciare entro breve) e lo scontro commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti, neppure menzionati.

DUE DESTINI AGLI ANTIPODI

«Lo spirito patriottico costituisce la colonna vertebrale della nazione cinese e forma una corrente impetuosa in continuo avanzamento che sostiene la Cina nella nuova era», ha detto con percepibile soddisfazione, riassumendo in una frase gli elementi di forza della nuova Cina, ormai avviata verso la conquista di una indiscussa nuova governance globale. «Spirito patriottico», ha detto Xi, proprio quello che pare decisamente mancare a noi italiani, più che ad altri, ma che per la Cina significa anche molto di più: supremazia dello spirito di comunità sull’individualismo e del bene della Nazione su quello del singolo.

L’INIZIO DEL SECOLO ASIATICO

Così, mentre Mattarella ce l’ha messa tutta per cercare in qualche modo di tirarci su il morale con riferimenti anche un po’ nostalgici al “genio italico” e ad una identità nazionale che deve rifarsi inevitabilmente al passato «sinonimo di sapienza, genio, armonia, umanità» per trovare qualcosa di cui andare fieri, il cinese Xi Jinping invece è tutto proiettato verso il futuro, un luminoso futuro. Verso quella “nuova era cinese” da lui richiamata con orgoglio, senza nessun falso pudore e persino con una punta di minaccia verso il resto del Pianeta. Destini che più diversi non si potrebbero immaginare, quelli che separano l’Italia dalla Cina, insomma. E mi sa che aveva ragione Padre Alex Zanotelli quando questa estate, intervenendo al Festival di Riace, ha parlato della fine del «dominio della Tribù bianca». Questo 2020, insomma, segna l’inizio non solo di un nuovo decennio, ma di un intero secolo che i posteri ricorderanno come “Il secolo asiatico”. Tanto vale rassegnarci. E cominciare a studiare il cinese.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

A fine anno Xi Jinping batte Mattarella

I discorsi dei due presidenti riflettono la differenza di prospettiva che divide Italia e Cina. In cui solo la seconda è realmente proiettata verso il futuro.

Facciamo un quiz: più o meno tutti noi italiani abbiamo seguito quello che ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, a reti unificate; ma qualcuno si ricorda cosa ha detto il Presidente Donald Trump per il nuovo anno? Invece in molti hanno seguito con interesse la traduzione italiana del video del discorso alla Nazione del presidente-a-vita cinese Xi Jinping. Segni dei tempi. Che cambiano. E se volessimo stilare un risultato, come faremmo in una partita di calcio, non ci sarebbe storia: il responso sarebbe a favore del presidente cinese. Uno a zero e palla al centro. Anzi, la palla era e resta più che mai nel campo di Pechino.

Certo, il nostro Mattarella ha fatto un discorso ottimo, “alto”, diremmo, pieno di richiami e di riferimenti ai principi “nobili” della nostra nazione e della nostra società civile. Con più di un pensiero rivolto ai giovani, al clima e al senso del dovere. Nel tentativo di infonderci un po’ di fiducia in noi stessi. Il Capo dello Stato ha anche provato a ricordarci i passi avanti compiuti nel 2019 (quali? Non si è capito, in realtà, ma beato chi li ha notati) ben sapendo che tra infrastrutture che cadono a pezzi, crisi dei principali assets industriali della Nazione – dall’Alitalia all’Ilva – crescita ormai bloccata da tempo su numeri che qualunque matematico definirebbe “ininfluenti”, c’è ben poco da stare allegri. Così ha ripiegato su un più saggio richiamo alla coesione nazionale, invitando tutti a frenare – in nome dell’interesse comune – lo scontro tra le parti politiche, a tutti i livelli. Come dire: “qua si mette sempre peggio, se non la smettete di litigare, finiamo tutti quanti come i capponi di Renzo nei Promessi Sposi…. Tutti insieme, litigando, nel baratro”.

Al “povero“ Mattarella, per non rischiare di deprimerci ancor di più con i nostri guai, non è rimasto che invitarci tutti a «guardare l’Italia dallo Spazio»

Così, al “povero“ Mattarella, per non rischiare di deprimerci ancor di più con i nostri guai, non è rimasto che invitarci tutti a «guardare l’Italia dallo Spazio» – come la vede il nostro Parmitano dalla Stazione spaziale, lui sì, – almeno – una delle poche “glorie nazionali” che ci rimangono. Insomma, se la guardiamo da lontano, sembra dirci il nostro amato Presidente, (ma molto-molto da lontano), i guasti e le brutture di questa nostra disastrata Italia diventano così piccoli, che possiamo illuderci per un attimo che non ci siano.

UN ANNO DA PROTAGONISTA PER LA CINA

Cambio di latitudine, continente e – soprattutto – prospettiva, ascoltando il discorso di fine anno del presidente cinese dalla sua scrivania – tutto sommato modesta – di Pechino. Basti dire che anche lui ha accennato allo Spazio, ma non per invitare i suoi quasi 1500 milioni di connazionali a consolarsi guardando la Cina da lontano, ma rivendicandone addirittura la conquista: ad opera della sonda lunare cinese Chang-e 4 che «per la prima volta nella storia dell’umanità, è atterrata sulla faccia nascosta della Luna», così ha detto, orgogliosamente. E poi, da lì, un elenco – tanto lungo da risultare quasi noioso – di successi, conquiste, primati e progressi cinesi che hanno costellato il 2019. Praticamente in ogni campo dell’umana esistenza. Dall’inaugurazione del più grande aeroporto del mondo, a Pechino, al lancio del missile March 5; dal piano del governo per combattere la povertà (8 milioni in meno di poveri in Cina solo nel 2019), fino al varo della prima portaerei interamente costruita in Cina. Successo dopo successo, conquista dopo conquista, nel suo discorso XI ha ripercorso un anno di eventi che hanno visto la Cina protagonista indiscussa sullo scenario mondiale, malgrado le proteste di Hong Kong (che ha richiamato solo di sfuggita, come fossero un minuscolo e fastidioso insetto da schiacciare entro breve) e lo scontro commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti, neppure menzionati.

DUE DESTINI AGLI ANTIPODI

«Lo spirito patriottico costituisce la colonna vertebrale della nazione cinese e forma una corrente impetuosa in continuo avanzamento che sostiene la Cina nella nuova era», ha detto con percepibile soddisfazione, riassumendo in una frase gli elementi di forza della nuova Cina, ormai avviata verso la conquista di una indiscussa nuova governance globale. «Spirito patriottico», ha detto Xi, proprio quello che pare decisamente mancare a noi italiani, più che ad altri, ma che per la Cina significa anche molto di più: supremazia dello spirito di comunità sull’individualismo e del bene della Nazione su quello del singolo.

L’INIZIO DEL SECOLO ASIATICO

Così, mentre Mattarella ce l’ha messa tutta per cercare in qualche modo di tirarci su il morale con riferimenti anche un po’ nostalgici al “genio italico” e ad una identità nazionale che deve rifarsi inevitabilmente al passato «sinonimo di sapienza, genio, armonia, umanità» per trovare qualcosa di cui andare fieri, il cinese Xi Jinping invece è tutto proiettato verso il futuro, un luminoso futuro. Verso quella “nuova era cinese” da lui richiamata con orgoglio, senza nessun falso pudore e persino con una punta di minaccia verso il resto del Pianeta. Destini che più diversi non si potrebbero immaginare, quelli che separano l’Italia dalla Cina, insomma. E mi sa che aveva ragione Padre Alex Zanotelli quando questa estate, intervenendo al Festival di Riace, ha parlato della fine del «dominio della Tribù bianca». Questo 2020, insomma, segna l’inizio non solo di un nuovo decennio, ma di un intero secolo che i posteri ricorderanno come “Il secolo asiatico”. Tanto vale rassegnarci. E cominciare a studiare il cinese.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Le liti dentro M5s e Italia viva spiegano perché vince la destra

Di Maio contro Paragone da una parte. Romano contro Migliore dall'altra. Baruffe emblematiche, dove nessuno sembra avere una minima idea di dove sia la società reale.

Lo scontro all’arma bianca fra Luigi Di Maio e Gianluigi Paragone, con annesso Alessandro Di Battista, e quello più elegante fra Andrea Romano e Gennaro Migliore sul Foglio attorno all’esaurimento o no di Italia Viva, dice molto sul perché vince Matteo Salvini oggi e domani forse Giorgia Meloni. Sia la lite fra comari nei cinque stelle sia quella fra damerini nel partito di Matteo Renzi si svolgono al di fuori di ogni contesto, anzi neppure presuppongono che vi sia un contesto. Paragone si è messo al centro della scena probabilmente per l’ultima volta. Del resto Feltri (Vittorio) e e Alessandro Sallusti hanno scritto oggi cose terribili e definitive su di lui. Credo che un uomo normale, in anni lontani, leggendo questo pensieri su se stesso di colleghi che l’hanno conosciuto da vicino o li sfiderebbe a duello o si tirerebbe un colpo di pistola. Ma, come raccontano i due direttori nordisti, il dramma di oggi, ma proprio di oggi-oggi, per Paragone è come mettere insieme il pranzo con la cena, stessa preoccupazione che condivide con quell’altro genio disoccupato di Di Battista.

Romano e Migliore si compiacciono invece di venire da esperienze diverse, l’uno riformista filo-blairiano, l’altro vendoliano spinto, per sancire che il loro avvicinamento era stato il segreto (poi tradito) del successo della formazione diretta da un uomo del destino come Renzi che avrebbe vinto la battaglia finale contro il diavolo Massimo D’Alema (Non sta andando così, ndr). La verità è che anche questi due ragazzi sono all’ultimo giro (e la cosa mi dispiace umanamente), perché nessuno dei due mostra di avere una minima idea di dove sia la società reale ma discutono animatamente se bisogna rafforzare il Pd (Romano) o attendere che Renzi torni a gonfiarsi come una rana (Migliore). Veramente surreale. Paragone invece è pronto per un ruolo in un film di Boldi e De Sica, magari con la sua fedele chitarra, una toccata la culo di una straniera, e un breve monologo contro giornalisti, leghisti, sinistra, grillini, parlamentari cioè tutti quelli che lui è stato o avrebbe potuto essere.

LA RICREAZIONE FINIRÀ PER TUTTI

Noi di sinistra ci siamo fatti in questi venti, o forse trenta anni, migliaia di autocritiche tutte giuste e sacrosante, ma tutte ignoravano che questa esibizione delle proprie viscere avveniva di fronte a questi personaggi miserabili. Nella fine tragica fine dei cinque stelle e del renzismo c’è tutta la storia di chi aveva superato la destra e la sinistra, le ideologie, il buonismo, i preti che cantano bella ciao, la buona educazione, la democrazia come fatica quotidiana, la tolleranza, la solidarietà. Li abbiamo presi sul serio, così come oggi ci spaventiamo che arrivino al potere Meloni o Salvini. Ma che volete che succeda? Qualche altro mese di casino, di quello brutto però, poi alla fine la ricreazione finirà per tutti. Non so se ci sarà una soluzione democratica, ma sento aria di forconi contro gli avventurieri di questi anni.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Le reazioni internazionali dopo il raid Usa che ha uccso il generale Soleimani

Critiche da Iraq, Russia e Cina per la mossa di Washington. Mentre la Francia teme lo scoppio nuovo conflitto.

La preoccupazione più grande è per una nuova escalation che trascini Washington e Teheran verso la guerra. Potrebbero essere sintetizzate così le posizioni della comunità internazionale dopo l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani a Baghdad per mano di un raid americano.

LA FRANCIA: «ORA IL MONDO È PIÙ PERICOLOSO»

Per Parigi l’uccisione di Soleimani ha reso il mondo «più pericoloso», come affermato dal ministro francese per l’Europa, Amelie de Montchalin, in un’intervista alla radio Rtl. «Quello che vogliamo soprattutto è stabilità e de-escalation», ha affermato il ministro, aggiungendo che gli sforzi della Francia «in ogni parte del mondo mirano a creare condizioni di pace o almeno di stabilità». «Il nostro ruolo», ha concluso, «non è schierarci con una parte, ma parlare a tutti».

LONDRA: «IL CONFLITTO NON È NEI NOSTRI INTERESSI»

Su questa scia anche il Regno Unito, da sempre solido alleato degli Usa nella regione, ha espresso e sollecitato una ‘de-escalation’. «Abbiamo sempre riconosciuto la minaccia aggressiva posta dalla Forza Qods guidate da Qassem Soleimani», ha sottolineato in una nota il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab, «Dopo la sua morte, sollecitiamo tutte le parti ad una de-escalation. Un ulteriore conflitto non è nei nostri interessi».

ANCHE BERLINO TEME L’ESCALATION

Alla luce degli sviluppi della situazione, il governo tedesco, per bocca del portavoce della cancelliera Ulrike Demmer, si è inserito sulla stessa linea, esprimendo «preoccupazione» per il «pericoloso momento di escalation» in cui ci si trova, e sollecita «oculatezza e moderazione, per contribuire alla distensione» nella regione.

LA RUSSIA: «COSÌ AUMENTERANNO LE TENSIONI»

Secondo Mosca l’operazione di Washington accrescerà le tensioni in tutto il Medio Oriente. «L’uccisione di Soleimani è stato un passo avventuristico che accrescerà le tensioni in tutta la regione», hanno scritto le agenzie Ria Novosti e Tass citando il ministero degli Esteri. «Soleimani ha servito con devozione la causa per la protezione degli interessi nazionali iraniani. Esprimiamo le nostre sincere condoglianze al popolo iraniano».

LA CINA INVITA TUTTI ALLA CALMA, «SPECIALMENTE GLI USA»

Anche Pechino sceglie il basso profilo facendo appello alla calma e alla misura, da tutte le parti in causa «specialmente gli stati Uniti». «Facciamo appello alle parti coinvolte, specialmente gli Stati Uniti, affincheè si mantenga la calma e si eserciti la misura per evitare un’ulteriore escalation delle tensioni», ha detto il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Geng Shuang, durante un briefing con la stampa.

IRAQ PREOCCUPATO PER UN NUOVO CONFLITTO

Il primo ministro iracheno Adel Abdul-Mahdi ha definito la mossa americana come «un’aggressione contro l’Iraq». In un messaggio ufficiale ha inoltre avvertito che l’attacco determinerà «una pericolosa escalation» che «scatenerà una guerra devastante in Iraq e nella regione». Il premier ha poi sottolinato come Soleimani sia stato «uno dei principali simboli della vittoria contro i militanti dello Stato islamico».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Chi era il generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso dal raid Usa

L'ufficiale a capo delle forze Quds era la punta di diamante delle operazioni di Teheran in tutto il Medio Oriente, dalla guerra civile siriana alla campagna irachena contro l'Isis. Ritratto del Rommel iraniano.

Il generale Qassem Soleimani, ucciso nella notte del 3 gennaio da un raid delle forze Usa a Baghdad, per anni è stato la punta di diamante delle operazioni internazionali dell’Iran. 62 anni, una barba corta sale e pepe, il generale era a capo delle forze Quds, il braccio armato dei guardiani della rivoluzione fuori dalla repubblica islamica, fin dal 1998. Soleimani veniva considerato da tutti, sostenitori e nemici, come uno degli strateghi migliori di tutto il Medio Oriente, che a partire dal 2013 si è reso protagonista di tutti gli interventi di Teheran nell’area, dalla Siria all’Iraq, passando per lo Yemen.

LA STRATEGIA PER SALVARE ASSAD DALLA CADUTA

Una delle missioni di maggior successo per l’ufficiale iraniano è stata sicuramente la Siria. Nel 2012 Teheran lo inviò a Damasco per aiutare il malconcio esercito siriano dilaniato dalle diserzioni conseguenti allo scoppio della guerra civile un anno prima. Dopo il suo intervento le sorti del conflitto sono via via cambiate. Ridefinita la strategia sul campo, ha fatto in modo da far entrare nel conflitto il gruppo armato libanese di Hezbollah aiutando l’Iran a diventare uno degli attori fondamentali della guerra civile. Non a caso in molti sostengono che nell’estate del 2006 il generale fosse in prima linea in Libano nel conflitto tra le milizie sciite e Israele. Una strategia che ha permesso al presidente Bashar al-Assad di rimanere al potere anche grazie alle amicizie dirette dello stesso Soleimani con funzionari e militari russi, intervenuti a sostegno del regime nell’autunno del 2015.

LA CAMPAGNA IRACHENA CONTRO L’ISIS

Nel 2014 quando la città irachena di Mosul cade nelle mani dell’Isis non fu solo l’aviazione americana a intervenire. Il generale nei giorni immediatamente successivi si recò in Iraq e negli anni seguenti guidò le operazioni delle milizie sciite irachene e iraniane sul campo per contenere prima l’avanzata dello Stato islamico e poi dare il via all’offensiva che ha liberato la città nell’estate del 2017. Oltre all’aspetto militare, però Soleimani era abile a intessere relazioni politiche. In Iraq più di qualcuno ha sottolineato che era solito incontrare in segreto gli esponenti dei vari partiti alimentando e modificando le traiettorie del potere di Baghdad. Ryan Crocker, ex ambasciatori americano in Afghanistan e Iraq, ha raccontato la sua esperienza alla Bbc: «I miei interlocutori iraniani erano molto: anche se avessero informato il ministero degli Esteri, alla fine sarebbe stato il generale Soleimani a prendere le decisioni».

UN MIX TRA BOND E ROMMEL

Nel corso degli anni Soleimani è stato dato per morto diverse volte. Nel 2006 riuscì a sopravvivere a un incidente aereo, nel 2012 scampò a un’attentato contro alcuni ufficiali siriani, mentre 2015 uscì indenne dai feroci combattimenti della battaglia Aleppo. Nel 2017 la rivista Time lo ha inserito tra le 100 persone più influenti del mondo e per l’occasione Kenneth Pollack, ex analista della Cia, disse di lui che per tutti gli «sciiti del in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga», in riferimento non solo alle campagne militari ma anche alla sua presenza sui social molto seguita. Molto amato in patria, Soleimani è stato più volte invocato come possibile candidato alle presidenziali del 2021, anche se lui stesso ha sempre ribadito di non volersi candidare.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Quello che Visco fa finta di non capire

Il governatore di Bankitalia non dice bugie, ma omette. Palesando problemi nella distinzione tra malafinanza e finanza inefficiente.

In un paese che non cresce e che non crescerà nei prossimi anni, la funzione del sistema bancario diventa ancor più determinante. Semplicisticamente, nelle fasi di stagnazione, per sostenere l’economia produttiva si ha bisogno di credito. La Bce ha rivisto al ribasso la crescita del Pil nell’eurozona nel 2020 (solo +1,1%) e uno studio del Pardee Center della Università di Denver afferma che nel 2100 il Pil dell’Italia sarà al 23esimo posto nel mondo. Altro che G8. Il nostro Pil varrà un misero 0,82% di quello mondiale, contro il 2,55% di oggi. Davanti all’Italia in rapporto al PIL ci saranno anche paesi come l’Indonesia, la Nigeria, l’Iraq, il Pakistan, l’Etiopia, la Tanzania, e l’Uganda. La decrescita europea non crea benessere ma povertà, i flussi di ricchezza si spostano verso oriente ed il nostro Pil perde slancio. Poca innovazione, poca flessibilità e troppa burocrazia. La ricerca di un nuovo benessere può passare anche da una decrescita ma solo con una sana politica del credito. In questo scenario cosa fa il governatore della Banca d’Italia? Lo struzzo. Facendo finta di non capire.

L’ARCHETIPO DEL BANCHIERE ITALIANO

Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è l’archetipo del banchiere e bancario italiano: non dice bugie ma omette. L’omissione è la regola. Anche in occasione della intervista rilasciata al Corsera il numero uno di palazzo Koch ha ribadito che «queste banche (quelle in crisi) rappresentavano, nel complesso, il 10% degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90% ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell’economia reale». L’arte del minimizzare è spesso l’unica arma che hanno tra le mani i perdenti. È l’ atteggiamento che ha avuto Visco (e alcune penne di sistema) che difende un mondo che presenta ormai più buchi di una fetta di formaggio svizzero. È vero che solo le banche che rappresentavano il 10% degli attivi totali ha manifestato pubblicamente lo stato di crisi. Visco non ha detto una bugia. Ma ha dimenticato di aggiungere, ecco la strategica omissione, che il sistema bancario nella sua interezza ha evidenziato una palese inefficienza più volte ribadita ed analizzata su queste colonne.

LA DIFFERENZA TRA MALAFINANZA E INEFFICIENZA

Ancora oggi si fa fatica a capire la differenza tra malafinanza (bilanci falsi, politiche commerciali violente, abusi sui clienti, corruzione, collusione, ecc.) dalla finanza inefficiente. Quella finanza che non riesce più a fare ricavi e che produce utili (pochi) solo attraverso il contenimento dei costi, quella che continua a fare credito con modelli di analisi superati, quella che non si è ancora accorta dell’arrivo della fintech e dei mostri (Yahoo, Amazon, Google, Facebook, ecc) , quella che ha perso completamente il capitale di fiducia dei clienti, quella con un management obsoleto e vecchio (che non è la stessa cosa). Basta guardare l’andamento del Ftse Italia All Share Banks, l’indice settoriale delle banche italiane quotate, per capire quanto le politiche gestionali dei banchieri nostrani hanno inciso sulla capitalizzazione (il valore di mercato delle azioni in circolazione) complessiva del sistema. A fine 2009 l’indice valeva circa 21.640 punti, oggi vale 9.440 punti. Il 56% di riduzione di valore. E di chi è la responsabilità? Il regolatore dovrebbe ripensare forse ad un modello di sistema bancario più coerente con la nostra economia? Ne riparleremo presto.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Quello che Visco fa finta di non capire

Il governatore di Bankitalia non dice bugie, ma omette. Palesando problemi nella distinzione tra malafinanza e finanza inefficiente.

In un paese che non cresce e che non crescerà nei prossimi anni, la funzione del sistema bancario diventa ancor più determinante. Semplicisticamente, nelle fasi di stagnazione, per sostenere l’economia produttiva si ha bisogno di credito. La Bce ha rivisto al ribasso la crescita del Pil nell’eurozona nel 2020 (solo +1,1%) e uno studio del Pardee Center della Università di Denver afferma che nel 2100 il Pil dell’Italia sarà al 23esimo posto nel mondo. Altro che G8. Il nostro Pil varrà un misero 0,82% di quello mondiale, contro il 2,55% di oggi. Davanti all’Italia in rapporto al PIL ci saranno anche paesi come l’Indonesia, la Nigeria, l’Iraq, il Pakistan, l’Etiopia, la Tanzania, e l’Uganda. La decrescita europea non crea benessere ma povertà, i flussi di ricchezza si spostano verso oriente ed il nostro Pil perde slancio. Poca innovazione, poca flessibilità e troppa burocrazia. La ricerca di un nuovo benessere può passare anche da una decrescita ma solo con una sana politica del credito. In questo scenario cosa fa il governatore della Banca d’Italia? Lo struzzo. Facendo finta di non capire.

L’ARCHETIPO DEL BANCHIERE ITALIANO

Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è l’archetipo del banchiere e bancario italiano: non dice bugie ma omette. L’omissione è la regola. Anche in occasione della intervista rilasciata al Corsera il numero uno di palazzo Koch ha ribadito che «queste banche (quelle in crisi) rappresentavano, nel complesso, il 10% degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90% ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell’economia reale». L’arte del minimizzare è spesso l’unica arma che hanno tra le mani i perdenti. È l’ atteggiamento che ha avuto Visco (e alcune penne di sistema) che difende un mondo che presenta ormai più buchi di una fetta di formaggio svizzero. È vero che solo le banche che rappresentavano il 10% degli attivi totali ha manifestato pubblicamente lo stato di crisi. Visco non ha detto una bugia. Ma ha dimenticato di aggiungere, ecco la strategica omissione, che il sistema bancario nella sua interezza ha evidenziato una palese inefficienza più volte ribadita ed analizzata su queste colonne.

LA DIFFERENZA TRA MALAFINANZA E INEFFICIENZA

Ancora oggi si fa fatica a capire la differenza tra malafinanza (bilanci falsi, politiche commerciali violente, abusi sui clienti, corruzione, collusione, ecc.) dalla finanza inefficiente. Quella finanza che non riesce più a fare ricavi e che produce utili (pochi) solo attraverso il contenimento dei costi, quella che continua a fare credito con modelli di analisi superati, quella che non si è ancora accorta dell’arrivo della fintech e dei mostri (Yahoo, Amazon, Google, Facebook, ecc) , quella che ha perso completamente il capitale di fiducia dei clienti, quella con un management obsoleto e vecchio (che non è la stessa cosa). Basta guardare l’andamento del Ftse Italia All Share Banks, l’indice settoriale delle banche italiane quotate, per capire quanto le politiche gestionali dei banchieri nostrani hanno inciso sulla capitalizzazione (il valore di mercato delle azioni in circolazione) complessiva del sistema. A fine 2009 l’indice valeva circa 21.640 punti, oggi vale 9.440 punti. Il 56% di riduzione di valore. E di chi è la responsabilità? Il regolatore dovrebbe ripensare forse ad un modello di sistema bancario più coerente con la nostra economia? Ne riparleremo presto.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Raid Usa a Baghdad, ucciso il generale iraniano Soleimani

Nella notte le forse americane hanno bombardato l'aeroporto della capitale irachena uccidendo almeno otto persone tra le quali il capo delle forze Quds. Il Pentagono conferma l'attacco, voluto da Trump, e l'Iran minaccia ritorsioni. La situazione.

Le forze americane uccidono a Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani, una delle figure chiave dell’Iran, molto vicino alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e considerato da alcuni il potenziale futuro leader del Paese. Un raid, quello statunitense, condotto – secondo indiscrezioni – con un drone e ordinato da Donald Trump. Una mossa che rischia di far salire la già alta tensione fra Stati Uniti e Iran, ma anche in tutto il Medio Oriente.

Il generale Qasem Soleimani ucciso a Baghdad.

GLI USA CONFERMANO L’ATTACCO DIRETTO A SOLEIMANI

«Il generale Soleimani stava mettendo a punto attacchi contro diplomatici americani e personale in servizio in Iraq e nell’area», ha detto il Pentagono confermando il raid e assumendosene la responsabilità. «Il generale Soleimani e le sue forze Quds sono responsabili della morte di centinaia di americani e del ferimento di altri migliaia», ha aggiunto il Pentagono, precisando che il generale iraniano è stato anche il responsabile degli «attacchi contro l’ambasciata americana a Baghdad negli ultimi giorni». Il raid punta a essere un «deterrente per futuri piani di attacco dell’Iran. Gli Stati Uniti continueranno a prendere tutte le azioni necessarie per tutelare la nostra gente e i nostri interessi del mondo», ha messo in evidenza il Dipartimento della Difesa.

UCCISO IL NUMERO DUE DELLE FORSCE SCIITE IN IRAQ

L’attacco americano segue l’avvertimento lanciato dal ministro della Difesa, Mark Esper, dopo le tensioni degli ultimi giorni con ore e ore di guerriglia e diversi tentativi di penetrare il compound che ospita la sede diplomatica Usa nella capitale irachena, la cui torretta all’ingresso principale è stata data alle fiamme. La dichiarazione del Pentagono è arrivata dopo ore di confusione, fra voci che si rincorrevano e nessuna rivendicazione della responsabilità. Trump, avvolto nel silenzio, si è limitato a twittare una foto della bandiera americana prima che il ministero della Difesa uscisse alla scoperto. Quando la televisione irachena ha annunciato la morte del generale Soleimani si è iniziato a immaginare che gli Stati Uniti potessero essere dietro al raid, nel quale ha perso la vita anche Abu Mahdi al-Muhandis, il numero due delle Forze di mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi), la coalizione di milizie paramilitari sciite pro-iraniane attive in Iraq.

CONGRESSO NON INFORMATO DEL RAID

La Guardia Rivoluzionaria iraniana, confermando la morte di Soleimani, ha affrmato che il generale è stato ucciso da un attacco sferrato da un elicottero americano. Secondo le ricostruzioni iniziali, Soleimani e Mohammed Ridha, il responsabile delle public relation delle forze pro-Iran in Iraq, erano da poco atterrati all’aeroporto internazionale di Baghdad ed entrati in una delle due auto che li attendeva quando l’attacco è stato sferrato. L’attacco è seguito al lancio di tre razzi all’aeroporto che non causato alcun ferito. L’uccisione di Soleimani rischia di avere ripercussioni profonde nei rapporti tesi fra Washington e Teheran, in Medio Oriente ma anche negli Stati Uniti. Intanto per Trump si apre anche il fronte interno. Pare infatti che i parlamentari americani non siano stati avvertiti dell’attacco ordinato dal presidente, come reso noto in un comunicato il deputato democratico Eliot Engel. Il raid «ha avuto luogo senza alcuna notifica o consultazione con il Congresso», si legge nella nota.

FURIA TEHERAN: «È UN ATTO DI TERRORISMO»

La reazione iraniana è stata immediata, con Teheran che ha fatto sapere che ci saranno ritorsioni. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha parlato di «atto di terrorismo internazionale degli Stati Uniti» e definito il generale Soleimani come «la forza più efficace nel combattere il Daesh, Al Nusrah e Al Qaida». «Gli Stati Uniti», ha aggiunto, «si assumeranno la responsabilità di questo avventurismo disonesto». La guida suprema Khamenei ha chiesto tre giorni di lutto nel Paese affermando che l’uccisione raddoppierà la motivazione della resistenza contro gli Stati Uniti e Israele. «Gli iraniani e altre nazioni libere del mondo si vendicheranno senza dubbio contro gli Usa criminali per l’uccisione del generale Qassen Soleimani», ha tuonato il presidente iraniano Hassan Rohani. L’attacco, ha sottolineato, rafforza la determinazione dell’Iran di resistere e affrontare le eccessive richieste di Washington. «Tale atto malizioso e codardo è un’altra indicazione della frustrazione e dell’incapacità degli Stati Uniti nella regione per l’odio delle nazioni regionali verso il suo regime aggressivo».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Lo spread e la Borsa italiana del 3 gennaio 2020

Attesa per l'apertura di Piazza Affari. La giornata precedente è terminata con un +1,4%. Il differenziale Btp-Bund riparte da 164 punti base.

Attesa per l’apertura della Borsa italiana nella seduta del 3 gennaio 2020. La giornata precedente è terminata con un +1,4%. Lo spread Btp-Bund riparte da 164 punti base.

I MERCATI IN DIRETTA

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it