Paragone espulso dal M5s

Provvedimento motivato anche dal voto contrario sulla legge di bilancio.

Non c’è pace nel M5s. A Natale le dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti, a Capodanno l’espulsione del senatore Gianluigi Paragone.

Il Collegio dei Probiviri – composto da Raffaella Andreola, Jacopo Berti e Fabiana Dadone – ha formalizzato il provvedimento e ha comunicato la decisione all’interessato.

Motivandola, tra le altre cose, anche con il voto contrario espresso da Paragone, in difformità rispetto al gruppo parlamentare pentastellato, sulla legge di bilancio.

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Un milione di persone in piazza a Hong Kong

Corteo autorizzato e in partenza pacifico. Ma poi è sfociato in scontri con la polizia che hanno portato a circa 400 arresti.

Comincia all’insegna della protesta anche il nuovo anno a Hong Kong dove sono scesi in piazza in massa i manifestanti pro democrazia – 1 milione secondo gli organizzatori – per un corteo autorizzato e in partenza pacifico, ma poi sfociato in scontri con le forze dell’ordine, finiti con l’arresto di circa 400 persone.

SETTE MESI ININTERROTTI DI MOBILITAZIONE

La gran parte del 2019 è stata segnata dalla protesta, con sette mesi ininterrotti di mobilitazione scanditi da disordini e un’escalation della rivolta che vede ancora contrapposti dimostranti e forze dell’ordine, anche nei cortei di Capodanno: i manifestanti si erano radunati nel Victoria Park per poi marciare attraverso l’isola principale dell’ex protettorato britannico fino a Central, il cuore commerciale dell‘hub finanziario internazionale.

I MANIFESTANTI CHIEDONO ELEZIONI LIBERE E AMNISTIA

Molti esibivano striscioni con le principali richieste, tra cui elezioni totalmente libere, un’inchiesta indipendente sulla gestione della polizia e l’amnistia per le quasi 6.500 persone arrestate durante le proteste. La violenza è però esplosa dopo qualche ora a margine della marcia principale, con scontri fra agenti e dimostranti a volto coperto registrati in più quartieri: la polizia antisommossa ha usato spray urticante e gas lacrimogeni, mentre alcuni manifestanti hanno lanciato molotov.

UN RECORD PER IL MOVIMENTO DI PROTESTA

Dimostranti mascherati di nero si sono inoltre radunati per allestire barricate improvvisate, alcune strutture sono state vandalizzate. È a quel punto che è stato ordinato agli organizzatori di terminare il corteo. Questi ne avevano però già decretato il successo, parlando di una partecipazione record: «Crediamo che l’adesione alla marcia di oggi abbia superato l’1,03 milioni del 9 giugno», con riferimento alla marea umana che era scesa in piazza quel giorno e che aveva di fatto segnato l’inizio del movimento di protesta. Sono cifre che si distaccano notevolmente da quelle indicate dalla polizia, che per la manifestazione di Capodanno segnala soltanto 60 mila partecipanti.

ARRESTATE CIRCA 400 PERSONE

Intanto si ripetono scene fin troppo note e che si sono succedute a più riprese negli ultimi mesi: la polizia in assetto antisommossa che usa spray urticanti, spara lacrimogeni e ricorre a cannoni ad acqua per disperdere la folla, in particolare quei dimostranti irriducibili determinati a fare resistenza, costruendo barricate, dotandosi di Molotov, assaltando esercizi commerciali associati a Pechino. Di qui gli scontri che hanno portato a circa 400 arresti per «raduno illegale e detenzione di armi». Le tensioni verificatesi nelle scorse ore sono comunque circoscritte e limitate rispetto ai momenti più drammatici vissuti nei mesi scorsi.

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Radetzky marcia ancora

Lo sbandierato nuovo arrangiamento a cura dei Wiener Philharmoniker lascia a bocca aperta. Ma non per i suoi elementi nuovi o diversi: per la sostanziale sovrapponibilità con il vituperato precedente. Per la "denazificazione", passare un'altra volta.

Tanto tuonò che non piovve. Per la Marcia di Radetzky “denazificata”, passare un’altra volta. Fuori dagli inutili tecnicismi e dai dettagli più o meno sottili, lo sbandierato nuovo arrangiamento “a cura dei Wiener Philharmoniker” lascia a bocca aperta. Ma non per i suoi elementi nuovi o diversi: per la sostanziale sovrapponibilità con il vituperato precedente, firmato negli Anni 30 dall’oscuro galoppino nazista Leopold Weninger. Per dirla con le parole della conduttrice della diretta su Radiotre, che quasi è sbottata mentre esplodeva l’ovazione conclusiva, la Marcia in questa nuova revisione è risultata «Tutto sommato appena appena alleggerita nelle percussioni».

IMPROBABILE CHE MUTI FACCIA QUALCHE PASSO IN PIÙ

Lo sconcerto maggiore, si può immaginare, nel mondo della destra sovranista e populista, i cui mezzi di informazione avevano gridato allo scandalo e all’abominio per lo “scippo” della Marcia “nazi style”: prova provata che il tramonto dell’Occidente è in atto, secondo qualche filosofo di complemento. Semmai, dimostrazione del fatto che mai come oggi Oswald Spengler avrebbe bisogno di essere difeso dai suoi sostenitori. A questo punto, comunque, sembra difficile che ci siano cambi nel prossimo futuro. Molto improbabile, ad esempio, che Riccardo Muti, per l’ennesima volta incaricato della direzione l’anno prossimo, faccia qualche passo nella direzione di una più sostanziale “revisione”. Scomparso il nome di Leopold Weninger come arrangiatore, la Marcia continuerà a suonare alle orecchie del pubblico come una volta.

UNA FRUIZIONE ORMAI CRISTALLIZZATA

D’altra parte, è parso chiaro a tutti gli spettatori della differita tv pomeridiana (ma anche della diretta radiofonica) che la modalità della fruizione della Marcia di Radetzky nella “Sala d’oro” del Musikverein di Vienna è ormai non più modificabile. Chi fra le migliaia di richiedenti vince il sorteggio online per i biglietti (così avviene la distribuzione, ad ogni febbraio: tariffe fino a 1.200 euro) vuole battere le mani a tempo e non sente ragione. Si è piegato anche Andris Nelsons, che ha fatto quello che quasi tutti i suoi colleghi in passato hanno fatto: ha “diretto” il pubblico. Anche se nelle settimane prima non era mancato chi aveva annotato che questa modalità di fruizione si riallaccia a consuetudini in voga durante il periodo nazista. Questa volta il battito delle mani era così rumoroso e irrefrenabile da rischiare con il suo frastuono di oscurare i Wiener a pienissimo organico.

SOLO BARENBOIM HA OSATO ZITTIRE IL PUBBLICO

Chi aveva preso le distanze, sia pure a modo suo, era stato Daniel Barenboim nel 2014: se riguardate il video a corredo dell’articolo sulla Marcia pubblicato prima di Natale su Lettera43, vedrete che durante l’esecuzione con battimani, Barenboim fa tutt’altro: gira tra le file dell’orchestra, saluta quasi ogni singolo strumentista, si disinteressa della musica e della sua esecuzione, salvo zittire il pubblico quando esagera.

GLI ERRORI DI COMUNICAZIONE DEI WEINER PHILARMONIKER

Alla fine, di questa curiosa storia a cavallo del passaggio di decennio, resta la sorpresa per come i Wiener hanno prima creato e poi gestito la vicenda, dimostrando che nell’ambito della comunicazione sono lontani dall’eccellenza del loro far musica. Sono stati loro ad accendere i riflettori sulla Marcia di Radetzky, all’insegna di un molto discutibile politically correct, che nelle cose artistiche dovrebbe sempre essere maneggiato con grandissima cautela. Loro hanno annunciato che «finalmente» la Marcia sarebbe stata denazificata, ma mentre la curiosità cresceva insieme alle polemiche, loro hanno vigorosamente tirato i freni, a questo punto nel massimo riserbo. Che dire? Per quel che ci riguarda, molto meglio così. Ma c’era bisogno di tanti inutili proclami?

UNA VERSIONE PIÙ AUTENTICA DELLA MARCIA È DATATA 1848

Che poi, a voler sottilizzare, una versione molto vicina all’idea di Strauss padre esiste ed è a portata di mano: è la primissima edizione per orchestra della Marcia, pubblicata nell’autunno del 1848 e scovata nel 1999 dallo studioso Norbert Rubey alla Biblioteca di Vienna. La versione che vi si ritrova è effettivamente più leggera nella strumentazione e più articolata melodicamente nella sezione centrale. L’unico che la diresse al Concerto di Capodanno fu Nikolaus Harnoncourt, nel 2001. La mise in apertura di concerto, anzi, riservando la chiusura alla versione “tradizionale”. Ne esistono almeno due edizioni discografiche, quella ufficiale di quel Primo dell’anno al Musikverein e quella realizzata con il Concentus Musicus Wien, in cui la Marcia viene proposta in quella che viene definita “urfassung”’. Le differenze, all’ascolto comparato, non sono certo eclatanti. Comunque, più significative rispetto a quanto si è sentito oggi. Se l’adottassero, i Wiener potrebbero a ragione proclamare che l’operazione di “denazificazione” è compiuta. Invece, da quel 2001, la versione originale è svanita dagli orizzonti dell’orchestra Filarmonica di Vienna. Curioso anche questo.

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L’ex deputato Scotto aggredito in piazza a Venezia

Al grido: «Duce, duce». Il racconto della moglie su Facebook.

L’ex deputato di Articolo 1-Mdp Arturo Scotto è stato aggredito da un gruppo di persone a Venezia al grido «Duce, Duce». A segnalare l’aggressione, su Facebook, è stata la moglie di Scotto, Elsa Bertholet.

Capodanno a Piazza San Marco con marito e figlio grande, mezzanotte e un minuto: un gruppo dietro di me canta “Anna…

Posted by Elsa Bertholet on Tuesday, December 31, 2019

«Erano in otto», ha raccontato invece l’ex deputato, «con il viso coperto e si sono poi dileguati. Uno, due, tre cazzotti in faccia. Sangue dal naso ma per fortuna nessuna frattura. Ho passato la mattina dalla polizia, dove ho sporto denuncia. Bisogna smetterla di pensare che sono ragazzate. Sono piccoli squadristi che si fanno forza nella logica del branco. Una cosa di cui preoccuparsi seriamente. Il fascismo è nato così, esattamente all’alba degli Anni 20 del secolo scorso». Accertamenti sono in corso da parte delle forze dell’ordine. Scotto, originario di Torre del Greco, ha militato nel Pds, nei Ds, in Sinistra democratica, in Sel ed è tra i fondatori di Articolo 1 – Mdp, di cui attualmente è coordinatore nazionale.

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Una fedele strattona papa Francesco e lui reagisce male

Papa Francesco ha reagito allo strattonamento di una fedele a piazza San Pietro e il video è immediatamente diventato virale...

Papa Francesco ha reagito allo strattonamento di una fedele a piazza San Pietro e il video è immediatamente diventato virale. Il 31 dicembre il pontefice, dopo la visita al presepe, si è energicamente “liberato” da una pellegrina asiatica che lo tirava dalla sua parte. E le ha dato anche un paio di schiaffi sulla mano. «Tante volte perdiamo la pazienza», ha poi detto Bergoglio durante l’Angelus, «chiedo scusa per il cattivo esempio».

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La grana del regolamento di Sanremo 2020 agita la Rai

A poco più di un mese dall'inizio del Festival, manca ancora un accordo fra tutti i soggetti coinvolti. E la Federazione industria musicale italiana potrebbe decidere di non far partecipare i propri artisti. Il retroscena.

Dopo l’eloquente passaggio sulla Rai da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha rammentato ruolo e funzioni del servizio pubblico, il 2020 della tivù di Stato non è iniziato bene. Stavolta la grana si chiama Sanremo ed è scoppiata a poco più di un mese dall’inizio del Festival, da sempre punto di forza della Rai e della sua rete ammiraglia.

RIUNIONE AD ALTA TENSIONE

Secondo quanto risulta a Lettera43, il 23 dicembre si è tenuta una riunione molto tesa, coordinata via telefono dal Direttore generale Corporate Alberto Matassino, per tentare di recuperare e risolvere l’ultima crisi nata in azienda: si tratta del nuovo regolamento della kermesse musicale. Su alcune delle regole legate ai diritti dei cantanti che si esibiranno, non è stato ancora trovato l’assenso di tutti i soggetti coinvolti.

LEGGI ANCHE: I Big in gara a Sanremo 2020 svelati da Amadeus

AL MOMENTO NON C’È CHIAREZZA SULLE REGOLE

In particolare la Fimi (Federazione industria musicale italiana), per bocca del suo presidente Enzo Mazza, non avrebbe ancora dato il semaforo verde al nuovo regolamento, in quanto non sarebbero state soddisfatte alcune sue richieste. Da qui l’ipotesi di non far partecipare i cantanti legati alla Federazione. Sono ore convulse e di comprensibile agitazione, perché il Festival in questo momento è privo di un regolamento ufficiale che stabilisca con chiarezza le regole della competizione.

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I migliori dischi del 2019 di cui nessuno vi ha parlato

Una classifica atipica. Di nomi (quasi) mai citati. Dai Cheap Wine e Il Terzo Istante in Italia ai Th' Losin Streaks e New Model Army nel resto nel mondo. Viaggio in un anno da riascoltare.

C’è qualcosa che non va con le classifiche di fine anno: tutti hanno la loro, ma alla fine si assomigliano tutte ed è forte il sospetto di interferenze fin troppo ispiratrici. Allora proviamo noi a stilarne una atipica, di dischi (quasi) mai citati in questi giorni eppure assolutamente significativi del 2019 che già sbadisce; tutti in rigoroso ordine sparso, perché non è questione di preferenze ma di menzioni.

GIORGIA DEL MESE E GLI ALTRI SPLENDIDI OUTSIDER

Tra gli italiani, andiamo a scegliere non i soliti nomi alla moda, ma gli autentici outsider: Giorgia Del Mese, si è appena ripresentata con Moderate Tempeste, lavoro di appena cinque brani ma terribilmente belli, in pratica una sola piccola suite squarciata come la coscienza in cui si parla in faccia al dolore: che risponde, eco dall’anima, figlio della vita. Prodotto mirabilmente da Andrea Franchi. Grande lavoro anche per i sempre autoprodotti Cheap Wine di Pesaro, che con Faces superano ancora loro stessi, aggiungendo profumi e suggestioni alla loro miscela di Americana stravolta in modo unico e risolta da musicisti di squisita caratura. Notevole pure il ritorno di Umberto Maria Giardini, che in Forma Mentis riscopre il grunge e l’hard rock degli inizi con risultati poetici decisamente intensi. Altra proposta sorprendente, davvero sorprendente, quella de Il Terzo Istante, formazione torinese prodotta ancora da Andrea Franchi, capace nei nove pezzi di Estraneo di sviluppare un nuovo concetto di rock d’autore, spiazzante, obliquo, grondante creatività, impreziosito da una apparizione di Paolo Benvegnù (in dirittura d’arrivo col nuovo disco, in uscita tra febbraio e marzo).

E come dimenticare l’autentico capolavoro di Francesco Di Bella, O Diavolo (uscito in effetti alla fine del 2018), nove canzoni inafferrabili tra dub, autore, pop, rock; inafferrabili ma ti afferrano, una dopo l’altra, protese fra Napoli e l’universo, una più splendida dell’altra, in un trionfo di ispirazione quale raramente si incontra in Italia? Siamo anni luce distanti da Sanremo, e non può essere un caso: tutto ciò che passa dall’Ariston, a dispetto delle troppe giurie selezionatrici, è di imbarazzante mediocrità, mentre i vari premi alternativi sono ormai lottizzati allo stesso modo; per non dire di X Factor con relative imitazioni, che sono davvero la tomba della creatività. Quando qualche meraviglioso incosciente oserà ancora mettere in piedi un contro-festival davvero libero, assolutamente impermeabile a suggestioni e sollecitazioni di sorta, con questi ed altri nomi, capaci di ricordarci che la musica italiana esiste ancora, pulsa, chiama: è lì, in attesa che qualcuno se ne accorga?

TRE NOMI GIGANTESCHI (MA NON SOLO)

Nel resto del mondo, si impongono senz’altro tre nomi giganteschi, capaci di sfornare dischi all’altezza della fama: Bruce Springsteen in Western Star torna ad agitare i prediletti fantasmi dei perdenti, i disperati, i corrosi, ma lo fa in una sorprendente veste bacarachiana, e il risultato è spettacolare; quanto a Nick Cave, il suo Ghosteen è senz’altro difficile, lungo, ostico se si vuole, ma importa, e vale, per quello che rappresenta, per l’elegia della sofferenza in punta di sibili, di rimandi, di echi; ed è imprescindibile seppure pesante. Il terzo nome ingombrante che non si può evitare è quello di Iggy Pop, che torna sui passi di un ritiro annunciato per uno dei suoi dischi che rimarranno, lo sperimentale, morboso, jazzistico, autoriale Free, dove Iggy si mette in scia del perduto amico David Bowie e riesce a tenere il confronto.

Un altro album che vale la pena di scoprire o riscoprire è quello di Cass McCombs, cantautore americano 42enne che con Tip of the Sphere tira fuori un lavoro prolisso ma sempre ispirato

Viceversa, un nome che solo qualche nostalgico ricorderà è quello dei Th’ Losin Streaks che dopo 14 anni dall’ultimo disco, e nove dallo scioglimento, si ricoagulano per l’autoironico, almeno nel titolo, This band will self destruct in t-minus. Ma lo scherzo finisce qui. Perché il disco è un furibondo concentrato di garage, avant-punk e rock and roll come non si usa più (a tratti le sonorità sembrano ricordare perfino i Cheater Slicks); da Sacramento con ardore, spettinando Kinks, Troggs e i pensieri di chi ascolterà questo mirabile fiotto di lucida incoscienza. Altra perla misconosciuta, ma da recuperare, quella dei New Model Army, redivivi pure loro, e in che modo!

Con questa esplosione di rock come sempre antagonista, From Here, dalla doppia durata (un’ora, suppergiù) ma mai meno che intenso, urticante, allarmante. Il rock come agitazione, come inquietudine che inquieta, e che, dagli anni Ottanta, non ha perso un solo battito del suo cuore convulso. Cambiando bruscamente genere, un altro album che vale la pena di scoprire o riscoprire è quello di Cass McCombs, cantautore americano 42enne che con Tip of the Sphere tira fuori un lavoro prolisso ma sempre ispirato, con episodi che si dilatano, cullandosi in melodie essenziali e avvolgenti dalle più o meno lunghe digressioni psichedeliche, qualcosa che a tratti richiama l’approccio di un Jonathan Wilson – il quale tornerà a dare notizie di sè con un nuovo album entro la prossima primavera.

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Tornano le voci di Manley alla Jaguar

Dopo la fusione tra Fca e Psa, l'uomo scelto da Elkann come successore di Marchionne è di fatto un personaggio in cerca d'autore.

Sul Daily Telegraph del primo gennaio Alan Tovey rilancia la voce, già infruttuosamente circolata in passato, che darebbe Mike Manley in partenza per Jaguar Land Rover. L’attuale amministratore delegato di Fca, sorprendentemente scelto da John Elkann per succedere a Sergio Marchionne, nonostante le enfatiche e reiterate dichiarazioni di lunga amicizia con Carlos Tavares, capo del costituendo quarto costruttore mondiale di veicoli grazie all’acquisto di Fca da parte di Psa, ora di fatto è un personaggio in cerca d’autore.

SE RESTA IN FCA È DESTINATO ALLA RETROCESSIONE

Comunque sia, se Manley non abbandonerà la nave (come ha fatto il capo della comunicazione mondiale di Fiat Chrysler Automobiles, Niel Golightly, che dal 31 dicembre è passato alla disastrata Boeing), sarà di fatto retrocesso, indipendentemente dal titolo magari roboante che gli verrà assegnato. A comandare nel nuovo gruppo, su questo non ci sono dubbi, sarà il manager portoghese.

RISULTATI SCONFORTANTI IN CINA, INDIA E AUSTRALIA

D’altro canto, Manley è sì vero che è stato dal 2009 responsabile del marchio Jeep, l’unico sul quale Marchionne abbia investito qualcosa di significativo, ma è stato anche a capo dell’area Asia-Pacifico. E i risultati sono stati a dir poco sconfortanti: non solo la presenza di Jeep è insignificante in mercati quali Cina, India e Australia, ma soprattutto il mercato non le riconosce lo status di marchio premium. A Jaguar Land Rover, posseduta dall’82enne Ratan Naval Tata, potrebbe prendere il posto dell’attuale ad, il 64enne Sir Ralf Speth. Da tempo si mormora che, lanciato il nuovo Defender, Sir Ralph potrebbe lasciare. Per Manley, inglese e nato nel Kent, potrebbe essere un ritorno all’ovile. Sempre che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non spinga l’indiano Tata ad abbandonare gli stabilimenti inglesi e trasferire la produzione altrove. Il che sarebbe un test davvero molto impegnativo per Manley.

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Morti e feriti dei botti di Capodanno 2020

Un ragazzo di 26 anni ha perso la vita ad Ascoli mentre cercava di spegnere un incendio. Una ragazza di 19 anni colpita all'addome da un proiettile vagante nel Casertano.

Capodanno tragico ad Ascoli Piceno. Un ragazzo di 26 anni, Valerio Amatizi, è morto dopo essere precipitato per un centinaio di metri in un dirupo, nel tentativo di spegnere un principio di incendio innescato dal lancio di fuochi artificiali sul Colle San Marco.

RAGAZZA COLPITA DA UN PROIETTILE NEL CASERTANO

Altre tre persone sono rimaste ferite nel Casertano. La più grave è una ragazza di 19 anni, colpita all’addome da un proiettile vagante mentre era sul balcone di casa. Ricoverata in codice rosso all’ospedale di Aversa, non è in pericolo di vita. Altri due incidenti sono avvenuti a Maddaloni e a San Nicola La Strada, dove un 24enne e un 58enne sono rimasti feriti dai botti con prognosi di 15 e 10 giorni.

DUE RAGAZZI HANNO SUBITO L’AMPUTAZIONE DI UNA MANO NEL MILANESE

Nel Milanese, invece, un 23enne e un 14enne in due episodi distinti hanno subito l’amputazione di una mano a causa delle gravi ferite riportate nell’esplosione di petardi. Il primo episodio è accaduto in via Capuana, a Milano, intorno a mezzanotte e mezza, e ha coinvolto oltre al giovane altri due ragazzini di origine rumena. Il 14enne, invece, è rimasto dilaniato poco prima dell’una in via De Gasperi a Cuggiono, in provincia di Milano.

A NAPOLI E PROVINCIA 48 FERITI

A Napoli e provincia i feriti sono in tutto 48: quarantasei a causa dei petardi, due per aver usato dei lanciarazzi. Coinvolti anche tre minorenni. Nessuno è in gravi condizioni.

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Luci e ombre del ventennio targato Vladimir Putin

L'ascesa al potere da semi-sconosciuto. Gli anni d'oro, suoi e della Russia. Le crisi economiche e quelle diplomatiche. Com'è cambiato il capo del Cremlino dal 1999 a oggi.

Il fatto che fosse già primo ministro non rendeva la scelta poi così ovvia. Di primi ministri Boris Yeltsin ne aveva già consumati parecchi. Ma quando il presidente, il 31 gennaio del 1999, si dimise e lo nominò suo successore ad interim, Vladimir Putin non era più un premier qualsiasi. Durante i cinque mesi scarsi del suo governo era diventato molto popolare. Dopo gli attentati agli edifici residenziali che in settembre avevano provocato oltre 300 morti e un migliaio di feriti nella capitale e in due altre città della Russia, Putin aveva immediatamente accusato i separatisti della Cecenia e ordinato il bombardamento di Grozny. «Li annienteremo anche giù per il cesso, se è il caso», aveva dichiarato mentre scatenava la seconda e definitiva guerra di Mosca contro la repubblica caucasica ribelle.

Lo stile di Putin era in linea con la necessità di riaffermare il potere statale disgregatosi insieme all’Urss

Il suo stile “da gangster” ai russi era piaciuto. Era in linea con la necessità di riaffermare il potere statale disgregatosi insieme all’Urss e di uscire dagli sconvolgimenti politici, economici e sociali che negli Anni 90 avevano devastato la vita dei cittadini. Una certa dose di brutalità si confaceva ai tempi: poteva esser considerato un prezzo da pagare in vista di una futura normalità

L'”OPERAZIONE SUCCESSORE” DI YELTSIN

Le ipotesi secondo cui gli attentati ai condomìni fossero stati organizzati dai servizi di sicurezza per chiudere i conti con la secessione cecena e per portare Putin alla presidenza sono circostanziate. Il Cremlino anziché fugare i dubbi li ha alimentati intralciando la ricerca della verità. Comunque stiano le cose, in seguito a quegli eventi l’uomo che nell’ultimo giorno del millennio fu messo a capo della Russia aveva ormai un gradimento sufficientemente alto da far prevedere un’agevole conferma elettorale alle presidenziali che ci sarebbero state in primavera. L’”operazione successore”  studiata da Yeltsin e dal suo entourage poteva dirsi riuscita. 

Vladimir Putin è al quarto mandato da presidente della Federazione Russa.

Mentre i rating e la salute del capo andavano a picco e si faceva sempre più concreta la possibilità di azioni penali legate alle liberalizzazioni selvagge che avevano messo l’economia ex-sovietica in mano agli oligarchi, si trattava di dare il potere a qualcuno in grado di garantire che il presidente uscente e le persone a lui vicine non fossero perseguite, e che gli asset creati da quella che è stata definita “la svendita del secolo” non fossero messi in discussione. Fu scelto un burocrate con un background nei servizi segreti, di cui erano noti efficienza, pragmatismo scevro da pretese ideologiche e assoluta fedeltà ai superiori. Ma senza alcuna esperienza politica. Non aveva quasi mai parlato in pubblico ed era sconosciuto ai cittadini. In meno di 150 giorni da premier, Putin aveva ovviato a questi svantaggi. 

UN REGIME CHE NON SI È FATTO STATO

Vent’anni dopo, Putin è il leader di un regime diventato il faro dei populismi e delle destre alternative mondiali, impegnato in un confronto politico con l’Occidente condito di idee sovraniste e tradizionaliste, a scapito di ogni tentativo serio di modernizzare e sviluppare l’economia. Lo zar ha raggiunto gli obiettivi di preservare l’unità della Russia, costruendo una verticale del potere sulle basi autoritarie proprie della tradizione nazionale, e di ristabilirne il ruolo di grande potenza. Ha fallito nel creare una classe dirigente che abbia a cuore i reali interessi del paese. Come ha scritto lo storico Dmitri Trenin, «il regime politico che ha rimpiazzato il caos degli Anni 90 non è  riuscito a maturare in uno Stato a pieno titolo: è prevalentemente al servizio di una stretta élite che sfrutta le risorse seguendo interessi personali e collettivi». E gli interessi dei siloviki, gli uomini legati ai servizi di sicurezza a cui Putin ha messo in mano la Russia, hanno avuto la meglio sull’esigenza di dare prospettive strutturali alla forte crescita economica coincisa con i primi due mandati del presidente. 

UN VENTENNIO SPACCATO IN DUE

«Se Putin avesse lasciato nel 2008 sarebbe passato alla storia come uno dei leader russi di maggior successo», notava il politologo Kirill Rogov in un articolo sul quotidiano Vedemosti. Dal 1999 al 2008 la ricchezza nazionale crebbe del 94%, e il Pil pro capite raddoppiò. Soprattutto grazie all’aumento dei prezzi petroliferi, ma anche alle riforme fiscali e alle facilitazioni per l’apertura di nuove imprese introdotte da Putin. L’inizio delle trattative per l’entrata della Russia nel Wto spinse gli investimenti stranieri e contribuì al rafforzamento del rublo. Il presidente si presentava come uno statista pragmatico e orientato al mercato. In politica internazionale, era dichiaratamente filo-occidentale. Chiese di partecipare alla Nato, assicurò supporto a Washington nella campagna militare in Afghanistan seguìta all’11 settembre; in un discorso in tedesco al Bundestag auspicò la costruzione di una grande Europa «da Lisbona a Vladivostok».

Putin è nato a San Pietroburgo nel 1952.

La seconda parte del ventennio putiniano può essere letta come l’opposto della precedente, ed è all’insegna delle crisi. Due furono crisi economiche: nel 2009 e nel 2015, quando  andamenti al ribasso dei corsi del greggio punirono la mai risolta dipendenza dell’economia russa dalle esportazioni di idrocarburi. Di fronte a un modello di crescita chiaramente esaurito, e all’obsolescenza di impianti produttivi e infrastrutture, sarebbe servito accelerare le riforme. Che invece si sono sostanzialmente fermate. I decreti per i ”progetti nazionali” firmati dal Putin nel maggio 2018 prevedono investimenti statali su larga scala che costeranno ai contribuenti migliaia di miliardi di rubli e che rischiano di essere poco efficaci, in un Paese dove la corruzione è imperante. Esperti e finanzieri internazionali hanno poca fiducia. «La soluzione ai problemi della Russia va proprio nella direzione opposta», secondo Sergey Guriev, capo economista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo: «Servirebbe implementare riforme lungamente promesse per la protezione dei diritti di proprietà, per la concorrenza, per la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, per la lotta alla corruzione e per la reintegrazione nell’economia globale», ha scritto Guriev su Vedemosti. Intanto, dalla crescita vertiginosa della ”prima era” di Putin, nella seconda si è passati alla stagnazione: nel 2008 il Pil pro capite era arrivato ad essere pari al 22,5% di quello Usa e al 32% di quello della media Ue, nel 2018 le percentuali erano rispettivamente del 21,5 e del 31. 

L’ERA DELLE CRISI E DELLE GUERRE

Alla frenata economica hanno contribuito pesantemente le crisi politiche e diplomatico-militari che hanno caratterizzato la “seconda era” dei venti anni di Putin al potere. Le proteste di massa contro il regime a Mosca nel 2011-2012 determinarono l’inasprimento dei caratteri autoritari del sistema e l’aumento dell’influenza degli apparati di sicurezza nelle decisioni del Cremlino. L’annessione della Crimea a il conflitto nell’Ucraina orientale ne furono in buona parte una conseguenza. Così come il successivo intervento nel conflitto siriano. Il confronto con l’Occidente diventò il tema centrale dell’azione della Russia e della sua narrativa propagandistica. Il costo non è solo quello delle sanzioni internazionali a cui Mosca è oggi sottoposta.

LE RICADUTE SULLA VITA DEI CITTADINI

L’aumento delle spese per la difesa ha ricadute sui servizi sociali e sul tenore di vita dei cittadini. E rischia di diventare esponenziale in seguito allo smantellamento del sistema di controllo sugli armamenti iniziato dagli Usa in questo clima da nuova Guerra Fredda. Putin potrebbe finire per pagarla cara anche politicamente, sullo scacchiere internazionale: «L’assenza di una strategia di lungo termine e il gusto per astuzie opportunistiche e manovre tattiche espone la politica estera a rischi sostanziali», sostiene Trenin. «L’ossessione di Putin per cambiare l’ordine esistente, ovvero per cercare attivamente di eliminare l’egemonia globale degli Usa, è dannoso, perché non rafforza necessariamente le proprie posizioni ma crea problemi aggiuntivi. Quel che è importante per la Russia non è l’ordine globale di per sé, ma il posto della Russia in questo ordine». 

Paradossalmente, Putin è rimasto ostaggio di quegli Anni 90 di cui doveva esser l’antidoto

Putin ha davanti a sé altri quasi cinque anni di mandatoCome minimo. Difficile dar giudizi su un periodo che è ancora in corso. Certamente, il presidente ha dato al suo Paese una relativa stabilità, e su di essa fonda la legittimità del suo regime. Ma non l’ha reso quel Paese finalmente normale che i russi auspicavano alla fine degli Anni 90. Come in quel periodo, la prosperità finanziaria è spesso direttamente proporzionale alla vicinanza col potere, e la certezza del diritto è aleatoria. E tipica degli Anni 90 è la retorica “da gangster” che accompagna l’azione del Cremlino in politica interna, con la più o meno spudorata repressione di ogni reale opposizione, e in politica estera. Paradossalmente, Putin è rimasto ostaggio di quegli Anni 90 di cui doveva esser l’antidoto. Normalità, giustizia e reale sviluppo continuano a esser relegate a un futuro indefinito. Per non parlar di democrazia. 

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Luci e ombre del ventennio targato Vladimir Putin

L'ascesa al potere da semi-sconosciuto. Gli anni d'oro, suoi e della Russia. Le crisi economiche e quelle diplomatiche. Com'è cambiato il capo del Cremlino dal 1999 a oggi.

Il fatto che fosse già primo ministro non rendeva la scelta poi così ovvia. Di primi ministri Boris Yeltsin ne aveva già consumati parecchi. Ma quando il presidente, il 31 gennaio del 1999, si dimise e lo nominò suo successore ad interim, Vladimir Putin non era più un premier qualsiasi. Durante i cinque mesi scarsi del suo governo era diventato molto popolare. Dopo gli attentati agli edifici residenziali che in settembre avevano provocato oltre 300 morti e un migliaio di feriti nella capitale e in due altre città della Russia, Putin aveva immediatamente accusato i separatisti della Cecenia e ordinato il bombardamento di Grozny. «Li annienteremo anche giù per il cesso, se è il caso», aveva dichiarato mentre scatenava la seconda e definitiva guerra di Mosca contro la repubblica caucasica ribelle.

Lo stile di Putin era in linea con la necessità di riaffermare il potere statale disgregatosi insieme all’Urss

Il suo stile “da gangster” ai russi era piaciuto. Era in linea con la necessità di riaffermare il potere statale disgregatosi insieme all’Urss e di uscire dagli sconvolgimenti politici, economici e sociali che negli Anni 90 avevano devastato la vita dei cittadini. Una certa dose di brutalità si confaceva ai tempi: poteva esser considerato un prezzo da pagare in vista di una futura normalità

L'”OPERAZIONE SUCCESSORE” DI YELTSIN

Le ipotesi secondo cui gli attentati ai condomìni fossero stati organizzati dai servizi di sicurezza per chiudere i conti con la secessione cecena e per portare Putin alla presidenza sono circostanziate. Il Cremlino anziché fugare i dubbi li ha alimentati intralciando la ricerca della verità. Comunque stiano le cose, in seguito a quegli eventi l’uomo che nell’ultimo giorno del millennio fu messo a capo della Russia aveva ormai un gradimento sufficientemente alto da far prevedere un’agevole conferma elettorale alle presidenziali che ci sarebbero state in primavera. L’”operazione successore”  studiata da Yeltsin e dal suo entourage poteva dirsi riuscita. 

Vladimir Putin è al quarto mandato da presidente della Federazione Russa.

Mentre i rating e la salute del capo andavano a picco e si faceva sempre più concreta la possibilità di azioni penali legate alle liberalizzazioni selvagge che avevano messo l’economia ex-sovietica in mano agli oligarchi, si trattava di dare il potere a qualcuno in grado di garantire che il presidente uscente e le persone a lui vicine non fossero perseguite, e che gli asset creati da quella che è stata definita “la svendita del secolo” non fossero messi in discussione. Fu scelto un burocrate con un background nei servizi segreti, di cui erano noti efficienza, pragmatismo scevro da pretese ideologiche e assoluta fedeltà ai superiori. Ma senza alcuna esperienza politica. Non aveva quasi mai parlato in pubblico ed era sconosciuto ai cittadini. In meno di 150 giorni da premier, Putin aveva ovviato a questi svantaggi. 

UN REGIME CHE NON SI È FATTO STATO

Vent’anni dopo, Putin è il leader di un regime diventato il faro dei populismi e delle destre alternative mondiali, impegnato in un confronto politico con l’Occidente condito di idee sovraniste e tradizionaliste, a scapito di ogni tentativo serio di modernizzare e sviluppare l’economia. Lo zar ha raggiunto gli obiettivi di preservare l’unità della Russia, costruendo una verticale del potere sulle basi autoritarie proprie della tradizione nazionale, e di ristabilirne il ruolo di grande potenza. Ha fallito nel creare una classe dirigente che abbia a cuore i reali interessi del paese. Come ha scritto lo storico Dmitri Trenin, «il regime politico che ha rimpiazzato il caos degli Anni 90 non è  riuscito a maturare in uno Stato a pieno titolo: è prevalentemente al servizio di una stretta élite che sfrutta le risorse seguendo interessi personali e collettivi». E gli interessi dei siloviki, gli uomini legati ai servizi di sicurezza a cui Putin ha messo in mano la Russia, hanno avuto la meglio sull’esigenza di dare prospettive strutturali alla forte crescita economica coincisa con i primi due mandati del presidente. 

UN VENTENNIO SPACCATO IN DUE

«Se Putin avesse lasciato nel 2008 sarebbe passato alla storia come uno dei leader russi di maggior successo», notava il politologo Kirill Rogov in un articolo sul quotidiano Vedemosti. Dal 1999 al 2008 la ricchezza nazionale crebbe del 94%, e il Pil pro capite raddoppiò. Soprattutto grazie all’aumento dei prezzi petroliferi, ma anche alle riforme fiscali e alle facilitazioni per l’apertura di nuove imprese introdotte da Putin. L’inizio delle trattative per l’entrata della Russia nel Wto spinse gli investimenti stranieri e contribuì al rafforzamento del rublo. Il presidente si presentava come uno statista pragmatico e orientato al mercato. In politica internazionale, era dichiaratamente filo-occidentale. Chiese di partecipare alla Nato, assicurò supporto a Washington nella campagna militare in Afghanistan seguìta all’11 settembre; in un discorso in tedesco al Bundestag auspicò la costruzione di una grande Europa «da Lisbona a Vladivostok».

Putin è nato a San Pietroburgo nel 1952.

La seconda parte del ventennio putiniano può essere letta come l’opposto della precedente, ed è all’insegna delle crisi. Due furono crisi economiche: nel 2009 e nel 2015, quando  andamenti al ribasso dei corsi del greggio punirono la mai risolta dipendenza dell’economia russa dalle esportazioni di idrocarburi. Di fronte a un modello di crescita chiaramente esaurito, e all’obsolescenza di impianti produttivi e infrastrutture, sarebbe servito accelerare le riforme. Che invece si sono sostanzialmente fermate. I decreti per i ”progetti nazionali” firmati dal Putin nel maggio 2018 prevedono investimenti statali su larga scala che costeranno ai contribuenti migliaia di miliardi di rubli e che rischiano di essere poco efficaci, in un Paese dove la corruzione è imperante. Esperti e finanzieri internazionali hanno poca fiducia. «La soluzione ai problemi della Russia va proprio nella direzione opposta», secondo Sergey Guriev, capo economista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo: «Servirebbe implementare riforme lungamente promesse per la protezione dei diritti di proprietà, per la concorrenza, per la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, per la lotta alla corruzione e per la reintegrazione nell’economia globale», ha scritto Guriev su Vedemosti. Intanto, dalla crescita vertiginosa della ”prima era” di Putin, nella seconda si è passati alla stagnazione: nel 2008 il Pil pro capite era arrivato ad essere pari al 22,5% di quello Usa e al 32% di quello della media Ue, nel 2018 le percentuali erano rispettivamente del 21,5 e del 31. 

L’ERA DELLE CRISI E DELLE GUERRE

Alla frenata economica hanno contribuito pesantemente le crisi politiche e diplomatico-militari che hanno caratterizzato la “seconda era” dei venti anni di Putin al potere. Le proteste di massa contro il regime a Mosca nel 2011-2012 determinarono l’inasprimento dei caratteri autoritari del sistema e l’aumento dell’influenza degli apparati di sicurezza nelle decisioni del Cremlino. L’annessione della Crimea a il conflitto nell’Ucraina orientale ne furono in buona parte una conseguenza. Così come il successivo intervento nel conflitto siriano. Il confronto con l’Occidente diventò il tema centrale dell’azione della Russia e della sua narrativa propagandistica. Il costo non è solo quello delle sanzioni internazionali a cui Mosca è oggi sottoposta.

LE RICADUTE SULLA VITA DEI CITTADINI

L’aumento delle spese per la difesa ha ricadute sui servizi sociali e sul tenore di vita dei cittadini. E rischia di diventare esponenziale in seguito allo smantellamento del sistema di controllo sugli armamenti iniziato dagli Usa in questo clima da nuova Guerra Fredda. Putin potrebbe finire per pagarla cara anche politicamente, sullo scacchiere internazionale: «L’assenza di una strategia di lungo termine e il gusto per astuzie opportunistiche e manovre tattiche espone la politica estera a rischi sostanziali», sostiene Trenin. «L’ossessione di Putin per cambiare l’ordine esistente, ovvero per cercare attivamente di eliminare l’egemonia globale degli Usa, è dannoso, perché non rafforza necessariamente le proprie posizioni ma crea problemi aggiuntivi. Quel che è importante per la Russia non è l’ordine globale di per sé, ma il posto della Russia in questo ordine». 

Paradossalmente, Putin è rimasto ostaggio di quegli Anni 90 di cui doveva esser l’antidoto

Putin ha davanti a sé altri quasi cinque anni di mandatoCome minimo. Difficile dar giudizi su un periodo che è ancora in corso. Certamente, il presidente ha dato al suo Paese una relativa stabilità, e su di essa fonda la legittimità del suo regime. Ma non l’ha reso quel Paese finalmente normale che i russi auspicavano alla fine degli Anni 90. Come in quel periodo, la prosperità finanziaria è spesso direttamente proporzionale alla vicinanza col potere, e la certezza del diritto è aleatoria. E tipica degli Anni 90 è la retorica “da gangster” che accompagna l’azione del Cremlino in politica interna, con la più o meno spudorata repressione di ogni reale opposizione, e in politica estera. Paradossalmente, Putin è rimasto ostaggio di quegli Anni 90 di cui doveva esser l’antidoto. Normalità, giustizia e reale sviluppo continuano a esser relegate a un futuro indefinito. Per non parlar di democrazia. 

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