I partiti pro e contro Salvini sul caso Gregoretti

L'ex ministro è in maggioranza. Anche Italia Viva voterà contro lui. Il centrodestra non basta a evitare l'autorizzazione a procedere.

L’inizio del confronto in Senato sul caso Gregoretti che riguarda Matteo Salvini si avvicina. Mercoledì 8 gennaio inizia nella Giunta per le immunità l’esame della richiesta di autorizzazione a procedere, su cui il voto è fissato per il 20 gennaio. E gli schieramenti che ormai sembrano essersi delineati non portano certo buone notizie per l’ex ministro dell’Interno.

SALVINI IN MINORANZA

Dalla parte di Salvini si schiera solo il centrodestra, una minoranza tanto nella Giunta per le immunità quanto in Aula. Persino l’ipotesi di un voto favorevole da parte di Italia Viva è sfumata il 4 gennaio, con le dichiarazioni del coordinatore nazionale, Ettore Rosato. «Salvini nella sua memoria ci ha spiegato che il caso Gregoretti è identico a quello della Diciotti. Quindi noi ci comporteremo in modo identico, votando anche stavolta a favore dell’autorizzazione al processo contro Salvini». Linea identica per il Pd, tesi opposta ma stessa conclusione per il Movimento 5 stelle, secondo il quale «il caso Gregoretti è completamente diverso da quello della Diciotti, quando votammo a favore di Salvini, quindi ora voteremo contro di lui». Anche l’ex M5s, Gregorio De Falco, membro della Giunta, ha spiegato in punta di diritto la diversità dei due casi appoggiando per una volta le tesi del movimento in cui ha militato.

FORZA ITALIA CON L’EX MINISTRO

Dalla parte di Salvini c’è Forza Italia. «Le piroette di Renzi tra garantismo e giustizialismo non ci sorprendono più, ma qui c’è in ballo una questione più grande: consegnare infatti un ex ministro dell’Interno nelle mani della magistratura per aver seguito la linea della fermezza sulla immigrazione clandestina che faceva parte del programma di governo significherebbe la capitolazione finale della politica», ha affermato la capogruppo azzurra in Senato Anna Maria Bernini. Per la presidente dei deputati forzisti Mariastella Gelmini, invece, il M5s usa «due pesi e due misure sulla base della convenienza» e «non è quello di cui l’Italia ha bisogno». Per solidarizzare con il leader leghista, Francesco Giro ha proposto il doppio tesseramento Fi-Lega, ma sui social è stato insultato dal responsabile dei Giovani di Fi e amministratore milanese, Marco Bettetti. Tra la base di Forza Italia, infatti, non tutti salverebbero Salvini, a cui viene attribuita la colpa di aver fagocitato il partito di Berlusconi.

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I partiti pro e contro Salvini sul caso Gregoretti

L'ex ministro è in maggioranza. Anche Italia Viva voterà contro lui. Il centrodestra non basta a evitare l'autorizzazione a procedere.

L’inizio del confronto in Senato sul caso Gregoretti che riguarda Matteo Salvini si avvicina. Mercoledì 8 gennaio inizia nella Giunta per le immunità l’esame della richiesta di autorizzazione a procedere, su cui il voto è fissato per il 20 gennaio. E gli schieramenti che ormai sembrano essersi delineati non portano certo buone notizie per l’ex ministro dell’Interno.

SALVINI IN MINORANZA

Dalla parte di Salvini si schiera solo il centrodestra, una minoranza tanto nella Giunta per le immunità quanto in Aula. Persino l’ipotesi di un voto favorevole da parte di Italia Viva è sfumata il 4 gennaio, con le dichiarazioni del coordinatore nazionale, Ettore Rosato. «Salvini nella sua memoria ci ha spiegato che il caso Gregoretti è identico a quello della Diciotti. Quindi noi ci comporteremo in modo identico, votando anche stavolta a favore dell’autorizzazione al processo contro Salvini». Linea identica per il Pd, tesi opposta ma stessa conclusione per il Movimento 5 stelle, secondo il quale «il caso Gregoretti è completamente diverso da quello della Diciotti, quando votammo a favore di Salvini, quindi ora voteremo contro di lui». Anche l’ex M5s, Gregorio De Falco, membro della Giunta, ha spiegato in punta di diritto la diversità dei due casi appoggiando per una volta le tesi del movimento in cui ha militato.

FORZA ITALIA CON L’EX MINISTRO

Dalla parte di Salvini c’è Forza Italia. «Le piroette di Renzi tra garantismo e giustizialismo non ci sorprendono più, ma qui c’è in ballo una questione più grande: consegnare infatti un ex ministro dell’Interno nelle mani della magistratura per aver seguito la linea della fermezza sulla immigrazione clandestina che faceva parte del programma di governo significherebbe la capitolazione finale della politica», ha affermato la capogruppo azzurra in Senato Anna Maria Bernini. Per la presidente dei deputati forzisti Mariastella Gelmini, invece, il M5s usa «due pesi e due misure sulla base della convenienza» e «non è quello di cui l’Italia ha bisogno». Per solidarizzare con il leader leghista, Francesco Giro ha proposto il doppio tesseramento Fi-Lega, ma sui social è stato insultato dal responsabile dei Giovani di Fi e amministratore milanese, Marco Bettetti. Tra la base di Forza Italia, infatti, non tutti salverebbero Salvini, a cui viene attribuita la colpa di aver fagocitato il partito di Berlusconi.

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Haftar invoca il jihad contro l’intervento turco in Libia

Il generale si scaglia contro Erdogan: «Stupido sultano turco». E invita il popolo a combattere contro l'invio di truppe a sostegno di Sarraj.

L’ingresso delle truppe turche, col voto del parlamento di Ankara favorevole all’invio di soldati in sostegno di Fayez Al-Sarraj, è destinato a spostare gli equilibri del conflitto libico. Una mossa che ha spiazzato l’Italia e l’Unione europea, che da tempo cercano una soluzione diplomatica, ma anche gli Stati Uniti, con Donald Trump che ha chiamato Erdogan per esprimergli la sua contrarietà all’intervento. E che ha spinto il generale Khalifa Haftar a lanciare la sua invettiva contro il presidente turco: «Questo stupido sultano turco ha scatenato la guerra in tutta la regione dichiarando che la Libia è una propria eredità», ha detto nel discorso con cui il 3 gennaio ha lanciato un appello ai libici ad armarsi contro la Turchia. A riportare le parole di Haftar è il sito Libya Akhbar.

«GUERRA AL COLONIALISTA»

Haftar ha sostenuto che la battaglia in corso per la conquista di Tripoli, riporta inoltre il sito fuori virgolette, «si amplia per divenire una guerra feroce a un colonialista brutale che vede la Libia come un’eredità storica e sogna di far rivivere un impero costruito dai suoi avi sulla povertà e l’ignoranza». Il generale ha esortato i libici a mettere da parte i propri contrasti, a rafforzare la fiducia nell’esercito e a difendere la loro terra e il loro onore. «Il nemico ha dichiarato guerra e ha deciso di invadere il Paese», ha affermato ancora Haftar secondo quanto riporta il sito, «sostenendo che l’amico popolo turco, con il quale la Libia ha legami fraterni grazie all’islam, si rivolterà inevitabilmente contro questo insensato avventuriero che spinge il proprio esercito a morire e aizza la discordia fra i musulmani».

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La situazione tra Iran e Usa dopo l’uccisione di Soleimani

Il Pentagono nega nuovi raid, ma manda 2.800 soldati in Medio Oriente. Teheran assicura di non volere una escalation, ma promette vendetta. Razzo su un aeroporto di Baghdad che ospita truppe americane.

Il Pentagono assicura che, almeno per il momento, non sono previsti altri raid aerei degli Stati Uniti contro le milizie filo-iraniane. Teheran da una parte, col suo ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, dichiara di non volere alcuna escalation, dall’altra, attraverso i Pasdaran e il presidente Rohani, manda chiari messaggi minacciosi all’America. E due razzi che colpiscono la superprotetta Green Zone di Baghdad, e la base aerea di Balad, che ospita truppe americane. Non vi sono al momento notizie di vittime.La situazione in Medio Oriente, nel giorno in cui il feretro dell’eroe nazionale iraniano Qassem Soleimani è sfilato per le vie di Baghdad accompagnato dalla folla che gridava «morte all’America», sembra quella di una pentola a pressione pronta a esplodere.

NUOVI SOLDATI AMERICANI

La sensazione, al di là delle parole, è che però tiri un deciso vento di guerra. Così gli Stati Uniti hanno deciso di inviare circa 2.800 soldati a protezione delle sedi diplomatiche e degli interessi Usa nell’area, i punti nevralgici più sensibili a una rappresaglia iraniana che è impossibile pensare non arrivi. D’altra parte l’ambasciata americana a Baghdad era già stata assaltata da migliaia di manifestanti pochi giorni prima dell’uccisione di Soleimani.

INCONTRO IRAN-QATAR

Intanto il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ricevuto a Teheran il suo omologo del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Zarif ha definito l’attacco Usa un «atto terroristico» che ha portato al «martirio» del comandante, ma ha anche aggiunto che «l’Iran non vuole tensioni nella regione, ed è la presenza e l’interferenza di forze straniere che causa instabilità, insicurezza e aumento della tensione nella nostra delicata regione».

IL QATAR PROVA A MEDIARE

Il Qatar, un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, ospita la più grande base militare di Washington in Medio Oriente , e Al-Thani ha definito la situazione nella regione «delicata e preoccupante» e ha invitato a trovare una soluzione pacifica che porti a una de-escalation. Il ministro del Qatar ha incontrato anche il presidente iraniano Hassan Rohani, che aveva giurato vendetta per il sangue di Soleimani. L’Arabia Saudita, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno interrotto ogni rapporto con il Qatar nel 2017, accusando Doha di appoggiare l’estremismo e promuovere legami con l’Iran, accuse che il Qatar ha sempre respinto.

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La proposta di Paola Pisano su username e password statali

La ministra della Pubblica amministrazione propone l'identità digitale unica. Per accedere ai servizi pubblici ma anche a quelli privati. Sui social scoppia la polemica. E lei prova a fare chiarezza con un tweet.

Un’unica e sola user e password per accedere a tutti i servizi digitali. Della pubblica amministrazione ma non solo, anche al proprio conto in banca, per acquistare un biglietto del cinema, per prenotare un’auto. La proposta lanciata dalla ministra della Pa Paola Pisano al programma Eta Beta di Radio1 ha fatto discutere parecchio, muovendo non poche perplessità.

MADIA CRITICA

L’iniziativa ha però trovato le critiche di Marianna Madia, ex titolare dello stesso ministero occupato dalla Pisano: «Sono molto perplessa per le posizioni espresse oggi dalla ministra Pisano relative all’identità digitale», ha affermato la deputata del Partito democratico. «Credo occorra un confronto urgente sulle scelte complessive del governo in materia di digitale e dati. Si tratta di un tema strategico per i diritti dei cittadini, la democrazia e la competitività del Paese. Alcune scelte meritano un approfondimento e un confronto ampio e non possono essere rilasciate ad improvvisazioni estemporanee».

SENSI E ATTIVISSIMO PREOCCUPATI

Quella della Madia non è stata l’unica voce critica. In tanti, sui social, hanno espresso dubbi e timori in termini di privacy e sicurezza. «Una sola password e pure di Stato?», ha commentato il debunker Paolo Attivissimo, «significherebbe collegare le attività private (che non devono interessare a uno Stato) a quelle che riguardano lo Stato (tasse, certificati, atti pubblici)». Ancora più netto e duro Filippo Sensi: «A me questa cosa mette i brividi e mi fermo per carità di patria».

IL CHIARIMENTO DELLA MINISTRA

La polemica è montata rapidamente sui social, tanto che la titolare della Pa è dovuta tornare sull’argomento con un tweet: «Vediamo di sgombrare il campo da ogni equivoco: l’identità digitale sarà rilasciata dallo Stato e servirà a identificare il cittadino in modo univoco verso lo Stato stesso. In futuro, per aziende e cittadini che lo vorranno, potrebbe essere un ulteriore sistema di autenticazione».

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Se le barriere in alta quota sono più facili da abbattere

L'associazione Baroni Rotti da anni forma piloti con disabilità. E ci dimostra che anche in cielo si può veicolare un messaggio contro la discriminazione e il pregiudizio.

Volare nel “blu dipinto di blu”, come cantava Domenico Modugno, è uno dei sogni più grandi dell’umanità fin dai tempi che furono. Gli antichi Greci incarnarono questo desiderio nel mito di Dedalo e Icaro ma prima che l’uomo potesse solcare i cieli avrebbe dovuto trascorrere moltissimo tempo. Ora l’aereo è diventato un mezzo di trasporto molto comune, che alcuni preferiscono ad altri di origine più antica ma ad andamento più lento e, statisticamente parlando, meno sicuri. Avete mai volato a bordo di un aeroplano pilotato da una persona con disabilità motoria? Lo ritenete possibile? Vi fidereste? Tranquilli, non serve che rispondiate. Se per una persona disabile viaggiare in aereo è una possibilità abbastanza utilizzata, seppure talvolta non esente da inconvenienti, vederla alla guida di un veivolo è un avvenimento a cui pochi hanno assistito e credo quasi nessuno ritenga ipotizzabile né tantomeno auspicabile.

QUELL’IDEA CONCEPITA DA UN “NORMALOIDE”

Infatti una disabilità fisica è una condizione che per senso comune si ritiene essere incompatibile con alcuni tipi di professioni e, tra queste, il pilota di aereo credo sia tra quelle considerate più fuori portata. E invece i piloti dell’associazione Baroni Rotti – la prima associazione di piloti con disabilità in Italia – hanno dimostrato che anche tale convinzione, sebbene sembri un dato di realtà evidente, se assunta come verità assoluta, non è altro che un pregiudizio e una teoria falsa. Non ci crederete, ma l’idea che anche persone con disabilità motoria potessero diventare in grado di pilotare un veivolo è stata concepita da un “normaloide”. Luciano Giannini, vulcanologo e istruttore di volo, portò in volo un ragazzo con disabilità il quale, terminata l’esperienza, piangendo gli confidò il suo dispiacere per il fatto di poter vivere quella meravigliosa avventura solo come passeggero e non anche in qualità di pilota.

LA NASCITA DEI BARONI ROTTI

Non conosco personalmente Luciano ma credo sia un po’ “matto”, come del resto lo sono tutti quelli che pensano che l’impossibile non sia scontato. Infatti, profondamente toccato da questo incontro, propose a degli amici piloti di provare ad adattare un aereo per renderlo pilotabile anche da chi non ha l’uso delle gambe o ha un uso parziale delle braccia. Gli adattamenti non sono permanenti,in questo modo uno stesso mezzo risulta accessibile sia a professionisti con disabilità che senza. Ma un progetto a favore di persone disabili non potrebbe avere successo senza essere stato condiviso con gli interessati ed è per questo che Luciano ed i suoi amici decisero di coinvolgere i soci dell’Associazione Paraplegici Aretini. Alcuni di loro frequentarono tutto l’iter di formazione e nel 1995 i primi pionieri superarono gli esami e si qualificarono piloti a tutti gli effetti. Poi nacquero i Baroni Rotti.

Tutte le barriere si rompono. Ma ci sono posti dove ce ne sono meno da rompere

Oggi esiste l’associazione e una federazione che coordina le molteplici realtà di volo nel nostro Paese. “Tutte le barriere si rompono. Ma ci sono posti dove ce ne sono meno da rompere”: questo è il motto dei Baroni. In realtà penso che non sia stato per niente facile, soprattutto per i primi aspiranti piloti, infrangere le barriere del pregiudizio e del senso comune, dimostrando tanto alle autorità competenti quanto ai loro esaminatori che a fare di una persona un buon pilota non sono le sue condizioni fisiche (fatto salvo l’ottenimento dell’idoneità medica, condizione sine qua non anche per gli aspiranti piloti senza disabilità) ma le sue competenze e che non si dovrebbe mai definire a priori una certa professione non adatta a certe “categorie” di persone senza prima aver cercato tutte le possibili soluzioni per gestire le eventuali criticità connesse all’esercizio del ruolo da parte delle stesse. A volte basterebbe solo aguzzare l’ingegno e individuare le tecnologie e gli accorgimenti adatti che consentano a tutti di volare.

NON TUTTI I SOCI SONO DISABILI DALLA NASCITA

Ma quella italiana non è ancora una società per persone disabili e a evolvere, ancor prima della tecnologia, dovrebbero essere le teorie di senso comune sulla disabilità. Infatti la si crede ancora una “sfiga” dei singoli mentre invece è il frutto dell’interazione tra caratteristiche individuali ritenute arbitrariamente fuori dalla “norma” (definita tale dal modello medico) ed il contesto sociale non adeguato ad offrire a tutti pari opportunità. Molti soci dei Baroni Rotti non sono disabili dalla nascita e immagino che per loro sia stato ancora più difficile digerire la discriminazione sociale di cui siamo spesso vittime rispetto a chi, come me, con una disabilità ci è nato e ha avuto tutta l’infanzia e la giovinezza per maturare le proprie strategie di sopravvivenza e contrasto al cosiddetto “abilismo”.

Oggi l’associazione vanta anche l’unica pattuglia al mondo di veivoli ultraleggeri composta da piloti disabili

Loro però ci sono riusciti e, grazie alla loro competenza e determinazione, hanno coronato un sogno e oggi l’associazione vanta anche l’unica pattuglia al mondo di veivoli ultraleggeri composta da piloti disabili. Attualmente una persona con disabilità può diventare pilota di aerei ultraleggeri, aerei ad aviazione generale, a motore e di aliante. Penso che i primi piloti e fondatori dei Baroni Rotti non siano da ammirare solo per il loro impegno e la loro competenza nell’esercizio della professione e per essere riusciti a superare le barriere del pregiudizio ma anche per la scelta di condividere la loro esperienza con altre persone disabili interessate ad intraprendere questo percorso di formazione professionale.

UN MESSAGGIO DIVERSO DA QUELLO A CUI SIAMO ABITUATI

Ad oggi sono dieci le scuole certificate dall’Aero Club d’Italia aperte anche ad allievi con alcune tipologie di disabilità motoria che quindi frequentano i corsi insieme ai compagni “normodotati”. Ovviamente tutti gli studenti devono aver ottenuto l’idoneità medica. Ritengo che i Baroni Rotti siano degli attivisti per i diritti delle persone con disabilità perché, attraverso la loro attività e i loro progetti, contribuiscono alla diffusione di un messaggio diverso da quello a cui siamo abituati. Infatti ci aiutano a capire che la una condizione fisica differente dalla norma non può essere considerata un limite ma piuttosto una sfida che apre a nuove possibilità e che in cielo, sì, forse ci sono meno barriere da abbattere rispetto alla terra ferma.

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Vertice a sorpresa tra Di Maio e Zingaretti

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi. Sul tavolo i prossimi obiettivi di governo.

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi tra il leader del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Stando a quanto si legge in una nota congiunta degli staff dei due leader, nel corso del colloquio si è parlato della situazione politica generale e si è fatto un primo confronto sul percorso da avviare per definire i prossimi obiettivi di governo. Il clima è stato definito come molto positivo e costruttivo.

UN GENNAIO DI FUOCO PER IL GOVERNO

Per il governo, il mese di gennaio si annuncia pieno di insidie e sfide delicate, in un contesto appesantito dalle tensioni interne al Movimento 5 stelle. Il 20 gennaio è previsto il voto della Giunta per l’Immunità del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini nell’ambito del caso Gregoretti; voto da cui la maggioranza potrebbe uscire non così compatta, specie alla luce delle riserve di Italia viva. Sei giorni più tardi, sono in agenda le elezioni regionali in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna, dove un risultato negativo del Pd potrebbe avere effetti pesanti sul governo. Da non sottovalutare anche il dibattito sulla prescrizione, con le tensioni tra M5s e Italia viva.

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Il nuovo governo Sanchez trema ancor prima di nascere

Si riaccendono le tensioni con gli indipendentisti catalani, a pochi giorni dal voto per la fiducia in parlamento. Il punto.

Trema il nascente governo Sanchez dopo il riaccendersi di tensioni con gli indipendentisti catalani a pochi giorni dalla data fissata per la fiducia in Parlamento che conta su una concordata astensione di Erc, il partito della sinistra catalana. La giunta elettorale centrale spagnola ha deciso che il presidente del governo catalano Quim Torra sia estromesso dal Parlamento dopo una condanna all’interdizione dai pubblici uffici per 18 mesi, condizione che dovrebbe portarlo a lasciare anche la presidenza della Generalitat. La stessa giunta conferma che Oriol Junqueras, in carcere dal 2017 per il tentativo di secessione, non potrà ricoprire la carica di deputato al Parlamento europeo. Nello stesso giorno il Psoe, nel ratificare l’accordo con l’Erc, precisa che «non ci sarà alcun referendum per l’autodeterminazione della Catalogna».

NOVE MESI DI STALLO E DUE ELEZIONI

Quim Torra contesta la decisione, avendo già presentato ricorso contro la sentenza alla Corte suprema, e convoca per stasera un Consiglio straordinario. Davanti alla Generalitat si raccoglie intanto un migliaio di suoi sostenitori. E la Erc convoca per il 5 gennaio una riunione straordinaria del suo esecutivo nazionale per «analizzare la decisione della giunta elettorale nazionale, coordinare la risposta e valutare le conseguenze sul calendario politico immediato». La decisione su Quim Torra potrebbe essere sospesa in attesa di chiarimenti, secondo fonti giuridiche interpellate dalla stampa spagnola, e quella su Junqueras era inevitabile vista la sua condizione di detenuto in attesa di diverse decisioni da parte del potere giudiziario. Tuttavia c’è chi teme che un riesplodere delle tensioni indipendentiste possa mettere a rischio l’intesa faticosamente trovata tra Psoe e sinistra catalana per far nascere martedì 7 gennaio, dopo nove mesi di gestazione e due elezioni, il nuovo governo Sanchez.

IL CASO QUIM TORRA

Quim Torra era stato condannato per ‘disobbedienza‘, dopo essersi rifiutato di togliere dalla facciata del palazzo della Generalitat, durante il periodo elettorale, degli striscioni che invocavano la libertà per gli indipendentisti in carcere. La legge elettorale spagnola è particolarmente severa con i condannati e prevede che non possano sedere in parlamento neanche quelli con sentenze non definitive. A sollecitare la cacciata di Quim Torra sono stati Pp, Ciudadanos e Vox presentando, prima ancora del deposito della sentenza, una risoluzione per l’espulsione. Respinta giorni fa dalla Giunta elettorale catalana, è stata ora approvata dal Consiglio elettorale centrale, al termine di una lunga riunione e con una ristretta maggioranza. La sentenza per Quim Torra non è stata ancora depositata, e il presidente della Generalitat, chiamato a dimettersi in quanto la carica è per la giunta spagnola inscindibile da quella di deputato, sostiene che lo Statuto catalano non specifica se tale condizione vada mantenuta per l’intero mandato. La decisione finale sulla sua permanenza o meno al vertice della Catalogna, spetterebbe in questo caso al Parlamento di Barcellona.

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Nuovo raid Usa: «Ucciso un comandante delle milizie filo-Iran»

Lo riportano la tv di Stato irachena e fonti del Pentagono. Ma le Pmu smentiscono. Mentre a Baghdad in migliaia sfilano al grido di "Morte all'America".

Un nuovo raid statunitense in Iraq avrebbe ucciso un comandante del gruppo paramilitare filo-iraniano Hashed al Shaabi. Lo riportano la tv di Stato irachena e fonti del Pentagono a Newsweek, senza citare il nome del comandante preso di mira, che secondo l’emittente iraniana Press Tv sarebbe Shibl al Zaidi, leader delle Brigate Imam Ali, milizia che fa parte delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu) allineata con l’Iran. Le Pmu hanno però smentito in una nota che tra le vittime ci sia un loro comandante. L’attacco, avvenuto la sera del 3 gennaio nel Nord di Baghdad, ha colpito un convoglio provocando sei morti e tre feriti.

ANCHE IL PREMIER IRACHENO AL FUNERALE DI SOLEIMANI

Nella capitale irachena, il 4 gennaio, migliaia di persone hanno partecipato al corteo funebre del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso la notte del 3 gennaio da un raid Usa, gridando – tra la sua bara e quella del suo principale luogotenente in Iraq, Abu Mehdi al Mouhandis – “morte all’America”. Il corteo ha sfilato tra le vie del distretto di Kazimiya, dove si trova un santuario sciita. Al termine, nella zona verde di Baghdad si è tenuto un funerale nazionale ufficiale alla presenza di molti leader iracheni, incluso il primo ministro Adil Abdul-Mahdi. I resti di Soleimani saranno portati in Iran dopo la cerimonia.

TEHERAN ALL’ONU: «È TERRORISMO DI STATO»

Da Teheran, intanto, l’ambasciatore iraniano all’Onu, Takht Ravanchi, ha scritto una lettera al segretario generale Antonio Guterres e al collega del Vietnam Dang Dinh Quy, presidente di turno del Consiglio di Sicurezza, denunciando che «l’assassinio del generale Qassem Soleimani è un esempio evidente di terrorismo di Stato e, in quanto atto criminale, costituisce una grave violazione dei principi di diritto internazionale, compresi quelli stipulati nella Carta delle Nazioni Unite. Comporta quindi la responsabilità internazionale degli Usa».

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Perché le tensioni tra Usa e Iran possono rafforzare la Russia

Mosca non vuole l'escalation. E potrebbe ergersi a mediatore tra Washington e Teheran. Sfruttando il ruolo di pivot delle crisi mediorientali conquistato in seguito alla campagna siriana. Un ruolo che questa mossa di Trump contribuisce a rafforzare.

È esattamente il tipo di «azione sconsiderata» che la diplomazia di Mosca temeva da parte di un Donald Trump nervoso per l’impeachment e teso a rafforzare il suo gradimento interno anche con mosse imprevedibili sull’arena internazionale. Ora ci si aspetta una pericolosa escalation. La Russia potrebbe offrire la sua mediazione per frenarla.

«Consideriamo l’uccisione di Qassem Soleimani in seguito al raid missilistico Usa nelle vicinanze di Baghdad come un passo all’insegna dell’avventurismo che porterà a un aumento della tensione in tutta la regione», è stato il primo commento del ministero degli Esteri russo. Secondo il presidente della Commissione esteri del senato Konstantin Kosachev «si è realizzato lo scenario più pessimistico possibile». La conseguenza immediata sarà quella di «nuovi scontri fra gli americani e il radicalismo sciita in Iraq», ha detto Kosachev in un’intervista all’agenzia Ria Novosti. Sottolineando poi su Facebook che gli Usa «hanno bombardato» ogni speranza di un controllo sul programma nucleare iraniano, e che Teheran potrebbe ora andare avanti nella costruzione di armi nucleari «anche se prima non ne aveva l’intenzione».

Uno dei maggiori esperti russi di politica internazionale, Dmitri Trenin prevede un surriscaldamento: «L’uccisione di Soleimani non sarà un deterrente per l’Iran», ha scritto su Twitter. «Molto più probabilmente, intensificherà i conflitti nella regione, a partire dall’Iraq». Trenin nota come, dopo essersi sostanzialmente ritirato dai conflitti mediorientali, Trump ora rischi un coinvolgimento militare diretto in luoghi che per gli Usa hanno «meno significato di quanto lo avesse in passato».

LA COLLABORAZIONE MILITARE TRA IRAN E RUSSIA

Con l’Iran la Russia ha stabilito una stretta collaborazione militare fin dall’inizio del suo intervento in Siria a supporto del regime di Bashar al-Assad. Negli ultimi giorni dello scorso anno, i due paesi hanno effettuato manovre navali congiunte insieme alla Cina nell’Oceano Indiano e nel golfo di Oman. Nella guerra siriana, le truppe di Hezbollah armate e dirette da Teheran e la stessa Guardia Rivoluzionaria di cui fanno parte le forze speciali dell’unità Qods di cui il generale ucciso era al comando hanno combattuto sotto la copertura aerea fornita da Mosca. Soleimani era stato coinvolto in prima persona dagli esperti militari russi nella messa a punto delle operazioni. «È andato a più riprese sul fronte, per assicurare il coordinamento con gli alleati», ha confermato una fonte del ministero della Difesa russo al quotidiano Vedemosti.

È improbabile che si arrivi a una guerra su vasta scala, ma Teheran, oltre ad annullare ogni accordo sul suo programma nucleare, potrebbe per esempio reagire bloccando lo stretto di Hormuz

Fonti diplomatiche sentite dallo stesso giornale definiscono «imprevedibili» le conseguenze dell’uccisione di Soleimani: «È improbabile che si arrivi a una guerra su vasta scala, ma Teheran, oltre ad annullare ogni accordo sul suo programma nucleare, potrebbe per esempio reagire bloccando lo stretto di Hormuz». Nell’azione statunitense «non c’è una logica visibile». Secondo Maxim Shepovalenko, analista del think tank moscovita Cast e coautore del volume Persian Bastion sul potenziale militare dell’Iran,  gli Stati Uniti non possono certo illudersi che l’Iran non sia in grado di sostituire adeguatamente Soleimani, e l’obiettivo del raid è stato probabilmente quello di «dimostrare la forza di Trump sullo sfondo dell’impeachment».

L’ARMA DELLA DIPLOMAZIA

L’attacco americano all’aeroporto di Baghdad «non sposta niente nei rapporti tra la Russia e Teheran», dice a Lettera43 Nikolay Kozhanov, docente all’Istituto del Medio Oriente di Mosca. Nel caso di un conflitto aperto tra Usa e Iran, il Cremlino non potrebbe che appoggiare diplomaticamente e semmai con aiuti militari indiretti il partner persiano. Ma «non ha a disposizione le risorse che sarebbero necessarie per un vero e proprio coinvolgimento bellico». Quindi cercherà di arginare per quanto possibile l’escalation «perché non sarebbe in linea con gli interessi russi». Mosca, pur condannando sonoramente ogni azione di Washington contro Teheran,   potrebbe mediare «offrendo canali di comunicazione» per impedire il peggio, sfruttando il ruolo di pivot delle crisi mediorientali conquistato in seguito alla campagna siriana. Un ruolo che questa mossa di Trump potrebbe paradossalmente contribuire a rafforzare. 

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