Nel governo è tutti contro tutti sulla prescrizione

Bonafede dice no a tempi certi per il processo penale. Il M5s preme sul Pd: «Siano leali, poniamo fine all'era Berlusconi». Ma i dem si appellano a Conte per una correzione. Mentre Italia viva è pronta a sostenere la proposta di Forza Italia, che farebbe slittare la riforma.

Se per quanto riguarda la riforma del Mes le tensioni nella maggioranza sembrano destinate a calare, continua invece lo scontro che riguarda l’entrata in vigore – a partire dal primo gennaio 2020 – della nuova legge sulla prescrizione. Il testo prevede l’interruzione dei termini dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione, sia in caso di condanna. Oggi invece la prescrizione scatta dal giorno in cui il fatto è stato commesso e non si blocca dopo il verdetto. «Non voglio rompere con nessuno o provocare una crisi di governo», ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, «se ci sono altre proposte sono pronto a vagliarle», ma l’idea di dare tempi certi oltre i quali il processo decade «è un modo per far rientrare la prescrizione dalla finestra».

Tutto il M5s fa pressione sul Pd: «Con le minacce non si va da nessuna parte. È opportuno, invece, dimostrare chiaramente di essere leali e andare avanti in maniera compatta. Con la riforma della prescrizione abbiamo la possibilità di mettere la parola fine all’era Berlusconi, che ha fatto solo del male al nostro Paese. Siamo certi che il Pd farà la scelta giusta pensando all’interesse dei cittadini».

Ma i dem, che puntano proprio a inserire lo stop alla prescrizione in una più ampia riforma dei tempi del processo penale, attraverso il capogruppo al Senato Andrea Marcucci si appellano al premier Giuseppe Conte: «La riforma della prescrizione è nelle mani del presidente del Consiglio, non certo delle veline del M5s. Serve un intervento correttivo, decida Di Maio se vuole condividerlo con la maggioranza o lasciare che il parlamento si esprima liberamente». Il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, si dice «convinto che troveremo una soluzione». Mentre il vicesegretario Andrea Orlando segnala che «si è riaperta una vaga interlocuzione» con i pentastellati.

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ITALIA VIVA MANIFESTA CONTRO LA RIFORMA BONAFEDE

Italia viva, da parte sua, ha manifestato contro la riforma voluta dal ministro Bonafede prendendo parte alla protesta delle Camere penali davanti alla Corte di Cassazione. «Sulla prescrizione noi sosteniamo la proposta di Enrico Costa», ha spiegato la capogruppo dei renziani alla Camera, Maria Elena Boschi. Ovvero la proposta di legge avanzata da Forza Italia, che sta all’opposizione e che bloccherebbe gli effetti della riforma, rinviandone l’entrata in vigore.

IL PESO DEI RENZIANI

Alla Camera i voti di Italia viva sono già stati decisivi quando si è votato sulla richiesta di procedura d’urgenza per la proposta di legge Costa, che l’Aula ha respinto. I renziani, dopo un incontro con il premier Conte, si sono astenuti. Ma avrebbero potuto far finire il voto in parità (244 sì e 244 no) o addirittura mandare sotto il governo, potendo contare su una truppa di 25 deputati.

LE COMPLESSITÀ DEL DOSSIER GIUSTIZIA

I risvolti della riforma della giustizia, del resto, sono molteplici e tutti piuttosto problematici per l’esecutivo, che ha ricevuto la delega a intervenire da parte del parlamento.

  • Il processo civile è forse l’unico settore ad avere il pieno sostegno della maggioranza giallorossa. Il testo mira a velocizzare l’iter processuale con diverse soluzioni: potenziare la negoziazione assistita, favorendo la risoluzione delle controversie fuori dai Tribunali; eliminare la mediazione obbligatoria in molte materie; potenziare il processo civile telematico, aumentandone l’efficienza; promuovere la class action.
  • Decisamente più complicata la questione del processo penale. Anche qui lo scopo dichiarato è velocizzare l’iter, partendo dalle indagini preliminari. Il Csm dovrà dettare i principi con cui selezionare le notizie di reato per dare loro un ordine di priorità. Si prevedono inoltre il rafforzamento dell’udienza preliminare, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e modifiche sui riti speciali.
  • Ma il punto più contestato riguarda per l’appunto la prescrizione. La riforma Bonafede prevede, come detto sopra, lo stop dei termini dopo la sentenza di primo grado. Così, per i favorevoli, si eviterebbe che il trascorrere del tempo faccia estinguere il reato in caso di ricorso in Appello e Cassazione. Ma gli oppositori sostengono che la riforma – già approvata con la cosiddetta legge Spazzacorrotti, che ne ha fissato l’entrata in vigore al primo gennaio 2020 – allungherebbe ulteriormente i tempi della giustizia e il numero dei procedimenti pendenti, aggravando la già cronica lentezza del sistema giudiziario italiano.

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E ora serve un bel “vaffa” di Zingaretti a Di Maio

Farsi imbottigliare dalle stupidaggini del M5s, che continua a guardare verso destra, è un errore fatale. Meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri.

La cronaca politica propone due domande: ma che cosa vogliono Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? Ovvero vogliono qualcosa? L’unica cosa chiara è che i due baciati in fronte da Beppe Grillo hanno il terrore di finire male.

Per loro finire male significa uscire dall’orbita reale, per l’uno, potenziale per l’altro, del governo. E oggi l’orbita del governo ruota attorno a Salvini-Meloni.

L’altra paura è che hanno la matematica certezza che se non fanno ammuina il loro movimento arriva alle elezioni “sminchiato”, quindi con pochi voti e probabilmente senza quelli che potrebbero eleggere l’uno e l’altro o l’uno o l’altro.

DI MAIO E DI BATTISTA CONTINUANO A GUARDARE A DESTRA

Era sembrato, nelle scorse settimane, che Beppe Grillo riuscisse a portare i pentastellati fuori dall’attrazione pericolosa della destra. Grillo aveva addirittura immaginato di progettare cose in comune con il Pd. Di Maio e Di Battista, e forse Casaleggio, hanno detto di “sì”, ma si sono mossi lungo la strada opposta. Nessuno di noi sa se Matteo Salvini e soprattutto la sua temibile competitrice Giorgia Meloni vorranno aggregare questi due giovani cadaveri della politica nel governo che faranno dopo le elezioni, tuttavia Di Maio e Di Battista, fedeli figli di cotanti padri di destra, cercano da quelle parti la soluzione che li porti ad una più che dignitosa sopravvivenza economica.

Quando cadrà il governo Conte sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto

Il dramma dei cinque stelle, nati sulla base di una cultura che definimmo populista, di decrescita felice, di guerra alla democrazia rappresentativa, è che oggi sono il nulla assoluto. Da quelle parti ci sono solo “no”, sulle cose che capiscono, e ancora “no” su quelle che non capiscono. E tutto ciò accade mentre gran parte del loro elettorato è scappato e altro andrà via quando cadrà il governo Conte e sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto, una sistemazione, una cosa per campare. Sta arrivando il momento in cui la voracità della destra riuscirà a cancellare l’episodio grillino.

LA SINISTRA DEVE MOLLARE IL M5S PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Chi di noi analizzò il fenomeno dei cinque stelle non in base alla composizione sociale ma in relazione alla cultura che esprimevano e alla direzione di marcia che avevano preso, non sono sorpresi né dalla svolta a destra né dalla loro prossima fine. Questo non vorrà dire che il sistema politico si sistemerà. La pattuglia grillina nel prossimo parlamento, a meno che non vengano fatti fuori Di Maio e i suoi e che Di Battista vaghi a fare niente per il mondo, sarà il più massiccio episodio di ascarismo parlamentare. «Accattataville».

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano.

Salvini dovrà far digerire ai suoi il ritorno dei traditori, per giunta statalisti. La Meloni non li ha mai sopportati. Resta la sinistra che tarda a comprendere che farsi imbottigliare dalle stupidaggini di Di Maio e Salvini su un fondo salva Stati che quei due conoscevano e che, lo vogliano o no, ci sarà, è un errore, meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri. Perché l’unica campagna elettorale che si può fare richiede di rubare alle sardine il tema della civiltà politica e alla destra “sovranista e antitaliana” la questione dell’onore della patria che la destra attuale vorrebbe nuovamente serva di una potenza straniera.

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Nel M5s Di Battista in soccorso di Di Maio contro il Mes

Dopo il gelo con Conte, il capo politico grillino rialza la testa: «Si firma tutto il pacchetto del Salva-Stati. Saremo noi a decidere se e come passa». E Dibba approva sui social. Ma il Pd: «Non è un governo monocolore». Salvini: «Trattato non emendabile, da bloccare».

Nel day after sul Mes Luigi Di Maio ha provato a rialzare la testa. Dopo l’informativa alle Camere, il gelo col premier Giuseppe Conte e il clima da separati in casa nel governo, con lo spauracchio della crisi che riaffiora costantemente, il capo politico del Movimento 5 stelle è intervenuto su Facebook: «Conte ha detto che tutti i ministri sapevano di questo fondo. Sapevamo che il Mes era arrivato a un punto della sua riforma, ma sapevamo che era all’interno di un pacchetto, che prevede anche la riforma dell’unione bancaria e l’assicurazione sui depositi. Per il M5s queste tre cose vanno insieme e non si può firmare solo una cosa alla volta».

DI BATTISTA: «COSÌ NON CONVIENE ALL’ITALIA»

Col ministro degli Esteri si è schierato anche un altro “big” grillino, Alessandro Di Battista, lui che è stato “accusato” di voler spostare il M5s verso destra proprio assieme a Di Maio. E in un commento social Dibba ha appoggiato la linea del capo: «Concordo. Così non conviene all’Italia. Punto».

DI MAIO: «SIAMO L’AGO DELLA BILANCIA»

Di Maio tra le altre cose ha spiegato che «il M5s dice che c’è una riforma in corso, prendiamoci del tempo per fare delle modifiche che non rendano questo fondo un pericolo. Siamo al governo. Questo significa che abbiamo la possibilità, ma anche la responsabilità, di agire per migliorare le cose». E infine: «Il M5s continua a essere ago della bilancia. Decideremo noi come e se dovrà passare questa riforma del Mes».

MA IL PD LO FRENA: «NON È UN GOVERNO MONOCOLORE»

Non ha proprio la stessa idea degli equilibri di maggioranza il capogruppo del Partito democratico al Senato, Andrea Marcucci. Che intervistato da La Stampa sui pericoli di rottura ha detto: «Inutile ignorare i rischi, io però scommetto sul buon senso». E con Di Maio cosa sta accadendo? «Avute le necessarie spiegazioni dal premier sull’iter del provvedimento, si ravveda. Se non lo facesse, sarebbe chiamato a trarne le conseguenze sulla vita del governo», ha risposto Marcucci, ricordando che «il M5s non è alla guida di un monocolore, questo è un governo di coalizione, dove le posizioni di tutta la maggioranza devono essere tenute in considerazione».

SALVINI: «DA BRUXELLES DICONO CHE IL TRATTATO È CHIUSO»

Dal centrodestra Matteo Salvini ha tenuto la sua linea parlando da Bruxelles: «La nostra posizione è quella dei cinque stelle, il trattato così come è non è accettabile, va visito, ridiscusso, ridisegnato, emendato, che è l’esatto contrario di quello che arrivava da Bruxelles dicendo il pacchetto è chiuso. Mi sembra che il premier abbia diversi problemi, non lo invidio».

Siamo contro le modifiche, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto


Matteo Salvini

Poi ha chiuso ulterioremente ogni margine di trattativa: «Noi non abbiamo cambiato posizione rispetto a sette anni fa, eravamo contro allora e siamo contro le modifiche oggi, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto. Quando parlavo di emendabilità riportavo le parole del vice capogruppo dei cinque stelle Silvestri che esprimeva tutti i suoi dubbi alla Camera. Per noi è una esperienza chiusa, che non è utile né modificare né ripetere».

«NESSUNO MI HA MOSTRATO IL TESTO CON LE MODIFICHE»

Prima, su Rai Radio1 a Radio anch’io, aveva detto: «Stiamo parlando di un trattato che coinvolge 124 miliardi di euro degli italiani con delle regole di distribuzione e di prestito a decenni che in questo momento andrebbero ad avvantaggiare il sistema economico e bancario tedesco. Nessuno mi ha mai fatto vedere il testo delle modifiche di questo trattato. Io non ho mai letto il testo ed è grazie a noi che ne stiamo parlando altrimenti Conte e Gualtieri non sarebbero mai venuti in Aula. Il parlamento deve poter intervenire su quel testo».

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Caos M5s, Di Maio isolato anche dai fedelissimi

Il partito naviga a vista. Anche gli uomini più vicini al capo politico sono preoccupati per la tenuta del governo. Il riavvicinamento alla linea barricadera di Di Battista basterà per restare a galla?

Un uomo solo al comando. Ma in questo caso non è Fausto Coppi e c’è veramente poco di epico. Si tratta infatti di Luigi Di Maio.

Il capo politico M5s è in una condizione di crescente isolamento: addirittura i fedelissimi cominciano a manifestare un certo scetticismo sulle fughe in avanti del ministro degli Esteri. Soprattutto quando filtra l’ipotetica rottura con il Partito democratico.

I MESSAGGI DI BONAFEDE

«Non mi piace questo continuo riferimento a far saltare il governo. Noi siamo al governo per lavorare per i cittadini. Ciascuno si prende le responsabilità politiche delle proposte che porta avanti», ha scandito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lanciando un messaggio al Pd (contro le ipotesi di rotture definitive sulla prescrizione), affinché Di Maio intendesse.

Luigi Di Maio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (Getty).

In alcune situazioni, come sullo scudo penale per l’ex Ilva, il capo politico ha pubblicamente evocato la crisi. Altre volte è stata una voce del sen fuggita, e raccolta come indiscrezione, salvo poi essere smentita. Comunque un modo per inviare segnali di fumo ai suoi e agli alleati. E alimentare sospetti.

LEGGI ANCHE: Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

I MALESSERI DI SPADAFORA

La presa di posizione di Bonafede non è passata inosservata. Il Guardasigilli è un fedelissimo del leader che ha voluto confermarlo in via Arenula durante la formazione del Conte II, sfidando le resistenze del Pd. Se uno come lui dissente dalla linea della “minaccia al governo” è una spia che si accende. Le sue affermazioni fanno da sponda alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico, che qualche giorno fa ha invitato a far lavorare il parlamento fino al 2023. Dando una prospettiva di legislatura, l’opzione che preferisce. Un malessere simile è vissuto dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, grande sponsor del Conte II e considerato consigliere molto ascoltato da Di Maio.

Luigi Di Maio con Vincenzo Spadafora.

«Ho ascoltato con attenzione e sono rimasto molto affascinato dal racconto dell’astronauta Maurizio Cheli e ci ho trovato molte analogie con la politica di oggi», ha detto Spadafora il 28 novembre, come riportato dalla Dire. «Per esempio è vero che non puoi scegliere sempre con chi lavorare, che devi saper sopportare delle situazioni difficili e, come sullo Shuttle, è vero che basta premere il pulsante sbagliato per far esplodere tutto. Mi sembra un po’ la situazione in cui ci troviamo anche oggi col governo».

ALLA CAMERA IL M5S ANCORA SENZA GUIDA

Per molti ministri sembra il remake del film visto con il Conte I, quello con Matteo Salvini che minacciava un giorno sì e l’altro pure la fine dell’esecutivo. In un clima del genere anche il sottosegretario alla presidenza, Riccardo Fraccaro, appare in difficoltà. Da sempre è considerato un punto fermo del Movimento a trazione dimaiana, alfiere del taglio del numero dei parlamentari: il capo politico ha fatto di tutto pur di averlo a Palazzo Chigi, compresa la minaccia di far saltare la trattativa (già allora) per la nascita del governo. Così il sottosegretario resta prudente, fedele alla linea, annotando però il malcontento generale. A cominciare dall’insofferenza dei parlamentari: l’elezione del capogruppo alla Camera è diventata una telenovela che va avanti da ottobre, quando Francesco D’Uva ha lasciato l’incarico. L’unica certezza è che il prossimo presidente dei deputati avrà posizioni divergenti dalla leadership. Nell’ultima votazione si sono sfidati Davide Crippa e Riccardo Ricciardi, entrambi non proprio etichettabili come fedelissimi di Di Maio. Intanto c’è il concreto rischio di affrontare passaggi delicati a Montecitorio, dal dibattito sul Mes alla Legge di Bilancio, senza una guida riconosciuta.

Beppe Grillo con Luigi Di Maio in un fermo immagine tratto dal Blog delle Stelle.

DI MAIO E LA RITROVATA (E FORZATA) INTESA CON DI BATTISTA

La situazione non è tornata serena nemmeno dopo l’incontro tra Di Maio e il garante Beppe Grillo. Il faccia a faccia non ha prodotto i risultati auspicati. Appena sono finiti il video e le foto di rito, tutto è tornato in un magma indistinto. Così il ministro degli Esteri, avvertito l’isolamento politico, è stato tentato dal ritorno al passato, alla linea barricadera delle origini. In questa ottica viene letta la ritrovata intesa con Alessandro Di Battista, per cui l’alleanza con il Pd resta il male assoluto. Ed ecco che è stata sposata la strategia di attacco sulle concessioni ad Autostrade, sull’Europa matrigna, che mette sul tavolo il Mes, sulla sfida a Matteo Renzi per il caso Open e la questione delle fondazioni

I RIPOSIZIONAMENTI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO

Continui sommovimenti che preoccupano. «Da noi non esistono correnti», giurano nel M5s. Ed è una realtà: le correnti vere hanno comunque una struttura, dei punti di riferimento. In questo caso è tutto insondabile. Un esempio è il caso del senatore Gianluigi Paragone: sembrava diventato arcinemico di Di Maio, per la sua ostilità all’intesa con i dem. La rinnovata comunanza di vedute con Di Battista modifica però il posizionamento rispetto alla leadership pentastellata. Certo, esiste un’ala riconducibile a Fico, capitanata dal deputato Luigi Gallo, ma non si può definire una rete organizzata. Talvolta, specie sulla riorganizzazione del M5s, le posizioni incrociano quelle dei frondisti, gli ex ministri ed ex sottosegretari che masticano amaro per aver perso il posto al governo. Ma che a differenza di Fico non sono proprio entusiasti del governo con Pd, LeU e Italia Viva. Così diventa difficile avere una mappa chiara degli interlocutori anche per i dem. 

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (Ansa).

SUGGESTIONE PATUANELLI

Di Maio, nel suo essere uomo solo al comando, è inevitabilmente sotto pressione. Tanto che circolano ipotesi di una sostituzione con il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, l’uomo delle emergenze. Da capogruppo al Senato ha risposto colpo su colpo alla Lega, quando l’alleanza era agli sgoccioli, tenendo unito il gruppo. Adesso ha sul tavolo questioni scottanti, come l’ex Ilva e Alitalia, senza subire ricadute di immagine. È pur vero che Patuanelli ha bollato come «gossip» l’ipotesi della sua ascesa alla leadership. Ma non è un mistero che molti, soprattutto i parlamentari, vorrebbero affidargli una nuova emergenza. Il destino del Movimento 5 stelle.

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La fascinazione del M5s per i regimi e l’uomo forte

Ora la Mecca grillina è Pechino. Ma prima di Xi Jinping i pentastellati si erano infatuati di Maduro, di Putin, considerato fino al 2014 un nemico, e pure di Trump. Prima della parentesi obamiana di Grillo.

I due incontri che Beppe Grillo ha avuto con l’ambasciatore cinese in Italia, la favola dello Xinjiang pacificato pubblicata sul Blog del comico mentre il New York Times denunciava la ferocia della repressione di Pechino sugli uiguri, il silenzio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio sulle proteste di Hong Kong riportano alla luce il delicato tema dell’infatuazione dei grillini per leader discussi e discutibili e per regimi non esattamente liberali.

L’ultima è per Xi Jinping, o meglio presidente «Ping» come lo chiamò Di Maio.

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CINQUE STELLE PER MADURO

Prendiamo per esempio il sottosegretario agli Affari Esteri, Manlio Di Stefano. Per il deputato pentastellato, i «peggiori bar di Caracas» della pubblicità emanano profumi inebrianti. Tanto che nel marzo 2017, con Vito Petrocelli, vicepresidente del Comitato italiani all’estero e Ornella Bertorotta, nella passata legislatura capogruppo alla commissione Affari esteri del Senato, volarono in Venezuela. Scopo della missione: raccogliere voti tra gli italiani all’estero. Risultato: una imbarazzante quanto convinta sfilata al fianco delle più alte sfere dell’esecutivo di Nicolás Maduro.

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L’ennesima gaffe pentastellata frutto di chi ha sempre faticato a distinguere tra Cile e Venezuela, Pinochet e Chávez? Non questa volta. A gennaio 2019, i l M5s si astenne dal voto europeo che riconobbe Juan Guaidò legittimo presidente del Paese. Fabio Massimo Castaldo dichiarò: «Non siamo né pro né contro Maduro, difendiamo i diritti umani». E il solito Di Stefano sentenziò: «L’Italia non riconosce Guaidò». Non stupisce del resto visto che già nel 2016 Davide Casaleggio aveva indicato come modello per la democrazia diretta proprio il Venezuela.

Una foto postata sul suo profilo Instagram di Luigi Di Maio dell’incontro con i Gilet gialli.

LE AFFINITÀ ELETTIVE CON I GILET GIALLI

Il mantra del M5s in politica estera è sempre stato quello della non ingerenza. Motivo per cui Di Stefano strigliò il presidente francese Emmanuel Macron colpevole di aver definito illegittimo il governo Maduro. «Il principio di non ingerenza», disse il 5 stelle nel gennaio 2019, «è sacro. Qualsiasi sia la nostra visione delle cose, di Maduro, del chavismo e dei rapporti politici in America latina, qualsiasi cambiamento in Venezuela deve avvenire in un contesto politico, democratico e non violento».

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Evidentemente non fu ingerenza l’incontro, qualche settimana dopo, tra Luigi Di Maio e i Gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi. «Mi dispiace che Macron l’abbia vissuta come una lesa maestà», disse il capo politico grillino, all’epoca vicepremier, «ma è giusto che una forza politica che non condivide le idee politiche di En marche abbia la possibilità di dialogare con un’altra forza politica che correrà alle Europee. Quindi andiamo avanti». Insomma, la «millenaria democrazia» francese, come la definì Di Maio, doveva farsene una ragione. Anche se poi l’affinità tra grillini e gilet si ruppe. Parigi tra l’altro aveva già mal digerito la battaglia contro il cosiddetto «neocolonialismo francese» in Africa e il Franco Cfa portato avanti da Alessandro Di Battista.

DALLA RUSSIA CON AMORE

Un altro eroe per i grillini è senz’altro Vladimir Putin. «Meno male che c’è Putin», scriveva su Facebook lo scorso 25 gennaio Di Battista, evidenziando come, senza l’egoarca russo, «ci sarebbe stato un intervento armato Usa» in Venezuela. Non una boutade di un attivista senza più ruoli in parlamento visto che il programma esteri del 2017 puntava al recupero delle relazioni con Mosca. «Un disastro economico che non ci possiamo permettere», si legge, un Paese «decisivo nelle relazioni internazionali». Un fascino, quello per la Russia, che viene da lontano e ben radicato nel M5s. Nell’aprile 2015 Beppe Grillo concedette una intervista torrenziale a Rt, emittente finanziata dal Cremlino. E, accompagnato da Di Battista e Di Stefano, incontrò Sergej Razov, ambasciatore russo a Roma. Poi ci fu l’invito di una delegazione pentastellata al congresso di Russia Unita, il partito di Putin.

QUANDO PUTIN ERA IL NEMICO

Ma non finisce qui. Addentrandoci nell’aneddotica, come dimenticare la denuncia di Marta Grande: «Della crisi in Ucraina si è smesso di parlare, non fa più notizia, siamo stati informati a senso unico», disse a Montecitorio nel 2014, rivelando le «tremende operazioni di bassa macelleria cui la follia del governo ucraino sta sottoponendo i cittadini russi, perseguitati, massacrati e torturati». Di più. Per Grande gli ucraini stavano letteralmente divorando i russi. Faceva riferimento a una foto raccapricciante diventata virale che però si rivelò una fake news: il soldato che addentava un braccio arrostito proveniva dal backstage del film russo Noi veniamo dal futuro. E dire che fino al 2014 la Russia era considerata il nemico, vuoi per l’amicizia tra Putin e Silvio Berlusconi, vuoi per la repressione nei confronti dei media. Esemplare il post del 2007 con cui il Blog eleggeva Anna Politkovskaja Woman of the Year in polemica con il Time che aveva scelto Putin come Person of the Year. Poi le cose cambiarono.

IL VAFFA DI TRUMP AI MEDIA

I grillini del resto sono trasversali. Il loro amore per l’uomo forte li porta contemporaneamente a spasimare per Putin e per Donald Trump. «È stato un grande. Ha fatto un V-Day. Era su tutti i giornali in modo incredibile: era contro le donne, i gay, l’aborto ma ha vinto», esultò Grillo il giorno dell’elezione del tycoon.

Beppe Grillo.

«Questo vuol dire», spiegava il co-fondatore del Movimento, «che i grandi giornali non sono più letti da nessuno. Mentre quelli della Rete, che vengono definiti imbecilli, scemi, barbari, demagoghi, sono quelli che si sono creati un giro di informazione sotto i radar dei media. Perché i blog capivano ciò che stava accadendo». In una intervista al Journal du Dimanche del 2017 Grillo definiva Trump un «moderato». E pensando a lui e a Putin diceva di sentirsi ottimista: «La politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come loro. Lo considero un beneficio per l’umanità». E dire che Grillo nel 2008 e nel 2012 aveva salutato come un successo la vittoria di Barack Obama. Anti-putinani ieri, putiniani oggi. Obamiani ieri, filo-trumpiani oggi. Magari tra un po’ Pechino, oggi Mecca, sarà bollato come regime liberticida. Basta aspettare.

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Il candidato del M5s alle Regionali in Calabria ha una villetta parzialmente abusiva

La casa si trova a Carlopoli, in provincia di Catanzaro. Prima il Tar e poi il Consiglio di Stato hanno condannato Aiello a demolire un piano.

La villetta di famiglia ereditata da Francesco Aiello, docente all’Università di Cosenza e candidato del M5s alle Regionali in Calabria, è parzialmente abusiva e con il secondo piano da abbattere.

Il quotidiano la Repubblica è stato il primo a dare la notizia. La villetta si trova a Carlopoli, in provincia di Catanzaro. Prima il Tar e poi il Consiglio di Stato hanno condannato Aiello e suo fratello disponendo la demolizione del piano “incriminato”.

La villetta, edificata negli Anni 80, è stata costruita violando la quota delle cubature previste. Ma nel corso della vicenda, durata un decennio, dopo vari esposti e sanatorie la casa degli Aiello è rimasta integra.

CORPO PRINCIPALE E PRIMO PIANO SANATI CON UN CONDONO

L’amministrazione comunale, come racconta il quotidiano diretto da Carlo Verdelli, è riuscita a farsi pagare gli oneri concessori per corpo principale e primo piano, sanati con un condono. E il resto della villetta (seminterrato e secondo piano) non è stato toccato.

SI È “SALVATO” PURE IL SEMINTERRATO

Dopo un ulteriore ricorso, gli Aiello sono riusciti a “salvare” anche il seminterrato, perché se fosse stato smantellato sarebbe crollato tutto l’edificio. Ma per quanto riguarda il secondo piano, da un anno a questa parte, nulla si è mosso.

ANCHE DI MAIO HA CHIESTO SPIEGAZIONI

Il piano abusivo è ancora lì e adesso anche il leader del M5s, Luigi Di Maio, «attende chiarimenti».

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Il M5s torna all’attacco di Autostrade

Grillo riparte alla carica: «Ai Benetton una concessione a condizioni di favore da 20 anni. È tempo di cambiare». E Di Maio lo segue: «Giustizia per le famiglie del Ponte Morandi».

Riparte di gran carriera la crociata del Movimento 5 stelle contro Autostrade, malgrado la resistenza posta dall’alleato di governo alla revoca delle concessioni. A rilanciare l’affondo è stato un post di Beppe Grillo, che su Twitter ha scritto: «#Autostrade Story è la storia della concessione autostradale ottenuta dai #Benetton più di 20 anni fa. Una concessione a condizioni di favore senza eguali. Condividete il più possibile queste informazioni. È tempo di cambiare».

L’INTERVENTO DI GRILLO RILANCIATO DA DI MAIO

Grillo ha pubblicato sul suo blog la prima puntata di “Autostrade story”, che si trova anche sul Blog delle Stelle, e ha immediatamente trovato la sponda di Luigi Di Maio. «Sulla revoca della concessione ad Autostrade non faremo un passo indietro. Tutto il Movimento 5 stelle, da me a Beppe Grillo a ogni singolo eletto e attivista, è determinato in questa battaglia. Sono morte 43 persone perché un ponte da un momento all’altro gli è crollato sotto i piedi. Le loro famiglie ancora stanno piangendo. Chiedono giustizia. Noi gliela daremo. Costi quel che costi».

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Il M5s torna all’attacco di Autostrade

Grillo riparte alla carica: «Ai Benetton una concessione a condizioni di favore da 20 anni. È tempo di cambiare». E Di Maio lo segue: «Giustizia per le famiglie del Ponte Morandi».

Riparte di gran carriera la crociata del Movimento 5 stelle contro Autostrade, malgrado la resistenza posta dall’alleato di governo alla revoca delle concessioni. A rilanciare l’affondo è stato un post di Beppe Grillo, che su Twitter ha scritto: «#Autostrade Story è la storia della concessione autostradale ottenuta dai #Benetton più di 20 anni fa. Una concessione a condizioni di favore senza eguali. Condividete il più possibile queste informazioni. È tempo di cambiare».

L’INTERVENTO DI GRILLO RILANCIATO DA DI MAIO

Grillo ha pubblicato sul suo blog la prima puntata di “Autostrade story”, che si trova anche sul Blog delle Stelle, e ha immediatamente trovato la sponda di Luigi Di Maio. «Sulla revoca della concessione ad Autostrade non faremo un passo indietro. Tutto il Movimento 5 stelle, da me a Beppe Grillo a ogni singolo eletto e attivista, è determinato in questa battaglia. Sono morte 43 persone perché un ponte da un momento all’altro gli è crollato sotto i piedi. Le loro famiglie ancora stanno piangendo. Chiedono giustizia. Noi gliela daremo. Costi quel che costi».

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I veti incrociati tra M5s e Pd bloccano le nomine Rai

Dietro il nuovo rinvio lo stallo sulle testate. No dei pentastellati a Orfeo al Tg3. I dem replicano mettendo in dubbio la permanenza di Carboni al Tg1.

Nuovo stop sulle nomine Rai. Dopo il rinvio dell’11 novembre, un altro nulla di fatto all’indomani di riunioni e trattative che non hanno portato a una fumata bianca. I curricula, che dovevano essere presentati la mattina del 27 novembre dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, non sono arrivati ai consiglieri, nonostante l’intesa sembrasse vicina. La seconda rete dal 29 novembre è priva della guida di Carlo Freccero, pronto a lasciare il suo incarico per aver raggiunto il limite del mandato. L’ipotesi più probabile è un interim, che potrebbe essere assunto dallo stesso Salini o da Marcello Ciannamea, in pole poi per la direzione della rete.

IL VETO DEI CINQUE STESSE SU ORFEO

Stando a fonti parlamentari riportate dall’Ansa, lo strappo è stato provocato dalle possibili nomine alle testate. I cinque stelle, in particolare Luigi Di Maio, avrebbero posto il veto su Mario Orfeo alla direzione del Tg3, provocando una reazione dei dem che avrebbero a quel punto messo in discussione la permanenza di Giuseppe Carboni al Tg1. Mentre per quel ruolo si fa avanti, con supporto di Italia Viva, Andrea Montanari, il Pd pare pronto a far saltare anche la candidatura di Franco Di Mare a Rai3, poltrona che sarebbe lasciata libera da Stefano Coletta che passerebbe alla guida della rete ammiraglia. Anche l’uscita di Giuseppina Paterniti dal Tg3 in direzione RaiNews non metterebbe tutti d’accordo, anche perché non resterebbe più alcuna donna al timone delle tre principali reti e testate Rai. I cinque stelle vogliono che mantenga un incarico di peso e spingono nel contempo la candidatura di Francesco Giorgino per una direzione.

IL NODO DEI TAGLI IN MANOVRA

Nel Consiglio di amministrazione del 28 novembre si parlerà del percorso di attuazione del piano industriale, di ordini e contratti, della situazione immobiliare. Il discorso nomine è rinviato al Cda di dicembre o a una riunione straordinaria. I tempi non saranno brevi. Anche perché a influire sullo stop sarebbero stati i possibili nuovi tagli ai trasferimenti alla tivù pubblica previsti in una serie di emendamenti alla manovra. L’ad in Commissione di Vigilanza ha lanciato l’allarme sull’impatto che la riduzione delle risorse avrebbe sulla realizzazione del piano industriale. In caso di un taglio del budget, rispetto a quello preventivato al momento della stesura del progetto, sarebbe necessario rivederne il perimetro. In particolare in relazione agli oneri specifici derivanti dal contratto di servizio, come la realizzazione del canale inglese e del canale istituzionale. Le nomine sono fanno parte di un percorso delineato che, a questo punto, rischia di essere modificato.

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I veti incrociati tra M5s e Pd bloccano le nomine Rai

Dietro il nuovo rinvio lo stallo sulle testate. No dei pentastellati a Orfeo al Tg3. I dem replicano mettendo in dubbio la permanenza di Carboni al Tg1.

Nuovo stop sulle nomine Rai. Dopo il rinvio dell’11 novembre, un altro nulla di fatto all’indomani di riunioni e trattative che non hanno portato a una fumata bianca. I curricula, che dovevano essere presentati la mattina del 27 novembre dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, non sono arrivati ai consiglieri, nonostante l’intesa sembrasse vicina. La seconda rete dal 29 novembre è priva della guida di Carlo Freccero, pronto a lasciare il suo incarico per aver raggiunto il limite del mandato. L’ipotesi più probabile è un interim, che potrebbe essere assunto dallo stesso Salini o da Marcello Ciannamea, in pole poi per la direzione della rete.

IL VETO DEI CINQUE STESSE SU ORFEO

Stando a fonti parlamentari riportate dall’Ansa, lo strappo è stato provocato dalle possibili nomine alle testate. I cinque stelle, in particolare Luigi Di Maio, avrebbero posto il veto su Mario Orfeo alla direzione del Tg3, provocando una reazione dei dem che avrebbero a quel punto messo in discussione la permanenza di Giuseppe Carboni al Tg1. Mentre per quel ruolo si fa avanti, con supporto di Italia Viva, Andrea Montanari, il Pd pare pronto a far saltare anche la candidatura di Franco Di Mare a Rai3, poltrona che sarebbe lasciata libera da Stefano Coletta che passerebbe alla guida della rete ammiraglia. Anche l’uscita di Giuseppina Paterniti dal Tg3 in direzione RaiNews non metterebbe tutti d’accordo, anche perché non resterebbe più alcuna donna al timone delle tre principali reti e testate Rai. I cinque stelle vogliono che mantenga un incarico di peso e spingono nel contempo la candidatura di Francesco Giorgino per una direzione.

IL NODO DEI TAGLI IN MANOVRA

Nel Consiglio di amministrazione del 28 novembre si parlerà del percorso di attuazione del piano industriale, di ordini e contratti, della situazione immobiliare. Il discorso nomine è rinviato al Cda di dicembre o a una riunione straordinaria. I tempi non saranno brevi. Anche perché a influire sullo stop sarebbero stati i possibili nuovi tagli ai trasferimenti alla tivù pubblica previsti in una serie di emendamenti alla manovra. L’ad in Commissione di Vigilanza ha lanciato l’allarme sull’impatto che la riduzione delle risorse avrebbe sulla realizzazione del piano industriale. In caso di un taglio del budget, rispetto a quello preventivato al momento della stesura del progetto, sarebbe necessario rivederne il perimetro. In particolare in relazione agli oneri specifici derivanti dal contratto di servizio, come la realizzazione del canale inglese e del canale istituzionale. Le nomine sono fanno parte di un percorso delineato che, a questo punto, rischia di essere modificato.

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La visita di Grillo all’ambasciata cinese e l’imbarazzo del governo

Dopo l'incontro del fondatore del M5s con Li Junhua nella sede diplomatica di Pechino a Roma erano arrivate critiche e domande da parte di Lega e Pd. Il ministro degli Esteri nonché capo politico grillino Di Maio alla Camera: «Non è andato a nome dell'esecutivo. Non siamo tenuti a risponderne».

Una visita che non è certo passata inosservata. Finendo per imbarazzare il governo. Beppe Grillo all’ambasciata cinese di Roma: l’incontro datato 23 novembre si è portato dietro diverse polemiche politiche. Tanto da costringere l’esecutivo a una spiegazione ufficiale in parlamento.

FACCIA A FACCIA DI OLTRE DUE ORE E FOTO SU FACEBOOK

I fatti: il fondatore e guru del Movimento 5 stelle ha trascorso oltre due ore sabato nella sede diplomatica del quartiere Parioli e la sera prima a cena aveva avuto un incontro con l’ambasciatore di Pechino Li Junhua.

Un piacevole incontro ieri con l'Ambasciatore della Cina Li Junhua. Gli ho portato del pesto e gli ho detto che se gli…

Posted by Beppe Grillo on Sunday, November 24, 2019

Nulla di particolarmente segreto, visto che Grillo ha pubblicato una foto su Facebook a testimoniare il faccia a faccia. Con questo commento ironico: «Un piacevole incontro con l’ambasciatore della Cina Li Junhua. Gli ho portato del pesto e gli ho detto che se gli piacerà dovrà avvisarmi in tempo perché sarei in grado di spedirne una tonnellata alla settimana, sia con aglio che senza, per incoraggiare gli scambi economici!».

IL BLOG CHE NEGA LA REPRESSIONE SUGLI UIGURI

Ma in un momento di gravi tensioni tra Cina e Hong Kong, e nei giorni in cui il Blog di Grillo ha sposato la propaganda di Pechino negando la repressione degli uiguri, diversi politici hanno chiesto chiarimenti.

È andato là a parlare di cosa? Di business di telecomunicazione, di internet, di 5G, di piattaforma Rousseau, di via della Seta?


Matteo Salvini

Il leader della Lega Matteo Salvini in diretta Facebook non si è lasciato sfuggire l’occasione di attaccare gli ex alleati: «Sono democratico e ognuno è libero di incontrare chi vuole, ma vi sembra normale che un capo politico come Grillo, in un momento in cui ci sono tanti dossier economici aperti, vada a incontrare una-due-tre volte l’ambasciatore cinese?». Poi l’ex ministro dell’Interno si è chiesto: «È andato là a parlare di cosa? Di business di telecomunicazione, di internet, di 5G, di piattaforma Rousseau, di via della Seta? E poi parlano di conflitti d’interessi degli altri».

QUARTAPELLE (PD): «INQUIETANTE DA CHI ERA PRO TIBET»

Lia Quartapelle, capogruppo del Partito democratico in commissione Esteri, in un’intervista a La Stampa a proposito della situazione di Hong Kong aveva detto: «C’è questa novità inquietante di Grillo che pare addirittura sposare la posizione cinese. Anche io sono stata in ambasciata e ho espresso la mia preoccupazione per Hong Kong. La cosa bizzarra è che Grillo ci sia andato due volte e non abbia rilasciato dichiarazioni. Lui, che un tempo era pro Tibet e anche pro uiguri, adesso non dice nulla. Comunque il problema non è lui, la politica si fa nelle sedi istituzionali».

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Lia Quartapelle del Pd. (Ansa)

Non spetta al governo rispondere di questo tipo inviti di esponenti della società civile nelle sedi diplomatiche


Luigi Di Maio

E nella sede istituzionale della Camera Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ma anche capo politico del M5s fondato da Grillo, ha detto rispondendo a una domanda durante il Question time: «Il signor Grillo ha ricevuto un invito dell’ambasciatore cinese, ed è andato non rappresentando il governo». Di Maio ha aggiunto che «non spetta all’esecutivo rispondere di questo tipo inviti di esponenti della società civile nelle sedi diplomatiche, che peraltro avvengono regolarmente non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi».

DI MAIO A SALVINI: «E LE SUE VISITE IN RUSSIA?»

Alla trasmissione Agorà invece Di Maio aveva replicato così a Salvini: «Capita spesso che un ambasciatore voglia incontrare una personalità italiana. Perché scandalizza questa visita di Grillo quando non c’è alcuna possibilità che lui sia andato a portare la pozione del governo italiano. Piuttosto sono rimasto colpito dalle visite di Salvini in Russia».

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I sondaggi politici elettorali del 27 novembre 2019

La Lega si conferma saldamente al comando, ma fa registrare una battuta d'arresto. Crescita continua per Fratelli d'Italia. Lieve flessione per il Pd, stabile il M5s. La rilevazione Ixè.

Si conferma la battuta d’arresto della Lega nei sondaggi. L’ultima rilevazione condotta dall’istituto Ixè per a trasmissione di RaiTre Cartabianca ha rivelato che il partito di Matteo Salvini è sceso al 31,5% dal 31,9% dei consensi della settimana precedente.

FRATELLI D’ITALIA SUPERA LA SOGLIA DEL 10%

Boom, invece, di Fratelli d’Italia, che ha superato il 10,6 dal 9,9% dell’ultima rilevazione. Per quanto riguarda i partiti di governo, scende il Partito democratico, al 20,4% dal 21,2% della scorsa settimana, mentre il Movimento 5 stelle è sostanzialmente stabile al 16,06% dal 16,3%.

ITALIA VIVA SI CONFERMA STABILE

Stabile anche Italia viva di Matteo Renzi, che si assesta al 4,5% dal precedente 4,6%: +Europa è al 3%, la Sinistra sale al 2,2%, mentre Europa verde scende all’1%. A crescere è poi il numero degli indecisi o degli astenuti, che rappresenta il 37,6% del campione intervistato.

IL CENTRODESTRA POCO SOTTO IL 50%

Roberto Weber, presidente dell’istituto Ixè, commentando i dati ha spiegato: «Nel sondaggio si registra lo sfondamento di Fratelli d’Italia. Per un voto che Fdi dà alla Lega di Salvini, tre voti dal Carroccio si spostano sul partito di Giorgia Meloni. Quindi abbiamo questa radicalizzazione sulla destra e il centrodestra arriva a quota 49,5%». 

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La strategia di Salvini: sfida ai parlamentari M5s sul Mes

Il leader della Lega: «Si tratta di un fondo 'ammazza Stati'. Voglio vedere negli occhi i parlamentari dei Cinque Stelle quando voteranno»,

Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha deciso di cavalcare la battaglia sul Mes. «Ormai è chiaro che si tratta di un fondo ‘ammazza Stati’. Voglio vedere negli occhi i parlamentari dei Cinque Stelle quando voteranno questa cambiale in bianco a favore di un istituto privato», ha affermato Salvini, parlando del Mes a margine della manifestazione degli ambulanti davanti a Montecitorio. «Su questo tema del Mes come su mille altri – aggiunge – non so se il governo sia composto da complici o da incapaci».

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La commissione Von der Leyen alla prova del voto del parlamento europeo

Con la preferenza palese, la maggioranza Ppe, socalisti e liberali dovrebbe reggere. Il M5s ha comunque deciso di votare a favore, mentre i Verdi hanno parlato di un'astensione ragionata e qualche voto potrebbe arrivare dalle fila dei conservatori, in particolare del Pis, All'opposizione l'estrema destra, con Fdi e Lega, e la sinistra europea.

Il giorno è infine arrivato: dopo tre aspiranti commissari bocciati – della Francia, dell’Ungheria e della Romania – dopo sostituzioni in corsa, polemiche e franchi tiratori – la nuova squadra della Commissione europea – senza il commissario britannico per via della Brexit – è pronta per cercare la conferma del parlamento europeo. «Abbiamo costruito un’equipe europea eccezionale, oggi chiedo il vostro sostegno per un nuovo inizio per l’Europa», ha detto la presidente eletta della Commissione europea Ursula von der Leyen in plenaria all’europarlamento. «Nei prossimi 5 anni – ha aggiunto – la nostra unione porterà avanti una trasformazione di società e economia, è la cosa giusta da fare e non sarà semplice».

La neopresidente della Commissione europea Urusula von der Leyen e il presidente uscente Jean Claude Juncker, Bruxelles, 4 luglio 2019. (Thierry Monasse/Getty Images)

M5s e PIS CON LA MAGGIORANZA PPE, SOCIALISTI E LIBERALI

Von der Leyen ha ottenuto il mandato con appena nove voti sopra la maggioranza: fondamentali dunque erano stati i voti del Movimento Cinquestelle che hanno definitivamente diviso le strade di grillini e leghisti, a Bruxelles ma anche a Roma. Per il voto sulla commissione, palese, la maggioranza Ppe, socalisti e liberali dovrebbe reggere. Il M5s ha comunque deciso di votare a favore, mentre i Verdi hanno parlato di un’astensione ragionata e qualche voto potrebbe arrivare dalle fila dei conservatori, in particolare del Pis, il partito di governo polacco. All’opposizione l’estrema destra, con Fdi e Lega, e la sinistra europea.

L’ELEZIONE IN DIRETTA

DALL’UNIONE BANCARIA AI MIGRANTI: I DOSSIER CALDI

Nel suo discorso di presentazione, la presidente tedesca ha citato alcuni dei punti del suo programma e i commissari che ha scelto per portarli a termine. «L’unione bancaria deve essere completata per rafforzare il nostro sistema finanziario e renderlo più resiliente, ho affidato questo compito a Valdis Dombrovskis la persona più giusta per questo compito», ha detto l’ex ministra della Difesa tedesca. «Ogni Stato membro dell’Ue si è impegnato per gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Paolo Gentiloni gestirà il raggiungimento degli obiettivi ne è convinto e io credo in lui».

«DOBBIAMO SPEZZARE IL SISTEMA DEI TRAFFICANTI»

«L’Europa sarà sempre un riparo per coloro che hanno bisogno di protezione internazionale», ha detto la presidente eletta della Commissione Ue. «È nel nostro interesse che coloro che rimangono siano integrati nella nostri società, ma dobbiamo anche far si che coloro che non hanno il diritto di rimanere ritornino in patria – ha aggiunto -. Dobbiamo spezzare questo modello crudele dei trafficanti e dobbiamo riformare i nostri sistemi di asilo senza dimenticare i valori di solidarietà e responsabilità».

«VENEZIA SOTT’ACQUA, ORA LOTTARE CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO»

«La protezione del nostro clima è una questione esistenziale per l’Europa e per tutto il mondo e non potrebbe essere altrimenti. Vediamo Venezia sott’acqua, le foreste in Portogallo colpite da incendi, la siccità in Lituania; è successo anche in passato, ma non possiamo perdere neanche un secondo, dobbiamo lottare contro il cambiamento climatico», ha detto von der Leyen.

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Il Pd fa muro contro la riforma della prescrizione

Secondo Orlando non sono state trovate soluzioni adeguate per velocizzare la durata dei processi. Marcucci attacca Di Maio: «Non detta lui l'agenda del governo».

Il M5s incalza, ma il Pd fa muro contro la riforma della prescrizione, già approvata con la legge che ha inasprito le pene per i reati di corruzione e destinata a entrare in vigore dal primo gennaio 2020.

La riforma prevede il blocco dei tempi di prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ma dem e renziani chiedono prima che la riforma del processo penale velocizzi la durata dei procedimenti.

Il vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha scelto con cura le parole: «Sono assolutamente d’accordo con il premier Giuseppe Conte» quando dice che per la prescrizione «il problema è trovare un bilanciamento nell’ambito del processo. Al momento, però, le soluzioni prospettate non sono adeguate».

Decisamente più aggressivo il capogruppo dem al Senato Andrea Marcucci: «Di Maio si tolga dalla testa l’idea che sia il M5s a dettare l’agenda dei provvedimenti del governo e che il Pd si limiti solo a votarli. Sulla prescrizione, per esempio, è fondamentale garantire tempi certi e brevi per la durata dei processi».

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I 5 stelle e il controllo sociale modello Cina

L'emendamento alla manovra di Bottici e Fenu, poi bocciato dalla Ragioneria generale, puntava a far gestire allo Stato l’identità digitale degli italiani. Copiando il sistema di sorveglianza della Repubblica popolare. Chissà se Grillo ne ha parlato con l'ambasciatore di Pechino a Roma.

Quando si dice ispirarsi a modelli democratici e liberali. Se per la nazionalizzazione dell’acqua pubblica (proposta di legge Daga), il modello del Movimento 5 stelle è stato il Venezuela di Maduro, per la gestione dell’identità digitale il modello è quello della Cina

IL TENTATIVO DI NAZIONALIZZARE IL SISTEMA SPID

Due senatori grillini, Laura Bottici, diplomata analista contabile all’Istituto professionale per il Commercio di Carrara, e Emiliano Fenu, commercialista nuorese, hanno infatti presentato un emendamento alla legge di Bilancio che punta a far gestire allo Stato l’identità digitale degli italiani. Nel piano ordito dai pentastellati, la nazionalizzazione di Spid, lo strumento ora privato che serve a questo scopo, dovrebbe avvenire attraverso PagoPa, struttura nata per centralizzare i pagamenti a favore della Pubblica amministrazione. La piattaforma è un caso unico in Europa, dove le amministrazioni hanno semplicemente optato per rapporti di concessione aperti con i circuiti di pagamento. 

LEGGI ANCHE: In Cina non c’è repressione: parola del Blog di Grillo

I COSTI A CARICO DELLO STATO

In Italia, invece, come se la burocrazia non fosse già mortifera, si vuole creare un ulteriore passaggio gestionale pubblico che non offre alcun vantaggio al cittadino ma che invece comporta un costo a carico dello Stato pari a 5 milioni all’anno. A tale costo, l’emendamento sulla nazionalizzazione di Spid prevedeva di aggiungerne ulteriori 65 milioni in tre anni (sempre a favore di PagoPA). 

UN SISTEMA DI SORVEGLIANZA COPIATO DA PECHINO

L’emendamento, però, è stato bocciato dalla Ragioneria generale. Non solo per le coperture fittizie, ma anche perché un sistema come quello che avevano in mente era copiato di sana pianta dal sistema di sorveglianza sociale cinese, dove il regime controlla ogni suddito. Più o meno quel che i due senatori grillini volevano introdurre anche in Italia. E chissà se l’argomento è stato affrontato durante i colloqui che Beppe Grillo ha avuto nei suoi incontri calorosi con l’ambasciatore di Pechino a Roma. Dall’acqua in salsa venezuelana al controllo sociale cinese. Guarda caso, Alessandro Di Battista è in partenza per l’Iran. Chissà con quale nuova idea tornerà. Lo scopriremo dai prossimi emendamenti. Si salvi chi può.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Di Maio prova a ripartire dalla riforma della giustizia

Il leader del M5s incalza il Pd sulla prescrizione: «Possiamo fare questo passo insieme». Ma la trattativa non è ancora finita. All'orizzonte ci sono le Regionali: in Calabria potrebbe tornare in campo Callipo, in Emilia-Romagna liste in alto mare.

Luigi Di Maio prova a riscrivere la sua agenda di capo politico del M5s dopo il faccia a faccia con Beppe Grillo. Il garante pentastellato ha chiesto un forte rilancio della maggioranza sull’azione del governo. E così Di Maio, in piena crisi di leadership, mentre da una parte fa partire il difficile confronto sul territorio per le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, dall’altra mette sul tavolo i desiderata del Movimento per l’esecutivo.

In cima alla lista c’è il cavallo di battaglia per eccellenza del M5s, la riforma della giustizia, a partire dalla prescrizione. Le modifiche su quest’ultimo punto sono già state approvate con la legge che ha inasprito le pene per i reati di corruzione, la cosiddetta spazzacorrotti. Previsto il blocco dei tempi dopo il primo grado di giudizio, con entrata in vigore dal primo gennaio 2020. Il Pd, tuttavia, finora si è opposto, chiedendo prima che la riforma del processo penale velocizzi la durata dei procedimenti. La trattativa tra dem, renziani e il ministro Alfonso Bonafede non è ancora finita.

«Questo governo può davvero cambiare le cose. Ma le parole non bastano, servono i fatti», ha scritto Di Maio su Facebook, lanciando un monito proprio al Pd. Ai partner di governo viene chiesto di «andare avanti, non indietro». E di non comportarsi come Matteo Salvini, visto che a battersi contro quella che viene definita una norma «di assoluto buon senso» in prima fila ci sono Lega e Forza Italia.

LEGGETE E CONDIVIDETE! SULLA PRESCRIZIONE E SU UN PAESE CHE DEVE ANDARE AVANTI (E NON INDIETRO)Vittime di disastri,…

Posted by Luigi Di Maio on Monday, November 25, 2019

LEGGI ANCHE: Luciano Violante sui veri problemi della giustizia italiana

Di Maio incassa la sponda del premier Giuseppe Conte, che ha sottolineato come la riforma della giustizia non solo figuri nei punti programmatici della maggioranza, ma sia anche «fortemente voluta dal presidente del Consiglio». Ovvero da lui stesso. Il Pd, per il momento, non ha replicato ufficialmente. Ma fonti dem vicine al dossier tendono a considerare l’uscita di Conte come un segnale della volontà del premier di farsi carico di una mediazione.

IL PD STORCE IL NASO

Il Pd, com’è noto, chiede l’introduzione di limiti alla durata dei processi, una sorta di prescrizione processuale. E interpreta il post di Di Maio come una provocazione demagogica, che semplifica eccessivamente la questione mentre le parti stanno cercando di raggiungere una sintesi. Di Maio ha rilanciato anche sulla revoca delle concessioni ad Autostrade per l’Italia («Bisogna muoversi») e sul carcere per i grandi evasori. Ma all’orizzonte ci sono le Regionali del 26 gennaio 2020.

IL REBUS DELLE REGIONALI IN EMILIA-ROMAGNA E CALABRIA

Mentre in Calabria si vocifera di un possibile ritorno in campo dell’imprenditore del tonno Pippo Callipo, in Emilia-Romagna la partita si fa sempre più complicata. Il capo politico del M5s ha incontrato a Bologna gli eletti e gli attivisti, per cercare di trovare una soluzione all’impasse che si è aperta dopo il voto su Rousseau che ha sconfessato Di Maio e ha detto sì alla presentazione delle liste. Ma sia in Calabria, sia in Emilia-Romagna i pentastellati sono divisi. Il deputato “ortodosso” Giuseppe Brescia ha chiesto, assieme all’ex deputata Roberta Lombardi, di rimettere ai voti dei soli iscritti emiliani e calabresi la scelta di come andare al voto: «Non escluderei di tornare su Rousseau per chiedere agli attivisti se preferiscono vederci correre da soli oppure alleati con il Pd», ha detto Brescia.

TEMPO FINO AL 4 DICEMBRE PER LE CANDIDATURE

La vicepresidente della Camera, Maria Elena Spadoni, non concorda: «Penso che sia ormai troppo tardi per aprire a qualsiasi tipo di alleanza, oltretutto non prevista dal nostro statuto», alludendo evidentemente anche alla possibilità di optare per il voto disgiunto, al M5s e al candidato governatore del Pd. Con una presa d’atto finale: «In Emilia i nostri attivisti e consiglieri comunali da anni fanno battaglie contro il Pd. Nessuno dal territorio ha mai aperto ad alleanze». Nell’attesa, il Movimento ha comunque avviato la ricerca dei candidati governatori attraverso le cosiddette “regionarie”: chi intende proporsi avrà tempo fino al 4 dicembre. Sapendo che, come previsto dallo statuto, «il capo politico, sentito il garante», avrà la facoltà di esprimere un eventuale parere vincolante negativo.

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Il M5s lancia le Regionarie per le elezioni in Emilia Romagna e Calabria

Aperte le candidature per il voto del 26 gennaio su Rousseau. Resta il parere vincolante di Grillo e Di Maio.

Sono aperte le candidature per le “RegionarieM5s della Calabria e dell’Emilia Romagna in vista delle elezioni del 26 gennaio. Da oggi e fino al 4 dicembre tutti gli iscritti certificati residenti in Calabria o Emilia-Romagna potranno avanzare la loro candidatura su Rousseau. Come previsto dallo Statuto, «il Capo Politico, sentito il Garante, ha la facoltà di valutare la compatibilità della candidatura con i valori e le politiche del M5s, esprimendo l’eventuale parere vincolante negativo».

I CANDIDATI VOTATI SU ROUSSEAU

Il parere vincolante di Grillo e Di Maio sull’opportunità di accettazione della candidatura può essere espresso fino al momento del deposito delle liste elettorali. La lista dei candidati «che risulteranno effettivamente in regola con i requisiti, verrà resa pubblica e successivamente sottoposta alla votazione online su Rousseau» annuncia il M5s sul blog che ricorda la regola pentastellata: «Non sono consentite iniziative di autopromozione sia relativamente alla candidatura che per la votazione online».

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Caro Pd, è il momento di prendere sul serio Grillo

Sarebbe un errore chiudere la porta al M5s. Il cofondatore cerca di salvare la propria creatura e la sua disperazione può offrire la possibilità di un dialogo difficile ma molto utile.

Beppe Grillo ancora una volta tiene in piedi Luigi Di Maio e soprattutto lo costringe a mantenere in vita l’alleanza con il Pd, anzi gli suggerisce di dar vita a un progetto comune. Gli interventi tampone del padre fondatore ormai non si contano più e a stento riescono a impedire il crollo di una baracca che, nelle mani di Di Maio e di Casaleggio junior, appare sempre più destrutturata.

LA CRISI DEL GRILLISMO

La crisi del grillismo è evidente ed è stata prevedibile (e prevista). Il successo elettorale con le responsabilità di governo ha fatto venir fuori l’amalgama mal riuscito del blocco elettorale pentastellato, la fragilità del gruppo dirigente, l’incauta alleanza con il vorace Matteo Salvini che se li è mangiati pezzo dopo pezzo durante il primo governo Conte. L’autogol estivo del capo della Lega ha dato al Movimento 5 stelle la possibilità di un nuovo inizio che è stato accolto di malagrazia da Di Maio, vedovo inconsolabile della destra e soprattutto prigioniero di Salvini. 

GLI SFORZI DI GRILLO E TRAVAGLIO

In questi mesi molti elettori di destra dei 5 stelle se ne sono andati con il capo della Lega ed è facile ipotizzare che quelli rimasti siano in gran parte “nativi” 5 stelle o elettori di sinistra giunti al grillismo per protesta verso la leadership del Pd e dei partiti affini. Questa situazione, per tanti aspetti disperata, avrebbe dovuto condurre Di Maio e gli altri a fare di necessità virtù, invece la leadership 5 stelle ha continuato ad accontentarsi della rendita di posizione, via via più ridotta, garantita dal governo e dalla guida del Movimento sperando nello “stellone”. Solo i due padri fondatori, Beppe Grillo e Marco Travaglio, hanno cercato di far quadrare il cerchio spingendo quel che resta del movimento a una solida alleanza con la sinistra e soprattutto a una riaffermata opposizione a Matteo Salvini.

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELLA SINISTRA

A sinistra la discussione sui 5 stelle non è mai terminata anche se sarebbe più opportuno dire che non è mai iniziata. L’unico punto di analisi che i leader di sinistra più dialoganti hanno è la presenza nel grillismo di una base elettorale popolare con molti contatti con il vecchio popolo della sinistra. Osservazione intelligente ma culturalmente poverissima. Hanno ignorato invece l’aspetto programmatico che sorreggeva questo movimento, la sua logica antipartitica, il suo rifiuto della democrazia, la predilezione per il putinismo, l’amore per la decrescita infelice con la distruzione di fabbriche, come si è visto con l’atteggiamento tenuto sull’Ilva di Taranto. Insomma la massiccia presenza di popolo nei 5 stelle, peraltro espressione politica del potere giudiziario, non faceva sorgere una piattaforma di sinistra, ancorchè azzardata.

I GRILLINI VANNO SFIDATI SUI PROGRAMMI

Ora la situazione sta cambiando. Il popolo in gran parte se ne è andato, le posizioni più stupide nel movimento sono flebili, si fanno pressanti le richieste perché quel che resta dei 5 stelle apra un dialogo in profondità con la sinistra. Accettare o rifiutare? Sarebbe un errore rifiutare. È evidente che lasciati da soli i 5 stelle moriranno nel giro di una o due tornate elettorali. Ma nessuno di noi sa dove finiranno quei voti. Mi sembra difficile immaginare che, sic et simpliciter, tornino o vengano per la prima volta a sinistra. Perché questo “miracolo” si compia è necessario un atteggiamento con i 5 stelle che li sfidi sui programmi nel quadro di una ipotesi di alleanza non più solo anti-salviniana. È necessario che il gruppo dirigente del Pd legga meno i giornali e i post sui social dei più noti giornalisti dell’Espresso-Repubblica o di quelli, i cerchiobottisti, che da anni inseguono la chimera di una formazione destra-sinistra che non c’è mai stata né mai ci sarà.

IL PD SI COMPORTI DA PARTITO SERIO

La sinistra deve avere una propria strategia che significa chiedere un dialogo sulla base di punti irrinunciabili sia di carattere politico-istituzionale sia di carattere programmatico. Niente da inventare. Ci sono in tutti i documenti e in tutte le interviste che i leader del Pd o affini hanno fatto in questi due anni. Servirebbe solo comportarsi da partito serio e seriamente prendere in parola, per la prima volta, Beppe Grillo. La sua disperazione nel tentativo finale di salvare la propria creatura può consegnare la possibilità di un dialogo difficile ma, se serio, molto utile. Matteo Renzi non ci sta? Vada con Salvini.

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Caro Pd, è il momento di prendere sul serio Grillo

Sarebbe un errore chiudere la porta al M5s. Il cofondatore cerca di salvare la propria creatura e la sua disperazione può offrire la possibilità di un dialogo difficile ma molto utile.

Beppe Grillo ancora una volta tiene in piedi Luigi Di Maio e soprattutto lo costringe a mantenere in vita l’alleanza con il Pd, anzi gli suggerisce di dar vita a un progetto comune. Gli interventi tampone del padre fondatore ormai non si contano più e a stento riescono a impedire il crollo di una baracca che, nelle mani di Di Maio e di Casaleggio junior, appare sempre più destrutturata.

LA CRISI DEL GRILLISMO

La crisi del grillismo è evidente ed è stata prevedibile (e prevista). Il successo elettorale con le responsabilità di governo ha fatto venir fuori l’amalgama mal riuscito del blocco elettorale pentastellato, la fragilità del gruppo dirigente, l’incauta alleanza con il vorace Matteo Salvini che se li è mangiati pezzo dopo pezzo durante il primo governo Conte. L’autogol estivo del capo della Lega ha dato al Movimento 5 stelle la possibilità di un nuovo inizio che è stato accolto di malagrazia da Di Maio, vedovo inconsolabile della destra e soprattutto prigioniero di Salvini. 

GLI SFORZI DI GRILLO E TRAVAGLIO

In questi mesi molti elettori di destra dei 5 stelle se ne sono andati con il capo della Lega ed è facile ipotizzare che quelli rimasti siano in gran parte “nativi” 5 stelle o elettori di sinistra giunti al grillismo per protesta verso la leadership del Pd e dei partiti affini. Questa situazione, per tanti aspetti disperata, avrebbe dovuto condurre Di Maio e gli altri a fare di necessità virtù, invece la leadership 5 stelle ha continuato ad accontentarsi della rendita di posizione, via via più ridotta, garantita dal governo e dalla guida del Movimento sperando nello “stellone”. Solo i due padri fondatori, Beppe Grillo e Marco Travaglio, hanno cercato di far quadrare il cerchio spingendo quel che resta del movimento a una solida alleanza con la sinistra e soprattutto a una riaffermata opposizione a Matteo Salvini.

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELLA SINISTRA

A sinistra la discussione sui 5 stelle non è mai terminata anche se sarebbe più opportuno dire che non è mai iniziata. L’unico punto di analisi che i leader di sinistra più dialoganti hanno è la presenza nel grillismo di una base elettorale popolare con molti contatti con il vecchio popolo della sinistra. Osservazione intelligente ma culturalmente poverissima. Hanno ignorato invece l’aspetto programmatico che sorreggeva questo movimento, la sua logica antipartitica, il suo rifiuto della democrazia, la predilezione per il putinismo, l’amore per la decrescita infelice con la distruzione di fabbriche, come si è visto con l’atteggiamento tenuto sull’Ilva di Taranto. Insomma la massiccia presenza di popolo nei 5 stelle, peraltro espressione politica del potere giudiziario, non faceva sorgere una piattaforma di sinistra, ancorchè azzardata.

I GRILLINI VANNO SFIDATI SUI PROGRAMMI

Ora la situazione sta cambiando. Il popolo in gran parte se ne è andato, le posizioni più stupide nel movimento sono flebili, si fanno pressanti le richieste perché quel che resta dei 5 stelle apra un dialogo in profondità con la sinistra. Accettare o rifiutare? Sarebbe un errore rifiutare. È evidente che lasciati da soli i 5 stelle moriranno nel giro di una o due tornate elettorali. Ma nessuno di noi sa dove finiranno quei voti. Mi sembra difficile immaginare che, sic et simpliciter, tornino o vengano per la prima volta a sinistra. Perché questo “miracolo” si compia è necessario un atteggiamento con i 5 stelle che li sfidi sui programmi nel quadro di una ipotesi di alleanza non più solo anti-salviniana. È necessario che il gruppo dirigente del Pd legga meno i giornali e i post sui social dei più noti giornalisti dell’Espresso-Repubblica o di quelli, i cerchiobottisti, che da anni inseguono la chimera di una formazione destra-sinistra che non c’è mai stata né mai ci sarà.

IL PD SI COMPORTI DA PARTITO SERIO

La sinistra deve avere una propria strategia che significa chiedere un dialogo sulla base di punti irrinunciabili sia di carattere politico-istituzionale sia di carattere programmatico. Niente da inventare. Ci sono in tutti i documenti e in tutte le interviste che i leader del Pd o affini hanno fatto in questi due anni. Servirebbe solo comportarsi da partito serio e seriamente prendere in parola, per la prima volta, Beppe Grillo. La sua disperazione nel tentativo finale di salvare la propria creatura può consegnare la possibilità di un dialogo difficile ma, se serio, molto utile. Matteo Renzi non ci sta? Vada con Salvini.

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Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

Da qui alla fine dell'anno il governo Conte bis rischia di inciampare. Tutti i fronti caldi che possono spaccare la maggioranza entro la fine dell'anno.

Aumentano gli ostacoli sul cammino del governo Conte bis. Tanto che potrebbe rivelarsi persino ottimistica la previsione che fissa la scadenza della maggioranza M5s-Pd-Italia viva-Leu al prossimo 26 gennaio, giorno delle Regionali emiliano-romagnole. Una sconfitta in casa potrebbe infatti convincere i democratici a strappare l’alleanza, soprattutto considerato che Matteo Renzi sembra voler trascinare l’esperienza governativa al solo scopo di logorarli. Ma da qui alla fine di gennaio c’è comunque ancora da portare a casa la legge di Bilancio, discutere sulla riforma della giustizia e sullo Ius soli, senza dimenticare la necessità di trovare un accordo sulle sorti dell’Ilva. L’inciampo, insomma, rischia di essere dietro l’angolo. Ecco una veloce rassegna delle prove che l’esecutivo dovrà affrontare nei prossimi giorni.

IUS SOLI E IUS CULTURAE: LA BATTAGLIA DEL PD

La prima fibrillazione potrebbe arrivare dalla decisione del Pd di provare a portare a compimento l’introduzione nel nostro ordinamento dello Ius soli. Nicola Zingaretti ne ha bisogno per far ritrovare al partito una propria identità di sinistra. L’alleato pentastellato teme invece di perdere altro consenso tra gli elettori. «Col maltempo che flagella l’Italia, il futuro di 11 mila lavoratori a Taranto in discussione, qui si parla di ius soli: sono sconcertato», ha sibilato Luigi Di Maio. Non è la prima volta che questo tema mette in difficoltà un esecutivo. Accadde anche tra il 2015 e il 2017, quando il partito di Angelino Alfano congelò l’azione del governo Renzi prima e Gentiloni poi. La riforma, auspicata da Leu, dovrebbe essere sostenuta anche dai renziani.

L’intervento del segretario nazionale del Partito democratico Nicola Zingaretti alla convention del Pd a Bologna il 17 novembre.

BARUFFA SU QUOTA 100

C’è un altro tema che potrebbe registrare una inedita convergenza tra Partito democratico e Italia viva: l’abrogazione di Quota 100, che è per sua stessa natura destinata comunque a sparire, quindi bisognerà vedere come intendano concretamente anticiparne la chiusura. Eppure, sulla fine della riforma leghista il governo giallorosso discute da quando è nato. In ottobre, i malumori interni alla maggioranza (in quell’occasione la partita si giocò tra renziani e grillini, con i democratici alla finestra) fecero persino slittare alle ultime ore disponibili il Consiglio dei ministri per sciogliere i nodi sul documento programmatico di bilancio da inviare improrogabilmente alla Commissione europea. Ora il tema sembra essere cavalcato con prepotenza anche da Zingaretti, cui Di Maio ha già replicato in modo stizzito: «Qui siamo all’assurdo che si vuole fare lo Ius soli da una parte e togliere Quota 100 dall’altra per ritornare alla legge Fornero. Mi sembra un po’ eccessivo».

Matteo Renzi, leader di Italia Viva.

LA GRANDE BATTAGLIA SULLA LEGGE DI BILANCIO

L’ultima batosta elettorale subita dalle forze di maggioranza alle Regionali umbre di fine ottobre sembra averle spronate ad avanzare proposte dal forte sapore propagandistico in sede di legge di Bilancio. E così una manovra quasi integralmente dedicata al reperimento di risorse per il disinnesco delle clausole Iva rischia ora di tramutarsi in tutt’altro, se si considera la gragnuolata di 4.550 emendamenti presentati in commissione Bilancio al Senato. Di questi, 921 sono piovuti dal Partito democratico, 435 portano la firma di Movimento 5 stelle e 230 sono stati presentati dai renziani, segno che nei prossimi giorni si giocherà una intensa battaglia muscolare. Tra i punti di maggior frizione, la richiesta del Pd di abbassare la plastic tax voluta dai pentastellati da 1 euro a 80 centesimi al chilo mentre potrebbe essere più facile una intesa sulle tasse sulle auto aziendali inquinanti, oggetto di emendamenti firmati tanto dai dem quanto dai grillini. Su questo fronte, sarà Italia viva la più difficile da accontentare, dato che i renziani si trincerano dietro la volontà di espungere dalla manovra tutte le “micro-tasse” e non sembrano disponibili a trattare.

Matteo Salvini (Foto LaPresse/Filippo Rubin).

L’INCOGNITA SULL’ABOLIZIONE DEI DECRETI SALVINI

Sembra che il “nuovo” Pd che Zingaretti sta provando a tratteggiare sia intenzionato a chiedere agli alleati di governo un altro coraggioso passo avanti per rimarcare le differenze rispetto all’era gialloverde: l’abolizione dei decreti Salvini. «Creano discriminazioni e insicurezza», ha detto il segretario dem da Bologna. Ma quei decreti, nonostante se li fosse intestati il leader della Lega, portano anche le firme di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio, immortalati sorridenti accanto all’allora ministro dell’Interno al momento del varo. Difficile per loro rimangiarsi l‘intero testo, più facile che si vada verso un ammorbidimento per cercare una quadra. Anche in questo caso, si avrebbe una convergenza tra Pd, Italia viva e Leu e una contrapposizione comune con M5s.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

LA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE

Nubi oscure si addensano anche sulla riforma della prescrizione voluta dai 5 stelle contenuta nella Spazzacorrotti. I pentastellati, che un anno fa riuscirono a convincere la Lega a sostenerla, la consideravano ormai portata a casa. Invece il Pd sembra tentato di ridiscuterne i contorni approfittando del nuovo testo di riforma della giustizia su cui il governo sta lavorando. Secondo le nuove norme, dal primo gennaio 2020 le lancette dell’orologio della prescrizione si congeleranno dopo la sentenza di primo grado. «Il cittadino resterà dunque in balia della giustizia penale per un tempo indefinito, cioè fino a quando lo Stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda», ha già denunciato l’Unione delle Camere penali.

LO SCUDO DELL’ILVA SPACCA I 5 STELLE

Finora non sono serviti gli appelli all’unità che il presidente del Consiglio Conte ha rivolto ai sostenitori della maggioranza. I giallorossi rischiano infatti di arrivare al tavolo con l’Ilva separati e litigiosi. Il punto del contendere è sempre lo stesso: il ripristino dello scudo penale, che Pd e Italia viva sarebbero disponibili a concedere ad ArcelorMittal per toglierle facili pretesti. Anche Di Maio sembra possibilista, ma teme di spaccare il partito, già incrinato da tutte le batoste elettorali subite nell’arco del 2019, e non sembra avere la forza per opporsi all’irremovibilità della fronda pugliese capitanata da Barbara Lezzi.

manovra conte di maio evasione fiscale
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

LE TRIBOLAZIONI SULLA RIFORMA DEL MES

Studiato nel 2012 per sostituire e unire due istituti analoghi (il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria), il Mes (o Esm secondo l’acronimo inglese) è il Fondo salva-Stati che l’Unione europea riserva ai Paesi membri in difficoltà in cambio di riforme strutturali imposte dalla Commissione. Ora Bruxelles ha stabilito di riformarlo, decisione che sta causando l’insonnia del governo. Secondo le nuove condizioni d’accesso (non essere in procedura d’infrazione, avere da almeno un biennio un deficit sotto il 3% e un debito pubblico sotto al 60%), l’Italia verrebbe automaticamente esclusa dal programma di aiuti e, per potervi accedere, dovrebbe accettare, spalle al muro, una pesante ristrutturazione del debito con un cronoprogramma scritto a Bruxelles che rischia di essere lacrime e sangue. I sovranisti sono già all’attacco e sostengono persino che Conte abbia firmato «l’eurofollia» (credit di Giorgia Meloni) di nascosto.

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In realtà, l’iter per una eventuale ratifica non è nemmeno stato avviato, ma bisognerà vedere come intende procedere l’esecutivo e se si apriranno crepe anche su un fronte che rappresenta per Salvini e Meloni una ghiotta opportunità di muovere guerra ai giallorossi. Il leader della Lega è partito all’attacco: «Conte subito in parlamento a dire la verità, il sì alla modifica del Mes sarebbe la rovina per milioni di italiani e la fine della sovranità nazionale».

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Come è andato l’incontro tra Di Maio e Beppe Grillo

La riunione tra il leader e il guru del M5s finisce in distensione: «Siamo d'accordo su tutto», dice il ministro. E Beppe lo conferma ma aggiunge: «Sarò più presente per aiutarlo».

Perfettamente allineati, fiducia reciproca confermata. O almeno così dicono. L’incontro tra Luigi Di Maio e Beppe Grillo, tenutosi a Roma, all’hotel Forum, si è concluso dopo un’ora e mezza. «Siamo d’accordo su tutto, abbiamo smentito le leggende metropolitane di questi giorni», ha detto Di Maio prima di partire per la Sicilia, dove riprenderà il tour cominciato il 22 novembre. E Grillo ha speso parole di elogio per il leader del Movimento da lui fondato e di cui si fa garante: «Lavora 25 ore al giorno e non può essere sostituito per nessuna ragione, anzi va sostenuto». Poi però ha aggiunto una postilla: «Io ci sarò di più e gli darò una mano». Se non è commissariamento, poco ci manca. «Una persona deve poter decidere e fare scelte importanti. Un referente ci vuole», ha aggiunto Grillo all’interno di una nota diramata dopo l’incontro.

NUOVO CONTRATTO DI GOVERNO

I due hanno discusso del nuovo corso governativo del M5S. «Non possiamo essere gli stessi di prima, dobbiamo guardare avanti con grande entusiasmo», hanno sottolineato Di Maio e Beppe Grillo, convenendo sull’ipotesi di avanzare la proposta di un nuovo contratto di governo «a partire da gennaio» per finalizzare «progetti ambiziosi e di alto livello, con lo scopo di intervenire su tematiche fondamentali del nostro Paese e non solo come il clima, salario minimo, il reddito universale, l’intelligenza artificiale, l’energia, le infrastrutture». Secondo il capo politico e il garante, «il mondo è già cambiato», questo «è un momento di grande entusiasmo» e il futuro bisogna progettarlo insieme.

GRILLO: «SERVE EUFORIA»

«È un momento magico. Noi non possiamo continuare a fare dei Facebook in cui si dice questo qua non va bene. Adesso le cose devono essere chiare, il capo politico è lui, quindi non rompete i coglioni perché sennò ci rimettiamo tutti», ha poi ribadito Beppe Grillo in un video con Di Maio pubblicato su Facebook. «Siamo in un momento di caos, ma il caos è nella nostra natura, è nel caos che vengono fuori le belle idee. Il discorso è che non possiamo essere gli stessi, pensare come eravamo. Noi eravamo meravigliosi. Ma dobbiamo essere straordinariamente euforici», ha aggiunto. Grillo ha poi parlato delle elezioni in Emilia-Romagna: «Ci andiamo per beneficenza. Come dai un euro a uno non puoi dare un piccolo voto anche a noi per beneficenza? Così magari facciamo da tramite tra una destra un po’ pericolosetta e una sinistra che si deve formare anche lì», ha detto. Con la sinistra, però, c’è l’idea di continuare a collaborare per «progetti alti, bellissimi. Sui trasporti, su come costruire le cose, su cosa è la città… È un momento magico».

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Franco Ortolani è morto, addio al senatore M5s

Professore di Geologia all'Università Federico II di Napoli era simbolo delle battaglie ambientali in Campania, in prima linea nella battaglia per la Terra dei fuochi.

È morto nella notte tra il 22 e il 23 novembre il senatore del Movimento 5 Stelle, Franco Ortolani. Professore ordinario di Geologia all’Università Federico II di Napoli, aveva 75 anni ed era malato da tempo. A stroncarlo sono stati due tumori di cui aveva parlato pubblicamente su Facebook, affermando di averli contratti «per colpa dei veleni in Campania».

UNA VITA AL SERVIZIO DELL’AMBIENTE

Ortolani era nato a Molinella, nel Bolognese, il 29 agosto 1943, ma aveva vissuto gran parte della sua vita a Napoli, a servizio della Campania e delle battaglie ambientaliste che ha condotto con grande coraggio. Simbolo della lotta alla Terra dei Fuochi, si era opposto anche alle discariche di Chiaiano e alle ecoballe. Negli Anni ’90 era stato in prima linea nella lotta al dissesto idrogeologico di Napoli città mentre erano aperti i cantieri per la ex linea tramviaria rapida (oggi Linea 6) che doveva collegare Fuorigrotta al centro e che è rimasto un progetto incompiuto dopo Tangentopoli.

SENATORE DAL 2018

Il suo impegno civile e ambientale e la sua propensione alla divulgazione scientifica lo hanno fatto notare alla stampa prima e alla politica poi. Così nel 2018 il Movimento 5 Stelle ha scelto di candidarlo al Senato. Ortolani è stato eletto nel collegio uninominale di Napoli-Arenella, portando nelle aule del parlamento la sua battaglia. A dare la notizia della scomparsa, sul suo profilo Facebook, è stata la collega pentastellata Vilma Moronese: «Qualche giorno fa ho scritto un messaggio al caro collega Franco Ortolani, per dirgli che stavamo ultimando i lavori sul dl clima, un provvedimento su cui ero certa gli sarebbe piaciuto lavorare. Gli ho scritto che comunque c’era ancora tanto da fare e che tutti i colleghi chiedevano di lui e che la commissione ambiente del senato lo aspettava. Purtroppo non abbiamo avuto neanche il tempo di un ultimo saluto. Franco mancherà a tutti anche per i modi garbati con cui si poneva agli altri. È un momento molto triste per tutti noi, abbiamo perso una grande persona, un cittadino esemplare, un guardiano dell’ambiente ed un validissimo servitore dello Stato».

Qualche giorno fa ho scritto un messaggio al caro collega Franco Ortolani, per dirgli che stavamo ultimando i lavori sul…

Posted by Vilma Moronese Cittadina Senatrice M5S on Friday, November 22, 2019

IL SALUTO DI DI MAIO

La morte di Ortolani è stata commentata anche dal leder del Movimento, Luigi Di Maio: «Una vita dedicata alla tutela del territorio, alla salvaguardia dell’ambiente. Quando c’era da proteggere il nostro territorio, da sostenere cittadini contro discariche illegali e roghi tossici in Campania, lui c’era sempre. Lo ricordo con grande affetto, non solo per il suo grande lavoro da Senatore del MoVimento 5 Stelle. Nel 2007 ero Presidente dell’associazione degli studenti di Giurisprudenza e del Consiglio degli Studenti di Facoltà. Riuscimmo ad ottenere un’intervista con l’allora Commissario all’emergenza rifiuti in Campania Gianni De Gennaro. Lo avevamo incalzato su una serie di questioni cocenti che riguardavano la nostra terra e le nuove discariche che si volevano realizzare. Se tante comunità in Campania non sono state intossicate da discariche o impianti inquinanti, lo si deve al professor Franco Ortolani. Grazie Franco, tutto il MoVimento ti abbraccia».

Si è spento il professor Franco Ortolani, Senatore del MoVimento 5 Stelle. Una vita dedicata alla tutela del…

Posted by Luigi Di Maio on Saturday, November 23, 2019

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Per Zingaretti la crisi del M5s accelera il ritorno del bipolarismo

Il segretario del Pd analizza così le difficoltà dei pentastellati dopo il voto su Rousseau per le regionali in Emilia-Romagna e Calabria. E apre alla riforma della legge elettorale con la Lega.

All’indomani del voto su Rousseau con cui la base del M5s ha deciso che il partito deve correre alle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria, è arrivata l’analisi politica del segretario del Pd, Nicola Zingaretti.

Secondo il leader dei dem, i tempi sono maturi per un ritorno del bipolarismo. Zingaretti ha detto infatti che «il processo politico va verso una netta bipolarizzazione». Ed è chiaro che nel futuro «il confronto e la competizione saranno sempre di più tra un campo democratico civico e progressista, di cui il Pd è il principale pilastro, e la nuova destra sovranista. Il travaglio, che rispettiamo, e le difficoltà del M5s hanno origine nell’accelerazione di questo scenario e accentuano una crisi di sistema che va rapidamente affrontata con gli strumenti della democrazia».

L’analisi si lega alla posizione del Pd sulla riforma della legge elettorale. I dem vorrebbero «evitare una legge puramente proporzionale», puntando piuttosto a introdurre meccanismi che «aiutino la semplificazione e la formazione di coalizioni di governo chiare e stabili, con un impianto maggioritario». Per questo «non va fatta cadere la proposta di Giancarlo Giorgetti», numero due della Lega, «di un tavolo di confronto su questi temi, da attivare nei tempi più rapidi».

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Chi è Francesco Aiello, candidato del M5s in Calabria

Dopo il via libera di Rousseau, il Movimento punta sul docente universitario e fondatore del portale di economia Open Calabria.

Il Movimento 5 stelle ha scelto il candidato da presentare alle Regionali in Calabria, dopo il via libera dato dalla piattaforma Rousseau nella giornata del 21 novembre. Si tratta del docente universitario Francesco Aiello, la cui candidatura dovrebbe essere ufficializzata a breve, ma è di fatto già stata anticipata dal M5s calabrese. Aiello, docente di Politica economica all’Università della Calabria e fondatore del portale di economia Open Calabria, si è preso qualche giorno per sciogliere la riserva sull’accettazione della proposta.

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L’impatto del voto “emiliano” di Rousseau sul governo Pd-M5s

Di Maio dopo la scelta degli iscritti di presentarsi alle Regionali: «Nessuna ripercussione per l'esecutivo». E ribadisce: «Parlamentari ed esponenti locali ci chiedono di non allearci». Ma tra i dem sono al lavoro i "pontieri". Perché si teme una dispersione di preferenze che penalizzerà Bonaccini. Una cena con tutti i ministri ha provato a smorzare le tensioni.

E adesso? Rousseau ha votato, la linea di Luigi Di Maio è stata sconfessata. Gli iscritti al Movimento 5 stelle chiamati a esprimersi hanno deciso che bisogna correre alle elezioni regionali del 26 gennaio 2020 in Emilia-Romagna e Calabria, contrariamente a quanto voleva il capo politico grillino. Una scelta che avrà ripercussioni sul governo giallorosso? Lo stesso Di Maio ha scacciato fantasmi: «No, non ce ne saranno», ha detto al termine della cena con gli altri ministri. Ma le nubi sull’esecutivo restano.

DI MAIO: «TUTTI I NOSTRI CI CHIEDONO DI NON ALLEARCI»

Innanzitutto il M5s vuole presentarsi da solo. Anche se su questo aspetto non è stato interpellato Rousseau: «Non lo facciamo votare perché tutti i nostri parlamentari e i consiglieri hanno chiesto di non allearci alle Regionali», ha ribadito Di Maio.

BOCCIA: «NOI ANDIAMO AVANTI E VINCIAMO ANCHE DA SOLI»

Eppure nel Partito democratico qualcuno continua a lasciare la porta aperta. Come il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: «Allearsi con noi? Lo spero per loro. Noi andiamo avanti e vinciamo anche da soli. Stefano Bonaccini è stato il presidente migliore per l’Emilia-Romagna».

SCAMBI DI BATTUTE ALLA CENA DELLE TENSIONI

Nella serata di giovedì 21 novembre il premier Giuseppe Conte ha riunito i ministri a cena. E ovviamente si è parlato anche della scelta del M5s di correre alle Regionali. Stando a quanto raccontato da più di un partecipante, tra gli esponenti dei diversi partiti di governo ci sarebbero stati scambi di battute, dal tono per lo più scherzoso.

TIMORI PER LA DISPERSIONE DEL VOTO ALLE REGIONALI

Ma, al di là delle dichiarazioni, qualche preoccupazione è trapelata per le ripercussioni che potrebbe avere anche sul governo la scelta annunciata da Di Maio di correre da soli (per parlare alla stampa il leader M5s ha lasciato il Consiglio dei ministri a riunione in corso). I dem temono che la dispersione del voto possa favorire i candidati del centrodestra, in particolare in Emilia-Romagna («Speriamo di no», ha commentato un ministro).

PONTIERI DEM AL LAVORO PER INDURRE A UN RIPENSAMENTO

Ma più d’uno nel Pd confida che i “pontieri” in azione aprano una discussione nel Movimento, che induca il ripensamento. Per quacuno «è vero che gli esponenti locali hanno chiesto a Di Maio di non allearsi, ma tra i loro dirigenti la questione è aperta: tanti volevano escludere la candidatura proprio per evitare i rischi che la scelta di correre divisi comporta anche per il governo. Vedremo nei prossimi giorni». Ma un collega è stato più pessimista: «Mi sembra un caso chiuso».

LO STESSO RISTORANTE DOVE CONTE PORTÒ SALVINI

La cena, al di là di questo, come è andata? Si è inserita tra un Consiglio dei ministri serale e un vertice mattutino. Conte ha invitato fuori la sua squadra di governo in un ristorante nel centro di Roma dove un anno prima portò Di Maio e Matteo Salvini per placare lo scontro che si era aperto sulla manovra. Non andò benissimo alla fine. «Le sorti dei governi non si decidono a tavola», ha risposto sorridendo Conte a chi gli ha sottolineato che il precedente non faceva ben sperare.

VOLTI SCURI TRA I MINISTRI GRILLINI

Anche questa volta in effetti i motivi di tensione tra alleati non sono mancati, a partire dal voto su Rousseau. A tavola si è parlato di Emilia-Romagna e Calabria, sono state fatte battute, ci si è punzecchiati. All’ingresso, subito dopo il Cdm, si è notato qualche volto scuro, soprattutto tra i ministri M5s. A microfoni spenti più d’uno ha ammesso che il voto di gennaio è delicato anche per la tenuta del governo.

TUTTO OFFERTO DA CONTE E FIORI ALLE MINISTRE

Il premier, che ha offerto la cena a tutti e regalato fiori alle ministre, è stato l’ultimo ad arrivare, intorno alle 23, al termine di un lungo Cdm, e l’ultimo ad andare via, verso l’una. Tavolo per 22: c’erano i rappresentanti di tutti i partiti. E a un certo punto è spuntata anche la torta, per festeggiare il compleanno di Lorenzo Guerini, con “tanti auguri a te” cantato in coro tra applausi e risate.

ARCHIVIATA L’IDEA DI UN CONCLAVE DI MAGGIORANZA

L’idea era quella di fare squadra: Conte aveva annunciato un “conclave” con i leader di maggioranza, forse un’idea del tutto archiviata. Per ora è bastata una cena post-Cdm, a base di amatriciana e cicoria. I ministri sono arrivati e andati via alla spicciolata, a piedi, in auto o in vespa come il dem Peppe Provenzano. Di Maio è stato il primo a entrare, poco dopo è toccato alla renziana Teresa Bellanova: tra gli ultimi Dario Franceschini («Che c’è di strano se ceniamo insieme?»), Luciana Lamorgese, Roberto Gualtieri e infine Conte.

DOSSIERI SCOTTANTI SU ILVA, ALITALIA E MES

Nell’attesa si è bevuto prosecco. E il presidente del Consiglio ha scherzato con i giornalisti: «Vi do una notizia, ho cucinato io», prima di assicurare che «non c’è alcun litigio, nessuna tensione». Ma i dossier scottanti sono tanti, dal voto di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria che fa temere ripercussioni sul governo, a Ilva e Alitalia, fino al Mes, di cui si deve discutere in un vertice mattutino convocato alle 8.30 di venerdì. All’uscita dal ristorante si ostentavano sorrisi, dentro si brindava e si scherzava. Basta una cena per risolvere i problemi e iniziare davvero a fare squadra? Conte ha cercato ancora la battuta: «Se non ne basta una, ne facciamo due».

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Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

Infiamma la polemica sul meccanismo europeo di Stabilità, con Lega e Fratelli d'Italia che accusano il premier Conte di "tradimento". Ma cos'è e come funziona il fondo Salva Stati e quali sono gli aspetti più criticati della riforma? Il punto.

Se ne parla da giorni, si parla solo di quello, è il tema più cavalcato dalle opposizioni e sta creando spaccature anche all’interno della maggioranza.

È il Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, istituto sovranazionale che ha fatto irruzione nel dibattito politico mettendo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sotto assedio da parte di Lega e Fratelli d’Italia.

L’accusa? Aver firmato di nascosto un accordo per trasformare «il Fondo Salva Stati in fondo ammazza Stati», ha tuonato il segretario della Lega. «Noi come Lega abbiamo sempre detto a Conte e a Tria che NON avevano il mandato per toccare il Mes», ha rincarato la dose il 20 novembre. «Se qualcuno ha agito, lo ha fatto tradendo il mandato del popolo italiano, e l’alto tradimento costa caro. Non è la prima volta che l’ex avvocato del popolo mente, ma la verità verrà fuori».

CONTE BUGIARDO! #STOPMES

Noi come Lega abbiamo sempre detto a Conte e a Tria che NON avevano il mandato per toccare il MES.Se qualcuno ha agito, lo ha fatto tradendo il mandato del popolo italiano, e l'alto tradimento costa caro. Non è la prima volta che l'ex avvocato del popolo mente, ma la verità verrà fuori.

Posted by Matteo Salvini on Wednesday, November 20, 2019

Ma che cos’è il Mes e perché sta facendo tribolare l’esecutivo?

LA PRIMA RISPOSTA ALLA CRISI GRECA

Chiariamo subito un aspetto. Il Mes non è una novità di questi giorni. Tirato in ballo prima dai leghisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi poi da Salvini, il trattato istitutivo fu siglato all’interno dell’Eurozona il 2 febbraio 2012 e l’istituzione vera e propria fu inaugurata alla fine dello stesso anno. Era il periodo in cui l’Europa doveva far fronte alla crisi della Grecia e andava deciso se continuare a provare a salvarla (a Bruxelles era già stato definito un pacchetto di aiuti da 110 miliardi di euro), oppure fosse meglio abbandonare Atene al proprio destino, facendola scivolare fuori dal club europeo.

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La crisi greca rivelò ai vertici comunitari che l’Ue era esposta a bordate speculative fatali in momenti di recessione globale. Da qui la necessità di approntare una controffensiva che potesse operare in autonomia e celermente, senza attendere i tempi della politica. La risposta comunitaria fu la creazione di un’organizzazione intergovernativa da 160 dipendenti regolata dal diritto pubblico internazionale, con sede in Lussemburgo

COME FUNZIONA IL MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ

Studiato per proseguire in modo più efficace l’opera del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf) istituito nel 2010, il Mes emette strumenti di debito per finanziare prestiti nei Paesi dell’Eurozona. Gli azionisti dell’organizzazione sono 17 Paesi membri dell’Unione che concorrono pro-quota (in base al proprio peso economico) al versamento di circa 80 degli oltre 700 miliardi di euro totali del fondo. L’Italia, per esempio, con i suoi 14 miliardi messi sul piatto, è il terzo sostenitore dopo Germania e Francia. Venendo alle funzioni, il Mes è autorizzato a concedere prestiti nell’ambito di un programma di aggiustamento macroeconomico, ma può anche acquistare titoli di debito sui mercati finanziari primari e secondari, aprire linee di credito e finanziare la ricapitalizzazione di istituzioni con prestiti ai governi dei suoi Stati membri.

IL MEMORANDUM FIRMATO DAGLI STATI UE

Considerato anche il Fesf, dal 2010 a oggi questo meccanismo è stato attivato cinque volte (per 295 miliardi) per salvare dal fallimento altrettante nazioni: oltre alla Grecia, è servito per rimettere i conti in ordine di Cipro, Spagna, Portogallo e Irlanda. Non si tratta di aiuti integralmente a fondo perduto (anzi, vanno restituiti, seppure a condizioni di favore): è stato infatti previsto che, per potervi accedere, gli Stati sottoscrivano preliminarmente un Memorandum of understanding finalizzato a predisporre pacchetti di riforme strutturali stabiliti dalla famigerata Troika (Commissione Ue, Banca centrale europea e Fondo Monetario Internazionale).

IL NOCCIOLO DELLA RIFORMA

L’intenzione dei Paesi del Nord Europa è ora quella di procedere con una riforma che da un lato aumenti l’indipendenza dell’organismo e, dall’altro, restringa le condizioni d’accesso. Secondo le bozze dell’accordo, infatti, i Paesi in difficoltà che vorranno usufruirne non potranno essere in procedura d’infrazione e dovranno avere da almeno un biennio un deficit sotto il 3% e un debito pubblico sotto al 60%. Il nuovo meccanismo di supporto sarà operativo, stando alla roadmap dell’Eurogruppo, entro dicembre 2023 ma potrebbe essere introdotto prima sulla base di una valutazione dei progressi compiuti nell’ambito della riduzione dei rischi che sarà effettuata nel 2020.

LE CRITICHE ITALIANE ALLA RIFORMA

Le critiche di chi si oppone alla riforma sono diverse, ma semplificando si potrebbero ricondurre a due ordini. Da un lato viene fatto notare che l’Italia, dovesse mai avere bisogno degli aiuti, con le nuove regole verrebbe automaticamente esclusa e, per potervi accedere, dovrebbe accettare, spalle al muro, una pesante ristrutturazione del debito. Questo non significherebbe solo essere costretti ad attenersi a un cronoprogramma scritto dalla Troika che per i gli italiani rischierebbe di essere lacrime e sangue, ma anche di trovarsi maggiormente esposti agli attacchi speculativi. Ristrutturare il debito è infatti ammissione dell’impossibilità di fare fronte a tutti gli impegni presi con i propri creditori. Insomma, una dichiarazione di insolvenza in piena regola, che deflagrerebbe tra gli investitori, mettendoli in fuga. In merito il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha avvertito: «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default».

IL TIMORE DI UNA SUPER TROIKA A TRAZIONE TEDESCA

La seconda critica ricorrente riguarda invece la governance del Mes che, per alcuni, diverrebbe persino legibus solutus, vale a dire che potrebbe operare al di sopra della legge. Se a questo aggiungiamo che già oggi il Managing Director del Fondo salva-Stati è il tedesco Klaus Regling e che la Germania è il maggior contributore, potrebbe concretizzarsi – dicono i detrattori – il pericolo di un istituto contemporaneamente sovranazionale e sovralegislativo teleguidato da Berlino.

#STOPMES ALLA CARICA

A opporsi con maggior vigore alla riforma la destra che, oltre a condividere le critiche appena esposte, evidenzia la beffa che l’Italia oggi sia il terzo finanziatore di un Fondo che le sarà precluso (non è del tutto vero: come si è visto, il nostro Paese ha messo 14 miliardi su oltre 700, perché il Mes si autofinanzia stando sul mercato). Come si è detto, è stato Salvini a tirare in ballo la questione (seguito a ruota da Giorgia Meloni e dal popolo del #StopMes), spolverando però qualcosa che era già al vaglio dei parlamentari da almeno cinque mesi. Come testimoniano infatti i resoconti stenografici della Camera, Conte riferì al parlamento dello stato dei lavori lo scorso 19 giugno elencando uno a uno i punti critici. All’epoca Salvini era ministro dell’Interno, eppure non fece alcuna polemica sul Mes. Il 18 giugno aveva twittato invocando la sterilizzazione di una donna rom e nelle ore seguenti avviava una querelle social con l’attrice porno Valentina Nappi, che lo aveva attaccato. Insomma, il leader della Lega in quei giorni pensava a tutt’altro. Ma non il collega Claudio Borghi che aveva presentato con altri deputati del Carroccio un’interrogazione all’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria sull’iter della riforma. Tacevano, invece, pure i 5 stelle e il Pd, che pure all’epoca stava all’opposizione.

DICEMBRE, MESE CRUCIALE

Ma c’è un motivo se ora Salvini ha deciso di cavalcare in prima persona una questione già aperta. Nell’accordo raggiunto dall’Eurogruppo lo scorso 13 giugno era stato stabilito che, su richiesta tra gli altri di Italia e Germania, le procedure per le ratifiche nazionali venissero avviate solo quando tutta la documentazione sarebbe stata concordata e finalizzata con previsione quindi di aprire la discussione in parlamento nel prossimo dicembre. Sempre a dicembre e più precisamente il 10, è notizia delle ultime ore, il premier Conte riferirà alle Camere sul Mes. Vedremo se in quella data le forze politiche staranno più attente alle sue parole di quanto non accadde durante la seduta del 19 giugno scorso.

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Rousseau ha deciso che il M5s correrà in Emilia-Romagna e Calabria

Dalle 12 alle 20 gli iscritti erano chiamati a esprimersi sull'opportunità o meno per il Movimento di presentarsi ai due appuntamenti elettorali. Polemiche per il quesito.

Il Movimento 5 stelle presenterà le sue liste alle Regionali in Emilia-Romagna e Calabria. È questo l’esito della consultazione sulla piattaforma online Rousseau che si è svolta nella giornata del 21 novembre. Una giornata vissuta tra polemiche sulla votazione attraverso la quale gli iscritti erano chiamati a decidere se il M5s dovesse correre oppure no ai due appuntamenti. Per quel che riguarda la consultazione del prossimo 26 gennaio, in particolare, la spaccatura della base era parsa evidente, col quesito attorno al quale era già sorta più di una critica. Alla fine Sono state espresse 27.273 preferenze su un totale di 125.018 aventi diritto al voto. Il ‘no‘ – che per come era stato espresso il quesito referendario significava sì alle liste – ha ottenuto 19.248 voti attestandosi al 70,6%; il ‘sì’, invece, si è fermato a 8.025 preferenze, rappresentando il 29,4% degli aventi diritto al voto.

SCONFITTA LA LINEA DETTATA DA DI MAIO

Luigi Di Maio, ai microfoni de L’aria che tira, su La 7, aveva spiegato:  «Di solito preferisco non votare, ma chiedere al M5s quale sia la direzione da prendere. Gli uomini soli al comando diventano dei palloni e poi scoppiano. Io credo che le decisioni importanti vanno prese con gli iscritti. I più grandi errori li ho commesso scegliendo da solo». Più tardi, però, non aveva esitato ad ammettere: «Sicuramente il Movimento è in un momento difficoltà e lo ammetto prima di tutto io. C’è bisogno di mettere a posto alcune cose».

POLEMICHE PER IL QUESITO ORIENTATO

Decisamente più esplicita era stata la maggioranza dei militanti emiliani, che aveva chiesto espressamente di votare ‘no’ al quesito su Rousseau. Silvia Piccinini, consigliera regionale del M5s in Emilia-Romagna, aveva definito «una presa in giro inaccettabile e un’umiliazione» il voto con un quesito «orientato».

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Il M5s voterà su Rousseau per decidere se correre in Emilia e Calabria

I grillini si appoggiano agli iscritti per decidere se prendere parte alle Regionali di gennaio. Consultazione aperta dalle 12 alle 20 di giovedì 21 novembre.

Un voto su Rousseau per uscire dall’empasse. Il Movimento 5 stelle ha deciso di appoggiarsi alla piattaforma per decidere se correre alle Regionali di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Con un post sul blog delle Stelle è stato annunciato che il 21 novembre, dalle 12 alle 20, gli iscritti potranno sceglere le prossime mosse del Movimento.

«SERVE UN MOMENTO DI RIFLESSIONE»

«Ci siamo confrontati. Abbiamo consultato le persone che portano dalla prima ora sulle spalle questo Movimento, e tutti concordano che serva un momento di riflessione, di standby. Ma decidiamo insieme», si legge nel post in cui si annuncia la consultazione. «È quindi il momento di chiederci se questa grande mobilitazione di crescita e rigenerazione sia compatibile con le attività elettorali».

«TUTTI SI CHIEDANO SE PARTECIPARE AL VOTO»

«Per questo», continua il post, «abbiamo deciso di sottoporre agli iscritti la decisione riguardante la partecipazione alle imminenti elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria». «Partecipare alle elezioni richiede uno sforzo organizzativo, anche nazionale, e di concentrazione altissimo. Ciascuno di noi deve interrogarsi, con la massima responsabilità, sul contributo che sente di dare nei prossimi mesi, su dove sente più giusto che i suoi portavoce dirigano il proprio impegno». «Deve chiedersi», conclude la nota, «se pensa se siamo capaci, tutti insieme, in un grande lavoro di rete di condivisione e divisione degli incarichi, di essere utilmente presenti su diversi fronti. Qualsiasi cosa sceglieremo, la affronteremo come sempre con tutta la dedizione di cui siamo capaci».

IL POSSIBILE ZAMPINO DI GRILLO DIETRO AL VOTO

Parallamente il Movimento ha confermato, per marzo, gli Stati generali che genereranno una nuova Carta dei Valori. «Sarà un momento di rinascita», hanno promesso dal blog dove è stato ribadito anche che, entro dicembre, sarà in campo il team di 18 facilitatori per una nuova struttura pentastellata. Non è escluso che, sulla scelta di affidare la decisione sulle Regionali a Rousseau, non ci abbia messo lo zampino Beppe Grillo. Dopo Italia 5 Stelle il garante è tornato nell’ombra, dispensando solo qualche click a favore di Virginia Raggi. I rumors dell’ultim’ora, tuttavia, prevedono un qualche intervento dell’ex comico, sia per compattare il Movimento sia per insistere su una strada che Grillo già ha indicato ad agosto: il dialogo con il Pd. Ed è un punto, questo, che si incrocia con il nodo delle Regionali.

LE INSIDIE DEL VOTO IN EMILIA

Le mosse M5s sono collegate a una domanda tutta politica: che succederebbe se in Emilia-Romagna il Pd perdesse per quella manciata di punti che potrebbe portargli un M5S alleato? Il timore, in queste ore è arrivato anche al premier Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio, non a caso, si è ormai convinto della necessità di cementare l’alleanza di governo. Sicuramente dopo la manovra, con un vero e proprio rilancio “programmatico” in gennaio ma anche prima. Il nodo dei rapporti tra alleati, però, esiste eccome. È alimentato, ad esempio, da quello scudo penale – da inserire per l’ex Ilva – che rischia di spaccare ulteriormente la maggioranza e il M5S al suo interno. Ed è un nodo che è rinfocolato dal sospetto, che serpeggia nelle stanze del Movimento, che Nicola Zingaretti a voglia andare al voto.

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Barillari e il dossier bomba del neofascista Paliani contro Zingaretti

Un sindacalista di Avanguardia nazionale finito agli arresti. Stava raccogliendo informazioni sul segretario Pd e aveva coinvolto il consigliere regionale del M5s.

Un dossieraggio contro Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio e attuale segretario del Partito democratico. Questo stava macchinando, secondo le carte di un’inchiesta della procura di Roma, Andrea Paliani, sindacalista del «sindacato italiano confederazione europea del lavoro» e pure esponente neofascista di Avanguardia nazionale finito agli arresti, secondo quanto riporta il quotidiano Sole 24 Ore. Per il suo obiettivo – attaccare il sistema di clinichhe private accreditate della compagnia Ini spa, Paliani aveva puntanto al presidente della Regione e cercato di coinvolgere e trovato l’apparente sostegno del consigliere regionale M5s Davide Barillari e parlato anche con Mario Borghezio, europarlamentare della Lega. spiegando di avere informazioni sul segretario Pd.

«MO’ DISTRUGGE PURE IL PD»

«Qui tra poco scoppia la bomba contro Nicola Zingaretti», dice Paliani nelle intercettazioni rivelate dal quotidiano salmonato che spiega come il neofascista avesse tentato di arrivare al ministro della Sanità Giulia Grillo attraverso il consigliere M5s. .«Quindi tra poco scoppia la bomba penso…che con questa penso Zingaretti…il Pd…mo distrugge pure il Pd… Questa storia del milione di euro noi la conosciamo perché come danno i soldi questi in giro no! Con la sanità privata, con le porcate loro e questa è la verità», spiega parlando con Barillari che risponde: «Si, si». Il consigliere pentastellato, spiega Il Sole 24 Ore, dichiara di essere intenzionato a mandare gli ispettori all’Ini. E Paliani lo incita: «Li fai male anche a Zingaretti, capito? Che quelli sono gli amici suoi quelli della Asl». Con il sindacalista sono stati arrestati Giuseppe Costantino e Alessandro Tricarico, rispettivamente maresciallo dei carabinieri e consulente del lavoro. de gruppo Ini.

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