Come la crisi iraniana sta spaccando la politica Usa

Le divisioni tra i falchi. Le divergenze nel Partito repubblicano e in quello democratico. I dissidi tra Casa Bianca e Pentagono. Le tensioni con Teheran allargano la faglia tra pro e anti Trump.

La crisi iraniana, esplosa dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani, sta producendo profonde spaccature in seno alla politica statunitense. Le varie fazioni che si stanno creando attorno a questo spinoso dossier non sono poche. La maggior parte dei repubblicani si è schierata dalla parte di Donald Trump. A sostenere il presidente in questo delicato frangente sono soprattutto i falchi del partito. All’indomani dell’attacco missilistico iraniano contro le due basi americane in Iraq, il senatore della Florida, Marco Rubio, ha dichiarato che il presidente ha gestito la faccenda «molto bene», aggiungendo: «Gli Stati Uniti erano ben preparati per questo tipo di attacco e non hanno bisogno di affrettarsi per decidere la risposta appropriata». Una posizione in buona sostanza condivisa anche dal senatore del South Carolina, Lindsey Graham, che ha definito l’aggressione iraniana «un atto di guerra». Riferendosi all’uccisione di Soleimani, l’ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha invece affermato: «Le uniche persone che piangono la scomparsa di Soleimani sono i nostri leader democratici e i candidati presidenziali democratici».

Va tuttavia notato che il fronte dei falchi non appare del tutto coeso e che può, almeno in generale, essere diviso in due parti. Se è infatti possibile scorgere una frangia più moderata che, con Graham, invoca un’azione ferma (volta a “ristabilire la deterrenza” contro l’Iran), è presente anche una fazione molto più agguerrita che chiede di andare ben oltre. In questo senso, non bisogna trascurare la posizione dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che – qualche giorno fa – si è augurato che l’uccisione di Soleimani possa costituire il primo passo per arrivare a un cambio di regime in Iran. Una prospettiva, quest’ultima, che Trump non ha mai mostrato di apprezzare e lo stesso Graham – nelle scorse ore – ha ribadito che il presidente non auspica un simile obiettivo. Se dunque il fronte dei falchi non appare del tutto compatto, neppure il Partito Repubblicano si è interamente schierato con Trump sul dossier iraniano.

NON TUTTO IL PARTITO REPUBBLICANO STA CON TRUMP

Per quanto minoritaria, la frangia dei libertarian (di tendenze storicamente isolazioniste) non ha gradito troppo l’eliminazione di Soleimani. Qualche giorno fa, il senatore del Kentucky Rand Paul ha dichiarato che Trump avrebbe «ricevuto cattivi consigli» sulla sua decisione di uccidere il generale iraniano: non è del resto un mistero che Paul sia sempre stato abbastanza favorevole ad intraprendere azioni diplomatiche per appianare le divergenze geopolitiche tra Washington e Teheran. L’amministrazione Usa, dal canto suo, ostenta al momento compattezza. La sintonia tra il presidente e il segretario di Stato, Mike Pompeo, sembra forte. Tutto questo, nonostante l’episodio della lettera, circolata due giorni fa, su un eventuale ritiro delle truppe americane dall’Iraq possa suggerire la presenza di qualche dissidio tra la Casa Bianca e il Pentagono.

L’INVERSIONE DI ROTTA DELLA WARREN

Ancora più articolata (e confusa) rispetto alla situazione nel Gop risulta quella tra i democratici: soprattutto se si guarda ai principali candidati alla nomination. L’estrema sinistra si è mostrata sin da subito molto critica nei confronti dell’uccisione del generale, con il senatore del Vermont Bernie Sanders che ha definito l’accaduto un «assassinio» che potrebbe condurre gli Stati Uniti verso una nuova «disastrosa guerra in Medio Oriente».  Più controversa la posizione di Elizabeth Warren. Il giorno dell’uccisione di Soleimani la senatrice del Massachusetts aveva postato un primo tweet in cui, pur denunciando la possibilità di un conflitto, definiva il generale iraniano un «assassino». Qualche ora dopo, in seguito alle critiche ricevute su Twitter da attivisti di area liberal, ha in parte cambiato linea, sostenendo che Trump abbia «assassinato un alto funzionario militare straniero» e ritenendo inoltre il presidente responsabile dell’acuirsi delle tensioni con Teheran.

Più “istituzionali” si sono mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg

L’inversione di rotta non è passata inosservata e ha messo in luce le difficoltà della Warren a barcamenarsi tra le istanze più a sinistra dell’elettorato americano e quelle dell’establishment del Partito Democratico (cui la senatrice non è così estranea come spesso vorrebbe far ritenere). Più “istituzionali” si sono invece mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg: i due hanno affermato che Soleimani era un nemico dell’America ma non hanno comunque perso occasione per criticare Trump. Biden ha accusato il presidente di aver gettato un candelotto di dinamite in una polveriera, sostenendo che la Casa Bianca non disporrebbe di adeguate strategie mediorientali. Buttigieg, dal canto suo, ha criticato Trump per aver ordinato l’eliminazione del generale senza chiedere l’autorizzazione del Congresso.

L’INIZIATIVA DELLA SPEAKER PELOSI

E proprio quest’ultima accusa ha fatto breccia in gran parte dell’Asinello negli ultimi giorni. Lunedì scorso, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato l’introduzione di una risoluzione per limitare il potere del presidente sul dossier iraniano: una risoluzione che – ha scritto in una lettera la Pelosi – «riafferma le responsabilità di supervisione da lungo tempo assunte dal Congresso, imponendo che se non verrà intrapresa alcuna ulteriore azione congressuale, le ostilità militari dell’amministrazione nei confronti dell’Iran cesseranno entro 30 giorni». L’argomento, che può avere una sua validità tecnica in astratto, risulta tuttavia debole in concreto, alla luce del fatto che Barack Obama nel 2011 ordinò l’intervento in Liba, aggirando completamente l’autorità del Campidoglio. Resta tuttavia il fatto che, con ogni probabilità, la leadership dell’Asinello è intenzionata a dare battaglia su questo fronte. Magari intersecando il tutto con la partita dell’impeachment.

I (PRESUNTI) LEGAMI CON L’IMPEACHMENT

A questo proposito, c’è chi sostiene che il presidente avrebbe ordinato l’uccisione di Soleimani proprio per fronteggiare al meglio il processo di messa in stato d’accusa (che dovrebbe celebrarsi questo mese al Senato). L’interpretazione risulta tuttavia abbastanza inconsistente: Trump non aveva infatti bisogno di uccidere il generale per ottenere l’appoggio dei falchi alla Camera alta (sono mesi che, per esempio, Graham sta sostenendo il presidente su questo fronte). Inoltre, anche in termini di opinione pubblica, il consenso verso l’impeachment era già progressivamente scemato tra novembre e dicembre. Discorso simile vale poi per chi dice che Trump ha agito in ottica prettamente elettorale. È vero che secondo un recentissimo sondaggio di Morning Consult il 47% degli intervistati si è detto favorevole all’eliminazione di Soleimani (mentre solo il 40% ha manifestato contrarietà). Ma è altrettanto vero che difficilmente gli americani voteranno a novembre del 2020 pensando all’uccisione del generale iraniano. 

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