Nessuno si salva da solo, nemmeno nella moda maschile

Ai piccoli nomi servono i grandi per crescere. E a questi ultimi serve un sistema compatto che garantisca loro un humus fertile per continuare a svilupparsi e anche a scippare talenti ed eccellenze, all’occorrenza.

L’unico vantaggio di avere 15670 messaggi nella memoria e 4446 mail ancora da leggere in uno solo degli account di posta elettronica di cui siamo disgraziatamente titolari è la possibilità di verificare fatti ormai remoti per la velocità e le capacità mnemoniche di oggi. Per esempio, che cosa ci venisse proposto come moda maschile di tendenza nel 2010 e 2011 attraverso i comunicati delle aziende espositrici di Pitti Uomo. La nuova edizione, la numero 97, aprirà ufficialmente domani sera, 6 gennaio, con una cena presso il Maggio Musicale Fiorentino (neanche il tempo di ammirare l’Arno, ed ecco il nuovo sovrintendente Alexander Pereira pronto a replicare la formula-Scala dell’evento sponsorizzato a go-go, nell’obiettivo di allontanare gli spettri del profondo rosso di bilancio prodotti dal mastodontico edificio): la data dimostra in via inequivocabile quanto il business conti davvero per questo settore e come i calendari internazionali se ne infischino delle “Befane”.

L’EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO

L’edizione di Pitti Uomo del 2010, la numero 77, venne inaugurata il 12 gennaio (si apre sempre il secondo martedì dell’anno nuovo, con cena di gala la sera precedente), prevedeva il nuovo allestimento di Patricia Urquiola nel Padiglione Centrale, concentrato sul tema dei Pop Up Store e delle “moderne combinazioni” dell’abbigliamento maschile fra i temi forti. Marina Yachting aveva allestito fra la ghiaia dell’antico forte militare un porto di derive d’epoca, e ricordiamo che accorremmo per vedere il primo Skiff inglese, (anno 1860), e il mitico Dinghy di George Cockshott, icona degli appassionati dal 1913. Il tutto era sintetizzato dalla società organizzatrice, Pitti Immagine, in un paio di pagine. Il lessico delle aziende espositrici ruotava attorno a concetti come “tradizione e innovazione”, “molteplici esigenze dell’uomo metropolitano”, “nuovo appeal in tagli classici”.

FENOMENOLOGIA DI UN GIGANTE

Essendo il linguaggio dell’edizione 97, cioè di un decennio dopo, perfino invecchiato, tanto da risultare incredibilmente ancorato agli Anni 80 (pesco a caso dalle decine di comunicati giunti in queste ore: “appeal pratico ma raffinato”, “innovazione e lusso in un unico tessuto”, “una collaborazione che stupisce e affascina”), ed essendo i giacconi impermeabili e high tech di dieci anni fa non proprio diversissimi, ecosostenibilità a parte, da quelli che ci verranno mostrati dopodomani e sui quali i più sgraneranno gli occhi come davanti a un’apparizione (la moda è business per tutti, bellezza), ci domandiamo dunque che cosa sia cambiato in un decennio di moda maschile per far sì che Pitti Uomo da Firenze sia diventato un gigante in grado di dettare legge all’intero sistema mondiale, che il suo comunicato abbia assunto le dimensioni di un saggio monografico, i suoi eventi muovano circa 20 mila persone e il presidente della Camera della Moda Carlo Capasa abbia dato fondo a tutte la propria vis diplomatica per riportare Gucci non solo a sfilare a Milano, cosa che farà il 14, ma a dividere nuovamente le presentazioni delle collezioni uomo e donna nel tentativo di difendere quella che appariva fino a ieri come la progressiva e ineluttabile estinzione del calendario milanese maschile.

LA CAPACITÀ DI FARE SPETTACOLO E CULTURA

Possiamo buttare a mare le nostre dissertazioni, più o meno competenti e dotte, sulle sfilate co-ed e sulle tante ragioni logistiche, ecologiche, industriali, commerciali, per cui le presentazioni congiunte della moda uomo e donna, lanciate cinque anni fa, avessero tanto senso (e continuiamo a pensarlo): i nostri articoli resteranno negli annali come prova, quelli sì, di un mondo che fu e di una stagione davvero finita di fronte alle esigenze di un business che, per sostenersi a moltiplicarsi in nome di quel bene superiore che è il made in Italy, deve continuare ad andare in scena il più spesso possibile e con il maggior sfarzo possibile. Le ragioni per le quali Pitti Uomo e in generale tutto il network di Pitti Immagine chiude bilanci in crescita ogni anno e sia abbastanza liquido da essersi potuto comprare a fine 2018 la Stazione Leopolda dove ogni anno Matteo Renzi organizza i propri stati generali, risiedono in questa capacità di fare spettacolo e cultura attorno alla banalità del giaccone impermeabile high tech, cioè dell’azienda che non può permettersi il geniale estensore delle cartelle stampa di Gucci e fa accorpare quattro luoghi comuni dalla nipote laureata in comunicazione, corso triennale.

BRET EASTON ELLIS DIXIT

La forza risiede nel benchmark, nel marchio di garanzia, negli eventi speciali come saranno, per questa edizione, il ritorno di Sergio Tacchini, la sfilata di Jil Sandr, brand di culto nonostante un percorso societario e commerciale non sempre semplice, le celebrazioni per il 190esimo anniversario di Woolrich, il debutto di Chiara Boni nel maschile (e se mai le sue giacche “trailblazer” dovessero “fittare” come i suoi abitini femminili e non sgualcirsi mai, darà certamente del filo da torcere ai competitor), la presentazione di un raffinato “naso” come Sileno Cheloni. Lo spostamento e l’adeguamento progressivo dell’asse del potere nella moda maschile, unico fatto davvero rilevante del decennio in Italia, dimostra senza ombra di dubbio che ai piccoli nomi servono i grandi per crescere, e che a questi ultimi serve un sistema compatto che garantisca loro un humus fertile per continuare a svilupparsi e anche a scippare talenti ed eccellenze, all’occorrenza. Per usare una di quelle formule sentimentali che piacciono tanto in questi anni e che Bret Easton Ellis ha infilzato in quella meraviglia di saggio che è Bianco, nessuno si salva da solo.

I GRANDI MARCHI A RACCOLTA

Per questo, dopo aver visto la rilevanza della settimana della moda maschile milanese assottigliarsi sempre di più, Capasa ha chiamato a raccolta i grandi marchi, le aziende potenti, mettendo a disposizione tutte le risorse di cui dispone e che non sono pochissime, e per questo ha fatto molto bene: perché la moda, più di ogni altro settore, non può permettersi di non fare sistema. Ne va dell’indotto che genera (alberghi, ristoranti, shopping, anche per gli stessi turisti, attirati ed eccitati dalla speciale “fauna” del comparto) e della sua stessa esistenza. «Caro Carlo, grazie per il tuo invito: le sfilate di Milano incarnano la forza e la bellezza del Made In Italy, rappresentano un appuntamento fondamentale per il mondo della moda e riconfermano a ogni appuntamento stagionale il ruolo fondamentale, creativo e manifatturiero, dell’Italia», scriveva il ceo di Gucci Marco Bizzarri qualche mese fa a Capasa, e non faccia specie l’evidenza che nessuno più di lui, membro del consiglio di Camera Moda e figura di spicco nel sistema mondiale, dovrebbe saperlo. Dirlo era una riconferma e un riconoscimento, e pure una certa, vogliamo dire magnanima, acquiescenza al famoso bene superiore.

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