I migliori dischi del 2019 di cui nessuno vi ha parlato

Una classifica atipica. Di nomi (quasi) mai citati. Dai Cheap Wine e Il Terzo Istante in Italia ai Th' Losin Streaks e New Model Army nel resto nel mondo. Viaggio in un anno da riascoltare.

C’è qualcosa che non va con le classifiche di fine anno: tutti hanno la loro, ma alla fine si assomigliano tutte ed è forte il sospetto di interferenze fin troppo ispiratrici. Allora proviamo noi a stilarne una atipica, di dischi (quasi) mai citati in questi giorni eppure assolutamente significativi del 2019 che già sbadisce; tutti in rigoroso ordine sparso, perché non è questione di preferenze ma di menzioni.

GIORGIA DEL MESE E GLI ALTRI SPLENDIDI OUTSIDER

Tra gli italiani, andiamo a scegliere non i soliti nomi alla moda, ma gli autentici outsider: Giorgia Del Mese, si è appena ripresentata con Moderate Tempeste, lavoro di appena cinque brani ma terribilmente belli, in pratica una sola piccola suite squarciata come la coscienza in cui si parla in faccia al dolore: che risponde, eco dall’anima, figlio della vita. Prodotto mirabilmente da Andrea Franchi. Grande lavoro anche per i sempre autoprodotti Cheap Wine di Pesaro, che con Faces superano ancora loro stessi, aggiungendo profumi e suggestioni alla loro miscela di Americana stravolta in modo unico e risolta da musicisti di squisita caratura. Notevole pure il ritorno di Umberto Maria Giardini, che in Forma Mentis riscopre il grunge e l’hard rock degli inizi con risultati poetici decisamente intensi. Altra proposta sorprendente, davvero sorprendente, quella de Il Terzo Istante, formazione torinese prodotta ancora da Andrea Franchi, capace nei nove pezzi di Estraneo di sviluppare un nuovo concetto di rock d’autore, spiazzante, obliquo, grondante creatività, impreziosito da una apparizione di Paolo Benvegnù (in dirittura d’arrivo col nuovo disco, in uscita tra febbraio e marzo).

E come dimenticare l’autentico capolavoro di Francesco Di Bella, O Diavolo (uscito in effetti alla fine del 2018), nove canzoni inafferrabili tra dub, autore, pop, rock; inafferrabili ma ti afferrano, una dopo l’altra, protese fra Napoli e l’universo, una più splendida dell’altra, in un trionfo di ispirazione quale raramente si incontra in Italia? Siamo anni luce distanti da Sanremo, e non può essere un caso: tutto ciò che passa dall’Ariston, a dispetto delle troppe giurie selezionatrici, è di imbarazzante mediocrità, mentre i vari premi alternativi sono ormai lottizzati allo stesso modo; per non dire di X Factor con relative imitazioni, che sono davvero la tomba della creatività. Quando qualche meraviglioso incosciente oserà ancora mettere in piedi un contro-festival davvero libero, assolutamente impermeabile a suggestioni e sollecitazioni di sorta, con questi ed altri nomi, capaci di ricordarci che la musica italiana esiste ancora, pulsa, chiama: è lì, in attesa che qualcuno se ne accorga?

TRE NOMI GIGANTESCHI (MA NON SOLO)

Nel resto del mondo, si impongono senz’altro tre nomi giganteschi, capaci di sfornare dischi all’altezza della fama: Bruce Springsteen in Western Star torna ad agitare i prediletti fantasmi dei perdenti, i disperati, i corrosi, ma lo fa in una sorprendente veste bacarachiana, e il risultato è spettacolare; quanto a Nick Cave, il suo Ghosteen è senz’altro difficile, lungo, ostico se si vuole, ma importa, e vale, per quello che rappresenta, per l’elegia della sofferenza in punta di sibili, di rimandi, di echi; ed è imprescindibile seppure pesante. Il terzo nome ingombrante che non si può evitare è quello di Iggy Pop, che torna sui passi di un ritiro annunciato per uno dei suoi dischi che rimarranno, lo sperimentale, morboso, jazzistico, autoriale Free, dove Iggy si mette in scia del perduto amico David Bowie e riesce a tenere il confronto.

Un altro album che vale la pena di scoprire o riscoprire è quello di Cass McCombs, cantautore americano 42enne che con Tip of the Sphere tira fuori un lavoro prolisso ma sempre ispirato

Viceversa, un nome che solo qualche nostalgico ricorderà è quello dei Th’ Losin Streaks che dopo 14 anni dall’ultimo disco, e nove dallo scioglimento, si ricoagulano per l’autoironico, almeno nel titolo, This band will self destruct in t-minus. Ma lo scherzo finisce qui. Perché il disco è un furibondo concentrato di garage, avant-punk e rock and roll come non si usa più (a tratti le sonorità sembrano ricordare perfino i Cheater Slicks); da Sacramento con ardore, spettinando Kinks, Troggs e i pensieri di chi ascolterà questo mirabile fiotto di lucida incoscienza. Altra perla misconosciuta, ma da recuperare, quella dei New Model Army, redivivi pure loro, e in che modo!

Con questa esplosione di rock come sempre antagonista, From Here, dalla doppia durata (un’ora, suppergiù) ma mai meno che intenso, urticante, allarmante. Il rock come agitazione, come inquietudine che inquieta, e che, dagli anni Ottanta, non ha perso un solo battito del suo cuore convulso. Cambiando bruscamente genere, un altro album che vale la pena di scoprire o riscoprire è quello di Cass McCombs, cantautore americano 42enne che con Tip of the Sphere tira fuori un lavoro prolisso ma sempre ispirato, con episodi che si dilatano, cullandosi in melodie essenziali e avvolgenti dalle più o meno lunghe digressioni psichedeliche, qualcosa che a tratti richiama l’approccio di un Jonathan Wilson – il quale tornerà a dare notizie di sè con un nuovo album entro la prossima primavera.

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