Cina contro Usa per l’espulsione di due funzionari accusati di spionaggio

L'episodio risale al mese di settembre e rappresenta un inedito assoluto negli ultimi 30 anni. Pechino presenta una protesta formale.

La Cina ha presentato «una solenne protesta formale» agli Stati Uniti sull’espulsione, per la prima volta in oltre 30 anni, di due funzionari cinesi accusati di spionaggio. Lo ha annunciato il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang. L’episodio, riportato dal New York Times, è avvenuto a settembre: i funzionari dell’ambasciata erano entrati in auto con le rispettive mogli in una base militare in Virginia che ospita le forze per le Operazioni speciali. Le autorità Usa ritengono che almeno uno dei due fosse un agente sotto copertura diplomatica.

PECHINO CHIEDE DI CORREGGERE L’ERRORE

Geng ha definito le due espulsioni un «errore» e, in merito alla versione dei fatti data dal New York Times citando persone a conoscenza dell’episodio, ha definito le accuse di spionaggio «completamente contrarie ai fatti». Il portavoce, parlando nel corso della conferenza stampa del pomeriggio, ha chiesto «con forza agli Stati Uniti di correggere l’errore», sollecitando la «protezione dei legittimi diritti e interessi dei diplomatici cinesi».

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Quali sono le tappe per la procedura di impeachment di Trump

Dopo l'ok della commissione Giustizia, settimana prossima la Camera (a maggioranza dem) dovrebbe mettere il presidente in stato d'accusa. A gennaio il processo in Senato, dove è previsto che la maggioranza repubblicana lo scagioni.

Dopo l’ok della commissione Giustizia al voto sull’impeachment, sarà l’aula della Camera la settimana prima di Natale a decidere se mettere o meno Donald Trump in stato di accusa. Alla House of Representatives è necessario il 50% più uno di voti favorevoli per far proseguire la procedura. Considerato che i dem hanno la maggioranza alla camera bassa, il via libera è quasi scontato.

AL SENATO UN VERO E PROPRIO PROCESSO

A quel punto la palla passa al Senato, dove l’impeachment si configura come un vero e proprio processo al presidente in parlamento. Alla fine del dibattimento, con tanto di testimonianze e arringhe, si avrà il voto finale. Per far decadere il capo di Stato sono necessari due terzi dei voti, ma visto che il Senato è a maggioranza repubblicana è altamente improbabile che Trump perda la battaglia finale. Il processo si terrà a gennaio, un mese prima dell’inizio delle primarie.

La Casa Bianca ha fatto sapere che non parteciperà ad un procedimento che ritiene «infondato e illegittimo». La strategia di Trump e del suo partito sembra chiara: negare ogni accusa e trasformare il processo in una zuffa politica montando un ring da pugilato al Senato per un contro processo ai Biden. Il presidente sta già preparando il terreno insieme al suo avvocato personale Rudy Giuliani, che è andato in Ucraina per raccogliere informazioni sull’ex vicepresidente e su suo figlio nonostante sia emerso nell’indagine di impeachment come l’uomo chiave incaricato dal tycoon della campagna di pressione su Kiev.

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Intesa tra Usa e Cina per una rimozione graduale dei dazi

Trump annuncia l'accordo con la Cina su Twitter. Bloccate le tariffe che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre. Il vice ministro del Commercio Wang: rimozione per «fasi graduali». Wall street prima brinda, poi ci ripensa.

Il dazio, infine, è tratto. Donald Trump ha annunciato come di consueto via twitter il raggiungimento di un accordo tra Usa e Cina sulle tariffe commerciali. «Abbiamo raggiunto un’intesa sulla fase uno dell’accordo con la Cina», che ha dato il suo via libera «a molti cambi strutturali e ad acquisti massicci di prodotti agricoli, energetici e manifatturieri», ha sottolineato Trump, evidenziando che non scatteranno i dazi che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre.

«Rimarranno come sono i dazi del 25%», ha aggiunto il presidente Usa. Più tardi, il vice ministro del Commercio cinese, Wang Shouwen ha spiegato: l’accordo prevede la rimozione dei dazi per «fasi graduali».

Forniture di prodotti chimici stanno per essere caricate nel porto di Zhangjiagang nella provincia orientale dello Jiangsu ( JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images)

RAFFORZATO IL COPYRIGHT E MERCATO CINESE PIÙ APERTO

Wang, uno dei negoziatori di punta del team cinese per il ruolo di vice rappresentante per il Commercio internazionale, ha spiegato che l’accordo include il rafforzamento della tutela dei diritti sulla proprietà intellettuale, l’espansione dell’accesso al mercato domestico e la salvaguardia dei diritti delle compagnie estere in Cina, tra le questioni più contestate dalla parte americana a Pechino.

Merci in fase di carico nel porto di Zhangjiagang nella provincia orientale dello Jiangsu (JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images)

NOVE PUNTI PER L’INTESA

Il comunicato diffuso dalla Cina menziona nove punti sul raggiungimento dell’accordo: preambolo, proprietà intellettuale, trasferimento di tecnologia, prodotti alimentari e agricoli, servizi finanziari, tassi di cambio, l’espansione del commercio, risoluzione delle controversie e clausole finali. I media Usa hanno menzionato impegni di spesa cinesi per 50 miliardi di beni agricoli Usa, ma nel corso della conferenza i numerosi sono stati accuratamente evitati. Wang ha parlato di «molto lavoro da fare», tra la revisione legale e la traduzione del testo nelle due lingue «da completare il prima possibile». Le parti dovranno «negoziare gli specifici accordi per la firma formale» in modo da dare attuazione alla ‘fase uno’.

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Intesa tra Usa e Cina per una rimozione graduale dei dazi

Trump annuncia l'accordo con la Cina su Twitter. Bloccate le tariffe che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre. Il vice ministro del Commercio Wang: rimozione per «fasi graduali». Wall street prima brinda, poi ci ripensa.

Il dazio, infine, è tratto. Donald Trump ha annunciato come di consueto via twitter il raggiungimento di un accordo tra Usa e Cina sulle tariffe commerciali. «Abbiamo raggiunto un’intesa sulla fase uno dell’accordo con la Cina», che ha dato il suo via libera «a molti cambi strutturali e ad acquisti massicci di prodotti agricoli, energetici e manifatturieri», ha sottolineato Trump, evidenziando che non scatteranno i dazi che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre.

«Rimarranno come sono i dazi del 25%», ha aggiunto il presidente Usa. Più tardi, il vice ministro del Commercio cinese, Wang Shouwen ha spiegato: l’accordo prevede la rimozione dei dazi per «fasi graduali».

Forniture di prodotti chimici stanno per essere caricate nel porto di Zhangjiagang nella provincia orientale dello Jiangsu ( JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images)

RAFFORZATO IL COPYRIGHT E MERCATO CINESE PIÙ APERTO

Wang, uno dei negoziatori di punta del team cinese per il ruolo di vice rappresentante per il Commercio internazionale, ha spiegato che l’accordo include il rafforzamento della tutela dei diritti sulla proprietà intellettuale, l’espansione dell’accesso al mercato domestico e la salvaguardia dei diritti delle compagnie estere in Cina, tra le questioni più contestate dalla parte americana a Pechino.

Merci in fase di carico nel porto di Zhangjiagang nella provincia orientale dello Jiangsu (JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images)

NOVE PUNTI PER L’INTESA

Il comunicato diffuso dalla Cina menziona nove punti sul raggiungimento dell’accordo: preambolo, proprietà intellettuale, trasferimento di tecnologia, prodotti alimentari e agricoli, servizi finanziari, tassi di cambio, l’espansione del commercio, risoluzione delle controversie e clausole finali. I media Usa hanno menzionato impegni di spesa cinesi per 50 miliardi di beni agricoli Usa, ma nel corso della conferenza i numerosi sono stati accuratamente evitati. Wang ha parlato di «molto lavoro da fare», tra la revisione legale e la traduzione del testo nelle due lingue «da completare il prima possibile». Le parti dovranno «negoziare gli specifici accordi per la firma formale» in modo da dare attuazione alla ‘fase uno’.

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Questi repubblicani senza senso della nazione si meritano Trump

Difendono strenuamente il loro leader dall'impeachment nonostante sia il peggior presidente della storia degli Stati Uniti. I democratici ai tempi della messa in stato d'accusa di Clinton erano stati più severi.

Credo di essere una delle poche persone ad aver ascoltato tutte le testimonianze date sia alla Commissione di Intelligence che a quella di Giustizia riguardo l’impeachment di Donald Trump. Come è ormai noto, gli articoli sono due: abuso di potere e ostruzione al Congresso.

UNA DIFESA SCONTROSA E MALEDUCATA

Fino alla fine, i democratici hanno mostrato un rigore e un’organizzazione nello spiegare con più dettagli possibili gli eventi che hanno portato alla decisione di messa in stato d’accusa del presidente americano, mentre i repubblicani, che non sembrano interessati ai fatti ma alle teorie complottistiche, non hanno mai perso occasione di pretendere in modo scontroso e maleducato di spiegare l’innocenza del loro leader. La frase che hanno pronunciato più spesso è la seguente: «Da quando Trump è stato eletto, i democratici hanno fatto di tutto per dargli l’impeachment».

L’AMMINISTRAZIONE PIÙ CORROTTA DI SEMPRE

Hanno ragione, ma è anche vero che nella storia degli Stati Uniti non c’è stata amministrazione più corrotta e azioni fatte dal presidente così scandalose. È stato accusato di aver accettato soldi illeciti da Paesi esteri (vietato dalla Costituzione), di avere un conflitto di interessi tra la sua posizione di potere e il suo business, che ha tentato più volte di promuovere (vietato dalla Costituzione), ostruzione alla giustizia, associazione con gruppi neo nazisti, e di promozione dell’odio, è tutt’ora indagato per possibili azioni illecite finanziarie.

DAGLI IMMIGRATI ALL’FBI, QUANTE MACCHIE PER DONALD

Ma non solo: ha pubblicamente insultato l’Fbi, gli immigrati messicani («Sono tutti spacciatori e vengono qui a violentare le nostre donne!»), ha incarcerato migliaia di bambini ai confini con il Messico, separandoli dalle loro famiglie. Per non parlare della sua amministrazione: molti sono stati accusati di corruzione, alcuni (compreso il suo ex avvocato Cohen) sono ancora in carcere. Tutto questo per dire che i repubblicani hanno ragione a dire che si sta cercando di fermare Trump dall’inizio del suo mandato, ma anche che qualche ragione per farlo mi sembra che ci sia.

Donald Trump.

LA “PISTOLA FUMANTE” C’È ECCOME

Un’altra frase che i repubblicani insistono a ripetere è che «There is no smoking gun!». Non capisco davvero a cosa si riferiscano: più della famosa telefonata tra Trump e Volodymyr ZelenskyI have a favor, though»), più che le decine di testimonianze date da esperti, spesso repubblicani, che confermano la tesi che Trump ha abusato del suo potere, negando l’aiuto finanziario all’Ucraina e l’invito alla Casa Bianca del neopresidente in cambio di un aiuto politico per denigrare il suo rivale alla presidenza per il 2020, più che prendere atto del fatto che la Casa Bianca abbia negato accesso a documenti importanti e a testimoni, cosa serve ai repubblicani per capire che la smoking gun è davanti ai loro occhi?

TRA I DEM ALMENO C’ERA DELUSIONE PER CLINTON

Eppure nessuno di loro ha mostrato di essere amareggiato, deluso, perplesso dei comportamenti del loro beniamino. Durante l’ultimo iter per l’impeachment di Bill Clinton, per esempio, molti democratici avevano a gran voce condiviso la loro delusione nei confronti delle azioni del presidente, anche se non tutti pensavano che una reazione tanto grave come l’impeachment fosse necessaria. I repubblicani che appoggiano Trump (tutti) devono andare alle elezioni per il Senato tra qualche anno, e non vogliono certo contrariare il presidente pubblicamente, per paura di perdere il loro potere, visto che il tycoon in certi ambienti è, malgrado tutto, ancora molto popolare. Così hanno deciso di farlo perdere a istituzioni di importanza vitale per la democrazia americana come il Congresso.

SENZA SENSO PER IL BENE DELLA NAZIONE

A volte mi viene da pensare che forse queste persone, che non sono in grado di mettere il bene della nazione davanti al loro potere, si meritino un presidente come il loro: una persona che da subito si è sentita al di sopra della giustizia, e che passerà alla storia come il peggior presidente americano. Indagato, corrotto e, lasciatemelo dire, ignorante come una capra.

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Weinstein vicino al patteggiamento con le accusatrici

Secondo il New York Times il produttore cinematografico attualmente agli arresti è vicino a un accordo da 25 milioni di dollari con le presunte vittime delle molestie.

Harvey Weinstein e le sue accusatrici sono vicini a un patteggiamento extra-giudiziario da 25 milioni di dollari. L’accordo, che coinvolge il board dello studio cinematografico del produttore in bancarotta riguarderebbe decine di presunte vittime di molestie sessuali. Weinstein, riferiscono al New York Times, non dovrebbe pagare nulla di tasca propria né dovrebbe ammettere di essersi in alcun modo comportato male.

IN ATTESA DEL VIA LIBERA DEL TRIBUNALE

L’intesa richiede il via libera del tribunale e la firma finale di tutte le parti. A pagare sarebbero società di assicurazione che rappresentano la Weinstein Company, l’ex studio di produzione di Weinstein finito in bancarotta. I 25 milioni alle accusatrici sarebbero una parte di un totale di 47 milioni di dollari con cui la società chiuderebbe i conti con i creditori. Secondo gli avvocati di alcune delle vittime, lo stesso Weinstein potrebbe essere presto costretto a ricorrere personalmente alle protezioni del Chapter 11. Oggi intanto l‘ex boss di Miramax è comparso in tribunale camminando a fatica con l’aiuto di un “girello”: domani – hanno fatto sapere i suoi legali – sarà operato alla schiena. Al termine dell’udienza il giudice James Burke ha aumentato la cauzione da uno a cinque milioni di dollari per aver violato le condizioni dei domiciliari usando in modo improprio il braccialetto elettronico.

18,5 MILIONI PER PAGARE UNA CLASS ACTION

Weinstein dovrebbe tornare in corte ai primi di gennaio per rispondere alle accuse di due donne che sostengono di essere state aggredite sessualmente nel 2006 e nel 2013. Il processo penale nei confronti dell’ex produttore ha attirato il grosso dell’attenzione mentre le cause civili andavano avanti con trattative segrete che hanno coinvolto donne americane, ma anche canadesi, britanniche e irlandesi, le cui accuse in molti casi erano andate in prescrizione. Diciotto di loro si spartiranno un totale di 6,2 milioni di dollari con la condizione che nessuna riceverà più di mezzo milione a testa. Un’altro blocco di denaro, pari a 18,5 milioni andrà alle partecipanti in una class-action e a future accusatrici, col mandato a un incaricato del tribunale di stabilire l’entità dei pagamenti sulla base della gravita’ del danno subito. Tra le accusatrici di Weinstein ci sono anche attrici famose come Angelina Jolie, Gwyneth Paltrow e Salma Hayek: nessuna di loro è parte delle denunce al centro del patteggiamento.

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Weinstein vicino al patteggiamento con le accusatrici

Secondo il New York Times il produttore cinematografico attualmente agli arresti è vicino a un accordo da 25 milioni di dollari con le presunte vittime delle molestie.

Harvey Weinstein e le sue accusatrici sono vicini a un patteggiamento extra-giudiziario da 25 milioni di dollari. L’accordo, che coinvolge il board dello studio cinematografico del produttore in bancarotta riguarderebbe decine di presunte vittime di molestie sessuali. Weinstein, riferiscono al New York Times, non dovrebbe pagare nulla di tasca propria né dovrebbe ammettere di essersi in alcun modo comportato male.

IN ATTESA DEL VIA LIBERA DEL TRIBUNALE

L’intesa richiede il via libera del tribunale e la firma finale di tutte le parti. A pagare sarebbero società di assicurazione che rappresentano la Weinstein Company, l’ex studio di produzione di Weinstein finito in bancarotta. I 25 milioni alle accusatrici sarebbero una parte di un totale di 47 milioni di dollari con cui la società chiuderebbe i conti con i creditori. Secondo gli avvocati di alcune delle vittime, lo stesso Weinstein potrebbe essere presto costretto a ricorrere personalmente alle protezioni del Chapter 11. Oggi intanto l‘ex boss di Miramax è comparso in tribunale camminando a fatica con l’aiuto di un “girello”: domani – hanno fatto sapere i suoi legali – sarà operato alla schiena. Al termine dell’udienza il giudice James Burke ha aumentato la cauzione da uno a cinque milioni di dollari per aver violato le condizioni dei domiciliari usando in modo improprio il braccialetto elettronico.

18,5 MILIONI PER PAGARE UNA CLASS ACTION

Weinstein dovrebbe tornare in corte ai primi di gennaio per rispondere alle accuse di due donne che sostengono di essere state aggredite sessualmente nel 2006 e nel 2013. Il processo penale nei confronti dell’ex produttore ha attirato il grosso dell’attenzione mentre le cause civili andavano avanti con trattative segrete che hanno coinvolto donne americane, ma anche canadesi, britanniche e irlandesi, le cui accuse in molti casi erano andate in prescrizione. Diciotto di loro si spartiranno un totale di 6,2 milioni di dollari con la condizione che nessuna riceverà più di mezzo milione a testa. Un’altro blocco di denaro, pari a 18,5 milioni andrà alle partecipanti in una class-action e a future accusatrici, col mandato a un incaricato del tribunale di stabilire l’entità dei pagamenti sulla base della gravita’ del danno subito. Tra le accusatrici di Weinstein ci sono anche attrici famose come Angelina Jolie, Gwyneth Paltrow e Salma Hayek: nessuna di loro è parte delle denunce al centro del patteggiamento.

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Le due accuse a Trump nel processo per l’impeachment

Al presidente statunitense sono contestati l'abuso di potere e l'ostruzione al Congresso. Entro il 15 dicembre il voto in commissione Giusizia, la settimana successiva quello alla Camera. Ma lo scoglio principale è il Senato.

Abuso di potere e ostruzione al Congresso: sono questi i due “articoli” che saranno messi al voto per l’impeachment del presidente statunitense Donald Trump nella vicenda dell’Ucrainagate. Lo ha annunciato il presidente della commissione Giustizia Jerrold Nadler, sostenendo che il presidente ha messo se stesso davanti al Paese minacciandone la sicurezza, corrompendo le elezioni e violando la costituzione. Secondo l’accusa, Trump avrebbe fatto pressioni su Kiev affinché venissero avviate indagini su Hunter Biden, figlio di Joe, candidato democratico alle prossime elezioni. L’obiettivo di Trump, che a queste indagini avrebbe condizionato gli aiuti militari Usa all’Ucraina, sarebbe stato quello di danneggiare il suo maggior rivale al voto del 2020.

SCHIFF (COMMISSIONE INTELLIGENCE): «CI SONO PROVE SCHIACCIANTI»

Gli articoli contestati al presidente Usa sono stati annunciati in una conferenza stampa a Capitol Hill introdotta dalla speaker Nancy Pelosi, che ha parlato di un «giorno solenne». «Il presidente Trump ha usato il potere del suo ruolo contro un Paese straniero per corrompere le nostre prossime elezioni», ha poi rincarato la dose Pelosi via Twitter, «è una continua minaccia per la nostra democrazia e la nostra sicurezza nazionale».

Alla conferenza stampa erano presenti anche i presidenti delle altre cinque commissioni della Camera che hanno partecipato all’indagine di impeachment, tra cui Adam Schiff (commissione Intelligence), che ha ripercorso le fasi della vicenda dicendo che contro Trump «sono emerse prove schiaccianti». Di tutt’altro avviso la Casa Bianca, che in una nota ha commentato: «Non c’è alcuna prova di illeciti da parte del presidente. L’impeachment è un’ingiustizia e un inganno senza precedenti».

SUBITO IL VOTO IN COMMISSIONE, ENTRO NATALE QUELLO ALLA CAMERA

Dopo un dibattito interno non esente da contrasti, i dem hanno quindi deciso di limitare le accuse all’Ucrainagate, rinunciando a contestare l’ostruzione alla giustizia con gli episodi evidenziati nel rapporto Mueller sul Russiagate. La commissione Giustizia della Camera si riunirà ora entro il 15 dicembre per votare gli articoli dell’impeachment. Poi ci sarà il voto alla Camera in sessione plenaria, probabilmente entro Natale. Voto che dovrebbe passare. Più difficile, invece, quello decisivo al Senato, dove servono i voti favorevoli dei due terzi dell’Aula, a maggioranza repubblicana.

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Morto Paul Volcker, il banchiere anti inflazione di Carter e Reagan

Da presidente della Fed sconfisse gli effetti dello choc petrolifero anni 70. E la sua Volcker rule rese più difficile gli investimenti speculativi delle banche.

Paul Volcker, l’economista statunitense che ha guidato la Federal Reserve nell’era Carter-Reagan e famoso per la aver sconfitto l‘inflazione negli anni ’80 è morto all’età di 92 anni. Volcker è stato anche presidente del comitato consultivo per la ripresa economica sotto la presidenza di Barack Obama dal febbraio 2009 sino al gennaio 2011 ed è l’ideatore della cosiddetta ‘Volcker Rule‘, la norma inserita nella riforma di Wall Street dopo la crisi degli anni 2000 per rendere più difficile alle banche fare investimenti speculativi. Democratico, Volcker, fu nominato presidente della Federal Reserve nell’agosto 1979 dal presidente Jimmy Carter e fu riconfermato nel 1983 dal presidente Ronald Reagan che lo sostituirà con Alan Greenspan solo a metà del secondo mandato nel 1987. Fu protagonista assoluto della lotta alla cosiddetta stagflazione degli anni ’70 provocata dalla crisi petrolifera, con la sua politica monetaria shock di innalzamento dei tassi nonostante un’inflazione e una disoccupazione oltre il 10%. Nonostante le critiche e le difficoltà iniziali fu un successo, con un ritorno dell‘inflazione su valori normali all’inizio degli anni ’80.

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Cosa sappiamo della sparatoria nella base di Pensacola

Mohammed Saeed Alshamrani, sottotenente dell'aviazione saudita, era ospite della Naval Air Station in Florida per un programma di addestramento. Ha ucciso tre persone prima di essere neutralizzato.

Ha puntato la sua pistola e aperto il fuoco all’interno della Naval Air Station di Pensacola, in Florida, nella quale era ospitato per degli addestramenti speciali. A compiere l’attentato è stato uno studente di aviazione saudita, membro dell’esercito del Paese arabo, che è stato ucciso durante la sparatoria. L’uomo ha colpito a morte tre persone e ne ha ferite altre sette, tra cui i due agenti (non in pericolo di vita) che lo hanno neutralizzato. Ecco cosa sappiamo del fatto.

UN MEMBRO DELL’ESERCITO SAUDITA

L’autore della sparatoria, identiticato dai media Usa come sottotenente Mohammed Saeed Alshamrani, era un ufficiale dell’aviazione saudita che frequentava la scuola di volo alla base, uno delle centinaia di soldati stranieri che ricevono qui l’addestramento. Lo ha riportato la Cnn citando diverse fonti militari. Le autorità stanno indagando per accertare se si tratti di un fatto di terrorismo, ha riferito l’Ap. Sempre secondo la stessa agenzia era sotto terapia psicologica ed era scontento dei suoi comandanti.

HA USATO UNA PISTOLA

L’uomo, che ha usato una pistola, era in addestramento alla base da due anni e avrebbe dovuto concluderlo nell’agosto 2020. Il suo programma prevedeva l’inglese, le basi dell’aviazione e la fase iniziale del pilotaggio. L’addestramento era pagato da Riad.

AVEVA PUBBLICATO UN MANIFESTO ANTI-USA

Poco prima di aprire il fuoco, l’ufficiale aveva pubblicato su Twitter un breve manifesto in cui definiva gli Stati Uniti «la nazione del male». Lo ha riferito il Site, sito di monitoraggio del jihadismo online. «Sono contro il male e l’America nel suo insieme si è trasformata in una nazione malvagia», ha scritto il killer.

ARRESTATI SEI SAUDITI

Sei sauditi sono stati arrestati per essere interrogati. Lo riferisce il New York Times. In base a quanto scrive il quotidiano, tre dei sei fermati avrebbe filmato la sparatoria, ha riferito una persona informata sulle fasi iniziali dell’inchiesta.

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Perché Trump alla fine resterà al suo posto

Dalle ultime deposizioni, repubblicani e democratici difficilmente troveranno una quadra per risolvere il nodo dell'impeachment. E così il rischio non è solo che il tycoon non lasci la Casa Bianca, ma che vinca anche le prossime elezioni.

Dopo avere ascoltato le ultime deposizioni al Congresso, ho avuto la netta sensazione che i democratici e i repubblicani non riusciranno mai a trovare dei punti in comune per risolvere questa grave crisi di governo. Giovedì Nancy Pelosi ha annunciato la messa in stato d’accusa del presidente da parte della Camera. «Se avete intenzione di mettermi in stato d’accusa, fatelo ora e velocemente, in modo che possiamo avere un processo giusto in Senato», ha risposto via Twitter Trump.

LE ACCUSE DI OSTRUZIONE ALLA GIUSTIZIA

Il giorno prima erano stati interpellati dalla commissione Giustizia alcuni dei più importanti giuristi esperti della Costituzione e la maggior parte di loro non ha avuto dubbi: le azioni di Donald Trump richiedono senza ombra di dubbio la più grave delle conseguenze: l’impeachment. «Se non si procede questa volta, allora non accadrà più per nessuno», ha sottolineato Michael Gerhardt, professore di diritto costituzionale all’Università della Carolina del Nord. Gerhardt ha ricordato il precedente di Richard Nixon. «Mentre Nixon non si presentò per quattro volte davanti al Congresso malgrado i mandati di comparizione, con Trump siamo a più di 10. Questo è un crimine punibile con l’impeachment: ostruzione alla giustizia».

IL PESO DEL KIEVGATE

Per non parlare del fatto, forse più grave, di aver messo i suoi interessi personali davanti a quelli della nazione, quando ha chiesto un ‘favore’ al neo presidente ucraino in cambio di 400 milioni di dollari in aiuti finanziari. Noah Feldman, emerito professore della Harvard University ha ricordato che la Costituzione fu creata per fare in modo che nessuno, nemmeno il presidente, potesse mai essere al di sopra della legge, e che il periodo dei monarchi non sarebbe mai più tornato. Gli esperti hanno dichiarato che se questi crimini resteranno impuniti, i presidenti futuri potranno continuare a richiedere aiuti esterni per i propri interessi. 

LE EVIDENZE CONTRO IL TYCOON

Jonathan Turley, l’avvocato scelto dai repubblicani, ha invece negato che ci siano prove schiaccianti che il presidente abbia trattenuto gli aiuti finanziari in cambio di favori, che ci sia stato un vero e proprio quid pro quo, e dunque, siccome l’impeachment è una soluzione estremamente rara e grave, bisogna essere sicuri che i fatti sussistano. «Ma cosa volete di più?», hanno risposto i democratici. «Non ci sono dubbi sui reati commessi. Basta ascoltare le testimonianze degli esperti. Basta rileggere la trascrizione, seppur parziale, rilasciata dalla Casa Bianca della telefonata tra i due presidenti. Basti riguardarsi le interviste fatte a Rudy Giuliani su tutti i canali televisivi possibili e immaginabili in cui ammette più volte di aver personalmente partecipato a tutta la messa in scena!». 

IL MURO DEI REPUBBLICANI INTORNO AL PRESIDENTE

Non bisogna neanche dimenticarsi del dossier di Mueller, la cui seconda parte elenca uno a uno tutti i presunti reati del presidente. Mueller non ha mai detto che Trump fosse innocente. Ha semplicemente detto che lui non aveva il potere di incriminarlo, e che stava alla Camera e al Senato farlo. Ma i repubblicani non cedono e fanno un muro attorno a Trump: «È da quando ha vinto le elezioni che voi democratici state cercando di screditarlo solo perché avete paura che vinca anche le prossime elezioni, ma è stato votato dagli americani, e lì resta!». Si accettano scommesse su quello che succederà. Dico la mia: scommetto un marron glacé di quelli buoni che il presidente non perderà il posto di lavoro. Farà la vittima dei democratici brutti e cattivi e anche gli indipendenti voteranno per lui. Il rischio è che ce lo terremo ancora per quattro anni.

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Nancy Pelosi annuncia la messa in stato di accusa di Donald Trump

La speaker della Camera: «Nessuno è al di sopra della legge». La replica del presidente: «Avrò un processo giusto al Senato».

«Donald Trump sarà messo in stato di accusa». Con queste parole la speaker della Camera, la dem Nancy Pelosi, ha dato il disco verde alla redazione degli articoli di impeachment. Pelosi ha chiesto alla commissione giustizia della Camera di redigere gli articoli, sostenendo che il presidente ha violato seriamente la Costituzione.

«AVRÒ UN PROCESSO GIUSTO AL SENATO»

«Se avete intenzione di mettermi in stato d’accusa, fatelo ora e velocemente, in modo che possiamo avere un processo giusto in Senato», ha twittato per tutta risposta Donald Trump rivolgendosi ai dem, annunciando che in Senato «avremo Schiff (il presidente della commissione Intelligence della Camera, ndr), i Biden, Pelosi e molti altri a testimoniare e riveleremo, per la prima volta, quanto corrotto è il nostro sistema. Sono stato eletto per pulire la palude e questo è ciò che farò», ha aggiunto.

«L’IMPEACHMENT DIVENTERÀ ROUTINE»

E ancora: «I democratici, nullafacenti e di estrema sinistra, hanno appena annunciato che cercheranno di mettermi in stato d’accusa su niente. Hanno appena abbandonato la ridicola ‘cosa’ di Mueller (l’inchiesta sul Russiagate, ndr), quindi ora appendono il cappello su due telefonate totalmente appropriate (perfette) con il presidente ucraino». «Questo», ha aggiunto, «significa che l’importante e quasi mai usato atto dell’impeachment sarà usato in modo abituale per attaccare i futuri presidenti».

BIDEN: «TESTIMONIERÒ SOLO CON UN MANDATO»

Joe Biden, frontrunner dem nella corsa alla Casa Bianca, ha citato da Trump nel suo tweet come testimone ha detto in ogni caso che non si presenterà spontaneamente (senza ricevere un mandato, ndr) se verrà chiamato in Senato nell’eventuale processo di impeachment, come preannunciato da Trump. «Non gli consentirò di distogliere l’attenzione dai suoi crimini», ha detto.

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Primo sì all’impeachment di Trump: rush alla Camera

Secondo tre costituzionalisti chiamati a testimoniare, il presidente Usa deve essere messo in stato d'accusa. I dem puntano al voto entro Natale.

«Donald Trump deve essere messo in stato di accusa»: non hanno alcun dubbio i tre autorevoli costituzionalisti chiamati a testimoniare dai democratici nella prima, infuocata udienza della commissione Giustizia della Camera, incaricata di proseguire l’indagine di impeachment e di redigere gli articoli da contestare dopo il primo sì della commissione Intelligence, anch’essa controllata dai dem: il rapporto che accusa il presidente di ostruzione della giustizia e abuso di potere per aver «sollecitato l’interferenza di un governo straniero, quello dell’Ucraina, per trarre vantaggio nella sua rielezione», mettendo così «i suoi interessi politici e personali al di sopra di quelli degli Stati Uniti».

L’UCRAINAGATE: PRESSIONI SU KIEV

Si tratta delle pressioni su Kiev affinché indagasse sul suo rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e su suo figlio Hunter, che sedeva nel board della società energetica ucraina Burisma quando il padre gestiva la politica Usa in quel Paese. Pressioni alimentate con il blocco degli aiuti militari Usa. A dissentire è solo il prof. Jonathan Turley, docente della George Washington University Law School, l’unico testimone citato dai repubblicani: ma non tanto per i fatti, meritevoli a suo avviso di essere indagati, quanto per la brevità di un processo «sgangherato» e l’incompletezza delle prove, col rischio di creare un precedente pericoloso per i futuri presidenti.

COLPO DI IMMAGINE A TRUMP

L’udienza infligge un nuovo colpo d’immagine a Trump sul palcoscenico mondiale del vertice Nato, che il tycoon decide di abbandonare senza conferenza stampa finale, un po’ per il video in cui altri leader sembrano farsi beffa di lui e un po’ forse – malignano alcuni – per sottrarsi ad imbarazzanti domande sull’impeachment. Il presidente non rinuncia tuttavia a dire la sua: l’indagine è una «barzelletta» e «non ha alcun fondamento». Ma le parole dei costituzionalisti sono come macigni. Noah Feldman (Harvard Law School), Pamela Karlan (Stanford Law School) e Michael Gerhardt (University of North Carolina School of Law) spiegano con rigore che le azioni del presidente rientrano chiaramente, sul piano storico e giuridico, tra quelle degne di impeachment.

LE BORDATE DEI COSTITUZIONALISTI

La sua condotta, accusa Gerhardt, «è peggio di quella di qualsiasi presidente precedente», a partire da Nixon. «Trump ha attaccato le salvaguardie contro la creazione di una monarchia in questo paese», rincara riferendosi all’ostruzione del Congresso, cui nella divisione dei poteri spetta il controllo dell’esecutivo. «Ha commesso gravi crimini e misfatti abusando corrottamente dell’ufficio della presidenza», gli ha fatto eco Feldman. «Un presidente deve opporsi alle interferenze straniere nelle nostre elezioni, non sollecitarle», ha osservato Karlan, che si è detta «insultata» dall’accusa dei repubblicani di non aver letto tutti gli atti. Ma è stato solo la prima delle scintille in una commissione dove la battaglia tende a inasprirsi, a colpi di obiezioni, interruzioni e mozioni dell’opposizione repubblicana. «Questo è un golpe guidato dai democratici», ha accusato il deputato Doug Collins, il più alto in grado tra i repubblicani nel panel. Ma i dem accelerano e puntano ad un voto alla Camera entro Natale. Poi a giudicare, in gennaio, sarà il Senato, dove il Grand Old Party ha la maggioranza e al momento non ci sono i due terzi dei voti per arrivare ad una condanna.

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Il rapporto della Camera su Trump: «Abuso di potere: merita l’impeachment»

Il report della commissione intelligence accusa il presidente e parla di prove «schiaccianti»..

Donald Trump ha abusato del suo potere di presidente e per questo merita la procedura di impeachment. L’atteso rapporto della commissione di intelligence della Camera Usa sulla procedura di impeachment, la quarta portata avanti in 243 anni di storia americana, ha messo nero su bianco che il presidente degli Stati Uniti è colpevole di abuso di potere per aver fatto pressioni per l’intervento nella campagna elettorale americana di un Paese straniero e per di più ha cercato anche di ostacolare le indagini su di lui. «Sollecitando l’interferenza di un governo straniero per trarre vantaggio nella sua rielezione», si legge infatti nel report. E le prove della sua cattiva condotta sono «schiaccianti». Inoltre, è scritto, «Donald Trump ha ostruito l’indagine di impeachment».

DUE MESI DI INTERROGATORI E INDAGINI SULL’UCRAINAGATE

La conclusione del rapporto dei parlamentari statunitensi arriva nel pieno del vertice Nato a Londra, dove il presidente duella aspramente con Emmanuel Macron e gli alleati senza dimenticare il fronte interno: «È una bufala, penso che ciò che i Democratici hanno messo in scena sia molto antipatriottico», denuncia, attaccando come «pazzo e malato» il presidente della commissione Adam Schiff, che finora ha condotto le udienze. Il rapporto è il frutto di oltre due mesi di indagini e interrogatori sull’Ucrainagate, cioè le pressioni del presidente su Kiev perché indagasse sul suo rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e suo figlio Hunter, che sedeva nel board della società energetica ucraina Burisma a 50 mila dollari al mese quando il padre gestiva la politica Usa in quel Paese. Pressioni alimentate con il blocco degli aiuti militari americani.

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Per Fca 4,5 miliardi di dollari di nuovi investimenti in Usa

Lo prevede l'accordo preliminare sul contratto trovato col sindacato dei metalmeccanici negli States. Nel piano anche 7.900 posti di lavoro.

Nuova crescita per Fiat Chrysler Fca negli Stati Uniti. Fca e il United Auto Workers, il potente sindacato dei metalmeccanici americani, hanno raggiunto un accordo preliminare per il rinnovo del contratto di lavoro. L’intesa, riporta la stampa americana, prevede 4,5 miliardi di dollari di nuovi investimenti e 7.900 posti di lavoro.

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Per Fca 4,5 miliardi di dollari di nuovi investimenti in Usa

Lo prevede l'accordo preliminare sul contratto trovato col sindacato dei metalmeccanici negli States. Nel piano anche 7.900 posti di lavoro.

Nuova crescita per Fiat Chrysler Fca negli Stati Uniti. Fca e il United Auto Workers, il potente sindacato dei metalmeccanici americani, hanno raggiunto un accordo preliminare per il rinnovo del contratto di lavoro. L’intesa, riporta la stampa americana, prevede 4,5 miliardi di dollari di nuovi investimenti e 7.900 posti di lavoro.

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Perché scandali e impeachment non frenano la corsa di Trump verso il 2020

Il gradimento del tycoon non cala. Gli indecisi potrebbero rivotarlo. E questo perché l'economia continua a crescere e la disoccupazione non è mai stata così bassa. Per batterlo serve un vero scatto d'orgoglio.

I sondaggi degli ultimi giorni parlano chiaro: malgrado sia stato confermato il quid pro quo nell’Ucrainagate – l’ambasciatore Usa in Ue Gordon Sondland ha ammesso: «Dissi che avremmo potuto non dare gli aiuti militari» – la popolarità di Donald Trump non è calata significativamente.

E nonostante il bombardamento di scoop e di Breaking news che lo riguardano, la percentuale di americani favorevoli all’impeachment è rimasta stabile. Infine, le persone ancora indecise su chi votare non sono del tutto convinte che sia sbagliato votare per Trump nel 2020.

Tirando le somme viene da pensare che la strada dell’impeachment non sia poi così efficace per liberarsi del tycoon. Il motivo di tutto questo mi sfuggiva, e sono andata a leggere cosa ne pensano i talking heads.

I CRITERI CON CUI VIENE GIUDICATO UN PRESIDENTE

Ho trovato particolarmente interessanti le opinioni di Ross Douthat, editorialista del New York Times. Nel suo articolo How Trump Survives spiega come gli americani valutino un leader in base ai successi dell’economia nazionale e alla stabilità mondiale e molto meno per scandali. Douthat avalla la sua teoria ricordando gli altri due tentativi di impeachment nella storia americana: quello a Richard Nixon, uscito dalla scena politica devastato, e quello a Bill Clinton che invece è tuttora considerato da molti uno dei più importanti presidenti americani. Vero, le accuse rivolte ai due erano molto diverse – Nixon fu travolto dal Watergate, mentre Clinton mentì sotto giuramento – ma a fare la differenza furono altri fattori. Mentre durante il secondo mandato di Nixon gli Stati Uniti erano in piena crisi di petrolio, le borse perdevano valore e iniziava un periodo di recessione, l’amministrazione di Clinton era riuscita a garantire un clima di enorme sicurezza economica e mondiale. 

LA GOLDEN AGE DI TRUMP

Malgrado mi pesi ammetterlo, l’America di Donald Trump, almeno sulla carta, sta attraversano un periodo d’oro. Certo, non è tutta farina del suo sacco: il suo predecessore Barack Obama gli ha lasciato un Paese in buono stato. Ma comunque sia, l’economia va a gonfie vele e la disoccupazione non è mai stata così bassa. In poche parole, quando si sta bene fa paura cambiare le carte in tavola, anche se sono carte sporche. Le notizie sempre più allarmanti riguardo i giochi di Trump sia a Washington sia all’estero sarebbero molto più dannose per il tycoon se nel Paese si respirasse una insicurezza economica e sociale.

LEGGI ANCHE: Bloomberg, il miliardario giusto al momento sbagliato

Certamente molti americani sono basiti di fronte al fatto che il presidente abbia chiesto all’Ucraina aiuti per la sua campagna elettorale in cambio dei fondi che il Congresso aveva stanziato per limitare i danni della guerra in Crimea. È ovvio che i comportamenti scorretti di Trump nei confronti degli immigrati, delle donne, dei disabili sono da denunciare e fanno discutere. Ma gli indecisi, i cosiddetti swing voter si preoccupano più di mantenere un lavoro stabile che garantisca loro una vita agiata e dignitosa.

L’UNICA SPERANZA È UNO SCATTO D’ORGOGLIO

Ross Douthat scrive: «Nel nostro sistema, bisogna che accadano dei disastri per potersi liberare di un presidente prima della fine del suo mandato, anche se è un presidente corrotto». Ha ragione il caro signor Douthat, ma spero comunque che quando sarà il momento di votare, i democratici e gli indipendenti si mettano una bella mano sulla coscienza e si preoccupino anche del livello imbarazzante di decenza in cui è caduto un Paese così potente come l’America. 

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Bloomberg, il miliardario giusto al momento sbagliato

Il sindaco che fece risorgere New York dopo l'11 settembre, prova a sfidare Trump. Ma i tempi sono cambiati. I valori dell'élite sono meno dominanti. E il magnate potrebbe riuscire solo nell'impresa di spaccare ancora di più i dem.

Una battaglia tra miliardari è quello che per l’oramai corposa sinistra dem americana proprio non ci vuole alle Presidenziali del 2020. Michael Bloomberg ha soldi, tanti. Oltre 50 miliardi di dollari in più del patrimonio stimato di Donald Trump (3 miliardi), dice Forbes. Con una propaganda che solo l’ex sindaco di New York si può permettere, e l’attestato degli enormi successi da esibire per gli States, Bloomberg conta di spianare il tycoon che dal 2017 mette a soqquadro la Casa Bianca. Con la sua potenza di fuoco è convinto di essere l’unico a poterlo battere: certo non Joe Biden 77enne come lui, che da ex vice di Barack Obama non avrebbe la spinta della novità. Men che meno l’ala radicale può attrarre la maggioranza di capitalisti tra i democratici, perciò Bloomberg è corso in loro soccorso candidandosi. Ma i capitalisti sono davvero ancora la maggioranza tra i dem?

L’ANATEMA DI SANDERS

Bernie Sanders sentenzia «disgustato» che «i multimiliardari non andranno lontano in queste elezioni». Che in una settimana Bloomberg abbia iniettato 34 milioni di dollari in video, manifesti e altre pubblicità a tappeto inorridisce il senatore indipendente del Vermont. Trenta milioni (il doppio delle risorse finora accumulate da Biden) Sanders li ha raccolti in un anno, attraverso le piccole donazioni di circa 4 milioni di elettori sparsi negli States che, è sicuro, non lo tradiranno. «Questa è la democrazia, i miliardari non hanno il diritto di comprarsi le elezioni», sostiene il vecchio socialista che da affiliato dem ha radunato e tirato su una schiera di agguerrite liberal al Congresso. Tra loro, la senatrice Elizabeth Warren, ironia della sorte un’ex repubblicana come Bloomberg, è la candidata più agguerrita, e più apprezzata, tra i dem per la Casa Bianca.

Donald Trump saluta Michael Bloomberg all’anniversario delle stragi dell’11 settembre. GETTY.

WARREN SCAVALCA TUTTI

Anti-trumpiana di ferro, da quando ha svoltato radicalmente dal libero mercato propone welfare e istruzione pubblica per tutti e tasse per le multinazionali come la Bloomberg. E a sorpresa è una trascinatrice: la sua campagna, si dice, è quella che va meglio; nei sondaggi a ottobre è balzata davanti a Biden (25%) per gradimento. «Le elezioni non sono in vendita, né per i miliardari né per gli ad delle corporation», ha sbottato Warren a un comizio dopo aver saputo della discesa di Bloomberg. Chiaro che né Warren, né Biden – tantomeno Bloomberg fermo per ora a un magro 3% – con questi numeri possono vincere le prossime Presidenziali, ma l’ostacolo maggiore per il Paperone di New York arriva dalla selva di competitor interni e detrattori tra i dem. Non da Trump che di questo passo trarrà solo vantaggio dalle divisioni degli avversari.

UN PAPERONE DEMOCRATICO

L’establishment dei dem non è ancora pronto a candidati radicali. Bloomberg è un vincente di idee centriste deciso a scuotere e infiammare l’area dei Clinton: per la corsa alla Casa Bianca si stima metterà in campo fino a 100 milioni di dollari, soprattutto dalle primarie di marzo in grandi Stati come la California. Con l’esperienza negli affari e nell’amministrazione il magnate promette di salvare gli States dai quattro anni di amministrazione Trump. In fondo soldi e successo hanno sempre fatto presa negli Usa, sono il grande sogno del popolo americano che dai politici esige anche rigore. E infatti Bloomberg – ex democratico passato ai repubblicani, diventato indipendente e infine tornato tra i dem – giura che da presidente degli Usa non intascherà un dollaro. E investe milioni nelle campagne per l’ambiente e contro la diffusione delle armi.

Presidenziali Usa Bloomberg democratici Trump
Bloomberg è impegnato e finanzia le battaglie sul clima. GETTY.

L’EPOPEA DI BLOOMBERG

Suona strano ma il capo supremo, proprietario e fondatore del colosso della finanza e dei media con 19 mila dipendenti (2700 giornalisti) nel mondo odia anche le gerarchie. La sua scrivania ai piani alti della Bloomberg, si racconta, è ancora in mezzo a quelle di semplici impiegati. Un democratico, multimiliardario grazie all’inventiva e a una robusta preparazione: ingegnere elettronico, specializzato anche ad Harvard in Economia aziendale, a Bloomberg non si possono certo negare competenze e capacità anche eccezionali che Trump solo millanta: l’idea di una rete di terminali informatici per aggiornare Wall Street e il mondo della finanza in tempo quasi reale fu pionieristica negli Anni 80. E nell’era di Internet quei video-terminali sono ancora irrinunciabili per gli operatori di Borsa e rappresentano l’ossatura del sistema dei media creato da Bloomberg. Per la corsa a primo cittadino di New York questo appeal funzionò.

L’AMERICA È CAMBIATA

Nella Grande mela Bloomberg scese in campo dopo la tragedia dell’11 settembre, la ereditò dallo sceriffo Rudolph Giuliani e restò sindaco fino al 2013, «facendola risorgere dalle ceneri», afferma. I tempi però sono mutati: l’America sta cambiando pelle. Gli ideali e i valori sono sempre meno quelli dell’élite, ora meno dominante; e sempre più quelli delle moltitudini di latinos, neri, immigrati in crescita demografica. Dalla Manhattan ripulita da Giuliani e popolata da ricchi da Bloomberg – l’enclave dell’elettorato radical chic di Hillary Clinton – è sgorgata l’ondata di rivalsa popolare che nel 2014 ha eletto sindaco l’italo-americano, ex filosandinista, Bill De Blasio. Nel cuore tradito di New York ha pulsato Occupy Wall Street, e si è diffusa la rivista chomskiana Jacobin. Lì tanti guardano a Warren, ma Bloomberg, ex sindaco, non sembra accorgersene.

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Negli Usa aumentano le voci su una candidatura di Michelle Obama

Stavolta è stato Tucker Carlson, uno dei più noti opinionisti politici di Fox News, a rilanciare la suggestione. «Barack non ha ancora dato il suo sostegno a Biden perché questa possibilità è concreta».

Il sogno di vedere Michelle Obama alla Casa Bianca viene rilanciato su Fox News, dove l’anchorman Tucker Carlson, uno dei più noti opinionisti politici, ha detto che Barack Obama non ha ancora ufficialmente dato il suo sostegno a Joe Biden perché c’è la possibilità che l’ex first lady scenda in campo.

«IL DISINTERESSA PER LA CANDIDATURA POTREBBE NON ESSERE REALE»

«Non scommettete contro Michelle Obama», ha detto Carlson. «La scorsa settimana ha rilasciato l’ennesima dichiarazione in cui dice di non essere interessata a diventare presidente. Questo è ciò che sostiene, ma ci sono segnali evidenti che può non trattarsi della verità».

UN INDIZIO DALLA PROMOZIONE DEL NUOVO LIBRO?

Per il giornalista poi probabilmente non è un caso che il nuovo libro di Michelle Obama sia uscito proprio ora e vedrà l’ex first lady impegnata in un lungo tour per promuoverlo. Così come potrebbero non essere un caso i recenti attacchi contro Biden di colui che è stato uno dei più stretti consiglieri di Barack Obama, David Axelrod.

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Il caso del Navy Seal che divide gli Stati Uniti

Edward Gallagher è accusato di crimini di guerra. Il segretario della Marina era pronto a espellerlo. Ma è stato messo all'angolo dal Pentagono, schieratosi (con Trump) a fianco del militare.

Il capo del Pentagono Mark Esper ha chiesto le dimissioni del segretario della Marina Richard Spencer per come ha gestito con la Casa Bianca il caso del Navy Seal accusato di crimini di guerra. Al centro della questione c’è il procedimento disciplinare che potrebbe far perdere lo status di Navy Seal a Edward Gallagher, condannato da una corte marziale per aver posato con il cadavere di un militante dell’Isis, anche se è stato assolto dall’accusa di averlo ucciso e di aver sparato deliberatamente su civili disarmati. Dopo la condanna è stato degradato e gli è stato decurtato lo stipendio. Rischiava anche di essere espulso dalla prestigiosa unità delle forze speciali ma ora il capo del Pentagono ha cancellato la commissione disciplinare che doveva esaminare la vicenda il 2 dicembre e ha autorizzato Gallagher ad andare in pensione come Navy Seal conservando il suo grado.

TRUMP DALLA PARTE DEL NAVY SEAL

Trump si è sempre schierato dalla parte di Gallagher. Nei giorni scorsi aveva ammonito su Twitter i vertici militari a non cacciarlo. Una mossa che aveva irritato il segretario della Marina, secondo cui «il processo conta per il buon ordine e la disciplina». Far finta di nulla, insomma, rischia di dare un messaggio sbagliato a tutti gli altri militari, legittimando azioni come quella di Gallagher. Per questo Spencer sembrava aver minacciato le dimissioni nel caso Trump avesse bloccato il procedimento, salvo poi negarle, forse dopo aver subito pressioni.

Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti

Richard Spencer, segretario della Marina

«Un tweet del presidente non è un ordine ma se arriva un ordine formale obbedisco», si era corretto. «Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti», aveva aggiunto, completando il dietrofront. Sembrava tutto risolto, tanto che la Casa Bianca aveva comunicato alla Marina che non sarebbe intervenuta per bloccare il procedimento disciplinare. Ma evidentemente al commander in chief non è andato giù l’iniziale ammutinamento di Spencer e ora ha chiesto la sua testa.

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Il caso del Navy Seal che divide gli Stati Uniti

Edward Gallagher è accusato di crimini di guerra. Il segretario della Marina era pronto a espellerlo. Ma è stato messo all'angolo dal Pentagono, schieratosi (con Trump) a fianco del militare.

Il capo del Pentagono Mark Esper ha chiesto le dimissioni del segretario della Marina Richard Spencer per come ha gestito con la Casa Bianca il caso del Navy Seal accusato di crimini di guerra. Al centro della questione c’è il procedimento disciplinare che potrebbe far perdere lo status di Navy Seal a Edward Gallagher, condannato da una corte marziale per aver posato con il cadavere di un militante dell’Isis, anche se è stato assolto dall’accusa di averlo ucciso e di aver sparato deliberatamente su civili disarmati. Dopo la condanna è stato degradato e gli è stato decurtato lo stipendio. Rischiava anche di essere espulso dalla prestigiosa unità delle forze speciali ma ora il capo del Pentagono ha cancellato la commissione disciplinare che doveva esaminare la vicenda il 2 dicembre e ha autorizzato Gallagher ad andare in pensione come Navy Seal conservando il suo grado.

TRUMP DALLA PARTE DEL NAVY SEAL

Trump si è sempre schierato dalla parte di Gallagher. Nei giorni scorsi aveva ammonito su Twitter i vertici militari a non cacciarlo. Una mossa che aveva irritato il segretario della Marina, secondo cui «il processo conta per il buon ordine e la disciplina». Far finta di nulla, insomma, rischia di dare un messaggio sbagliato a tutti gli altri militari, legittimando azioni come quella di Gallagher. Per questo Spencer sembrava aver minacciato le dimissioni nel caso Trump avesse bloccato il procedimento, salvo poi negarle, forse dopo aver subito pressioni.

Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti

Richard Spencer, segretario della Marina

«Un tweet del presidente non è un ordine ma se arriva un ordine formale obbedisco», si era corretto. «Buon ordine e disciplina sono anche obbedire agli ordini del presidente degli Stati Uniti», aveva aggiunto, completando il dietrofront. Sembrava tutto risolto, tanto che la Casa Bianca aveva comunicato alla Marina che non sarebbe intervenuta per bloccare il procedimento disciplinare. Ma evidentemente al commander in chief non è andato giù l’iniziale ammutinamento di Spencer e ora ha chiesto la sua testa.

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La stretta di Google contro le fake news negli spot elettorali

Mountain View ha vietato a politici e candidati di prendere di mira categorie di utenti sulla base della loro affiliazione. Anche Fb corre ai ripari.

Stretta di Google sugli spot elettorali. Nel tentativo di fermare il dilagare della fake news in vista degli appuntamenti elettorali in Gran Bretagna prima e negli Stati Uniti poi, Mountain View vieta a politici e candidati di prendere di mira intere categorie di utenti ed elettori sulla base della loro affiliazione politica. Ma anche di mirare gli spot sulla base degli interessi degli utenti captati dal loro navigare online. Resta invece ancora possibile mirare le proprie pubblicità sulla base del genere e dell’età. La mossa di Google punta a stemperare le critiche contro la Silicon Valley, accusata da più parti di non aver fermato le interferenze russe sulle elezioni americane del 2016. Critiche che hanno riguardato soprattutto Twitter e Facebook.

TWITTER ANTICIPA TUTTI

La società che cinguetta è corsa di recente ai ripari, decidendo di vietare del tutto gli spot elettorali sulla sua piattaforma. Una mossa che ha spiazzato e aumentato la pressione sul social di Mark Zuckerberg. Facebook ha finora resistito a ogni modifica ma sembrerebbe pronta a tornare sui suoi passi. Secondo indiscrezioni, il colosso sta infatti valutando modifiche e lo sta facendo in contatto con gli inserzionisti democratici e repubblicani. La campagna di Donald Trump è una delle più attive su Facebook: da quando è esploso lo scandalo dell’Ucraina il 18 settembre ha lanciato sulla piattaforma circa 5.500 spot, il 40% dei quali con almeno un riferimento all’impeachment.

L’INCONTRO TRUMP-ZUCKERBERG

Zuckerberg ha avuto di recente modo di incontrare privatamente il presidente americano: lo scorso ottobre è andato a cena alla Casa Bianca su invito dello stesso Trump. I contenuti dell’incontro non sono stati resi noti, ma non è escluso che i due si siano soffermati sugli spot elettorali su Facebook, tema caro ai democratici e soprattutto alla candidata Elizabeth Warren che, nella sua piattaforma, ha anche lo smembramento di Facebook e di altri big tecnologici divenuti troppo potenti e una minaccia della democrazia.

L’ALLARME DI AMNESTY INTERNATIONAL

Convinta della pericolosità di Facebook e Google è anche Amnesty International: la loro sorveglianza onnipresente è una minaccia sistemica per i diritti umani, denuncia l’associazione augurandosi un cambio radicale del loro modello di business. Le critiche di Amnesty vanno così ad alimentare il dibattito intorno ai social, che nei prossimi appuntamenti elettorali vedono un esame da dover superare a ogni costo.

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Seguire l’impeachment di Trump è come guardare Breaking Bad

In audizioni come quella di Sondland spuntano frasi, informazioni, dettagli inaspettati che tengono incollati alla tivù. E che dimostrano come Trump in fondo abbia a cuore solo i suoi interessi personali.

Lo ammetto, mercoledì, quando l’ambasciatore americano presso l’Ue Gordon Sondland è stato interrogato dal Congresso nell’ambito del procedimento per limpeachment di Donald Trump, non sono riuscita a fare altro che ascoltare quello che aveva da dire. È un po’ come guardare Breaking Bad: ogni mezz’ora spunta una frase, un’informazione, un dettaglio inaspettati che mi tengono incollata alla televisione.

LA PRIORITÀ DI TRUMP? VINCERE NEL 2020

Una cosa è certa: il presidente è pronto a tutto pur di mantenere il potere. Un potere, tra l’altro, che non è in grado di gestire. Quando l’ambasciatore ha detto senza mezzi termini che tutti – compresi il vicepresidente Mike Pence, Mike Pompeo e John Bolton – erano al corrente del cosiddetto Ucrainagate, non potevo credere alle mie orecchie. Le sue dichiarazioni hanno confermato che a Trump non interessa nulla del popolo ucraino, dell’invasione russa in Crimea, degli sforzi che il governo di Kiev sta facendo per combattere la corruzione. A lui interessano solamente i suoi interessi personali: vincere le elezioni del 2020 buttando fango su Joe Biden e sul Partito democratico. Stando a quanto detto da Sondland, il tycoon avrebbe dettato condizioni precise al presidente Volodymyr Zelensky durante la famosa telefonata. Gli avrebbe fornito denaro in cambio di un favore: iniziare delle indagini su Biden e sulle presunta interferenza di Kiev nelle elezioni del 2016. I soldi e la visita dell’allora neoeletto presidente ucraino alla Casa Bianca sono stati bloccati e usati come merce di scambio.

REPUBBLICANI SENZA VERGOGNA

Ciò che mi ha più sconcertato ascoltando l’audizione è il modo in cui i repubblicani seduti in aula cercassero senza vergogna di rigirare le informazioni ricevute da Sondland e di ritrarre il presidente come una persona particolarmente interessata a combattere la corruzione in Ucraina. «Il presidente Trump ha deciso di bloccare l’aiuto economico all’Ucraina perché voleva assicurarsi che il nuovo presidente non fosse corrotto!», è il refrain che ripetono fino alla nausea senza tra l’altro avere prove che sostengano in alcun modo questa teoria. «Corruzione» è il termine che fa sobbalzare chi, come me, segue le azioni del presidente dall’inizio del suo mandato: ha pagato pornostar perché non lo mettessero nei guai; ha ripetutamente elogiato i capi di Stato più corrotti e violenti del mondo; ha tentato di zittire il capo del Fbi sul Russiagate e infine lo ha licenziato e umiliato; lo stesso ha fatto con l’ambasciatrice americana a Kiev. Lo sanno tutti, anche chi è devoto al presidente, che non è una persona trasparente, che ha più scheletri nell’armadio di qualsiasi altro suo predecessore. I repubblicani invece sembrano voler dividere ulteriormente questa nazione, sostenendo senza scrupoli teorie cospirazioniste ormai screditate da tutti e appoggiando senza un minimo di moralità azioni al limite della legalità (per usare un eufemismo). Malgrado tutto questo circo, rimango convinta che il presidente vincerà le elezioni del 2020, momento in cui chiederò asilo politico in Nuova Zelanda.

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Perché la testimonianza di Sondland sull’Ucrainagate mette nei guai Trump

L'ambasciatore Usa in Europa, sentito dalla Camera, ha raccontato di aver lavorato su ordine del presidente per fare pressioni su Kiev. Il tycoon avrebbe cercato un quid pro quo con Zelenskyj: indagini su Biden in cambio degli aiuti.

«Tutti erano al corrente, non c’era nessun segreto». C’è un nuovo capitolo dell’Ucrainagate che rischia di mettere ancora più in difficoltà il presidente americano Donald Trump. Le parole sono di Gordon Sondland, ambasciatore Usa presso la Ue, che il 20 novembre è stato sentito in audizione alla Camera nel procedimento per impeachment contro il tycoon. Un’audizione molto attesa anche perché la Casa Bianca aveva tentato di bloccarla.

Sondland, ha ammesso di aver lavorato con Rudolph Giuliani, l’avvocato personale del presidente, su ordine dello stesso Trump, per fare pressioni sull’Ucraina. Trump avrebbe ordinato di perseguire attraverso Giuliani il ‘quid pro quo‘, legando la visita del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj alla Casa Bianca e agli aiuti militari a Kiev all’avvio delle indagini sui suoi rivali politici, Joe Biden in testa.

«Giuliani», ha raccontato Sondland, «chiese che l’Ucraina facesse una dichiarazione pubblica annunciando delle indagini» sia sulle elezioni presidenziali americane del 2016 sia sulla Burisma, la società in cui aveva lavorato il figlio dell’ex vicepresidente Biden. «Giuliani stava esprimendo un desiderio del presidente e noi sapevamo che queste indagini erano importanti per il presidente», ha aggiunto il diplomatico.

COINVOLTO ANCHE L’EX PRESIDENTE PENCE

Nella sua deposizione Sondland ha chiamato in causa tutti i vertici dell’amministrazione, sostenendo che «tutti sapevano» del blocco degli aiuti militari a Kiev in cambio delle indagini sui Biden, compreso il vicepresidente Mike Pence, cui aveva espresso le sue preoccupazioni il primo settembre a Varsavia prima di un incontro con il presidente ucraino.

LEGGI ANCHE: Contro Trump anche un funzionario della Casa Bianca

LE OMBRE SI ALLUNGANO SU POMPEO

Ma l’ambasciatore ha raccontato anche qualcos’altro dicendo che inviò al segretario di Stato Mike Pompeo, al segretario all’energia Rick Perry e al capo dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney per informarli di aver parlato con Zelensky e che questi intendeva avviare delle «indagini trasparenti». La mail era del 19 luglio, una settimana prima della telefonata tra Trump e Zelensky. Secondo il New York Times Sondland avrebbe discusso con Pompeo della possibilità di fare pressioni su Zelensky perché durante l’incontro nello Studio Ovale promettesse le indagini volute da Trump, per rompere così la situazione di stallo tra i due Paesi con gli aiuti militari a Kiev che erano stati congelati. Non solo. Pompeo avrebbe dato la sua approvazione al piano.

SONDLAND: «HO AGITO IN BUONA FEDE»

«Ho agito in buona fede seguendo le direttive del presidente», ha detto ancora Sondland nel corso della sua audizione chiarendo anche di essere stato contrario al blocco degli aiuti Usa a Kiev nel momento in cui venne a sapere che era legato all’apertura di un’inchiesta sui Biden. «Non eravamo contenti dell’ordine di Trump di parlare con Rudy Giuliani. Non volevamo il suo coinvolgimento. Io pensavo, e penso, che siano gli uomini e le donne del dipartimento di Stato, e non l’avvocato personale del presidente, a dover prendersi la responsabilità degli affari ucraini», ha detto. «Potevamo abbandonare gli sforzi di programmare una telefonata e una visita alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky, che era senza dubbio nell’interesse della nostra politica estera, o fare come aveva ordinato Trump. Scegliemmo la seconda strada, non perché ci piacesse, ma perché era l’unica via costruttiva per noi», ha aggiunto.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell'ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell'ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell'ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell'ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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Trump potrebbe testimoniare nell’inchiesta sull’impeachment

Il presidente tentato dalla possibilità di uno show. Ma i suoi avvocati temono possa tirarsi la zappa sui piedi.

Donald Trump apre all’ipotesi di testimoniare nell’indagine di impeachment, mentre il suo castello difensivo continua a crollare sotto il colpo delle testimonianze e sfoga la sua ira anche con il segretario di Stato Mike Pompeo, uno dei suoi più stretti alleati, colpevole ai suoi occhi di non aver fatto abbastanza per bloccare le deposizioni dei diplomatici. «La nostra pazza speaker della Camera, la nervosa Nancy Pelosi, che è pietrificata dalla sua sinistra radicale…ha suggerito domenica che io testimoni nella caccia alle streghe del falso impeachment. Ha detto che potrei farlo anche per iscritto», ha twittato il presidente.

«Benché non abbia fatto nulla di male e non mi piaccia dare credibilità a questa bufala di processo ingiusto, mi piace l’idea e la esaminerò fortemente», ha aggiunto. Difficile valutare le vere intenzioni del tycoon. Un suo interrogatorio sarebbe un vero show ma comporterebbe molti rischi. Innanzitutto darebbe legittimità ad una indagine che ha sempre definito illegale, vietando ai dirigenti della sua amministrazione di cooperare. In secondo luogo Trump, abituato ad uscire dal copione, potrebbe cadere involontariamente in ammissioni o contraddizioni che aggraverebbero la sua posizione. Per questo i suoi avvocati gli avevano sconsigliato di farsi interrogare dal procuratore speciale Robert Mueller nell’indagine sul Russiagate, indirizzandolo invece su risposte scritte.

LE ACCUSE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

Potrebbe essere un’opzione anche in questo caso, ma non esente da pericoli. Come dimostra la causa intentata dalla Camera per acquisire il materiale del gran giurì sul Russiagate coperto da omissis, sostenendo che Trump potrebbe aver mentito «quando nelle sue risposte scritte alle domande del procuratore speciale ha negato di essere a conoscenza di qualsiasi comunicazione tra la sua campagna e Wikileaks». Per sostenere la loro tesi, i legali della House citano un passaggio del rapporto Mueller in cui l’ex capo della campagna di Trump, Paul Manafort, ricorda che il presidente gli chiese di essere tenuto «aggiornato» sulle rivelazioni da parte di Wikileaks delle email del partito democratico. Rivelazioni di cui pare fosse a conoscenza Roger Stone, consigliere informale della campagna del tycon, dichiarato colpevole proprio nei giorni scorsi.

LA DIFESA DI TRUMP FA ACQUA

Il presidente inoltre continua a sostenere che nella sua telefonata del 25 luglio, al centro dell’indagine di impeachment, non esercitò alcuna pressione sul presidente ucraino Volodymyr Zelenski per far indagare il suo rivale politico Joe Biden e suo figlio Hunter. Ma ora l’Ap ha svelato che l’ambasciata Usa Kiev fu informata già il 7 maggio di un incontro in cui un preoccupato Zelensky chiese consiglio su come gestire le pressioni di Trump e dei suoi collaboratori. Rivelazione che conferma le versioni dei testi sentiti finora, cui questa settimana se ne aggiungeranno altri otto: quello più atteso, mercoledì, è l’ambasciatore Usa alla Ue Gordon Sondland, cinghia di trasmissioni delle pressioni di Trump. Intanto il tycoon è ai ferri corti con Pompeo, cui ha rimproverato di aver assunto al dipartimento di Stato ‘Never Trumpers‘ e di non aver impedito le loro deposizioni. Pompeo si tiene aperta una via di fuga pensando di candidarsi al Senato nel suo Kansas.

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Smacco a Trump in Louisiana: rieletto governatore dem

Gli elettori hanno dato nuovamente fiducia all'uscente John Edwards. Un chiaro segnale per The Donald e i Repubblicani a meno di un anno dalle presidenziali.

La Louisiana ha preferito i democratici ai repubblicani scegliendo di confermare John Edwards come governatore dello Stato. Il Edwards ha battuto la concorrenza del candidato repubblicano Eddie Rispone confermandosi inoltre come unica guida dem alla guida di uno Stato del profondo Sud americano.

SCHIAFFO A DONALD TRUMP

Sicuramente la rielezione di John Edwards alla guida della Louisiana è un duro schiaffo a Donald Trump. Il tycoon si era infatti speso molto per sostenere la candidatura di Rispone. Tanto che nei dieci giorni prima delle elezioni aveva tenuto due comizi elettorali nello Stato. Una sconfitta che mette in dubbio anche una possibile rielezione di Trump come presidente il 3 novembre 2020 quando gli americani saranno chiamati a scegliere se confermare o chiamare qualcun altro a guidare il Paese. L’elezione del governatore in Louisiana era infatti considerato dai media statunitensi un test chiave in vista delle presidenziali.

IN LOUISIANA VITTORIA DEM DI MISURA

Va tuttavia detto che Edwards ha battuto Rispone di misura. Questo non sminuisce il fatto che, nonostante la scesa in campo dello stesso Trump, i Repubblicani hanno subito un duro colpo psicologico. Molti, infatti, ritenevano che Edwards non ce l’avrebbe fatta a strappare il secondo mandato. Anche i sondaggi davano Rispone avanti al candidato dem. Secondo i media Usa l’errore dei Repubblicani sarebbe da rintracciare nella campagna elettorale fatta da Rispone e interamente basata su Trump. Tanto da affidare a The Donald tutte le sue fortune politiche. Un errore fatale visto il diminuito consenso nei confronti del presidente degli ultimi periodi.

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«Intimidisce la teste dell’Ucrainagate»: bufera su Trump

Il presidente ha attaccato su Twitter l'ex ambasciatrice Usa a Kiev proprio mentre lei stava testimoniando alla commissione per l'impeachment.

Un venerdì nero per Donald Trump. Una delle peggiori giornate da quando è arrivato alla Casa Bianca, tradito soprattutto dalla sua arma finora più potente ed efficace: Twitter. Il suo attacco all’ex ambasciatrice Usa a Kiev Marie Yovanovitch («Ha fatto male ovunque è andata») è stato postato mentre la diplomatica stava testimoniando in diretta tv, provocando una bufera che rischia di diventare per il tycoon un vero e proprio boomerang.

«L’INTIMIDAZIONE DI UN TESTIMONE È UN REATO»

«L’intimidazione di un testimone, e per di più in tempo reale, è un reato. Ed è una minaccia rivolta a tutti coloro che vogliono farsi avanti», ha tuonato di fronte alle telecamere Adam Schiff, il presidente della commissione Intelligence della Camera che coordina le indagini sul possibile impeachment, assicurando che il comportamento del presidente sarà preso «in serissima considerazione» quando si dovranno riempire gli articoli per la messa in stato di accusa. Ma ci sono altre due tegole cadute nelle ultime ore sulla testa del tycoon, che sente sempre di più il fiato sul collo. La prima è la notizia che il suo avvocato personale, Rudy Giuliani, è indagato a New York nell’ambito dell’Ucrainagate, con le possibili accuse che vanno dalla violazione delle regole sui finanziamenti elettorali all’azione illegale di lobby in Paesi stranieri, passando per il reato di cospirazione e per quello di corruzione di funzionari, anche stranieri.

LA CONDANNA DELL’EX RESPONSABILE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE

La seconda mazzata in poche ore per Trump è la dichiarazione di colpevolezza di Roger Stone, ex responsabile della sua campagna elettorale e amico di vecchia data, in uno dei filoni dell’inchiesta sul Russiagate. Anche in questo caso le accuse sono pesantissime: ostruzione della giustizia nell’ambito delle indagini sulle interferenze russe nel voto del 2016 e aver mentito al Congresso sui contatti con WikiLeaks per ottenere, sempre nel 2016, materiale compromettente contro i rivali di Trump. Insomma, il cerchio si stringe sempre più attorno al presidente Ma ciò che nelle ultime ore lo ha fatto maggiormente infuriare sono proprio le parole in diretta tv dell’ex ambasciatrice americana a Kiev, che ha raccontato come si sia sentita minacciata da Trump che, parlando con il leader ucraino Voldymyr Zelensky nella famigerata telefonata del 24 luglio scorso, la descrisse come una “bad news”, assicurando che presto sarebbe stata cacciata.

L’AMBASCIATRICE: «NON DAVO LORO QUELLO CHE VOLEVANO»

«Nel leggere la trascrizione della telefonata ero scioccata, sconcertata, devastata. Fu terribile sentire che il presidente degli Stati Uniti aveva perso la fiducia in me. E non mi fu data alcuna spiegazione sul perché venivo mandata via», ha spiegato la diplomatica in una delle fasi più drammatiche della testimonianza. Ricordando anche la campagna diffamatoria messa in piedi contro di lei da Giuliani e i suoi soci: «Capirono che era facile rimuovere un’ambasciatrice che non dava loro quello che volevano per interessi che ritengo loschi». È proprio durante questo passaggio che Trump ha sparato i due tweet che ora rischiano di comprometterlo. Lo sdegno intanto è bipartisan.

INTERVENTO A GAMBA TESA SENZA PRECEDENTI

Mai si era vista una cosa simile, un presidente che interviene per denigrare e diffamare un alto funzionario dello Stato mentre sta deponendo in Congresso. Un’uscita che potrebbe costare molto cara, sottolinea anche la Fox. Mentre passano in secondo piano le mosse orchestrate nelle ultime ore della Casa Bianca: il ricorso alla Corte Suprema per impedire che le dichiarazioni dei redditi degli ultimi otto anni del tycoon, quelle personali e delle sue aziende, vengano consegnate ai procuratori di Manhattan; la pubblicazione della trascrizione della prima telefonata con Zelensky. In quest’ultima, dello scorso aprile, non emergono pressioni da parte del tycoon che invece, nel complimentarsi per la vittoria elettorale di Zelensky, ricorda quando era proprietario di Miss Universo: «Eravate sempre ben rappresentati…», scherza, provocando la risata di Zelensky.

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Altro colpo per Trump: indagato il suo avvocato Giuliani

L'ex sindaco di New York è finito al centro di un'inchiesta su operazioni finanziarie sospette. E, come nel caso dell'impeachment, i fari sono puntati sull'Ucraina.

L’avvocato personale di Donald Trump, Rudolph Giuliani, figura centrale nella vicenda dell’Ucrainagate, è indagato dalla giustizia federale nell’ambito di un’inchiesta su alcune sue operazioni finanziarie. Il sospetto è quello di possibili violazioni delle regole sui finanziamenti elettorali e di azioni illegali di lobby all’estero. Lo riporta l’agenzia Bloomberg citando alcuni funzionari dell’amministrazione Usa. Uno di loro ipotizza da parte della procura federale di Manhattan anche le accuse per corruzione di funzionari stranieri e cospirazione.

LA LENTE SULLE ATTIVITÀ DI GIULIANI IN UCRAINA

A indagare su Giuliani è l’ufficio del procuratore federale di Manhattan una volta da lui guidato, prima di diventare sindaco di New York. Le indagini – riporta sempre l’agenzia Bloomberg – si starebbero concentrando proprio sulle sue attività in Ucraina. Attività per le quali erano già finiti nel mirino degli inquirenti due soci di Giuliani arrestati alcune settimane fa, Lev Parnas e Igor Fruman, accusati di aver fatto illegalmente confluire centinaia di migliaia di dollari verso funzionari statunitensi e comitati politici che sostenevano Trump. Se i capi di accusa ipotizzati per Giuliani dovessero materializzarsi rappresenterebbero una vera tegola per il presidente Trump, soprattutto se venisse provato che l’ex sindaco di New York ha agito dietro le direttive del tycoon.

La politica estera degli Usa era minata dagli sforzi irregolari guidati da Giuliani

Bill Taylor, ex ambasciatore Usa a Kiev

Giuliani è stata una delle figure più chiacchierate della prima giornata di testimonianze pubbliche nell’ambito del procedimento che potrebbe portare all’impeachment di Trump. Uno dei testimoni, l’ex ambasciatore Usa a Kiev Bill Taylor, ha detto che Giuliani mise in piedi un canale politico «irregolare» che minò le relazioni con Kiev mentre cercava di aiutare il presidente Usa politicamente. Fare pressioni sul presidente ucraino Volodymir Zelensky per indagare il figlio del candidato presidenziale dem Joe Biden «mostra che la politica estera degli Usa era minata dagli sforzi irregolari guidati da Giuliani», ha detto Taylor.

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