Perché le Presidenziali post Bouteflika in Algeria sono inutili

Elezioni il 12 dicembre, per volere del capo dell'esercito Salah. In corsa solo ex premier, ex ministri o politici parte dell’establishment. Le piazze rifiutano tutti i candidati e boicottano le urne. Ma ai giovani manifestanti pro-cambiamento manca un nuovo leader.

Un voto rimandato e infine imposto, forse l’ultimo colpo di coda dell’ancient regime algerino, di certo un punto interrogativo per tutti, fuori e dentro l’Algeria. La piazza non vuole le Presidenziali del 12 dicembre 2019 ma il pouvoir, il «potere» da spazzare via, le ha imposte entro la fine dell’anno. Così detta la Costituzione algerina, ma soprattutto così ha voluto il nuovo uomo forte, il capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah.

IL POPOLO RIGETTA TUTTI E CINQUE I CANDIDATI

Dalle dimissioni dell’ex presidente ottuagenario Abdelaziz Bouteflika, destituito ad aprile dal generale Salah per «manifesta incapacità», entro 90 giorni doveva essere rieletto un capo dello Stato. A luglio il voto era stato annullato, mancando i candidati. Ma oltre l’anno non si può temporeggiare, poco importa se il fiume umano che dal 22 febbraio invade le strade dell’Algeria rigetti tutti i cinque candidati «del sistema, ex premier, ex ministri o oligarchi».

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Il candidato di punta delle Presidenziali in Algeria del 2019, l’ex premier Alis Benflis. (Getty)

L’IMBARAZZANTE 75ENNE BENFLIS

L’accoglienza dei comizi non è stata, per usare un eufemismo, calorosa. L’ex primo ministro (dal 2000 al 2003) Alis Benflis, 75enne naturalmente del Fronte di liberazione nazionale (Fln) di Bouteflika, suo avversario fantoccio delle Presidenziali, è il candidato di punta e tra i più imbarazzanti della rosa. Un insulto per il popolo dell’hirak, il «movimento» che chiede e pretende lo «smantellamento totale» dell’apparato di potere dell’Algeria. Il capo della campagna elettorale di Benflis nella regione della Cabilia, roccaforte delle contestazioni, si è dovuto dimettere su pressione dei familiari, per il timore di tumulti.

LE PIAZZE SEMI VUOTE PER L’EX PLURI MINISTRO

Abdelmadjid Tebboune, classe 1945, ex premier ed ex ministro praticamente di tutto, in politica dal 1975 e parente di Bouteflika, è il prediletto di Salah. E non lo aiuta: Tebboune ha dovuto cancellare il primo raduno perché la piazza era semi vuota, anche il suo manager ha mollato l’incarico.

L’ISLAMISTA MODERATO PRESO A UOVA E POMODORI

Peggio ancora è andata al candidato islamista Abdelkader Bengrina, un moderato intenzionato a rappresentare l’hirak. Meno organico, ma anche lui ex ministro, sebbene più di 20 anni fa, di un governo Bouteflika. Bengrina, 57 anni, ha promesso aiuti alle donne single e si era messo ad arringare sul cambiamento dalla piazza di Algeri delle proteste. Ma è dovuto scappare in auto, preso a uova e pomodori dai dimostranti che non lo ritengono una degna opposizione.

NON CONVINCE L’EX TITOLARE DELLA CULTURA

Alla vigilia del voto anche il Movimento della società per la pace, la maggiore rappresentanza degli islamisti nell’Algeria, ha preso le distanze da «tutti i candidati», appoggiando in linea di principio le Presidenziali ma «non in queste circostanze, senza consenso». Allo stesso modo, non convince l’ex ministro della Cultura Azzedine Mihoubi, 60 anni, già sottosegretario alla comunicazione, leader del Raggruppamento democratico nazionale (Rdn) alleato del Fln.

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Militari in pensione governativi manifestano ad Algeri per le Presidenziali del 2019. (Getty)

CAMPAGNA CONSIDERATA UNO SPRECO DI DENARO

Né si salva Abdelaziz Belaïd, 56enne leader del Fronte del futuro, piccolo partito considerato di sponda tattica del pouvoir. E certo Belaïd, che all’hirak assicura lotta alla corruzione, lo è stato di Bouteflika, come Benflis, alle passate Presidenziali. La società civile algerina è giovane, ostinatamente pacifica e molto consapevole dello status quo: considera la campagna «uno spreco di denaro» da parte di chi «non si è fatto ancora carico delle richieste popolari», cioè di un «vero ricambio», precondizione per «elezioni trasparenti e sane».

AI MANIFESTANTI PERÒ MANCA UN LEADER

Alle masse di manifestanti mancano però dei leader politici nuovi e preparati: dall’indipendenza il partito unico del Fln ha soffocato la fondazione di altri partiti che non fossero collaterali e funzionali al sistema. Agonizzante, come il malato Bouteflika, ma pronto anche alle Presidenziali del 2019 a giocare la carta della paura.

L’ESERCITO RESTA ARBITRO: E LA DEMOCRAZIA DOV’È?

Il potere fa leva sul bisogno di stabilità degli algerini. Si pone come rimedio al caos, lascia filtrare il rischio di disordini il giorno del voto, e intanto manda in piazza i supporter governativi. Le Presidenziali decise dal generale Salah, vice ministro della Difesa, 80enne, sono un banco di prova anche per la tenuta dell’hirak, forte ad aggirare le trappole ma continuamente insidiato. Finché l’esercito resterà arbitro autoritario della “transizione” non ci sarà democrazia in Algeria: gli arresti di questi mesi sono trasversali. Colpiscono imprenditori e funzionari corrotti del pouvoir, con retate a effetto, come esponenti della sinistra all’opposizione e dimostranti berberi per «attentato alla nazione». I cortei sono tollerati, ma i giornalisti intimiditi. I magistrati protestano contro le ingerenze, ma parte di loro sono complici. E se il voto boicottato per il presidente sarà un flop, per il pouvoir c’è sempre il secondo turno.

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L’Arabia Saudita ha abolito la segregazione delle donne nei ristoranti

Riad dice basta alla regola che prevedeva ingressi separati per maschi e femmine nei locali.

L’Arabia Saudita ha abolito gli ingressi separati per uomini e donne nei ristoranti, facendo cadere un nuovo tabù sociale del regno ultraconservatore. Lo annunciano le autorità di Riad, riprese dai media. In ossequio al divieto d’incontro in luoghi pubblici fra uomini e donne che non siano familiari, i ristoranti e i locali pubblici finora osservavano una rigida segregazione, con sale e ingressi separati. Al Jazeera scrive che non è tuttavia chiaro se uomini e donne potranno sedere agli stessi tavoli all’interno dei ristoranti, e aggiunge che la misura non è obbligatoria, e che quindi potrebbe esserci qualche ristoratore che preferisce mantenere la rigida separazione.

LE RIFORME ACCOMPAGNATE DALLA REPRESSIONE

Al Jazeera ricorda anche che negli ultimi anni molti locali, ristoranti, ma anche caffè, sale per concerti e centri congressi, hanno iniziato a chiudere un occhio, con discrezione, sulla segregazione di genere. Una conseguenza del ‘nuovo clima’ di tolleranza sociale instaurato dal giovane erede al trono, principe Mohammed bin Salman, accusato però di aver inasprito come mai prima la repressione, anche violenta, del dissenso, di cui è stato vittima anche il giornalista Jamal Khashoggi.

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Gli ultraconservatori cavalcano le proteste in Iran

I riformisti mollano Rohani dopo la repressione. E l'ala più oltranzista guadagna forza in vista delle Legislative a febbraio. Così l'autoritarismo vince sulle democrazie.

Non è secondario che nell’Iran sciita si voti a febbraio del 2020 per rinnovare il parlamento. Nella Repubblica islamica sono state appena stroncate le proteste di massa più grandi e violente del 1979: dalle testimonianze sfuggite al blocco della censura, centinaia di morti in pochi giorni, più delle circa 70 vittime (in 10 mesi) ricostruite nell’Onda verde del 2009. Migliaia gli arresti ammessi dalle autorità, chi ha mobilitato i cortei e dei loro famigliari sarebbero prelevati dalle forze di sicurezza dalle case porta a porta. Mentre in Iraq rivolte sanguinose scuotono santuari islamici come Najaf, a larga maggioranza sciita e storica influenza iraniana. Il Medio Oriente sciita, 40 anni fa mobilitato e tradito negli ideali democratici da Khomeini, tenta di rovesciare i regimi e i governi corrotti. Ma anche stavolta la repressione rafforza gli ultraconservatori in Iran e i militari iraniani approfittano delle turbolenze nell’area mediorientale. 

LA GRANDE MACCHIA DI ROHANI

Hassan Rohani è presidente dal 2013, grazie al consenso popolare degli alleati riformisti con i leader agli arresti domiciliari dalle proteste del Movimento verde contro il governo Ahmadinejad.  L’avvitamento economico – per le durissime sanzioni americane di Donald Trump – aggrava la crisi finanziaria di mese in mese, alimentando le contestazioni: già di per sé un guaio per lo schieramento di Rohani. I morti, i feriti, gli arresti e l’oscuramento per giorni di Internet e delle reti telefoniche (quest’ultimo disposto proprio da Rohani, si è scritto, in capo al Consiglio nazionale di sicurezza) macchiano il suo governo più del governo Ahmadinejad. Fuori dall’Iran nessuno sa quello che è davvero successo durante i disordini di metà novembre, alcuni racconti raccolti dalle Ong sono sconvolgenti. Ma a Teheran, a proposito di Legislative, ne ha un’idea anche qualche parlamentare. In una mozione urgente si chiede una commissione d’inchiesta sulle uccisioni e sugli arresti. 

Iran rivolte Iraq guerra pasdaran
Le rivolte nella città santa sciita di Najaf, in Iraq. GETTY.

MOUSAVI CONTRO KHAMENEI

Rohani sta perdendo tutti i voti dei riformisti. Il leader dell’Onda verde Mir Hossein Mousavi, costretto a casa con la moglie dal 2011, raramente parla in pubblico anche se da quest’anno gli è stato dato un cellulare e può guardare alcuni canali tivù. Ma quest’autunno ha fatto uscire su Internet frasi lapidarie contro la guida suprema iraniana Ali Khamenei: «Nel 1978 gli assassini erano i rappresentanti e gli agenti di un regime non religioso, mentre i cecchini del novembre 2019 sono i rappresentanti di un governo religioso. Allora il comandante in capo era lo scià, oggi è la guida suprema che ha autorità assoluta». Dal Majlis, il parlamento iraniano, la deputata riformista Parvaneh Salahshouri ha denunciato vittime adolescenti tra i morti nelle ultime proteste. E chiede sia fatta luce «sulle notizie unilaterali e umilianti diffuse dalla tivù sui manifestanti, arrabbiati e frustrati da numerosi problemi economici». Sulle reti di Stato le autorità hanno ammesso «spari ai teppisti facinorosi».

Il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran anche in Iraq

VOTO BOICOTTATO A FEBBRAIO

Le masse sono pronte a disertare il voto il 21 febbraio. Un boicottaggio che farà vincere gli ultraconservatori, i referenti politici dell’apparato di sicurezza in testa alla repressione. In prospettiva anche alle Presidenziali del 2021. Tanto più che a Rohani l’opposizione rinfaccia da sempre l’accordo sul nucleare con gli Usa, affossato da Trump ma mai decollato neanche con Barack Obama a livello economico. Mentre il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran iraniani anche in Iraq: dalle informazioni dell’intelligence americana le forze all’estero dei guardiani della rivoluzione di Khamenei hanno trasportato un arsenale di missili balistici in Iraq, approfittando della confusione e dei rinforzi chiesti dal governo amico di Baghdad. L’effetto paradossale della guerra americana a Saddam Hussein è stata, come per le sanzioni di Trump agli ayatollah, la penetrazione politica e militare dell’Iran nell’Iraq. Come già in Libano e in Siria.

Iran rivolte Iraq guerra pasdaran
Paramilitari sciiti in Iraq, alle porte di Mosul. GETTY.

L’ARSENALE DI MISSILI IN IRAQ

Dal 2003 le milizie sciite irachene (cosiddette Forze di mobilitazione popolare) dei cecchini che sparano sui manifestanti sono state costruite e armate dai pasdaran. Mentre i marines addestravano l’esercito iracheno depurato dai quadri di Saddam Hussein, i governi filosciiti che si sono succeduti a Baghdad – pilotati dagli americani quanto dall’Iran – permettevano la proliferazione di paramilitari che sta prendendo il sopravvento. In Iraq i miliziani sciiti controllano strade, ponti, infrastrutture. Dove nell’ultimo anno, a un ritmo crescente, avrebbero fatto passare in segreto missili iraniani a medio raggio (circa 1000 km) che possono raggiungere Israele. O colpire i contingenti americani nel Paese, come i cinque razzi piovuti sulla base Usa di Ayn al Asad con oltre la metà dei marines in Iraq. Armi balistiche sofisticate, capaci di cambiare traiettoria e di sviare gli scudi aerei. Come è avvenuto lo scorso settembre con l’attacco alle raffinerie saudite.

Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31 del Paese, inclusa la città santa di Mashad

LE RIVOLTE NELLE CITTÀ SCIITE

Un missile, per l’intelligence Usa, partito dall’Iran e virato poi a Nord sul Golfo persico. Per i fortini in Libano, Siria e Iraq, e per sempre nuovi e potenti armamenti, la Repubblica islamica investe miliardi dai budget statali prosciugati dal blocco dell’export e dall’inflazione rampante. In Iraq mancano i servizi e il territorio, da Nord a Sud, è devastato da attentati e guerre. Le proxy war in Medio Oriente dell’Iran logorano milioni di civili. Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31, inclusa la città santa di Mashad. In Iraq si sono rivoltati i santuari dei pellegrinaggi sciiti di Kerbala e Najaf: un duro colpo, il doppio assalto al consolato iraniano di Najaf è un attacco anche simbolico dal cuore degli sciiti. Non a caso, a parole in Iraq i religiosi sciiti si schierano «contro la corruzione» con  i manifestanti. Ma a maggior ragione l’Iran aumenta i presidi militari e anche di religiosi in Iraq. E come in Siria, è ancora l’autoritarismo a vincere.

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Ipo record per Saudi Aramco: vale 1.700 miliardi

Già raccolti 25,6 miliardi di dollari con l'Offerta pubblica iniziale. Superato il primato di Alibaba.

Saudi Aramco raccoglie 25,6 miliardi di dollari con l’Ipo, e mette a segno un nuovo record, superando quella di Alibaba che con la sua quotazione nel 2014 raggiunse i 25 miliardi di dollari. Il colosso petrolifero saudita ha spuntato il prezzo massimo di 32 riyal per azione a una valutazione di 1.700 miliardi di dollari. Il totale degli ordini ha raggiunto i 119 miliardi di dollari. Aramco ancora non ha comunicato quando inizieranno le negoziazioni a Riad.

I SAUDITI PUNTAVANO A 2 MILA MILIARDI

Il risultato finale è comunque diverso rispetto agli obiettivi che originariamente Aramco aveva prefissato. Inizialmente il governo saudita puntava a una valutazione di 2 mila miliardi di dollari, ma l’operazione ha sofferto un processo travagliato dopo una serie di rinvii per le incertezze sul buon esito dell’Ipo che hanno portato a ridimensionare la valutazione del colosso petrolifero saudita e a ridurre dal 5% all’1,5% le azioni in vendita. L’1% del capitale è stato destinato agli investitori istituzionali e il rimanente 0,5% al retail.

FONDAMENTALI GLI INVESTITORI SAUDITI

Aramco ha dovuto fare affidamento sugli investitori sauditi e la tranche riservata agli istituzionali ha attirato offerte per un totale di 397 miliardi di riyal. Per la tranche riservata agli investitori retail la sottoscrizione si era chiusa la scorsa settimana a quota 10,2 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita ha fatto di tutto per assicurarsi il successo dell’Ipo: ha tagliato l’aliquota fiscale per Aramco tre volte, ha promesso il dividendo più grande del mondo e offerto bonus in azioni per investitori al dettaglio. I proventi dell’Ipo verranno trasferiti al Fondo pubblico di investimento, che a suo tempo si era imbarcato in forti investimenti, a partire dai 45 miliardi di dollari impegnati nel Fondo Vision di SoftBank e acquisendo una quota di 3,5 miliardi di dollari in Uber Technologies.

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La presidenza del G20 può essere una svolta vera per l’Arabia saudita

Potrebbe essere un fondamentale trampolino per aprire il Paese al mondo, sia dal punto di vista democratico, sia per dare di sé l'immagine di una Potenza credibile.

Il primo dicembre scorso l’Arabia Saudita ha assunto la presidenza del G20, il gotha economico-finanziario del mondo, per i prossimi 12 mesi. La notizia che in sé non sarebbe né positiva né negativa essendo assegnata a turno a ciascun paese membro del Gruppo, ma trattandosi di un Paese per molti versi oggetto di giudizi contrastanti e prevalentemente critici, soprattutto nel mondo occidentale, pensavo che avrebbe offerto l’occasione per un qualche commento/approfondimento di merito.

Per la verità vi sono stati diversi richiami a questo Paese, ma per macabra ironia essi sono stati focalizzati su un’altra vicenda, l’orrenda uccisione del giornalista Jamal Khashoggi avvenuta giusto un anno addietro, il 2 dicembre del 2018, se le ricostruzioni fatte all’epoca saranno mai convalidate da prove, dato che il cadavere non è stato trovato, né intero né a pezzi.

Ma si sa che la cronaca, soprattutto se relativa ad un delitto efferato – tanto più se associato in qualche modo ad un potente rampollo di casa reale ed erede al trono di una monarchia assoluta– attrae ben più di evento di politica internazionale. Salvo, beninteso, che non riguardi un importante politico italiano, invitato a Riad a fine ottobre a una tavola rotonda sul tema What’s next in economic diplomacy and G20? nella cornice della Future Investment Initiative – la cosiddetta Davos del deserto – assieme al britannico David Cameron.

RIAD DEVE CONVINCERE IL MONDO DI ESSERE UNA POTENZA CREDIBILE

Intendiamoci, lungi da me cercare di dare dell’Arabia Saudita un’immagine edulcorata, ma la lista degli Stati che calpestano i più elementari diritti umani e con i quali abbiamo o vorremmo avere buoni rapporti bilateralmente e come membri dell’Unione europea è molto lunga. Da Mosca a Pechino passando da Caracas a Nuova Delhi, passando per Ankara che ha proprio in Recep Erdogan il grande accusatore della Casa reale saudita e del principe ereditario Mohammed bin Salman, in particolare. Lo facciamo in nome del supremo “interesse nazionale”.

Il G20 offre a Riad un’occasione per imprimere una svolta alla sua stagione di riforme previste nella vasta e ambiziosa Vision 2030

Lasciamo dunque da parte questa schizofrenia moralistica e soffermiamoci sull’evento del G20 che ha una duplice valenza: da una parte perché offre a Riad un’occasione per imprimere una svolta alla sua stagione di riforme previste nella vasta e ambiziosa Vision 2030 che finora è stata fatta calare dall’alto del potere assoluto della Casa reale, la quale non ha avuto e non ha remore nel corredarle di atti repressivi a tutto campo a danno di quanti lottano per introdurre semi produttivi di democrazia. Dall’altra perché nei 12 mesi che seguono sarà chiamata a convincere il mondo, o almeno le altre 19 potenze del pianeta, di essere una credibile forza globale, e non solo economicamente, nella privilegiata situazione di trovarsi al crocevia di Asia, Africa ed Europa.

IL PROCESSO DI TRASFORMAZIONE DEL PAESE VOLUTO DAI SAUDITI

Tre sono in quest’ottica gli sbocchi perseguiti da Riad:

  • Dare più potere alla popolazione, con particolare riferimento alle donne e ai giovani;
  • Salvaguardare il pianeta;
  • Tracciare nuove frontiere specialmente sul terreno dell’innovazione e della tecnologia.

Si tratta di tre mete assai impegnative, molto di più dei risultati raggiunti finora nell’apertura del Paese al mondo che la Casa reale riassume, tra l’altro e in estrema sintesi, nella scomparsa dalle strade della polizia religiosa, dalla cancellazione del bando della musica, della danza e del divertimento, dell’accoglienza dei turisti, dalla autorizzazione data alle donne di guidare un’auto al viaggiare senza il permesso del “guardiano” maschio, di svolgere attività lavorative in continua espansione, etc.. Tutte cose vere e di fatto quasi rivoluzionarie in quel Paese, ma ben lontane dagli standard occidentali.

Il 2020 ANNO DELLA VERITÀ PER L’ARABIA SAUDITA

Il 2020 sarà dunque un anno della verità per questo Paese che ha già annunciato di aver invitato, oltre alle principali organizzazioni internazionali – dalle Nazioni Unite al Fondo monetario internazionale dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico al Gruppo della Banca mondiale, dall’Organizzazione mondiale della sanità all’Organizzazione mondiale del commercio.

Da destra, il ministro degli Esteri giapponese Toshimitsu Motegi e quello dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Faisal, durante il G20 di Nagoya.

Dalla Fao al Consiglio per la stabilità finanziaria all’Organizzazione internazionale del lavoro – una serie di organizzazioni regionali quali il Fondo monetario arabo (Amf), la Banca islamica per lo sviluppo, la Repubblica socialista del Vietnam in qualità di presidente dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), la Repubblica del Sudafrica, in qualità di presidente dell’Unione africana (Ua), gli Emirati Arabi Uniti, in qualità di presidente del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), e la Repubblica del Senegal in qualità di presidente del Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (Nepad). Saranno poi organizzati un centinaio di eventi e conferenze, tra cui riunioni a livello ministeriale e riunioni di funzionari e rappresentanti della società civile.

LA VOLONTÀ DI EMANCIPARSI DAL PETROLIO

Insomma, la presidenza del G20 si prospetta come un fondamentale trampolino per aprire il Regno saudita al mondo, cominciando dall’inaugurazione della prima stagione turistica aperta ai visitatori asiatici e occidentali non musulmani, e proseguendo in un’onda lunga di investimenti, tanti investimenti, per uscire dal ghetto, ancorchè dorato, del petrolio. La quotazione dell’Aramco in Borsa non è stata una travolgente vittoria, ma ha fatto toccare con mano i termini del realismo per un Paese che dal petrolio si vuole emancipare. Una bella sfida il cui esito è tutt’altro che scontato. Lo vedremo e nell’attesa accontentiamoci di un duplice evento sportivo in chiave nostrana ed europea: la finale di Supercoppa italiana il 22 dicembre a Riad e la partenza da Gedda, il 5 gennaio, della prima Parigi-Dakar nei deserti arabici.

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Il premier iracheno Abdul-Mahdi si è dimesso

Dopo due mesi di proteste e circa 400 morti, il capo del governo annuncia il passo indietro. Scaricato anche dalla massima autorità religiosa del Paese.

Il premier iracheno Adel Abdul-Mahdi ha annunciato le dimissioni. Il passo indietro, ufficializzato nel pomeriggio del 29 novembre, arriva all’indomani dell’uccisione di decine di manifestanti anti-governativi nel Sud dell’Iraq e dopo che la massima autorità religiosa sciita irachena, il Grande Ayatollah Ali Sistani, aveva invitato il parlamento iracheno a togliere la fiducia al governo di Adel Abdul Mahdi.

CINQUANTA MORTI IN 24 ORE, 400 IN DUE MESI

Solo nelle ultime 24 ore sono morti 50 manifestanti. Il bilancio complessivo delle proteste in corso da due mesi a Baghdad e nel Sud sciita è di circa 400 vittime. La mattina del 29 novembre, Adel Dakhili, il governatore della regione meridionale di Dhi Qar con capoluogo Nassiriya, teatro nelle ultime 24 ore di sanguinosi scontri tra forze di sicurezza e manifestanti, aveva annunciato le dimissioni in dissenso col governo centrale di Baghdad.

Lo spargimento di sangue è stato causato da forze venute da fuori e senza che il governo centrale informasse le autorità locali

Adel Dakhili, governatore della regione di Dhi Qar

«Lo spargimento di sangue è stato causato da forze venute da fuori della regione di Dhi Qar e senza che il governo centrale informasse le autorità locali», aveva detto Dakhili.

L’APPELLO DI SISTANI AL PARLAMENTO

La spallata decisiva ad Abdul Mahdi è arrivata poco dopo. Nella predica settimanale, tenuta da un rappresentante di Sistani durante la preghiera comunitaria islamica del venerdì nella città santa sciita di Karbala, a Sud di Baghdad, il Grande Ayatollah ha chiesto al parlamento di intervenire per cambiare l’equilibrio politico nel Paese e ascoltare le pressanti richieste della popolazione del sud del Paese. «Il parlamento, da cui il governo trae sostegno, deve rivedere la sua scelta riguardo all’esecutivo considerando gli interessi dell’Iraq», ha detto Sistani, affermando che questa scelta deve esser fatta per «proteggere il sangue dei cittadini (iracheni)».

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La crisi libica si complica, l’Italia batta un colpo

Mentre il conflitto continua e le ingerenze di Russia e Usa si fanno più concrete, sarebbe indispensabile che il nostro Paese si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica. Di Maio ne sarà capace?

La Libia torna vistosamente alla ribalta internazionale: per l’abbattimento di due droni, uno statunitense e uno italiano, per il faro che vi hanno acceso gli incontri Usa con Khalifa Haftar e Fayez al Serraj, per le accuse di destabilizzazione rivolte alla Russia, per le attese riposte nella Conferenza alla quale stanno lavorando i tedeschi.

Non invece per gli sbarchi sulle nostre coste dei migranti provenienti dalla Libia che hanno dominato il dibattito politico nostrano, lasciando che rimanesse preda delle nebbie di una vaga laconicità osservata dalla Difesa in merito alla scomparsa del nostro drone: «Nella giornata odierna è stato perso il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica MilitareMQ9 Reaper (Predator B) – successivamente precipitato sul territorio libico. Il velivolo, che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare Sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche (Tripoli). Sono in corso approfondimenti per accertare le cause dell’evento».

Da allora il silenzio; anche in risposta alla dura reprimenda del portavoce dell’Esercito nazionale libico Ahmed al-Mesmari che nello stesso giorno bollava il volo (area di Tarhuna, roccaforte del generale Haftar a una 70ina di chilometri da Tripoli) come «una violazione dello spazio aereo e della sovranità della Libia». Si è probabilmente voluto evitare di incorrere in ritorsioni suscettibili di mettere a repentaglio il nostro contingente a Misurata anche se altrettanto verosimilmente è stato letto come un segnale di debolezza di cui tenere conto,

CAMBIA IL RAPPORTO DEGLI USA CON HAFTAR

Conforta comunque sapere che il nostro governo si occupa della Libia, e lo fa non solo in relazione al fenomeno migratorio, che pure è un problema per noi importante, ma anche alla sfibrante conflittualità che la attraversa e alle minacce che ne stanno derivando sul terreno della sicurezza di fronte a un riaffiorante terrorismo – dell’Isis ma anche di Ansar al Sharia – che sta investendo un po’ tutta l’area saheliana. Si tratta di una conflittualità che sta inducendo anche gli Usa ha riposizionare il proprio faro su questo Paese anche in termini pubblici. E ciò sia con una robusta sollecitazione al generale Haftar venuta dal Dipartimento di Stato a cessare le operazioni su Tripoli sia con un monito alla Russia di «non sfruttare il conflitto» contro la volontà del popolo libico.

Una serie di indicazioni che stanno facendo emergere un accresciuto supporto militare russo, con attrezzature e mercenari, a fianco di Haftar

Un linguaggio, quello rivolto ad Haftar, ben diverso dal “riconoscimento” della Casa Bianca rivolto da Donald Trump al generale nell’aprile del 2019 per il suo ruolo nella lotta al terrorismo con la cosiddetta operazione Dignità che aveva indotto più di un osservatore a leggere in quel giudizio una sorta di sganciamento da Serraj, il capo del governo riconosciuto internazionalmente, a favore dell’uomo forte della Cirenaica.

Da sinistra, Giuseppe Conte e Haftar.

Un linguaggio che ha segnalato e sta segnalando una rinnovata preoccupazione Oltreoceano per una serie di indicazioni che stanno facendo emergere un accresciuto supporto militare russo, con attrezzature e mercenari, a fianco di Haftar. E forse non è un caso se più o meno in contemporanea un giudice del Tribunale di Stato della Virginia ha emesso un mandato d’arresto contro Khalifa Haftar – che ha anche la cittadinanza americana – per crimini di guerra.

IL RUOLO DELLA RUSSIA PER SOSTENERE IL GENERALE

Su questo sfondo ha colto di sorpresa l’annuncio di Mesmari, portavoce del generale, dell’imposizione di una no fly zone «sopra e intorno all’area delle operazioni militari dentro e intorno a Tripoli». Intanto perché solo Serraj (Tripoli) avrebbe una legittimazione a decretare una misura del genere; poi perché non risulta che quest’ultimo disponga dei mezzi necessari per garantirne il rispetto e infine perché dalla no fly zone sarebbe escluso l’aeroporto di Mitiga, l’unico funzionante nella zona anche se provvisoriamente chiuso per le vicende belliche vi si stanno sviluppando.

L’accusa mossa alla Russia da David Shenker è di aver dispiegato in Libia regolari forze militari in numero significativo per sostenere l’attacco a Tripoli di Haftar

Si tratta di un annuncio che prelude a un’avanzata sulla capitale o semplicemente un segnale di vitalità del contingente armato? Vi ha fatto seguito un incontro svoltosi tra lo stesso Haftar e una delegazione americana di alto livello (vice consigliere per la sicurezza in Medio Oriente e rappresentanti dello stesso Dipartimento di Stato, dell’Energia e delle forze armate) per «discutere i passi necessari per giungere ad una sospensione delle ostilità e una soluzione politica al conflitto libico», sottolineando il pieno supporto degli Stati Uniti a favore della sovranità e integrità territoriale della Libia e la loro preoccupazione per l’azione della Russia.

Vladimir Putin.

Azione che a stretto giro di posta è stata seguita dall’accusa mossa sempre alla Russia da David Shenker, l’Assistant Secretary del Dipartimento di Stato per il vicino oriente, di aver dispiegato in Libia regolari forze militari in numero significativo per sostenere l’attacco a Tripoli del generale Haftar, sottolineandone l’effetto altamente destabilizzante anche perché destinato a provocare un gran numero di vittime civili.

LA CONFERENZA SULLA LIBIA E GLI INTERESSI DELL’ITALIA

Intanto prosegue il lavoro di preparazione della Conferenza sulla Libia da parte tedesca. Con determinazione, ma anche con una punta di scetticismo per l’ostentata negatività che si manifesta da parte dei più stretti collaboratori di Haftar che continuano a dichiarare che non c’è possibilità di alcuna soluzione politica, essendo quella militare ormai l’unica praticabile.

Sarebbe davvero indispensabile che l’Italia, bilateralmente e in seno all’Ue finalmente rinnovata nei sui vertici, si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica

Sarà proprio così? Difficile dire, stante le obiettive difficoltà in cui versano entrambi gli schieramenti e il peso della delusione/frustrazione degli sponsor di Haftar per una guerra che doveva portare in un lampo alla conquista di Tripoli e che dopo sette mesi versa al contrario in uno stallo dal quale nessuna vittoria militare di uno dei due contendenti sull’altro sembra a portata di mano. A meno che, beninteso, non intervenga la classica “mossa del cavallo”, cioè un deciso intervento esterno che nelle condizioni date avrebbe un esito dirompente.

Luigi Di Maio.

Stando così le cose, sarebbe davvero indispensabile che l’Italia, bilateralmente e in seno all’Unione europea finalmente rinnovata nei sui vertici, si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica bilaterale e multilaterale volta a far prevalere le ragioni del negoziato per la stabilizzazione della Libia che stanno alla base della Conferenza in preparazione ad opera della Germania. Non dimentichiamoci mai che in Libia abbiamo anche forti interessi energetici. Ma è lecito chiedersi se il nostro ministro degli Esteri saprà/vorrà muoversi con la necessaria tempestività in tale direzione.

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Giacimento dell’Eni chiuso in Libia a causa dei combattimenti

Attività sospese a El Feel. Le forze fedeli al premier Sarraj e quelle del generale Haftar si stanno scontrando nel Sud del Paese.

Il giacimento di El Feel che si trova nei pressi di Sabha, nel Sud della Libia, è stato chiuso a causa dei combattimenti in corso tra le forze fedeli al governo di Tripoli, presieduto dal premier Fayez al-Sarraj, e quelle del generale Khalifa Haftar. Il giacimento è gestito dall’Eni e dalla Noc, la compagnia petrolifera nazionale libica. Le attività saranno sospese fino al termine delle operazioni militari.

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Per Amnesty la procura suprema egiziana è coinvolta in torture e sparizioni

Per l'organizzazione non governativa i pm responsabili di abusi regolari della legge anti terrorismo che non garantiscono un giusto processo.

La verità sulla morte di Giulio Regeni non è ancora stata scritta e intanto in un nuovo rapporto sull’Egitto diffuso il 27 novembre, Amnesty International ha accusato la Procura suprema per la sicurezza di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo per annullare le garanzie sul giusto processo e perseguire migliaia di persone che hanno criticato il governo in modo pacifico. Il rapporto rivela quelle che Amnesty denuncia come «le complicità della Procura suprema nelle sparizioni forzate, nella privazione arbitraria della libertà, nei maltrattamenti e nelle torture».

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In Siria prende piede il turismo dell’orrore

In Rete sono sempre più comuni offerte di viaggio dedicate a occidentali per «attraversare villaggi in macerie», o per «visitare siti archeologici sull'orlo della distruzione». Tra le mete anche Aleppo.

La Siria sta per entrare nel suo nono anno di guerra, ma il relativo controllo del regime di Bashar al Assad sul suo territorio sta permettendo la nascita di un nuovo fenomeno: il turismo dell’orrore. Secondo quanto riporta il Guardian, su Internet si trovano sempre più agenzie di nicchia che offrono pacchetti di viaggi dedicati a occidentali per «socializzare con i locali mentre si attraversano villaggi in macerie», o per «visitare siti archeologici sull’orlo della distruzione». Attrae anche l’ipotesi di provare «la famosa e cosmopolita vita notturna del centro di Damasco».

LA BASE A DAMASCO

Viaggiare in Siria è sconsigliato da quasi tutti i governi del mondo, ma la capitale è ormai relativamente sicura e sta diventando un punto di partenza per tutti quei viaggiatori che vengono attratti dal fatto che il Paese è stato inaccessibile per tutti questi anni.

ANCHE ALEPPO TRA LE METE

La maggior parte dei tour offerti dalle compagnie offrono visite nella città vecchia di Damasco, al castello di Krak dei Cavalieri vicino a Homs e al sito archeologico di Palmira. L’agenzia cinese Young Pioneer Tours ha in catalogo persino la città di Aleppo, teatro della battaglia più feroce della guerra siriana dal 2012 al 2016 e tutt’ora in rovina.

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Chi sono i foreign fighters dell’Isis che la Turchia vuole rispedire in Europa

Sarebbero 1.200 i cittadini europei catturati in Siria. Molti di loro sono jihadisti che Ankara è pronta a rimpatriare nei Paesi d'origine. Che però, nella mancata comunicazione tra intelligence, non sanno gestirli. Il punto.

L’11 novembre la Turchia ha espulso il primo dei combattenti stranieri dell’Isis trattenuti sul suo suolo, un americano che alla fine sembra essere stato abbandonato sul confine con la Grecia (quindi dell’Ue), rimbalzato più volte tra le polizie. «Non è un nostro problema», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sono seguiti due rimpatri, uno verso la Germania l’altro verso la Danimarca, e nei giorni dopo effettuati decine di voli verso l’Europa. «Centinaia e centinaia ce ne saranno ancora», ha promesso Erdogan e fa sul serio. Chi invece a lungo ha declinato, e declina, le proprie responsabilità sulle migliaia di foreign fighter (gli stranieri partiti per combattere con l’Isis e al Qaeda in Medio Oriente) sono i maggiori governi europei: la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, disconosce questi cittadini, la Francia e il Belgio tentano di farli processare in Iraq, la Germania li accetta ma non sa ancora bene dove mettere le mani.

LE LACUNE DELLE INTELLIGENCE

Ci sono prove o sufficienti elementi per disporre custodie cautelari? È certa alle intelligence la loro identità? In alcuni casi no. Il ministero degli Esteri tedesco ha ammesso di non conoscere ancora tutti i nomi dei concittadini in partenza dalla Turchia, solo un terzo dei rientrati è sotto inchiesta. Si tratta poi di stranieri catturati (circa 2280) dalla coalizione guidata dai curdo-siriani (Ypg) durante la liberazione caotica del Nord della Siria. Combattenti jihadisti detenuti in origine nelle carceri del Rojava, regione invasa questo autunno dalle forze turco-arabe dopo l’improvviso ritiro degli americani. Nell’ultima indagine dell’Egmont Institute si stima che circa 1.200 foreign fighter dell’Europa fossero finiti nelle prigioni curde. Sarebbe stato necessario un gioco di squadra tra i dipartimenti dell’antiterrorismo per ricostruire i percorsi dei sopravvissuti: migliaia di jihadisti stranieri sono morti o dispersi in guerra, alcuni di loro erano tracciati, mentre altri in vita no. Invece i governi occidentali chiamati in causa erigono muri. 

Un foreign fighter arrestato in Italia.
Un foreign fighter arrestato in Italia.

IN ITALIA NESSUN ARRIVO

L’Italia stavolta non fa testo: era tra i Paesi dell’Ue con meno foreign fighter, anche per le dinamiche di immigrazione più recenti. Tra i circa 140 partiti dal nostro Paese, una cinquantina risultano morti, e nel totale solo 25 erano cittadini italiani: tra loro, alcuni sono rientrati in Ue e diversi sono monitorati. Non ci sarebbero italiani in arrivo dalla Turchia: anche all’estero, ha fatto notizia la storia del piccolo Elvin, identificato dall’antiterrorismo italiano nel campo dell’Isis di al Hol, in Siria, e riportato a casa grazie alla collaborazione con le forze curde attraverso un corridoio umanitario tra Damasco e il Libano. Si ha contezza anche di altri bambini italiani nel Nord-Est della Siria sotto il controllo delle Ypg, che si tentano di rimpatriare. In ogni caso le donne e i minori rappresentano un problema nel problema, anche tra i foreign fighter in Turchia: circa due terzi di questi detenuti (ovvero 700) sono bambini tratti in salvo nei combattimenti. Spesso orfani di un genitore (come Elvin della madre), quando non dell’intera famiglia.

IL DESTINO DELLE DONNE RECLUTATRICI

Alcune donne dell’Isis sono rilasciate all’arrivo in Europa, per il ruolo passivo o la mancanza di prove, seguite poi nella de-radicalizzazione come è accaduto in Germania. Altre, come un’altra tedesca subito portata in carcere a Francoforte, sono accusate di avere avuto un ruolo attivo nella rete terroristica. E, quindi, sono considerate ancora pericolose come la combattente e reclutatrice di spose per i miliziani Tooba Gondal: 25enne di origine pachistana, è cresciuta a Londra dove vorrebbe tornare dalla famiglia, ed è ben nota all’intelligence del Regno Unito che le ha vietato il soggiorno. Tooba però, più volte vedova di jihadisti e con diversi figli, ha il passaporto francese. Di conseguenza era nella lista turca di ex membri dell’Isis da rimpatriare in Francia, dove in compenso l’intelligence ha pochi elementi su di lei. Il suo caso, come quello del primo espulso americano, è emblematico del groviglio sul destino dei terroristi cittadini di Stati occidentali che non li vorrebbero indietro.

Isis foreign fighter Turchia Ue
Circa 700 membri dell’Isis europei catturati in Siria sono bambini. GETTY.

LE CITTADINANZE REVOCATE

A questo proposito, negli Stati Uniti un giudice ha appena negato la cittadinanza a una donna dell’Isis, nata e cresciuta nell’Alabama, ma figlia di un diplomatico yemenita all’Onu: condizione che le è valsa l’altolà al rientro dalla Siria. Allo stesso modo il Regno Unito ha revocato la cittadinanza a diversi jihadisti (comprese alcune convertite da Gondal) per i quali si sostiene ci sarebbero gli estremi per la cittadinanza automatica nei Paesi d’origine. E sebbene anche i britannici si siano adeguati all’ultimatum («la Turchia non è un albergo»), lasciando atterrare dei sospetti terroristi, insistono affinché siano «processati nel luogo dove sono stati commessi i crimini», cioè in Siria e in Iraq. Una posizione sostenuta anche dal Belgio, costretto ad «aprire procedure bilaterali» con Ankara, ma con Baghdad si vedrà. Le resistenze sui connazionali nell’Isis restano forti anche in Francia, dove dal 2014 sono rientrati circa 250 affiliati grazie ad accordi con la Turchia. Ma i circa 400 che erano in Siria si vorrebbe fossero giudicati e detenuti in Iraq.

IL GIRO DI DENARO TRA RAQQA, LA TURCHIA E L’UE

A Baghdad c’è la pena di morte, anche le donne dell’Isis colpevoli di gravi reati sono giustiziate, mentre in Francia sconterebbero pene in media di 10 anni. Eppure gli esperti di terrorismo raccomandano di non mettere la testa nella sabbia, anche per ragioni di sicurezza: gli ultimi attacchi non sono stati compiuti da ex foreign fighter, in un modo o nell’altro, tracciati. Ma da cani sciolti come i rifiutati dagli Usa e dall’Ue, o fanatici e fanatiche apolidi o in fuga – con i figli – dai campi di prigionia verso le tante cellule sparse dell’Isis in Siria e in Iraq. E resta il fatto che più di 1000 jihadisti siano a tutti gli effetti cittadini Ue. Vero è che neanche la Turchia può fare il poliziotto buono, sottraendosi alle responsabilità sull’Isis: il dipartimento del Tesoro Usa sta sanzionando aziende turche che hanno rifornito al Baghdadi per anni. Money transfer, cambi valute e gioiellerie aperte dai jihadisti hanno operato anche dal Gran Bazar di Istabul verso Raqqa e gli altri territori dell’Isis. Con ramificazioni in Medio Oriente e fino in Belgio, nel cuore dell’Ue.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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Netanyahu è stato incriminato per corruzione

Il premier a processo per una delle tre inchieste che lo riguardano. È la prima volte che un primo ministro viene accusato di questo reato in Israele.

Il procuratore generale Avichai Mandelblit ha deciso di incriminare per corruzione Benjamin Netanyau in una delle tre inchieste in cui il premier israeliano è coinvolto. Confermate anche le accuse di frode e abuso di ufficio. Le inchieste sono il Caso 1000 (regali da facoltosi uomini di affari) e 2000 (rapporti con l’editore di Yediot Ahronot Arnon Mozes) con frode e abuso di ufficio, mentre per il Caso 4000 (affaire Bezez-Walla) oltre la frode e l’abuso di ufficio c’è anche la corruzione.

PRIMO PREMIER ACCUSATO DI CORRUZIONE IN ISRAELE

È la prima volta nella storia di Israele che un premier in carica è accusato di corruzione. Su tutte le reti nazionali sono in corso edizioni speciali di notiziari sulla vicenda.

LE LACRIME DI COCCODRILLO DI GANTZ

«Un giorno triste per lo Stato di Israele», ha scritto su Twitter il leder centrista Benny Gantz, maggiore rivale di Netanyahu, commentando l’incriminazione.

«È una giornata dura e triste per il popolo israeliano e per me personalmente» ha detto il procuratore generale, «ho deciso con cuore pesante, ma in piena coscienza. Questo era il mio dovere di fronte ai cittadini».

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L’Iran “riformista” delle forche ha mostrato il suo vero volto

Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iran. Ma il regime change per ora è una chimera.

Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da una protesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.

Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.

Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.

L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA

Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.

L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele

L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gaza su Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.

Le proteste in Iraq.

L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.

NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI

Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.

Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie

Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.

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Gantz non riesce a formare un governo: Israele ancora verso il voto

Dopo i tentativi di Netanyahu di trovare una maggioranza, vanno a vuoto anche quelli del rivale del partito Blu Bianco.

Sono falliti i tentativi di Avigdor Lieberman (leader del partito di destra Israel Beitenu) di dar vita a un «governo unitario nazionale e liberale» con il Likud di Benjamin Netanyahu e con i centristi di Benny Gantz, leader di Blu Bianco. Lo ha affermato Lieberman alla Knesset osservando che «a causa della loro mancanza di leadership, esiste il rischio di nuove elezioni». Nella notte tra il 20 e il 21 novembre scade il termine massimo per il premier incaricato Gantz di annunciare la formazione di un governo.

LIEBERMAN CONTRO NETANYAHU E GANTZ

Lieberman ha polemizzato sia con Netanyahu, il quale «non ha voluto separarsi dal blocco dei partiti ortodossi e messianici» sia con Gantz «il quale non ha accettato il tracciato indicato dal presidente Reuven Rivlin» per superare il blocco fra Likud e Blu Bianco. Lieberman ha rilevato che la situazione si è fatta adesso particolarmente preoccupante «a causa delle due sfide con cui Israele deve misurarsi: quella della sicurezza e quella economica». Lieberman ha inoltre accusato i deputati della Lista araba unita di essere «una quinta colonna» nel Paese e ha messo in guardia dal rafforzamento di correnti anti-sioniste che a suo parere si avverte anche nei partiti degli ebrei ortodossi.

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Gantz non riesce a formare un governo: Israele ancora verso il voto

Dopo i tentativi di Netanyahu di trovare una maggioranza, vanno a vuoto anche quelli del rivale del partito Blu Bianco.

Sono falliti i tentativi di Avigdor Lieberman (leader del partito di destra Israel Beitenu) di dar vita a un «governo unitario nazionale e liberale» con il Likud di Benjamin Netanyahu e con i centristi di Benny Gantz, leader di Blu Bianco. Lo ha affermato Lieberman alla Knesset osservando che «a causa della loro mancanza di leadership, esiste il rischio di nuove elezioni». Nella notte tra il 20 e il 21 novembre scade il termine massimo per il premier incaricato Gantz di annunciare la formazione di un governo.

LIEBERMAN CONTRO NETANYAHU E GANTZ

Lieberman ha polemizzato sia con Netanyahu, il quale «non ha voluto separarsi dal blocco dei partiti ortodossi e messianici» sia con Gantz «il quale non ha accettato il tracciato indicato dal presidente Reuven Rivlin» per superare il blocco fra Likud e Blu Bianco. Lieberman ha rilevato che la situazione si è fatta adesso particolarmente preoccupante «a causa delle due sfide con cui Israele deve misurarsi: quella della sicurezza e quella economica». Lieberman ha inoltre accusato i deputati della Lista araba unita di essere «una quinta colonna» nel Paese e ha messo in guardia dal rafforzamento di correnti anti-sioniste che a suo parere si avverte anche nei partiti degli ebrei ortodossi.

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Stretta di Israele contro l’Iran in Siria: raid contro decine di obiettivi

Tel Aviv ha dichiarato di aver risposto a razzi sparati dal Golan: «Non lasceremo che Teheran si radichi oltreconfine».

«In seguito al lancio di razzi verso il Golan ieri da parte di una forza iraniana situata in territorio siriano, Israele ha colpito questa notte decine di obiettivi militari in Siria», ha annunciato il portavoce militare israeliano. Fra l’altro sono stati centrati obiettivi della Forza Quds iraniana ed obiettivi delle forze armate siriane. Israele continuerà a operare contro l’approfondimento della presenza militare iraniana in Siria, ha aggiunto il portavoce. Durante l’attacco, ha aggiunto il portavoce, da una batteria di difesa aerea è stato lanciato un missile verso gli aerei da combattimento israeliani «malgrado i nostri chiari avvertimenti». Di conseguenza – ha precisato – sono state distrutte anche alcune batterie di difesa aerea siriana. L’attacco di ieri verso le alture del Golan, secondo il portavoce, «è una chiara prova a conferma della volontà dell’Iran di mettere radici militari in Siria, cosa che minaccia la sicurezza israeliana, la stabilità regionale ed il regime siriano». Israele, ha precisato, considera il regime siriano responsabile per attacchi lanciati dal proprio territorio verso lo Stato ebraico.

Sono 11 le persone uccise in raid israeliani in Siria nelle prime ore del mattino oggi, fra cui sette non siriani e molto probabilmente iraniani, stando a Rami Abdurrahman che guida l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo lo stesso Osservatorio i raid israeliani hanno avuto come obiettivo arsenali della forza Al Quds iraniana alla periferia di Damasco, nei quartieri di Kisweh e Qudsaya. Sempre secondo Abdurrahman nel mirino dei raid anche altre aree, fra cui la base aerea di Mazzeh dell’ovest di Damasco.

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I leader delle proteste in Iran saranno impiccati

Lo scrive il quotidiano conservatore Kayhan, molto vicino alla Guida suprema Ali Khamenei.

I leader delle proteste contro il rincaro della benzina in corso dal fine settimana in Iran verranno impiccati. Lo sostiene il quotidiano conservatore Kayhan, molto vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, citando fonti giudiziarie, secondo cui i dimostranti sarebbero stati pagati per «creare il caos».

CONTESTATO IL CRIMINE DI RIVOLTA ARMATA CONTRO LA REPUBBLICA ISLAMICA

Il crimine che verrà contestato ai manifestanti, sottolinea il giornale, è noto come Baghi, cioè rivolta armata contro le autorità e i principi del sistema della Repubblica islamica. «Un gruppo di leader dei disordini, che sono stati recentemente arrestati, ha confessato di essere stato incaricato di creare il caos e danneggiare e incendiare le proprietà pubbliche e avevano armi, coltelli e maschere. I colpevoli hanno anche detto di aver ricevuto in cambio denaro e la garanzia di poter lasciare il Paese se fossero stati identificati», aggiunge Kayhan.

La calma è tornata nel Paese e la magistratura sarà dura nell’affrontare e punire presto i rivoltosi

Gholamhossein Esmaili, portavoce della magistratura di Teheran

Secondo il portavoce della magistratura di Teheran, Gholamhossein Esmaili, un «gran numero» di persone, ritenute responsabili di «sabotaggi e disordini» durante le proteste, è stato identificato e verrà arrestato. Esmaili ha aggiunto che tra i ricercati ci sono anche persone accusate di aver inviato video delle manifestazioni a media stranieri. «La calma è tornata nel Paese e la magistratura sarà dura nell’affrontare e punire presto i rivoltosi», ha assicurato il portavoce, invitando la popolazione a fornire informazioni utili a trovare i sospetti.

L’AGENZIA FARS: «UCCISI TRE MEMBRI DELLE FORZE DI SICUREZZA»

Nella notte del 19 novembre, almeno tre membri delle forze di sicurezza iraniane sono stati accoltellati a morte da un gruppo di “rivoltosi” a Ovest della capitale Teheran, secondo l’agenzia Fars, vicina ai Pasdaran. Si tratta di un membro delle Guardie della rivoluzione islamica e di due esponenti delle milizie volontarie Basij. Sale così ad almeno quattro il numero degli agenti di sicurezza uccisi dall’inizio delle manifestazioni in decine di città, il 15 novembre. I manifestanti uccisi sarebbero invece almeno 12, ma secondo informazioni non verificabili di gruppi di attivisti il bilancio effettivo di vittime sarebbe di oltre 40.

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Il bilancio della repressione delle proteste in Iran

Fonti ufficiali hanno confermato 12 morti, ma gruppi di attivisti parlano di oltre 40 vittime. Almeno mille gli arresti.

Sono almeno 12 le vittime tra i manifestanti dall’inizio venerdì notte delle proteste contro il caro benzina in Iran. Lo confermano fonti ufficiali di Teheran, citate dalla Bbc. Secondo notizie non verificabili diffuse da gruppi di attivisti, il bilancio sarebbe in realtà di oltre 40 morti. A seguito delle proteste ci sono stati oltre mille arresti e diverse vittime tra i dimostranti. Almeno un poliziotto è stato inoltre ucciso. Le forze di sicurezza iraniane hanno disperso oggi nuove proteste contro il caro benzina nella capitale Teheran, sparando lacrimogeni e gas urticanti al peperoncino contro i manifestanti.

L’INTERVENTO DEI PASDARAN

I Pasdaran, le Guardie della rivoluzione, hanno avvisato i manifestanti dicendosi pronti a intervenire con la forza per reprimere le dimostrazioni: «I recenti incidenti sono stati provocati dai malvagi funzionari Usa, oltre che dai criminali Mojaheddin del Popolo (Mko) e dall’ignobile famiglia del deposto scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlavi».

IL GOVERNO ANNUNCIA SUSSIDI PER 60 MILIONI DI PERSONE

Da parte sua, il governo ha cercato di calmare la situazione annunciando sussidi statali per 60 milioni di persone. Lo ha riferito il Ministero del Welfare e del Lavoro di Teheran.

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Il bilancio della repressione delle proteste in Iran

Fonti ufficiali hanno confermato 12 morti, ma gruppi di attivisti parlano di oltre 40 vittime. Almeno mille gli arresti.

Sono almeno 12 le vittime tra i manifestanti dall’inizio venerdì notte delle proteste contro il caro benzina in Iran. Lo confermano fonti ufficiali di Teheran, citate dalla Bbc. Secondo notizie non verificabili diffuse da gruppi di attivisti, il bilancio sarebbe in realtà di oltre 40 morti. A seguito delle proteste ci sono stati oltre mille arresti e diverse vittime tra i dimostranti. Almeno un poliziotto è stato inoltre ucciso. Le forze di sicurezza iraniane hanno disperso oggi nuove proteste contro il caro benzina nella capitale Teheran, sparando lacrimogeni e gas urticanti al peperoncino contro i manifestanti.

L’INTERVENTO DEI PASDARAN

I Pasdaran, le Guardie della rivoluzione, hanno avvisato i manifestanti dicendosi pronti a intervenire con la forza per reprimere le dimostrazioni: «I recenti incidenti sono stati provocati dai malvagi funzionari Usa, oltre che dai criminali Mojaheddin del Popolo (Mko) e dall’ignobile famiglia del deposto scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlavi».

IL GOVERNO ANNUNCIA SUSSIDI PER 60 MILIONI DI PERSONE

Da parte sua, il governo ha cercato di calmare la situazione annunciando sussidi statali per 60 milioni di persone. Lo ha riferito il Ministero del Welfare e del Lavoro di Teheran.

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Viaggio al centro della prossima capitale d’Egitto

Un cantiere colossale nel mezzo del deserto. Dove sorgeranno grattacieli, laghi artificiali e il nuovo fulcro del potere. I lavori, però, arrancano. E le incognite si moltiplicano. Dal problema delle forniture idriche al rischio marginalizzazione del Cairo. Il reportage.

Quattordici secoli prima della nascita di Cristo, il faraone Amenofi IV, ribattezzatosi Akhenaton, impose all’Egitto una rivoluzione religiosa, politica e culturale. Abbandonò il politeismo, istituì il culto monoteista del dio-sole Aton e celebrò la nuova era con la costruzione di una nuova capitale Akhetaton (l’orizzonte del disco solare) che nacque nel giro di pochi anni in una striscia di deserto vergine a oriente del Nilo, a metà strada tra Menfi e Tebe. In Egitto è ancora il tempo dei faraoni. Il presidente Abdel Fattah Al Sisi che guida la nazione dal 2014, quando venne eletto con oltre il 90% dei voti per poi essere riconfermato nel 2018, sta costruendo nel deserto, a 45 chilometri a Est del Cairo, la sua nuova capitale. Il progetto di questa città è stato annunciato dal governo nel marzo 2015, l’obiettivo dichiarato è quello di trasferire nel nuovo centro tutti i ministeri e i palazzi governativi, decongestionando così Il Cairo e creando a tutti gli effetti il nuovo centro direzionale della Repubblica araba d’Egitto.

UN COLOSSALE CANTIERE CHE GUARDA VERSO SUEZ

Oggi la città, ancora senza nome, è un colossale cantiere che si raggiunge viaggiando per circa un’ora su sabbiose autostrade percorse solo da mezzi pesanti. Il risultato dovrebbe essere una moderna metropoli capace di ospitare 6 milioni e mezzo di abitanti, un aeroporto internazionale, 650 chilometri di strade, per un’estensione massima di 750 chilometri quadrati, lontana dal caos dell’attuale capitale che ha raggiunto livelli patologici, e nel contempo sufficientemente vicina al porto di Suez che dista 60 chilometri. Si vuole modernizzare il Paese con un’opera capace di attrarre investimenti, rilanciare l’economia, creare 1 milione e 750 mila posti di lavoro e far sorgere una capitale-simbolo concepita come una smart city. L’obiettivo meno dichiarato è quello di rinforzare il potere, creando una moderna fortezza governativa super sorvegliata, abitata solo da ceti medio-alti, allontanando l’amministrazione, le ambasciate e i centri nevralgici del Paese dalle rivolte di piazza che hanno fatto cadere prima il presidente Hosni Mubarak e poi sgretolato il breve interregno di Mohamed Morsi.

TRA GLI INVESTITORI LA CINA È IN PRIMA FILA

Il lavoro è in carico a un’agenzia per lo sviluppo, la Administrative Capital For Urban Development (Acud) che al 51% è partecipata dall’esercito e per il 49% dal ministero dei Servizi pubblici ed è guidata da Ahmed Zaki Abdeen, un ex generale. Un progetto di queste proporzioni richiede enormi risorse. Gli investimenti complessivi stimati ammontano a 58 miliardi di dollari, di cui 8 stanziati per la prima fase. Si conta soprattutto sul supporto di capitali esteri e sulla vendita di lotti di terreno a società, fondi, banche e istituzioni internazionali. L’Egitto ha preso in prestito fino ad oggi 4,5 miliardi di dollari dalla Cina per varare il progetto di una linea ferroviaria con Il Cairo e per erigere i 21 grattacieli, tra cui il più alto d’Africa, che diventeranno il quartiere degli affari. Non tutto però è andato come nelle previsioni. Nella prima fase del progetto, ha dichiarato ad agosto Ahmed Zaki Abdeen, sono stati venduti 7 chilometri quadrati di terreni, alcuni investitori però si sono ritirati dopo alcune promesse iniziali e le compagnie immobiliari che hanno investito hanno pagato solo un piccolo deposito del 2% rispetto al valore dei lotti.

Nel mezzo del deserto il problema maggiore saranno le forniture idriche

La Acud sta cercando di portare al 20% i depositi e si è deciso di raddoppiare il prezzo dei terreni rispetto all’offerta iniziale. Abdeen si è detto ottimista. Ha dichiarato che la sua agenzia è finanziariamente solida, i traguardi sono stati raggiunti e l’interesse internazionale è testimoniato dalla richiesta di 22 Paesi (tra cui Arabia Saudita e Cina) di acquisire i terreni per costruire le loro ambasciate. Ma l’ambiziosissima tabella di marcia che prevedeva una prima operatività nel giugno 2020 rimane di difficile attuazione. Per ora al confine del deserto spuntano panorami popolati da gru e quartieri fantasma. L’immagine da cartolina promossa dalle agenzie immobiliari è quella di un’oasi da sogno con un parco largo il doppio di Central Park, laghi artificiali, viali alberati, un parco tecnologico, piste ciclabili, un quartiere medico, teatri e musei, 40 mila camere d’albergo, un parco di divertimenti grosso 4 volte più di Disneyland e interi chilometri quadrati di pannelli solari.

La Cattedrale della Natività di Cristo, la più grande chiesa cristiana del mondo arabo

LA MOSCHEA E LA CATTEDRALE, OPERE SIMBOLO DELLA NUOVA CAPITALE

I visitatori oggi possono avere solo un’idea di quello che sarà o dovrebbe essere. Il biglietto da visita, già completato e operativo, è una cittadella protetta come un fortino. Qui sorge un hotel a 5 stelle: un tripudio di marmi e lusso con 270 stanze, 14 ville presidenziali, 60 appartamenti, 90 suites, piscine, spiagge artificiali, nove cinema, ristoranti e la più grande e attrezzata convention hall del Medio Oriente. Sono quasi ultimate poi due opere simbolo della nuova capitale, la moschea Al-Fattah Al-Aleem che sarà il più grande luogo di culto islamico del mondo dopo la Mecca e la Cattedrale della Natività di Cristo, la più grande chiesa cristiana del mondo arabo. Due opere monumentali, ma di grande significato politico per il governo di Al Sisi che ama presentarsi come il custode della libertà religiosa in Egitto.

La nuova capitale rischia di abbandonare al suo destino Il Cairo, una megalopoli di circa 20 milioni di abitanti di cui un quinto vive in povertà assoluta

Non è tutto oro quello che luccica. Nel mezzo del deserto il problema maggiore saranno le forniture idriche. La città per mantenersi e per mantenere parchi e viali alberati avrà bisogno di 650 milioni di litri d’acqua al giorno che dovrebbero provenire in gran parte dagli impianti di desalinizzazione di Ain Sokhna, nel golfo di Suez. La sostenibilità idrica ed energetica di questo progetto, in epoca di cambiamenti climatici, è un pesante azzardo. La disponibilità di acqua media pro capite in Egitto è costantemente in calo, si è passati dai 1.893 metri cubi annui del 1959 ai 700 metri cubi del 2012, ben sotto il livello di 1.000 metri cubi che segnano la soglia di povertà idrica. Inoltre, la nuova capitale rischia di abbandonare al suo destino Il Cairo, una megalopoli di circa 20 milioni di abitanti di cui un quinto vive in povertà assoluta e dove interi quartieri sono privi di energia elettrica e fognature.

L’INCOGNITA DELL’INSTABILITÀ POLITICA

Un’altra incognita è rappresentata dall’instabilità politica del Paese. In attesa di spostare il governo nella “sua” capitale, Al Sisi sta cercando con il pugno di ferro di mantenere l’ordine. Nel settembre scorso in occasione di una manifestazione anti-governativa le autorità, secondo Amnesty International, hanno lanciato la più ampia campagna repressiva dall’avvento dell’attuale presidente che ha portato a oltre 2.300 arresti. Piazza Tahrir, simbolo della primavera araba, è oggi recintata e militarizzata. Quando verrà inaugurata la nuova capitale sarà forse destinata a diventare la periferia di un impero. Per molti il progetto è “too big to fail”, troppo ambizioso e grandioso per poter fallire. Ma il faraone Al Sisi non dovrebbe dimenticarsi di Akhenaton. Morì dopo 17 anni di regno, forse in seguito a una congiura di palazzo. Subì una damnatio memoriae: le sue statue vennero distrutte, i suoi monumenti abbattuti, il suo nome cancellato. Non sopravvisse neppure la capitale Akhetaton, abbandonata alle sabbie del deserto dopo la morte del sovrano.

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Chi sono e a chi fanno comodo i terroristi di Jihad islamica

Gli estremisti della Striscia di Gaza sono manovrati da Teheran per destabilizzare Tel Aviv. Che a sua volta li sfrutta per indebolire Hamas. Gli unici sconfitti, così, sono i palestinesi.

Follow the rockets, segui i razzi. La crisi nella Striscia di Gaza è esplosa in settimane cruciali per i governi che, direttamente o indirettamente, sono coinvolti nello scontro. Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che dal 2007 si spartiscono conflittualmente il controllo nell’ordine dell’enclave e dei territori della Cisgiordania, concertano per tornare al voto insieme dopo anni, a febbraio 2020. In Israele si tenta fino all’11 dicembre di formare un governo, finora invano, pena la chiamata straordinaria, per la terza volta da aprile 2019, degli elettori alle urne. L’Iran, attore esterno-chiave, deve fronteggiare le improvvise rivolte a catena nei Paesi che di fatto controlla: l’Iraq e, attraverso il partito e le milizie di Hezbollah, anche il Libano ormai. Al centro del triangolo tra Israele, Palestina e Iran ci sono i razzi dei terroristi di Jihad islamica.

IL SEGNALE DI “BIBI”

L’attacco mirato israeliano che all’alba del 12 novembre ha ucciso a Gaza il capo militare di Jihad islamica della zona Nord della Striscia, Baha Abu al Ata (considerato la mente degli ultimi attacchi contro Israele) e la moglie, ha avuto il disco verde a orologeria del premier israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu mentre il rivale Benny Gantz tenta a fatica di comporre una maggioranza. È assai probabile che, come già “Bibi”, fallisca nell’impresa: trovare la quadra per un appoggio esterno della Lista unita araba sarà molto più difficile, dopo le centinaia di razzi piovuti su Israele in rappresaglia, e dopo gli oltre 30 morti tra i palestinesi per la risposta israeliana. Per Ganz sarà imbarazzante continuare a trattare, per la Lista araba quasi impossibile. Tanto più che Ganz per i palestinesi è l’ex comandante delle guerre su Gaza.

Gaza crisi Jihad islamica Israele Palestina
Il comandante di Jihad islamica Baha Abu al Ata, ucciso da Israele nella Striscia di Gaza. GETTYT.

L’ARSENALE DI JIHAD ISLAMICA

Con l’omicidio di al Ata (e poche ore dopo da quello dell’altro comandante Moawad al Ferraj) in compenso Netanyahu ha dato un segnale forte a chi, nel suo elettorato, vorrebbe un’altra guerra contro la Striscia, e da tempo lo taccia di mollezza verso gli aggressori. Quest’anno i razzi di Jihad islamica hanno lambito Tel Aviv, beffando lo scudo antimissile. La guerra si è evitata perché anche Hamas ha cambiato strategia: per Israele il pericolo più grande ora viene dal movimento estremista minore, ma più direttamente manovrato dall’Iran. Fondato nel 1981, Jihad islamica è addestrata, finanziata e armata dai pasdaran con un arsenale che gli israeliani stimano aver raggiunto la portata di quello di Hamas: gran parte dei razzi sono piccoli e autoprodotti, ma alcuni percorrono 50 miglia. Non per niente il 12 novembre un missile israeliano ha colpito, ferendolo, anche un capo militare di Jihad islamica in Siria.

Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen

LA GUERRA PER PROCURA IRANIANA

Akram al Ajouri, considerato l’anello tra Jihad islamica e l’Iran, è di base in un quartiere di Damasco. Altri esponenti del movimento (terroristico anche per gli Usa, l’Ue e gli altri alleati occidentali) vivono a Beirut, in Libano. I quadri vanno in visita a Teheran, hanno incontrato il presidente iraniano Hassan Rohani, più volte il suo ministro degli Esteri Javad Zarif e i vertici dei pasdaran. Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen: una tattica che aumenta l’instabilità e le divisioni tra palestinesi, ma cementa l’influenza di Teheran e la sua pressione ai diretti confini con Israele, come in Libano con gli Hezbollah. La teocrazia sciita, in questo momento debole in Iraq, può così anche rilanciare la sua propaganda di difensore della Palestina in Medio Oriente.

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Gli ultimi raid israeliani nella Striscia di Gaza. GETTY.

LE DIVISIONI TRA I PALESTINESI

In verità a rimetterci più di tutti dalle proxy war sono come sempre i palestinesi. Anche Hamas, presa dalla gestione politica ed economica della Striscia (pessima quanto si vuole ma una realtà), non può più barricarsi nell’intransigenza della guerra a Israele: l’apertura concreta alle prime elezioni dallo scontro con Fatah è un’altra spina nel fianco per Netanyahu. L’iniezione mensile di milioni di dollari dal Qatar – permessa da Israele – alla Striscia è un compromesso accettato dagli islamisti anche a scopo elettorale, per allentare il blocco e migliorare le condizioni di vita dei due milioni di gazawi. Un piano di de-escalation sabotato sistematicamente da Jihad islamica, che dalla comoda collocazione all’opposizione attrae in compenso le frange più estreme e violente dei miliziani di Hamas.

L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica

LA MIOPIA DI ISRAELE

Con loro un popolo di delusi, non a torto, della “politica” è richiamato dal movimento armato anti-sistema, soprattutto tra i giovani. Jihad islamica è anche il grimaldello dell’Iran per ridurre il margine di manovra sui palestinesi dell’Egitto (con gli Stati Uniti, mediatore delle crisi di Gaza con tutti i gruppi estremisti), diventato una sponda di Israele e degli arcinemici sauditi. Se il tentativo di organizzare le Legislative, e poi le Presidenziali, nei territori occupati e nella Striscia naufragherà, a gioirne saranno tanto gli israeliani quanto gli iraniani. L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica. Ma Jihad islamica è un danno anche per Israele: alla fine dei conti, di questo passo a vincere davvero la guerra dei razzi sarà solo l’Iran.

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Caro Israele, gli omicidi mirati non sono da Stato democratico

È davvero arduo accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da Tel Aviv, che ha sempre fatto una bandiera della sua democraticità.

Il cessate il fuoco concordato tra la Jihad islamica e Tel Aviv con la mediazione dell’Egitto e dell’inviato delle Nazioni Unite deve essere accolto positivamente anche se nessuno può davvero sperare che da quest’intesa possa innescarsi un processo di strutturale de-escalation e quindi di stabilizzazione.

Del resto, si attende ancora la conferma dell’intesa proprio da parte israeliana che peraltro penso non mancherà seppure con qualche distinguo che, c’è da augurarsi, non riguardi la parte relativa all’impegno che sarebbe stato preso da Tel Aviv di non ricorrere più agli omicidi mirati.

Questi, che altri chiamano azioni di killeraggio, non sono a mio avviso accettabili; non lo sono rispetto all’esigenza proclamata della prevenzione di atti di terrorismo, soprattuto se se pianificati da mesi come nel caso in esame. Non lo sono neppure se autorizzati all’unanimità dal governo in ragione della «bomba ad orologeria» che sarebbe stata pianifica dalla Jihadh islamica né se collocati nel perimetro scivoloso della cosiddetta «guerra asimmetrica» che la Jihad islamica sta conducendo.

ISRAELE SI SENTE LIBERO DI UCCIDERE E SI VANTA DELLA SUA DEMOCRAZIA

È davvero arduo infatti accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da uno Stato che si definisce – e viene riconosciuto come tale – democratico. E soprattutto da uno Stato come Israele che fa una bandiera della sua democraticità anche per marcare la differenza esistente, proprio su questo terreno, con i Paesi vicini. Intendiamoci, da questo giudizio non discende neppure la più tenue legittimazione dei lanci delle decine, decine e decine di missili effettuati per ritorsione da parte da parte delle Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad Islamica.

Bibi Netanyahu, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz, aveva nominato a sorpresa, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova Destra Natali Bennett

Una ritorsione del tutto prevedibile da parte di un’organizzazione terroristica che si serve anche dei morti, oltre 30, caduti sotto il fuoco israeliano a fronte delle decine di feriti provocati dai suoi missili in terra israeliana. Prevedibile e certamente messa in conto anche da parte israeliana che evidentemente riteneva di poterne pagare un prezzo sopportabile. Da Bibi Netanyahu in primis che, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz – al quale resta solo una settimana per raggiungere il traguardo – aveva nominato a sorpresa, poche ore prima, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova DestraNatali Bennett, affrettatosi ad annunciare misure speciali di sicurezza.

Il cratere formato da un missile.

Poi ha deciso l’intervento missilistico nel convincimento che avrebbe ottenuto il placet del presidente e l’allineamento al suo fianco dello stesso Benny Gantz che non ha esitato ad affermare che il suo partito porrà sempre la sicurezza dei cittadini prima di qualunque cosa. Non sfugge infatti che con queste operazioni – che Netanyahu ha inteso saldare con un dichiarato, complementare intervento da terra, aria e mare – ha voluto dare un significativo segnale politico al Paese; segnale irrobustito dal messaggio che il bersaglio di Tel Aviv era solo la Jihadh e non Hamas che ha in quest’ultimo un concorrente temibile e che sembra mostrare sensibilità ai contatti propiziati anche dal Cairo per ottenere concessioni da Israele e, complessivamente, un abbassamento della conflittualità.

LA TREGUA RIMANE FRAGILISSIMA

Nello stesso tempo Netanyahu ha inteso inviare un inequivoco segnale anche a Teheran, sponsor della Jiadh islamica sia nella striscia di Gaza sia in Siria con l’altro attentato nel quale si è peraltro mancato il bersaglio principale, in un momento in cui l’Iran incontra difficoltà a sostenere i suoi proxies nella regione ma con i quali non intende allentare la presa. E proprio da Teheran che per bocca di Abbas Mousavi, il portavoce del ministero degli Esteri, è venuta la reazione più forte, non solo con la condanna degli attacchi missilistici, bollati come veri e propri crimini di guerra, ma anche con il vigoroso appello alla necessità che Tel Aviv sia perseguita e punita nei tribunali internazionali e con una dura critica «al silenzio e all’inazione» delle organizzazioni e della comunità internazionale contro l’aggressione e gli atti terroristici del regime sionista. Il tutto assortito dell’elogio dell’eroica resistenza del popolo palestinese contro gli «usurpatori».

Il raid israeliano un crimine contro il nostro popolo a Gaza

Abu Mazen, presidente della Palestina

Scontata a questo riguardo la reazione del presidente palestinese Abu Mazen che da Ramallah, in Cisgiordania, ha definito il raid israeliano «un crimine contro il nostro popolo a Gaza», così come la denuncia turca dell’aggressione israeliana. E per contro il sostegno bipartisan espresso nei riguardi Tel Aviv da parte americana (segnatamente da Mike Pence e da Joe Biden) mentre la Ue si è limitata a invitare le parti al contenimento mentre, curiosamente, si pubblicizzava la decisione di imporre la pertinente etichetta sui prodotti provenienti dai territori occupati; decisione avversata da Tel Aviv e naturalmente salutata con favore da parte palestinese (e non solo) come un passo importante nella direzione giusta.

Truppe israeliane.

La tregua raggiunta nelle ultime 24 ore è fragile e non solo perchè il suo annuncio è stato accompagnato da una serie di violazioni da una parte e dall’altra ma anche perché la Jihadh islamica è etero-diretta e non è detto che Teheran voglia favorire un percorso suscettibile di favorire la politica di contrasto israeliano ai proxies iraniani nel quadrante regionale che va da Gaza, per l’appunto, al Libano e alla Siria. Così come non è scontato che Netanyahu non abbia nei suoi calcoli altre azioni di forza. Penso che in ogni caso il bilancio dell’operazione – che è costata 34 morti, e solo da parte palestinese, mentre da parte israeliana si lamentano solo 63 feriti – non rappresenti un incoraggiamento alla pace.

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L’Iran e i suoi missili dietro l’attacco da Gaza su Israele

È la Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani a definire la strategia degli attacchi e a rifornire di razzi la Jihad islamica palestinese. Un'azione che rischia di riportare la guerra nella Striscia.

Jihad islamica, agli ordini diretti dell’Iran, sta sommergendo il Sud di Israele di razzi diretti da Gaza contro la popolazione civile.

Questa aggressione a freddo a Israele si inserisce non sulle tensioni israelo-palestinesi (è in atto da mesi a Gaza una tregua funzionante tra Hamas e Gerusalemme) ma nella politica di attacco che l’Iran sta dispiegando da tre anni in qua (dopo gli sciagurati accordi sul nucleare voluti da Barack Obama) installando in Siria, in Libano e a Gaza non meno di 3 mila ogive missilistiche e razzi destinati alla «Entità Sionista».

Una politica di usura aggressiva da tutti i territori confinanti con Israele a Nord, a Est e a Sud, che risponde alla strategia degli ayatollah di preparare e avvicinarsi all’obiettivo strategico principale della rivoluzione iraniana, ribadito anche dalla cosiddetta “ala riformista” di Teheran: «Cancellare Israele dalla faccia della terra».

LEGGI ANCHE: Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

CENTINAIA DI RAZZI DA GAZA VERSO ISRAELE

La gravità di questi attacchi proditori è tale che lo stesso coordinatore speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio oriente, Nickolay Mladenov, lo ha nettamente condannato: «Il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro centri abitati è assolutamente inaccettabile e deve cessare immediatamente. Non ci può essere giustificazione per gli attacchi contro i civili».

Una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore

Più di 400 razzi sono stati lanciati tra martedì 12 e mercoledì 13 novembre da Gaza verso i centri abitati delle cittadine israeliane di Ashkelon e Sderot, il 90% sono stati intercettati dal sistema anti missile israeliano Iron Dome e non si registrano al momento vittime, ma una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore, mentre si trovava in un rifugio.

HAMAS È ESTRANEA ALL’AGGRESSIONE

Il lancio di razzi era iniziato venerdì 8 novembre e la reazione di Israele è stata immediata: con missili guidati ha ucciso lunedì 11 nella sua abitazione a Gaza il capo della Jihad islamica della zona Nord di Gaza Au al Atta e martedì un altro dirigente, Moawad al Ferraj. È fondamentale notare che Hamas, che governa e controlla la Striscia, è estranea a questa demenziale aggressione contro Israele (nulla, dal punto di vista militare, ma devastante per gli israeliani delle zone colpite dal punto di vista umano) che è invece opera della Jihad islamica, un gruppo che è alle dirette dipendenze della Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani comandata dal generale Ghassem Suleimaini. Gli stessi Pasdaran riforniscono tramite il Sinai questi razzi, tutti di fabbricazione iraniana, alla Jihad islamica. Israele ha risposto a questa ennesima – e del tutto gratuita – aggressione con bombardamenti di sedi della Jihad islamica nella Striscia che a mercoledì 13 novembre hanno fatto 23 morti tra i suoi militanti.

LA PAURA DI UNA NUOVA GUERRA NELLA STRISCIA

Naturalmente, la preoccupazione maggiore è che questa aggressione irano-palestinese a Israele inneschi una nuova guerra a Gaza, ma Hamas, a oggi, ha dato segno di non avere intenzione di fare saltare la tregua siglata con Israele con la mediazione egiziana e anche se non fa nulla per impedire alla Jihad islamica di continuare la sua provocazione, anche se la “copre” politicamente, si è ben guardata dal fare atti di aggressione diretta contro Israele.

Un dimostrante palestinese.

Il governo israeliano ha per ora preso atto della prudente posizione di Hamas e non ha colpito nessun suo obiettivo a Gaza. Ma la situazione è sul filo del rasoio. Naturalmente, tutte le forze politiche israeliane hanno dato il pieno appoggio alla risposta decisa dal governo – incluse le uccisioni mirate dei dirigenti della Jihad islamica – ma è evidente il riflesso di queste tensioni nella difficile fase della formazione di un governo a Gerusalemme affidata al generale Benny Gantz, dopo il fallimento del tentativo di Bibi Netanyhau.

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Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

Stop a raid e lanci di razzi dopo la mediazione di Onu ed Egitto. Nella notte nuovo bombardamento di Tel Aviv contro un miliziano della Jihad islamica. E il bilancio delle vittime sale a 34 morti. La situazione.

Pare essere tornata la calma lungo la Striscia. Grazie a una mediazione dell’Egitto è stato infatti raggiunto un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Gaza.

L’intesa è stata confermata anche dalla Jihad islamica. Un suo portavoce, Mussab al-Breim, ha confermato che l’accordo è entrato in vigore nella mattinata del 14 novembre. «L’occupazione (Israele, ndr) ha accettato le condizioni dettate dalla resistenza», ha affermato.

Luce verde alla tregua anche dall’esercito israeliano che ha confermato la fine all’operazione “Cintura nera“, nome in codice con cui le forze armate hanno definito lo scontro di questi giorni. L’esercito ha poi sottolineato di aver raggiunto i suoi obiettivi sferrando «un duro colpo» alla Jihad islamica e alle sue capacità belliche. Ora, ha aggiunto il portavoce militare, citato dai media, il focus sarà rivolto al nord alle minacce degli alleati dell’Iran.

DECISIVA LA MEDIAZIONE DI EGITTO E ONU

L’inviato delle Nazioni Unite nell’area, Nickolay Mladenov ha spiegato che «L’Egitto e l’Onu hanno lavorato duramente per prevenire che la più importante escalation dentro e fuori Gaza arrivasse ad una guerra». Secondo Mladenov «le prossime ore e giorni saranno critiche». «Tutti», ha aggiunto su Twitter, «devono mostrare massimo controllo e fare la loro parte per impedire un bagno di sangue. Il Medio Oriente non ha bisogno di nuove guerre».

TOLTE RESTRIZIONI IN ISRAELE

Tutte le aree di Israele, ad eccezione delle aree attorno alla Striscia, possono tornare alla vita normale e sono ritirate le restrizioni sulle scuole, sugli assembramenti e sulle zone di lavoro. Lo ha annunciato il Fronte del Comando interno di Israele dopo il cessate il fuoco raggiunto tra le parti.

ULTIMI RAID NELLA NOTTE: UCCISE SEI PERSONE

Nella notte un nuovo raid aereo israeliano ha ucciso sei componenti di una famiglia nel centro della Striscia. La radio al-Aqsa di Hamas ha riferito che le vittime includono genitori e figli. Testimoni nella città di Deir al-Balah affermano di aver sentito due esplosioni, seguite dal suono delle sirene delle ambulanze. Secondo la radio militare israeliana, Ramsi Abu Malhus, il capo della famiglia rimasto ucciso a Deir el-Balah, era il comandante dei lanciatori di razzi della Jihad islamica nel settore centrale della Striscia di Gaza. «Negli ultimi giorni, come in passato, aveva partecipato attivamente ai lanci di razzi verso Israele«, ha aggiunto l’emittente.

34 MORTI DALL’INIZIO DEI RAID

Sale così a 34 il numero di palestinesi uccisi nell’escalation della violenza tra Israele e Gaza iniziata con l’uccisione di un comandante della Jihad islamica palestinese con un raid aereo martedì 12 novembre. Tra i morti ci sono 16 miliziani e almeno una donna e tre minori. Secondo il ministero della sanità di Gaza citato dall’agenzia Wafa, il numero dei feriti è di 113.

SIRIENE D’ALLARME LUNGO LA STRISCIA

Nel corso della mattinata le sirene di allarme sono risuonate in Israele, in una località vicina a Gaza. Nonostante il cessate il fuoco annunciato, cinque razzi sono stati lanciati verso le zone sud di Israele dove poco prima sono risuonate le sirene di allarme. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui due dei razzi sono stati intercettati dall’Iron Dome.

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Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

Stop a raid e lanci di razzi dopo la mediazione di Onu ed Egitto. Nella notte nuovo bombardamento di Tel Aviv contro un miliziano della Jihad islamica. E il bilancio delle vittime sale a 34 morti. La situazione.

Pare essere tornata la calma lungo la Striscia. Grazie a una mediazione dell’Egitto è stato infatti raggiunto un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Gaza.

L’intesa è stata confermata anche dalla Jihad islamica. Un suo portavoce, Mussab al-Breim, ha confermato che l’accordo è entrato in vigore nella mattinata del 14 novembre. «L’occupazione (Israele, ndr) ha accettato le condizioni dettate dalla resistenza», ha affermato.

Luce verde alla tregua anche dall’esercito israeliano che ha confermato la fine all’operazione “Cintura nera“, nome in codice con cui le forze armate hanno definito lo scontro di questi giorni. L’esercito ha poi sottolineato di aver raggiunto i suoi obiettivi sferrando «un duro colpo» alla Jihad islamica e alle sue capacità belliche. Ora, ha aggiunto il portavoce militare, citato dai media, il focus sarà rivolto al nord alle minacce degli alleati dell’Iran.

DECISIVA LA MEDIAZIONE DI EGITTO E ONU

L’inviato delle Nazioni Unite nell’area, Nickolay Mladenov ha spiegato che «L’Egitto e l’Onu hanno lavorato duramente per prevenire che la più importante escalation dentro e fuori Gaza arrivasse ad una guerra». Secondo Mladenov «le prossime ore e giorni saranno critiche». «Tutti», ha aggiunto su Twitter, «devono mostrare massimo controllo e fare la loro parte per impedire un bagno di sangue. Il Medio Oriente non ha bisogno di nuove guerre».

TOLTE RESTRIZIONI IN ISRAELE

Tutte le aree di Israele, ad eccezione delle aree attorno alla Striscia, possono tornare alla vita normale e sono ritirate le restrizioni sulle scuole, sugli assembramenti e sulle zone di lavoro. Lo ha annunciato il Fronte del Comando interno di Israele dopo il cessate il fuoco raggiunto tra le parti.

ULTIMI RAID NELLA NOTTE: UCCISE SEI PERSONE

Nella notte un nuovo raid aereo israeliano ha ucciso sei componenti di una famiglia nel centro della Striscia. La radio al-Aqsa di Hamas ha riferito che le vittime includono genitori e figli. Testimoni nella città di Deir al-Balah affermano di aver sentito due esplosioni, seguite dal suono delle sirene delle ambulanze. Secondo la radio militare israeliana, Ramsi Abu Malhus, il capo della famiglia rimasto ucciso a Deir el-Balah, era il comandante dei lanciatori di razzi della Jihad islamica nel settore centrale della Striscia di Gaza. «Negli ultimi giorni, come in passato, aveva partecipato attivamente ai lanci di razzi verso Israele«, ha aggiunto l’emittente.

34 MORTI DALL’INIZIO DEI RAID

Sale così a 34 il numero di palestinesi uccisi nell’escalation della violenza tra Israele e Gaza iniziata con l’uccisione di un comandante della Jihad islamica palestinese con un raid aereo martedì 12 novembre. Tra i morti ci sono 16 miliziani e almeno una donna e tre minori. Secondo il ministero della sanità di Gaza citato dall’agenzia Wafa, il numero dei feriti è di 113.

SIRIENE D’ALLARME LUNGO LA STRISCIA

Nel corso della mattinata le sirene di allarme sono risuonate in Israele, in una località vicina a Gaza. Nonostante il cessate il fuoco annunciato, cinque razzi sono stati lanciati verso le zone sud di Israele dove poco prima sono risuonate le sirene di allarme. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui due dei razzi sono stati intercettati dall’Iron Dome.

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I segreti dei Navy seal italiani in missione in Iraq contro l’Isis

I militari feriti erano parte di un contingente ristretto altamente selezionato. In missione per il training e l'assistenza ad azioni antiterrorismo non convenzionali. Cosa c'è dietro le operazioni contro i talebani e l'Isis e l'impenetrabilità sui loro ingaggi.

La Task force 44 degli incursori della marina (Goi) e dell’esercito (Col Moschin) colpita dall’attentato in Iraq rivendicato dall’Isis nell’area settentrionale tra le città di Kirkuk e Suleymania, è tra i contingenti italiani più enigmatici dell’estero. Al di là dell’incarico ufficiale di «mentoring e di training delle forze di sicurezza irachene impegnate nella lotta all’Isis», precisato nella nota della Difesa sull’accaduto, nulla si saprà nel dettaglio sulle operazioni affidate ai cinque italiani feriti nel Nord dell’Iraq il 10 novembre 2019. Fino a che punto in particolare l’assistenza ai militari del Paese, iracheni e curdi, si spinga a interventi sul campo e di che natura sia questa assistenza, è no comment.

iraq-attentato-militari-italiani

NON ADDESTRATORI DI ROUTINE

Si può ragionevolmente ipotizzare, sulla base delle missioni, che è emerso (da inchieste giornaliste o da ammissioni ex post, degli stessi governi) dalla Task force 44 in Iraq, negli anni precedenti, o della Task force gemella 45 operativa in Afghanistan contro i talebani, che i militari italiani feriti dall’ordino artigianale esploso (Ied) non fossero a sminare l’area. Un compito fin troppo elementare, come anche l’addestramento di base dei peshmerga curdi e della fanteria irachena, che l’Italia istruisce e allena con la missione Prima Parthica. Come parte della coalizione internazionale Inherent Resolve, costituita nel 2014 contro l’Isis e a guida americana.

GLI INVISIBILI DI PRIMA PARTHICA

Il centinaio di unità di elité stimate nella Task force 44 sono una parte molto ristretta dei 1.100 militari italiani (scesi poi di alcune centinaia) mandati in Iraq per contrastare l’Isis a partire dal 2014. Soprattutto sono una parte sconosciuta, non palesata all’approvazione delle missioni all’estero in parlamento. Unità impiegate semmai per formare corpi di élite antiterrorismo iracheni. Che vuol dire anche guidarli e assisterli, come avveniva nell’Operazione Sarissa in Afghanistan della Task force 45, in esplorazioni speciali, azioni talvolta dirette contro terroristi. Operazioni di cosiddetta guerra non convenzionale. Anche per trovare materiale utile per l’intelligence italiana e le alleate.

Le missioni affidate alle unità speciali italiane degli incursori sono per definizione coperte dal segreto militare

L’ASSISTENZA IN AZIONI COPERTE

Le missioni affidate alle unità speciali italiane degli incursori (anche di corpi scelti dei carabinieri e dell’aeronautica, presenti in task force di questa natura in Medio Oriente) sono per definizione coperte dal segreto militare: contingenti di élite, militari bravissimi in special modo sembra gli italiani, considerati i migliori addestratori al mondo e voluti per lavorare a stretto contatto soprattutto con i corpi scelti americani. Impegnati quest’ultimi in operazioni antiterrorismo, anche in Libia contro al Qaeda ma più platealmente e di recente in Iraq, che i loro vertici non avrebbero mai palesato se non a missione compita. Con la morte per esempio del capo dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi.

Gli incursori del reggimento d’assalto Col Moschin (Wikipedia).

OBIETTIVO: NEUTRALIZZARE I TERRORISTI

La richiesta di una task force per l’Iraq di unità di questo tipo dall’Italia fu rivelata nel 2015 da un’inchiesta de l’Espresso che parlò di un gruppo di «pochi uomini delle forze speciali che colpiscono con discrezione ed efficacia estrema», e di «tanti istruttori, pronti però anche a combattere spalla a spalla con i soldati che addestrano». Dagli accordi di mentoring siglati – per la «neutralizzazione di bersagli di alto valore», si scriveva – , dopo l’Afghanistan che è stato un laboratorio per questo tipo di missioni antiterrorismo, erano pronte secondo indiscrezioni a essere dislocate forze simili in Somalia e in Iraq. Un anno dopo il Fatto Quotidiano tornò a raccontare della «guerra segreta dell’Italia» all’Isis.

Nel 2016 la Task force 44 fu in azione in Iraq durante le offensive contro l’Isis, allora nell’Al Anbar

L’OPERAZIONE CENTURIA

Operazioni militari condotte in Iraq dalle «forze speciali e decise dal governo all’insaputa del parlamento». Da «autorevoli fonti militari», il quotidiano aveva appreso di azioni della «Task force 44» nell’area che nel 2016 era teatro delle principali offensive anti-Isis. Un contingente selezionato, secondo le fonti, ridotto di un centinaio di unità rispetto a quello analogo in Afghanistan, come lasciava intendere anche il nome della nuova operazione Centuria. Degli italiani in azione tra Falluja e Ramadi ne parlavano allora anche i marines, per una missione inquadrata nell’intervento internazionale legittimato dall’Onu del quale è parte anche Prima Parthica. Ma «cosa ben diversa» si specificava da essa.

I NAVY SEAL ITALIANI

Del Comando interforze per le operazioni delle forze speciali (Cofs) italiane fanno parte gli incursori del 9° reggimento d’assalto della Folgore (Col Moschin), della Marina (Comsubin-Goi), del 17° stormo dell’aeronautica e il Gruppo di intervento speciale (Gis) dei carabinieri, affiancati spesso dai parà di ricognizione (185° reggimento) della Folgore e dai ranger alpini (4° reggimento). Il Gis fu creato negli Anni 70 per sconfiggere il terrorismo in Italia. In questi mesi e ancor più dalla morte di al Baghdadi, le intelligence segnalano una recrudescenza degli attacchi jihadisti nel Nord dell’Iraq, soprattutto nell’area di Kirkuk (oltre 30 solo nella prima metà di ottobre) e un aumento di cellule dell’Isis.

DINAMICA E ZONA INCERTE

I militari del commando italiano colpiti dalla bomba artigianale avanzavano a piedi: nel convoglio c’erano anche blindati, ma un pattuglia era a terra. In una zona non ancora identificata con precisione. Da fonti proprie, l’agenzia Ansa ha riportato che si tratterebbe della zona di Suleymania, dentro la Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Altre fonti indicano invece l’area a Sud-Ovest di Kirkuk, sul confine interno con la regione, dove avrebbe ora sede la Task Force 44, proprio con il compito di addestrare corpi scelti iracheni di antiterrorismo e forze speciali curde. A la Repubblica più ufficiali dei peshmerga hanno smentito un coinvolgimento curdo nelle operazioni dell’attacco agli italiani.

Fino a che punto l’assistenza antiterrorismo a corpi scelti iracheni può diventare aiuto in scontri e battaglie?

I reparti antiterrorismo Gis dei carabinieri.

CON I CORPI SCELTI DI BAGHDAD?

I connazionali si sarebbero invece trovati in una zona dove erano attive le forze di Baghdad. Sunniti, non è escluso anche sciiti sostenuti dai reparti speciali all’estero dei pasdaran iraniani. E fino a che punto la formazione e l’assistenza antiterrorismo a corpi scelti iracheni può diventare aiuto in scontri e battaglie contro cellule o gruppi dell’Isis? Al confine con il Kurdistan iracheno sarebbe entrata in azione anche l’aeronautica. Un contingente di addestratori italiani molto specializzati, del corpo dei carabinieri, opera poi anche a Baghdad con gli agenti della polizia federale da dislocare nelle zone liberate dall’Isis. La maggioranza dei militari di Prima Parthica (circa 350) si trova invece a Erbil.

LA RIVENDICAZIONE DELL’ISIS

Nella capitale del Kurdistan iracheno si addestrano di routine i peshmerga. A scanso di equivoci, la Task force 44 non ha mai fatto parte neanche della brigata di fanteria Friuli in missione, fino al marzo 2019, a presidio della diga di Mosul dopo la liberazione della capitale irachena dei territori dell’Isis. L’attacco in Iraq agli italiani, rivendicato dall’Isis, è avvenuto alla vigilia dell’anniversario della strage di Nassiriya il 12 novembre 2003. Ma si ritiene che non avesse come target gli italiani. Piuttosto genericamente chi combatte sul campo i terroristi islamici, come il primo ottobre per la bomba al convoglio militare in Somalia. Dove opera un’altra task force speciale italiana contro gli al Shabaab.

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La lettera inedita di Trump a Erdogan sulle sanzioni per gli S-400 russi

Dopo il messaggio sulle operazioni in Siria, il presidente Usa ha mandato una seconda missiva minacciando contromisure relative al sistema missilistico di difesa.

Il presidente americano Donald Trump ha mandato una seconda lettera all’omologo turco Recep Tayyip Erdogan dopo quella trapelata a metà ottobre in cui lo ammoniva riguardo all’operazione nel Nord della Siria. Nel secondo messaggio, che risale a una settimana fa, Trump ha avvisato Erdogan che avrebbe imposto sanzioni alla Turchia per l’acquisto del sistema anti-missilistico S-400 dalla Russia. Lo fa sapere il quotidiano online Middle East Eye in esclusiva. Il tycoon si sarebbe anche detto disposto a riammettere la Turchia nel programma F-35 a patto che Ankara tenga spenti i sistemi difensivi russi. Il 13 novembre i due si incontreranno a Washington, e il tema degli S-400 sarà al centro del bilaterale insieme alle operazioni turche in Siria.

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La lettera inedita di Trump a Erdogan sulle sanzioni per gli S-400 russi

Dopo il messaggio sulle operazioni in Siria, il presidente Usa ha mandato una seconda missiva minacciando contromisure relative al sistema missilistico di difesa.

Il presidente americano Donald Trump ha mandato una seconda lettera all’omologo turco Recep Tayyip Erdogan dopo quella trapelata a metà ottobre in cui lo ammoniva riguardo all’operazione nel Nord della Siria. Nel secondo messaggio, che risale a una settimana fa, Trump ha avvisato Erdogan che avrebbe imposto sanzioni alla Turchia per l’acquisto del sistema anti-missilistico S-400 dalla Russia. Lo fa sapere il quotidiano online Middle East Eye in esclusiva. Il tycoon si sarebbe anche detto disposto a riammettere la Turchia nel programma F-35 a patto che Ankara tenga spenti i sistemi difensivi russi. Il 13 novembre i due si incontreranno a Washington, e il tema degli S-400 sarà al centro del bilaterale insieme alle operazioni turche in Siria.

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