L’Isis ha ucciso due sacerdoti nel Nord-Est della Siria

L'agguato è avvenuto nella regione di Deyr el-Zor, controllata dalle forze curdo-siriane. Pubblicata la foto del documento d'identità di una delle due vittime.

Due sacerdoti cristiani sono stati uccisi nel Nord-Est della Siria in un agguato rivendicato dall’Isis. Due sicari hanno aperto il fuoco contro l’auto su cui viaggiavano. Secondo i media locali il duplice omicidio è avvenuto nel distretto di Busayra, nella regione di Deyr el-Zor, controllata dalle forze curdo-siriane.

LEGGI ANCHE: La Turchia ha avviato le espulsioni dei foreign fighter dell’Isis

Il gruppo terroristico ha pubblicato un messaggio sui social network con la foto del documento d’identità di uno dei due preti: si tratta di Ibrahim Hanna Bidu, appartenente alla Chiesa armena cattolica della regione orientale siriana della Jazira. Non si conosce l’identità del secondo prelato e non è chiaro se l’altra vittima fosse effettivamente un prete o un accompagnatore.

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L’Isis ha ucciso due sacerdoti nel Nord-Est della Siria

L'agguato è avvenuto nella regione di Deyr el-Zor, controllata dalle forze curdo-siriane. Pubblicata la foto del documento d'identità di una delle due vittime.

Due sacerdoti cristiani sono stati uccisi nel Nord-Est della Siria in un agguato rivendicato dall’Isis. Due sicari hanno aperto il fuoco contro l’auto su cui viaggiavano. Secondo i media locali il duplice omicidio è avvenuto nel distretto di Busayra, nella regione di Deyr el-Zor, controllata dalle forze curdo-siriane.

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Il gruppo terroristico ha pubblicato un messaggio sui social network con la foto del documento d’identità di uno dei due preti: si tratta di Ibrahim Hanna Bidu, appartenente alla Chiesa armena cattolica della regione orientale siriana della Jazira. Non si conosce l’identità del secondo prelato e non è chiaro se l’altra vittima fosse effettivamente un prete o un accompagnatore.

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Ex 007 inglese trovato morto a Istanbul: addestrava i Caschi Bianchi

Il cadavere dell'ex agente britannico James Le Mesurier rinvenuto nel centro della capitale turca. Con la sua Ong appoggiava il famoso gruppo di soccorritori in Siria.

Un ex agente dei servizi segreti inglesi e fondatore di una Ong che addestrava i gruppi di soccorritori dei Caschi Bianchi in Siria, James Gustaw Edward Le Mesurier, è stato trovato morto stanotte vicino alla sua casa nel centro di Istanbul. Secondo l’Afp, sarebbe precipitato dal balcone del suo appartamento: il suo corpo aveva fratture alle gambe e alla testa. Le autorità turche hanno fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sulla sua morte. Ex ufficiale dell’esercito britannico, Le Mesurier aveva fondato la Mayday Rescue, con sedi a Istanbul e Amsterdam e finanziamenti dall’Onu e da vari governi. Nei giorni scorsi, la Russia lo aveva accusato di essere una spia camuffata da operatore umanitario.

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Ex 007 inglese trovato morto a Istanbul: addestrava i Caschi Bianchi

Il cadavere dell'ex agente britannico James Le Mesurier rinvenuto nel centro della capitale turca. Con la sua Ong appoggiava il famoso gruppo di soccorritori in Siria.

Un ex agente dei servizi segreti inglesi e fondatore di una Ong che addestrava i gruppi di soccorritori dei Caschi Bianchi in Siria, James Gustaw Edward Le Mesurier, è stato trovato morto stanotte vicino alla sua casa nel centro di Istanbul. Secondo l’Afp, sarebbe precipitato dal balcone del suo appartamento: il suo corpo aveva fratture alle gambe e alla testa. Le autorità turche hanno fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sulla sua morte. Ex ufficiale dell’esercito britannico, Le Mesurier aveva fondato la Mayday Rescue, con sedi a Istanbul e Amsterdam e finanziamenti dall’Onu e da vari governi. Nei giorni scorsi, la Russia lo aveva accusato di essere una spia camuffata da operatore umanitario.

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La Turchia ha avviato le espulsioni dei foreign fighter dell’Isis

Il primo miliziano a essere rimpatriato è stato un cittadino americano. Nelle prigioni di Ankara ci sono 1.200 terroristi.

La Turchia ha espulso il primo foreign fighter dell’Isis detenuto nelle sue carceri. Si tratta di un cittadino americano, secondo quanto riferito dal portavoce del ministero dell’Interno. Altri sette jihadisti tedeschi del Califfato saranno espulsi giovedì.

PRONTI AL RIMPATRIO ANCHE UN DANESE E UN TEDESCO

«Un terrorista straniero americano è stato espulso dalla Turchia dopo che tutti i passaggi» burocratici «sono stati completati», ha spiegato il portavoce di Ankara, Ismail Catakli. Entro l’11 novembre saranno espulsi anche «un terrorista foreign fighter tedesco» e uno danese, che si trovavano in centri di detenzione per stranieri, ha aggiunto il portavoce, che non ha fornito altre informazioni per identificare i jihadisti.

ERDOGAN PROMETTE L’ESPULSIONE DEI FOREIGN FIGHTER

L’intenzione del governo di Recep Tayyip Erdogan di avviare i rimpatri, anche di miliziani che sono stati privati della cittadinanza dai loro Paesi, era stata anticipata nei giorni scorsi. Nelle prigioni turche ci sono 1.200 combattenti dell’Isis, tra cui diversi occidentali ed europei. Altri 287 jihadisti del Califfato, in gran parte stranieri, sono stati catturati da Ankara dopo la sua offensiva lanciata il 9 ottobre contro i curdi nel Nord Est della Siria.

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Chi sono gli shabbiha, i paramilitari fedelissimi agli Assad

Ex trafficanti e criminali, negli Anni 70 vennero inquadrati dal regime di Damasco come forze di sicurezza da utilizzare nella repressione degli oppositori. Squadroni della morte che si sono macchiati di ogni atrocità. E ora combattono a Idlib. La scheda.

Bashar al-Assad il 22 ottobre scorso ha incontrato le truppe governative impegnate in prima linea, nella città di Hbeit, nella provincia di Idlib dove ancora sono intensi i combattimenti tra l’esercito di Damasco e le forze ribelli appoggiate dalla Turchia. Al fianco delle truppe siriane, utilizzate come teste di ponte nei combattimenti c’erano anche milizie paramilitari.

LEGGI ANCHE: Con la guerra turca ai curdi la Siria torna nel 2011

Non certo una novità. In Siria esiste infatti un esercito “fantasma” formato, almeno in origine, da ex detenuti, trafficanti di droga e armi, malavitosi: sono gli shabbiha. Parola che probabilmente in origine significava proprio fantasma ma che in Siria è da decenni sinonimo di criminale, teppista. Le stime parlano di 50 mila combattenti, presenti in tutti governatorati del Paese e reclutati dai servizi di sicurezza siriani. Si dice vengano addestrati sotto la supervisione di Hezbollah, quindi armati e impiegati nelle operazioni di polizia e dell’esercito.

Hafez al-Assad, ex presidente siriano padre di Bashar.

GLI SGHERRI DEL CLAN ASSAD 

A organizzare queste squadre di mercenari furono Rifaat e Namir al Assad, rispettivamente fratello e cugino dell’ex presidente Hafez, padre di Bashar, che prese il potere con un colpo di Stato nel 1970. In un primo momento la loro azione si concentrò a Latakia, Banias e Tartous, sulla costa mediterranea. Poi si diffusero in modo capillare nell’intero Paese. Gli shabbiha erano utilizzati come milizie di sicurezza, ma anche come sicari per eliminare gli oppositori del regime. Si stima che fossero dalle 9 alle 10 mila unità, tutti appartenenti alla minoranza alawita (una corrente esoterica dell’islam sciita) la stessa della famiglia al Assad, che rappresenta il 10% della popolazione siriana. Con la morte di Hafez nel 2000 e l’arrivo sulla scena di Bashar, gli shabbiha o squadroni della morte hanno ampliato il loro raggio di azione. Il nuovo presidente infatti li ha ampiamente sfruttati per reprimere rivolte e manifestazioni.

Ribelli siriani con un presunto shabbiha catturato (Damasco, 2012).

GLI ORRORI DURANTE LA GUERRA CIVILE

È infatti con lo scoppio della rivoluzione siriana, nel febbraio 2011, che gli shabbiha hanno assunto un ruolo centrale nel contenimento delle proteste. Questi paramilitari hanno cominciato ad affiancare anche polizia e servizi durante la cattura e gli interrogatori degli oppositori. Testata sul campo la loro terribile efficacia, il regime li ha poi impiegati anche al fronte, anche come cecchini. 25 maggio 2012 furono loro a entrare a Houla, a nord di Homs, aprendo di fatto la strada all’esercito nella città ribelle. Quel venerdì di proteste si trasformò in un bagno di sangue: le milizie massacrarono 108 civili, tra i quali 49 bambini e 20 donne. Gli squadroni della morte hanno combattuto accanto alle truppe governative a Hama, Daraa, Homs, Damasco e Ghuta al Sharqya e sono state utilizzate come rinforzo alle Tiger Forces, le forze speciali guidate da Suhail Al Hasan, accusato di crimini da Human Rights Watch e nella black list di Stati Uniti ed Europa. E proprio in Europa alcuni di questi miliziani, come raccontato da Al Arabya, sarebbero arrivati mescolandosi tra i richiedenti asilo.

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Ciò che resta del clan al Baghdadi e dei fedelissimi dell’ex capo dell’Isis

Una moglie, una sorella, un figlio e altri parenti del sedicente Califfo morto il 26 ottobre sono finiti in manette. Tutti catturati in Turchia o al confine siriano. Il fratello Abu Amza invece è svanito nel nulla. Cosa sappiamo della famiglia del super-terrorista.

Dalla morte dell’ideologo e fondatore dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi si susseguono le notizie di catture di suoi famigliari nella zona di confine tra la Siria e la Turchia.

Prima, nell’ordine temporale di cattura da quel che se ne sa, una moglie e un figlio. Poi una sorella, suo marito e la nuora con prole. Domani chissà. L’intelligence turca si è svegliata dopo la lunga e cruenta operazione del Pentagono che la notte del 26 ottobre ha distrutto un grande compound fortificato dove, almeno dal maggio scorso, risiedeva il leader dell’Isis con pochi intimi. A una ventina di chilometri dalla Turchia, in una zona di influenza turca, ricostruita dalla Turchia e amministrata da ribelli islamisti addestrati in Turchia. Di certo quel che affiora dagli arresti compiuti da Ankara – non confermati dagli alleati americani della Nato – è che dopo la disfatta al Baghdadi, come da informative dei curdo-siriani e degli 007 iracheni, poteva contare solo sulla più stretta parentela.

LE MOGLI CATTURATE

Troppi dell’inner circle hanno parlato. Lo avrebbe tradito anche una delle quattro mogli che si ritiene avesse preso in sposa al Baghdadi. Arrestata dall’intelligence irachena all’inizio del 2019, insieme a un corriere dell’Isis avrebbe rivelato informazioni preziose per la Cia sulla fuga di al Baghdadi verso l’Ovest della Siria. In quei mesi altri diversi suoi aiutanti di punta catturati sarebbero stati interrogati in Iraq, spifferando le abitudini del sedicente califfo. Dalla ricostruzione data in pasto all’opinione pubblica dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan solo questo novembre, un’altra moglie del super-terrorista con una taglia di 25 milioni di dollari sulla testa sarebbe stata arrestata già il 2 giugno 2018 in territorio turco.

Asma Fawzi Muhammad al-Qubaysi, una delle presunte mogli di al Baghdadi arrestata dai turchi (Ansa).

Asma Fawzi al Qubaysi, prima moglie di al Baghdadi, sarebbe stata individuata alla frontiera nella provincia di Hatay, insieme con una figlia che si presentava come Leila Jabeer, mentre tentavano di sconfinare sotto false identità.

ALCUNI MEMBRI DEL CLAN SAREBBERO IN FUGA VERSO LA TURCHIA

Peccato che gli americani, a quanto pare, per un anno e mezzo non avessero avuto comunicazione di tutto questo. Il Dipartimento di Stato ha dichiarato di «non poter confermare nulla» di quanto affermato da Erdogan. Neanche la cattura, annunciata dalla Turchia sempre all’inizio di novembre, della sorella 65enne di al Baghdadi, Rasmiya Awad. Scovata in una roulotte con la famiglia e con i cinque nipoti, anche questa «miniera di informazioni» si riparava non lontano dal luogo di intercettazione della prima moglie: la provincia siriana confinante Azaz, che guarda Antiochia e Alessandretta. Il presidente turco rivendica arresti nel clan di al Baghdadi «quasi a doppia cifra», sfidando di fatto Donald Trump. Nel gruppo anche un figlio del sedicente califfo, dall’identità, è stato assicurato, «accertata dal Dna». Altri membri della cerchia ristretta tenterebbero invece di entrare in Turchia dal Nord-Ovest della Siria dove al Baghdadi aveva trovato fiancheggiatori.

Rasmiya Awad, ritenuta la sorella di al Baghdadi (Ansa).

I CORRIERI TRADITORI

Il sedicente califfo viveva asserragliato in un una ridotta con tunnel nel villaggio di Barisha, a sud-ovest di Azaz e del cantone curdo di Afrin riconquistato dai turchi nel 2018. Anche lui a un passo dal valico per la provincia di Hatay. L’intelligence di Ankara rivendica anche un ruolo nell’uccisione di al Baghdadi ben superiore all’appoggio logistico e allo spazio aereo messi a disposizione per le operazioni americane: Ismael al Ethawi, un altro corriere e aiutante di punta del capo dell’Isis fermato all’inizio di quest’anno, avrebbe contribuito al successo del blitz Usa. Sebbene dagli ufficiali di sicurezza americani sia filtrato che per identificare di al Baghdadi a Barisha è stato decisivo l’apparato di sicurezza curdo-siriano delle brigate Ypg nemiche di Erdogan. Un finto fedelissimo del leader dell’Isis, suo assistente agli spostamenti e con un fratello morto a causa dei terroristi, ha portato per vendetta ai curdi campioni di sangue e capi di biancheria. 

Al Baghdadi morte Isis Siria Trump
Il sito di Al Baghdadi in Siria distrutto dal blitz degli Usa.

IL FRATELLO CHE MANCA ANCORA ALL’APPELLO

Risparmiata nel blitz, la talpa è stata trasportata in un luogo sicuro a incassare la maxi ricompensa. Degli altri uccisi e dei sopravvissuti nell’operazione americana non si hanno nomi. Tra i famigliari di al Baghdadi morti insieme a lui potrebbero esserci due mogli, stando al resoconto di Trump. Ma il condizionale è d’obbligo. Perché la Difesa di Washington ha confermato genericamente l’uccisione di tre donne, lasciando vaga anche l’identità dei minori (11, sempre secondo il presidente Usa) tratti in salvo dalle unità speciali durante il blitz. Poche ore dopo, un aiutante saudita di al Baghdadi è stato ucciso in altre operazioni antiterrorismo Usa nel Nord della Siria, condotte contro i gruppi qaedisti più estremisti che davano protezione ai vertici dell’Isis. Nulla invece si sa ancora del destino di uno dei cinque fratelli di al Baghdadi, nome di battaglia Abu Hamza, a lui pare molto vicino. 

isis baghdadi ucciso
Il sedicente Califfo al Baghdadi morto il 26 ottobre scorso.

DUBBI SUL SUCCESSORE DI AL BAGHDADI

Buio fitto anche sul successore di al Baghdadi. Sempre il Dipartimento di Stato Usa ha confessato di non sapere «quasi niente» di Abu Ibrahim al Hashemi al Qurayshi, designato con un proclama ufficiale. Gli analisti dell’intelligence cercano di ricostruirne l’identità e i trascorsi: dietro il nome probabilmente di battaglia, per gli esperti potrebbe celarsi il super-ricercato (5 milioni di dollari di taglia) Hajji Abdullah al Afari il cui nome spicca in alcuni documenti interni dell’Isis. Un altro suo pseudonimo sarebbe il primo nome circolato come successore di al Baghdadi al Haj Abdullah Qardash, in un comunicato attribuito all’Isis ma diverso dai quelli diffusi dai canali ufficiali della rete jihadista. Cinquantenne, iracheno di origine turcomanne, al Afari sarebbe un ex maggiore dell’esercito di Saddam Hussein, radicalizzato nella prigione di Camp Bucca come al Baghdadi. Con lui avrebbe anche in comune gli studi islamici, ma un background militare parecchio più forte.

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La Russia a gamba tesa in Libia manda 200 mercenari ad Haftar

Il Cremlino ha inviato i miliziani privati del gruppo Wagner in aiuto al maresciallo che cerca di far cadere il governo Sarraj. Mosca ha già impiegato l'agenzia in Siria, Ucraina, Africa e Venezuela.

Il Cremlino preme l’acceleratore nella crisi libica al fianco del generale Khalifa Haftar: nelle ultime sei settimane sono stati inviati circa 200 mercenari russi, tra cui cecchini esperti, appartenenti al gruppo Wagner di Yevgheni Prigozhin, lo ‘chef di Putin‘ incriminato dagli Usa per le interferenze nelle presidenziali e sanzionato per la guerra nell’Ucraina orientale. Lo scrive il New York Times. Inconfondibile la firma: l’uso di proiettili che non escono dal corpo, come nell’Ucraina orientale.

LA CAMPAGNA DI INFLUENZA RUSSA IN MEDIO ORIENTE

L’arrivo dei mercenari è parte dell’ampia campagna del Cremlino per riaffermare la sua influenza nel Medio Oriente e in Africa, dopo aver fornito jet Sukhoi, coordinato attacchi missilistici e di artiglieria, spiega il Nyt, che cita fonti libiche ed europee. «È esattamente la stessa cosa successa in Siria», dichiara Fathi Bashagha, ministro dell’interno del governo provvisorio di Tripoli, rievocando la guerra civile siriana. E, come in Siria, i partner locali che si erano alleati con gli Usa per combattere l’Isis ora si lamentano di essere stati abbandonati o traditi.

L’IMPATTO PESANTE DEI MERCENARI

La battaglia sul terreno è tra milizie con meno di 400 combattenti che si fronteggiano in un pugno di distretti alla periferia Sud di Tripoli e quindi l’arrivo di 200 professionisti russi potrebbe avere un impatto forte, secondo alcuni diplomatici. Tra l’altro dirigenti di Tripoli prevedono che Mosca porterà altri mercenari entro la fine della settimana.

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Siamo realisti: l’Arabia Saudita è un interlocutore necessario

Ombre e atrocità pesano su Riad. Ma quando si parla di interessi economici, commerciali e finanziari serve lucidità. E con MbS bisognerà fare i conti ancora a lungo.

L’Arabia Saudita è tornata a far parlare di sé. E questa volta non per l’orrendo omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul e la sparizione del cadavere o per la sconcertante andamento della guerra condotta in Yemen, peraltro più nota per le vittime civili che per le sue ragioni di merito. O ancora per il tasso di assolutismo che continua a contraddistinguere il regime degli Al Saud; o per l’attacco subìto ai suoi siti petroliferi che taluni hanno letto più come l’evidenza di una colpevole fragilità che una violenza terroristica da condannare. Ed è tornato a far parlare di sé il giovane principe ereditario, Mohammed bin Salman, chiamato Mbs, al quale si addebitano le responsabilità di fondo di tutto ciò che è avvenuto, nel bene e nel male – più nel male naturalmente – dal giugno del 2017, da quando cioè è stato nominato in rapida successione vice-primo ministro e ministro della Difesa, presidente del Consiglio per gli Affari economici e titolare di altri settori del Paese, in avanti.

TUTTI IN FILA PER LA “DAVOS DEL DESERTO”

L’Arabia Saudita è tornata a far parlare di sé per due ragioni principali. Innanzi tutto per la terza edizione del Forum finanziario organizzato dal Fondo saudita per l’investimento (Pif), la cosiddetta “Davos del deserto”. Boicottata nel 2018 proprio in conseguenza dell’omicidio Khashoggi ha visto quest’anno il ritorno massiccio di presidenti, primi ministri e uomini d’affari: 6 mila persone da oltre 30 Paesi. Una folta rappresentanza occidentale che andava dagli Usa con i ministri del Tesoro Mnuchin e dell’Energia Rick Perry, l’ex premier britannico David Cameron, gli ex primi ministri François Fillon, Kevin Rudd e il nostro Matteo Renzi. Una non meno cospicua rappresentanza finanziaria che ha compreso, tra gli altri Hsbc, Blackstone, Blackrock e Credit Suisse come ha ben ricordato il Guardian.

LE CRITICHE AL VIAGGIO DI RENZI

La partecipazione di Renzi è stata criticata. Da alcuni per la bizzarra identificazione di quella conferenza con un incontro di produttori di armi; da altri per le nefandezze o comunque per gli errori di quel regime, dimenticando la storia dei robusti e trasversali rapporti che l’Italia ha sviluppato con l’Arabia Saudita dal 1932 in avanti, e non certo per una altrimenti colpevole sottovalutazione delle differenze esistenti tra i due Paesi, principalmente in materia di natura di regime e di rispetto dei diritti umani. Differenze oggi forse un po’ meno marcate che nei decenni precedenti e che in ogni caso sono rilevabili in misura anche maggiore in altri Paesi, a cominciare dalla Cina, con i quali coltiviamo realisticamente relazioni a tutto campo. Ma tant’è, con buona pace delle prospettive che si stanno aprendo con non poche difficoltà, peraltro comprensibili, con il progetto, a dir poco avveniristico di Neom, consistente nella creazione di un’area economica del futuro nel Nord Ovest del Paese stimata in un costo di oltre 500 miliardi di dollari.

L’OPERAZIONE ARAMCO E LA STRADA VERSO VISION 2030

La seconda ragione per la quale si è riparlato e si riparla dell’Arabia Saudita e di Mbs è la gigantesca operazione finanziaria dell’entrata in Borsa dell’Aramco, la struttura petrolifera e del gas più ricca e redditizia del mondo, valutata in circa 1,5 trilioni di dollari. Più volte rinviata per ragioni che si nascondono nella nebbia decisionale della Casa reale, essa viene ora calendarizzata e ne risulta confermato la finalità di riversarne la parte in offerta, che dovrebbe oscillare tra l’1% e il 2%, tra i 20 e i 30 miliardi di dollari, nel già ricordato Pif, il Fondo sovrano saudita per finanziare l’ambizioso programma di progressiva emancipazione dal petrolio. Emancipazione che costituisce il perno della cosiddetta Vision 2030, un programma lanciato a metà del 2016 e che disegna un orizzonte di modernizzazione a tutto campo: dall’identità nazionale alla cultura, dall’occupazione al benessere sociale, dall’apertura al mondo intero, alla diversificazione economica, all’efficienza burocratica, allo sviluppo tecnologico, al riscatto della donna. Insomma, un orizzonte tanto visionario quanto impegnativo da far tremare le vene e i polsi in un Paese dalle profonde caratteristiche tribal-conservatrici come l’Arabia Saudita.

Penso che si possa dare atto alla Casa reale di aver mantenuto in qualche modo la rotta e di averla integrata con proiezioni innovative

In effetti, a distanza di meno di tre anni, i primi passi compiuti nella direzione della Vision 2030, decisamente i più faticosi, sono stati marcati da errori e incertezze e da ostacoli imprevisti come quelli sopra ricordati. Penso tuttavia che si possa dare atto a quella Casa reale, e al binomio re-principe ereditario in particolare, di aver mantenuto in qualche modo la rotta e di averla integrata con proiezioni innovative in materia di politica regionale e internazionale, dalla Siria all’Iraq passando per il Libano e la Giordania, dalla Cina alla Russia con la quale ha collaborato alla formazione della quota del Comitato costituente assegnata all’opposizione siriana oltre che nella stabilizzazione del mercato energetico.

LA MACCHIA DELLA GUERRA IN YEMEN

Lo Yemen continua a rappresentare un’insopportabile palude di sangue, ma le responsabilità della controparte non sono trascurabili; la contrapposizione con l’Iran si è mossa al seguito della pressione sanzionatoria americana, ma sono affiorati anche segnali di disponibilità a propiziare un abbassamento della tensione mentre la stessa Unione europea sta maturando non poche riserve in merito alla sua politica regionale. Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta suscitando crescenti perplessità per la sua disinvolta aggressività e la mancanza di scrupoli in materia di partenariato e/o di alleanze.

CI SONO MOMENTI IN CUI LE OSTILITÀ VANNO MESSE DA PARTE

Dico questo in estrema sintesi per sottolineare come in fondo il regime di questo Paese in cui tutto, anche e soprattutto il cosiddetto empowerment delle donne, deve discendere dal vertice e non dal basso, come avveniva tempo addietro anche nei nostri regimi assolutistici, riceva da parte dell’opinione pubblica internazionale un fondato giudizio critico. Ma esso dovrebbe essere mediato non solo dalla consapevolezza e dal rispetto dei vincoli storici e culturali di quel Paese, ma anche dalla disponibilità a mettere da parte riserve e ostilità quando la parola passa sul terreno degli interessi economici, commerciali e finanziari. Di quelli grandi, ma anche di quelli medi e piccoli, come ci dicono i negozi e gli stessi supermercati di Gedda, di Dharhan o di Riad. E l’Arabia Saudita è un interlocutore necessario e non solo per la stabilità del Medio Oriente. Lo è anche per i nostri interessi. Mohammed bis Salman ha solo 34 anni e dunque un prevedibile lungo regno. Tenerne conto è solo segno di realismo politico, tanto più nell’attuale contesto, regionale e internazionale, nel quale i leader democratici e disposti a co-interessenze tutt’altro che trascurabili non abbondano.

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Le ombre sull’Ipo del secolo di Aramco in Arabia Saudita

La prima produttrice al mondo di petrolio, dagli utili strabilianti, ha molti nei. L’opacità sulle risorse, il futuro incerto dell'oro nero, l’inaffidabilità di bin Salman e le scintille con l’Iran. Perché i colossi della finanza Usa abbassano la valutazione fino a 1.000 miliardi.

C’è qualcosa che non va se la compagnia più redditizia al mondo – prima produttrice di petrolio e del petrolio più a basso costo – rimanda più volte e poi prudentemente dilaziona lo sbarco in Borsa con l’Ipo (Offerta pubblica iniziale) del secolo, che comunque vada sarà sempre la più grande della storia. Quel qualcosa, in vista del debutto l’11 dicembre 2019, è il valore di Aramco: il colosso nazionale saudita del petrolio che il principe ed erede al trono Mohammad bin Salman (MbS) preme dal 2016 per quotare sui 2 mila miliardi di dollari. Ma che i decisivi investitori internazionali insistono nel tenere più basso – tra i 1.200 e i 1.800 miliardi di dollari secondo una ricerca riportata da Bloomberg delle grandi banche coinvolte nell’operazione – per tutta una serie di fattori negativi interni ed esterni che pesano sulla valutazione.

L’OPACITÀ NEL DNA: WALL STREET NON SI FIDA

I bilanci segreti di Aramco, dalla nazionalizzazione negli Anni 70, rendono impossibile valutare lo stato della società e la vita delle riserve gestite. E va da sé che, per l’omicidio al consolato saudita in Turchia di Jamal Kashoggi e per altri precedenti, MbS non rappresenti la migliore garanzia di affidabilità per Wall Street, tenuto conto anche dell’ostilità di parte dell’establishment e della casa regnante alle grandi ambizioni di rinnovamento del suo piano Vision 2030. All’opacità di Aramco e alle guerre interne si sommano le turbolenze per le scintille con l’Iran nel Golfo Persico, la guerra commerciale tra Usa e Cina e le prospettive di un declino globale dei combustibili fossili, per lo sviluppo tecnologico e i cambiamenti climatici. Il calo del prezzo a barile (60 dollari il Brent, 56 Wti), costante degli ultimi anni, non agevola nemmeno l’ammiraglia che pompa il 10% del petrolio globale.

Aramco Ipo Arabia Saudita MbS
Un impianto Aramco, nel deserto dell’Arabia Saudita. (Getty).

MBS VERSO IL COMPROMESSO

Pecunia non olet: le barbarie in Yemen e con Khashoggi ordinate da Riad non tratterranno gli stranieri dai profitti di Aramco, ma ognuno fa il suo gioco. Per l’Ipo MbS non ha scelto il momento migliore, che appartiene ormai del passato, e non poteva farlo: uscire dall’oscurantismo richiede del tempo ai sauditi. Così è probabile che, nelle prossime settimane, il re saudita in pectore sia costretto a scendere a compromessi con l’imperativo di Goldman Sachs, Hsbc e delle altre banche di abbassare l’asticella. Riporta sempre Bloomberg Oltreoceano, dai molteplici revisori del rapporto, che il divario tra la stima massima e la minima su Aramco arriva a superare i 1.000 miliardi di dollari nel caso di Bank of America (da circa 1.200 a 2.300 miliardi). E gli investitori fanno riferimento all’indicazione più bassa, frutto di analisi «di lungo periodo, non a breve termine e non sulle performance».

L’IPO A RIAD, POI CHISSÀ

Gli sforzi di appeal non bastano a gonfiare la valutazione di Aramco a 2 mila miliardi, neanche le garanzie offerte agli investitori. Ridotti i prelievi fiscali e le aliquote sulle estrazioni, saliranno a 80 miliardi di dollari i 75 miliardi di dividendi promessi nel 2019 e il tasso di utile per gli investitori sarà fisso (il 4,4% con un valore di 1.800 miliardi di dollari) fino al 2024, a prescindere dalle fluttuazioni. Sulle perplessità esterne conta anche che gli azionisti iniziali del gigante che resterà a larghissimo controllo pubblico saranno volutamente locali. A dicembre Aramco sarà quotata tra l’1% e 2% solo nella Borsa nazionale. Il lancio di un altro 3% sulle piazze straniere dove sono centrali le big di Wall Street è spostato a data imprecisata. Riad non era d’altronde pronta a un’operazione su larga scala: Borse come Londra sono blindate ai sauditi anche per i requisiti sull’onorabilità e sulla trasparenza.

Per accelerare l’Ipo MbS ha dovuto rimuovere dalla presidenza di Aramco e dal ministero dell’Energia il ceo storico Khalid al Falih

LE RESISTENZE A VISION 2030

Ma è da vedere anche l’impatto in Arabia Saudita dell’Ipo. La banche del regno hanno aperto al credito con gli interessati, per ogni 10 azioni acquistate entro sei mesi una è regalata. Sono forti anche le pressioni sui finanziari: nel 2017 MbS è arrivato a far arrestare decine tra magnati e quadri delle forze armate e dei ministeri, allo scopo di liberarsi di loro, estorcendoli migliaia di capitali per Vision 2030. Diversi hanno ceduto, ma l’opposizione a MbS ha ripreso vigore, anche tra i rami degli al Saud, una volta fallita la campagna in Yemen ed esploso il caso Khashoggi. Per accelerare l’Ipo annunciata nel 2016, a settembre l’erede al trono ha dovuto rimuovere dalla presidenza di Aramco e dalla poltrona del ministero dell’Energia il ceo storico Khalid al Falih. E non è affatto detto che non ci siano altri resistenti a Vision 2030: MbS ha molti nemici interni.

Khashoggi omicidio MbS Arabia Saudita rapporto Onu
Una dimostrazione a Washignton contro MbS, erede al trono dell’Arabia Saudita, per l’omicidio Khashoggi. (Getty).

LE TURBOLENZE DALL’IRAN

D’altra parte anche «coinvolgere le famiglie saudite più ricche nell’Ipo rischia di danneggiare la credibilità della compagnia» ha scritto il Financial Times: un circolo vizioso che potrebbe non far centrare al 34enne MbS l’obiettivo della prima fase tra i 20 e i 40 miliardi di dollari – con la quotazione poi anche l’estero di 100 miliardi – di finanziamento per modernizzare il regno. Il gettito è indispensabile per riconvertirsi alle rinnovabili e diversificare l’economia dal petrolio: l’Arabia Saudita parte praticamente da zero. Ma l’iniezione di capitali potrebbe ingolfarsi anche a causa di attacchi come quello del 14 settembre dell’Iran, per mano dei ribelli houthi armati in Yemen, contro il complesso di pozzi Aramco e la più grande raffineria al mondo. Riad ha dato prova di forza, riprendendo a breve la produzione di greggio di colpo dimezzata. Ma si è dimostrata vulnerabile.

AGLI INVESTITORI CONVIENE PIÙ EXXON

Come nei boicottaggi alle petroliere, architettati sempre da Teheran anche in risposta alle sanzioni americane agli ayatollah di Donald Trump, che è uno strettissimo alleato di MbS. Il Golfo persico tornato rovente spinge il Fondo sovrano del Kuwait (Kia) a «valutare l’Ipo su Aramco come qualsiasi altro investimento» e dà margini di manovra ai big occidentali. Certo i 111 miliardi di dollari di utile netto nel 2018 del colosso saudita sono strabilianti: più del netto delle cinque sorelle rivali (Exxon Mobil, Royal Dutch/Shell, BP, Chevron e Total) messe insieme, e molto di più anche di Apple e Amazon che la seguono. Pur ridimensionato, il valore dell’Ipo di Aramco scalzerà probabilmente anche il record cinese di Alibaba di 25 miliardi nel 2014. Ma l’utile per gli investitori, se la valutazione attesa sulla compagnia si confermerà, sarà inferiore al 5% garantito da Exxon.

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