La polemica su Di Maio e gli stipendi degli otto fedelissimi alla Farnesina

Secondo un'inchiesta del Giornale, il leader M5s avrebbe portato con sé agli Esteri un gruppo di affezionati: «Un cerchio magico da 700 mila euro».

Luigi Di Maio, il ministro dei viaggi in economy, è finito al centro di una polemica sugli stipendi al Ministero degli Esteri. Secondo un’inchiesta del Giornale, il leader del M5s avrebbe fatto assumere alla Farnesina otto fedelissimi con stipendi variabili, alcuni dei quali decisamente alti. Si tratta – scrive il quotidiano – di otto persone equiparate a dirigenti e funzionari, fatti assumere agli Esteri a partire dal 6 settembre scorso con scadenza fissata al “termine del mandato governativo”.

I collaboratori sono:

Augusto Rubei, inquadrato come “consigliere del ministro per gli aspetti legati alla comunicazione”, stipendio lordo di 140 mila euro l’anno;

Pietro Dettori, “consigliere del ministro per la cura delle relazioni con le forze politiche inerenti le attività istituzionali”, stipendio 120 mila euro;

Cristina Belotti, “capo segretaria e segretario particolare del ministro”, 120 mila euro;

Sara Mangieri, “consigliere per i rapporti con la stampa”, 90 mila euro;

Daniele Caporale, “consigliere del ministro per le comunicazioni digitali”, 80 mila euro;

Carmine America, “esperto in questioni internazionali di sicurezza e difesa”, 80 mila euro;

Giuseppe Marici, “consigliere per le informazioni diffuse attraverso i media”, 70 mila euro;

Alessio Festa, “consigliere per le relazioni istituzionali”, 11.580 euro.

Il totale dei compensi lordi è di 711 mila euro. «Finché Di Maio resta ministro, restano lì pure loro», scrive il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, «non è solo la quantità di fedelissimi imposti da Di Maio ma anche l’entità dei loro compensi a creare fastidio alla Farnesina, dove una gola profonda ci racconta che “all’ufficio del personale sono inorriditi, dicono di non avere mai visto prima degli stipendi così alti, forse l’ultimo che aveva fatto qualcosa del genere era stato De Michelis (ministro Psi, ndr) ma erano altri tempi e comunque non queste cifre”».

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Lo scudo penale per ArcelorMittal accende lo scontro nel governo

Di Maio avverte Renzi e il Pd sul dossier Ilva: «Un emendamento per reintrodurre l'immunità sarebbe un problema enorme per la maggioranza». E l'azienda «deve restare». Pentastellati pugliesi contro il premier Conte. Ma l'acciaieria va verso la chiusura.

Un emendamento di Italia viva o del Pd per reintrodurre lo scudo penale a favore di ArcelorMittal «sarebbe un problema enorme per la maggioranza». Luigi Di Maio interviene a gamba tesa nel delicatissimo dossier Ilva, mentre l’azienda va dritta per la sua strada e deposita in Tribunale l’atto con cui chiede il recesso del contratto. Il leader del M5s, durante la trasmissione televisiva Fuori dal coro condotta da Mario Giordano su Rete4, ha lanciato un esplicito avvertimento a Matteo Renzi: «Se cominciamo con gli sgambetti, Italia viva è quella che ha più da perdere».

Lo scudo penale, ancor di più se generalizzato, «piacerebbe a tanti imprenditori». Ma secondo Di Maio il messaggio che deve passare è che «se provochi un disastro ambientale devi pagare». Un ragionamento che però è difficilmente applicabile alla multinazionale guidata in Italia da Lucia Morselli, visto che ArcelorMittal ha iniziato a gestire l’impianto di Taranto nel 2018. Ma Di Maio dice no anche all’ipotesi di una nazionalizzazione. Il motivo? «Sarebbe dare un alibi agli indiani, sarebbe dire che possono andarsene. Invece devono restare qui. Andremo contro di loro in giudizio».

La posizione di Di Maio sullo scudo penale, in ogni caso, mette in imbarazzo anche il premier Giuseppe Conte. Il capo del governo ha riunito a Palazzo Chigi i parlamentari pugliesi del M5s alla presenza dello stesso Di Maio, del ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli e di quello per i Rapporti con il parlamento Federico D’Incà. Obiettivo: tastare il terreno sulla possibilità di reintrodurre l’immunità con una norma generale, non solo per Taranto. Secondo indiscrezioni si sarebbe trovato davanti a un muro, eretto soprattutto dalla senatrice Barbara Lezzi, autrice della norma che ha abolito lo scudo. Questa ricostruzione è stata smentita dai capigruppo pentastellati, che hanno parlato di «dialogo costruttivo». Ma è difficile credere alle loro parole, dopo quelle pronunciate in tivù dal capo politico in persona.

La tensione è altissima e il ministro Patuanelli sta incontrando i senatori del M5s a Palazzo Madama. Sul tavolo ci sarebbe una sorta di scudo temporaneo, da collegare a un progetto di decarbonizzazione degli impianti. E in serata il tema sarà discusso dall’assemblea di tutti i parlamentari pentastellati.

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Di Maio difende la manovra: «Abbassate le tasse e sterilizzata l’Iva»

Per il ministro degli Esteri è tornato anche sul caso ArcelorMittal e sulla necessità che la multinazionale rispetti gli impegni. E per il 2020 mette nel mirino il conflitto d'interessi.

Una manovra che taglia le tasse. Potrebbe essere riassunto così l’intervento di Luigi Di Maio a Uno Mattina su Rai1.«Abbiamo abbassato le tasse e impedito che aumentasse l’Iva la cui crescita sarebbe costata mediamente 600 euro a famiglia», ha spiegato il ministro degli Esteri. Agli attacchi della Lega il leader M5s ha poi risposto così: «Voi c’eravate al Governo e potevate fare voi la riduzione delle tasse e trovare i soldi per la Flat tax ma ora non ne parlate più….».

Nel corso dell’intervista Di Maio ha affrontato anche il tema dell’ex Ilva e del passo in dietro di ArcelorMittal, confermando anche la posizione del premier Giuseppe Conte. Lo scudo penale, ha spiegato, è stato già proposto ma l’azienda ha confermato i 5 mila esuberi nonostante un contatto firmato solo un anno fa che non prevede questa soluzione. «Il tema è che l’Italia si deve far rispettare, deve far rispettare un contratto e dispiace che i sovranisti stiano dall’altra parte».

Il ministro è poi ritornato sul 30esimo anniversario del crollo del muro di Berlino definendolo un momento che ha portato al superamento delle ideologie di destra e sinistra. Un fatto non negativo, ha spiegato Di Maio, perchè ha aperto al strada, come sta facendo il movimento 5 stelle, alla gestione di fatti concreti non legati alle ideologie ma ai bisogni. Il ministro degli Esteri, in questo quadro, si è augurato anche il superamento del “Muro” del regolamento di Dublino sull’immigrazione, un tema che a suo avviso è squisitamente europeo e non affrontabile da un solo Paese. Di qui l’obiettivo del diritto di asilo unico europeo.

I PIANI DEL M5S PER IL 2020

Il leader pentastellato ha poi lanciato il cronoprogramma del governo e dei 5 stelle per il 2020 menzionando diverse nuove riforme, dopo quella già attuata del taglio dei parlamentari, a partire da quelle dell’acqua pubblica e del conflitto di interessi. «Stare al governo non ha mai portato consensi», ha affermato, «ma abbiamo deciso di stare al governo per fare le riforme e vinceremo la sfida se completeremo il programma elettorale». Di Maio ha ricordato anche il taglio del cuneo fiscale e la nuova legge sulla sanità che tra l’altro toglie alle regioni le nomine dei direttori degli ospedali» per puntare su scelte legate a competenza e preparazione. Quanto alle prossime elezioni regionali, il ministro non si è sbilanciato sul tema delle alleanze ma chiarisce che dove il Movimento sarà pronto lì si presenterà, dove non si riterrà pronto non ci sarà e questo «sarà spiegato ai cittadini», ha concluso.

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La vera minaccia è la politica dei Mastrolindo

Slogan, promesse irrealizzabili, jingle. Da Berlusconi a Salvini, Di Maio e Renzi, i leader sono pubblicitari pronti a offrire soluzioni in stile Trivago o Facile.it. Ma così il disastro è dietro l'angolo.

La democratizzazione del desiderio. Ovvero tutti hanno diritto a tutto. Cose serie e frivole, bisogni e sogni allo stesso modo. Perché l’erba voglio oggi cresce dappertutto e con una velocità che riesce addirittura a divorare se stessa. Desiderare il desiderio è diventato perfino più importante dell’oggetto desiderato

DESIDERI ILLIMITATI, RISORSE LIMITATISSIME

Chi ricorda «Il tuo prossimo desiderio» (spot dell’Ariston) oggi fa i conti con una realtà in cui non si fa in tempo a soddisfarne uno che ce ne sono altrettanti, se non di più, che attendono soddisfazione.

Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

Certo per la società dei consumi – ha scritto John Seabrook in Nobrow: The Culture of Marketing, the Marketing of Culture – «nulla potrebbe essere più minaccioso del fatto che la gente si dichiarasse soddisfatta di quel che ha». Però è drammatico, per riprendere alcune considerazioni della volta scorsa, che i desideri siano diventati illimitati, che tutto sia desiderabile e teoricamente ottenibile. Senza curarsi, anche distrattamente, se si hanno le indispensabili risorse economiche, ma anche intellettuali, culturali, professionali.

DALLA INSODDISFAZIONE SI GENERA IL POPULISMO

Perché l’inevitabile scarto fra desiderio e realtà, mediamente grande per tutti, è generatore alla lunga di una profonda insoddisfazione sociale. Della quale i populisimi, variamente espressi nel mondo occidentale, ne sono l’espressione aggiornata. Con il loro carico di protesta, rabbia, ribellismo che si gonfiano fino a esplodere nei confronti di tutto ciò che viene identificato come responsabile delle promesse mancate, dei desideri inevasi, delle attese frustrate. Ciò che qui interessa però è come abbiamo potuto ridurci così. Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

SIAMO SOMMERSI DA SPOT

La risposta è presto detta. Sono stati i pubblicitari e la pubblicità a ridurci così. Ma senza poteri occulti che hanno tramato e senza un disegno ideologico o una pianificata strategia. La circonvenzione d’incapaci – noi tutti – è avvenuta quasi spontaneamente, con tanta più forza persuasiva quanto più quella ideologia ha lavorato instancabilmente. Entrando in tutte le trame del vivere quotidiano, installandosi al centro del sistema massmediale, estendendo il paesaggio pubblicitario nei tanti modi oggi osservabili guardandosi intorno, camminando per la città, spostandosi in metro, muovendosi in auto.

La pubblicità non è né di sinistra né di destra. È la neutralità che la rende efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe

Ovunque si sia o si vada non manca mai un’immagine o un messaggio promozionale. Siamo letteralmente sommersi dalla pubblicità. Si stima che veniamo raggiunti in media da 3.000 messaggi al giorno. Ma non ci facciamo più caso. Perché quest’azione di avvolgimento e coinvolgimento è avvenuta in modo dolce. È partita da lontano, ha lavorato per anni, giorno per giorno, Come la goccia che scava il sasso ci siamo alla fine convinti che «Impossible is nothing» (Adidas) e che «Per tutto il resto c’è Mastercard».

LA PUBBLICITÀ È NEUTRALE E PER QUESTO EFFICACE

La pubblicità si è installata al centro del sistema, senza resistenze, se non timide nei decenni 60 e 70 di contestazione del sistema consumistico. Perché come tutte le ideologie forti, funziona non venendo percepita come tale. Nel pensiero corrente la pubblicità non è né di sinistra né di destra e nemmeno di centro. È la neutralità che la rende comunicazione efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe. D’altra parte è stata ed è proprio la politica, se non la prima, la più grande vittima della pubblicità. Al punto di arrivare a identificarsi con essa. Assumendone stile e modalità comunicativa, facendone proprie strategie e tecniche persuasive. In ossequio al principio che in pubblicità non bisogna dirle giuste ma bene. E che spararle grosse non solo si può ma si deve.

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Dal momento che un annuncio non ha alcun obbligo di verità: è comunicazione non informazione. Peraltro a chi interessa, ammesso sia verificabile, se «Scavolini è la cucina più amata dagli italiani»? Ciò che conta, come dicono i pubblicitari, è che si fissi il concetto, che passi il messaggio

FORZA ITALIA, LA SOTTOMISSIONE DELLA POLITICA ALLA RECLAME

Questo processo di sovrapposizione e nel contempo di sottomissione della politica alla pubblicità ha in Italia una data ufficiale: la nascita di Forza Italia, il partito creato dal nulla, modellato su Publitalia e impostosi alle prime elezioni nelle quali si presentò forte di una campagna pubblicitaria sulle reti Mediaset che per pressione, ovvero numero di spot trasmessi nei 40 giorni di campagna elettorale (1.127 con punte di 61 al giorno) era un’assoluta novità; che equiparava il partito di Silvio Berlusconi ai brand del largo consumo. Il promesso «nuovo miracolo italiano» si impose all’attenzione dei consumatori/elettori con forza persuasiva simile a «Se non ci fosse bisognerebbe inventarla» (Nutella) e «Dove c’è Barilla c’è casa». 

SI È IMPOSTA LA LOGICA ALLA «O COSÌ O POMÌ»

Ciò che però va sottolineato non è il carattere imbonitorio del messaggio politico, nel momento in cui diventa tout court pubblicitario, ma il fatto che promettere miracoli, palingenesi della domenica, risoluzione di problemi ed emergenze epocali è diventato normale. Credibile, evidentemente, per gli elettori/consumatori. Ma alla lunga deleterio e distruttivo per l’intera società. In primo luogo perché si è imposta la logica semplificatoria della pubblicità, che non conosce mezze misure: «O così o Pomì».

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La personalizzazione e l’attuale leaderismo che ne conseguono s’accompagnano alla speculare scomparsa dei partiti come portatori di visioni collettive e concezioni condivise del mondo e della società. Ora ogni partito è il suo leader. Che la canta e la suona come vuole. O meglio che se la twitta e se la posta (a pagamento), con propensione personalistica massima nel caso di Matteo Salvini e della Lega. Sull’account personale da marzo a ottobre sono stati spesi 161.608 mila euro, in quello del partito 845.

PROMESSE ROBOANTI E DIETROFRONT SDOGANATI

L’incrudelimento del confronto politico è causa ed effetto dell’esagerato aumento di tono delle promesse, tanto roboanti e giocate sull’emozione anziché sulla ragione, da colpire nell’immediato, a caldo, ma da svanire velocemente. È così che, annunciata la cancellazione della povertà per decreto o l’abolizione delle accise sulla benzina, si può senza pudore alcuno contraddirsi o addirittura smentirsi. Dimenticarsi delle promesse fatte. Ma non di aizzare i propri gruppi d’acquisto e fan club. Perché la pubblicità non conosce, né riconosce smentite o contraddizioni. Per dirla in pubblicitariese «mente sapendo di mentine».

BASTA CON I CAPITAN FINDUS E I MASTROLINDO

Ora cambiare registro, smettere con la politica del «pulito sì, fatica no», e ritornare a promesse realistiche, sarebbe auspicabile. Sommamente. Però non è all’ordine del giorno. Pensare che basti proibire la pubblicità della politica, come ha annunciato Twitter, è una pia illusione. Anche perché Facebook non lo farà. Allo stato attuale sarebbe già un risultato se si facesse strada, almeno, la consapevolezza che più la politica diventa annuncio, teatrino in streaming, offerta di soluzioni in stile Trivago o Facile.it, più il disastro si avvicina.

Non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia «non è come il vino che invecchiando migliora»

Però non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia, con le sue libertà e difese dei diritti civili e personali, «non è come il vino che invecchiando migliora». Lo scrive l’ultimo numero di The Economist citando una ricerca apparsa sull’American Political Science Review che ammonisce «a non dare per scontata la democrazia». Che anzi, in Italia, è più che mai in pericolo se i vari Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Matteo Renzi continuano a travestirsi da Capitan Findus, Omino Bianco e Mastrolindo.

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La triste storia di Luigi Di Maio sulla Via della Seta

Dopo tanti annunci roboanti, il ministro degli Esteri è tornato da Shanghai con un pugno di mosche in mano. Intanto la Cina continua la sua campagna acquisti in Italia.

Giggino è stato a Shanghai. Anzi, il nostro ministro degli Esteri, capo della Farnesina, Luigi Di Maio (detto “Giggino”, ma lui si arrabbia se lo si chiama così) nei giorni scorsi è volato in Cina a capo della delegazione ufficiale italiana alla grande fiera del commercio di Xi Jinping.

Gli annunci che hanno preceduto questa missione cinese sono stati a dir poco mirabolanti: ecco finalmente l’occasione per mettere a frutto le intese firmate a suo tempo con Pechino – l’ormai famosa “fuga in avanti” del passato governo, che ha provocato la ferma l’opposizione del nostro principale alleato, gli Usa e praticamente di tutta l’Unione Europea – intese commerciali, export di pomodori campani, arance napoletane… e questo mondo e quest’altro!

In realtà il povero Di Maio se ne ritorna tutto triste e quatto-quatto da Shanghai con poco più di un pugno di mosche in mano: una manciata di riso e un po’ di carne da vendere in Cina. Ignorato un po’ da tutti e umiliato, tra l’altro, dal presidente francese Emmanuel Macron, che invece ha calcato da protagonista la scena degli incontri cinesi.

DI MAIO HA IGNORATO IL FASTIDIO DEGLI USA PER I RAPPORTI ITALIA-CINA

Insomma, della famosa e contestata Nuova Via della seta tra Pechino e Roma questo è quel che è rimasto? Riso e carne da vendere in Cina, un po’ di turisti cinesi da portare in Italia: nient’altro? E le migliaia di container che dovevano viaggiare pieni di merci prelibate italiane lungo il nuovo asse ferroviario Italia/Europa-Cina, e che invece tornano per il 99% vuoti verso la Cina (mentre lì arrivano strapieni di export da piazzare da noi, in Europa)? Di Maio sembra ignorare questa e molte altre realtà (o forse nessuno del suo staff gliel’ha detto…) intenzionato ad andare avanti imperterrito sulla strada degli investimenti cinesi in Italia, convinto – in modo del tutto irragionevole – di non doversi aspettare nuove tensioni con l’alleato americano.

Gi avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco

«Trump è uno che capisce le ragioni del business», ha dichiarato ai giornalisti italiani a Shanghai, incalzato sull’argomento, «e gli americani non ci hanno mai fatto arrivare nessuna protesta per gli accordi della Via della seta», ha insistito. «La loro preoccupazione era tutta concentrata sul 5G, e ora in Italia abbiamo la normativa più restrittiva d’Europa al riguardo, che si applica a tutte le società senza discriminazioni». Sarà. Peccato però che non sia vero niente: gli avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco. C’è da chiedersi in quale universo politico e su quale scenario internazionale viva di Maio, a questo punto.

LA CAMPAGNA ACQUISTI CINESE IN ITALIA È GIÀ INIZIATA

Sul tavolo shanghaiese di Di Maio c’era poi un altro dossier delicato, per noi: la penetrazione dei capitali cinesi in Italia e la massiccia campagna acquisti che le imprese cinesi stanno facendo nei nostri porti. L’attenzione di Washington per la presenza cinese nel Mediterraneo, infatti, è altissima. Trieste ha chiuso di recente un mega accordo con il colosso di Stato Cccc per costruire in Cina piattaforme logistiche per convogliare export made in Italy. Una buona cosa, in teoria, peccato che in realtà si tratti solo della prima fase di un progetto che prevede l’ingresso massiccio, a gamba tesa, dell’azienda statale cinese nel sistema ferroviario dello scalo triestino.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio durante un brindisi in occasione di una cena con investitori cinesi e rappresentanti di aziende cinesi, a Shanghai.

Ma il nostro ministro degli Esteri non sembra rendersi conto dei rischi di questa massiccia campagna acquisti cinese in Italia, e invece di frenare e magari preoccuparsi, rilancia: «I progetti di investimento lungo la Via della seta marittima non finiscono qui», dice: «Il porto di Genova è abbastanza avanti e c’è un interesse anche su quello di Taranto». Ma allora dategli l’Ilva, piuttosto, per scongiurare il disastro che si sta annunciando! A questo punto, sarebbe il male minore.

PECHINO PUÒ SANZIONARE LE IMPRESE ESTERE A SUA DISCREZIONE

Del resto non bisogna mai dimenticare che quello con il colosso-Cina, per un piccolo e geopoliticamente insignificante Paese come il nostro – l’abbiamo detto e scritto molte volte – rischia sempre di trasformarsi in un abbraccio mortale. Per questo la prudenza e l’attenzione devono essere massime. Per esempio sul delicatissimo tema dei cosiddetti crediti sociali, che si sta rivelando uno dei principali ostacoli al raggiungimento dell’auspicato e molto necessario accordo sugli investimenti bilaterali, a cui Cina e Unione Europea lavorano ormai dal 2013. Il sistema dei crediti sociali, secondo i cinesi, mira a creare una società basata «sull’onestà» dispensando premi e punizioni a seconda di come i singoli e anche le aziende si comportano.

Risulta impossibile tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina

Ma secondo un recente rapporto della Camera di Commercio europea, in realtà espone le imprese straniere che operano in Cina a pesanti ritorsioni – fino all’espulsione dal mercato cinese – semplicemente per un commento sgradito o una scritta su una maglietta che i solerti censori pechinesi giudichino – a loro insindacabile giudizio – «lesiva dell’onorabilità e della sovranità del popolo e della nazione cinese». Risulta impossibile, insomma, tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina, a causa della discrezionalità con cui Pechino si arroga il diritto di sanzionare chiunque tocchi il tasto dolente dei diritti umani o metta in dubbio la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, Tibet, mar cinese e qualsiasi altro tema considerato sensibile dai burocrati del Partito comunista. E Dolce e Gabbana, Tiffany, la Nba (per citarne solo alcuni, la lista delle “vittime” si allunga ogni giorno di più) lo sanno bene.

Questa è la triste storia di Giggino che se ne torna tutto solo sulla via della Seta. Nel suo fagotto sulla spalla porta un manciata di riso è un po’ di carne, molte dichiarazioni sbagliate e una serie di gaffe a dir poco imbarazzanti. L’ultima quando a Shanghai gli è stato chiesto di esprimersi sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong: «Abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi», ha risposto. Il vuoto assoluto.

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La triste storia di Luigi Di Maio sulla Via della Seta

Dopo tanti annunci roboanti, il ministro degli Esteri è tornato da Shanghai con un pugno di mosche in mano. Intanto la Cina continua la sua campagna acquisti in Italia.

Giggino è stato a Shanghai. Anzi, il nostro ministro degli Esteri, capo della Farnesina, Luigi Di Maio (detto “Giggino”, ma lui si arrabbia se lo si chiama così) nei giorni scorsi è volato in Cina a capo della delegazione ufficiale italiana alla grande fiera del commercio di Xi Jinping.

Gli annunci che hanno preceduto questa missione cinese sono stati a dir poco mirabolanti: ecco finalmente l’occasione per mettere a frutto le intese firmate a suo tempo con Pechino – l’ormai famosa “fuga in avanti” del passato governo, che ha provocato la ferma l’opposizione del nostro principale alleato, gli Usa e praticamente di tutta l’Unione Europea – intese commerciali, export di pomodori campani, arance napoletane… e questo mondo e quest’altro!

In realtà il povero Di Maio se ne ritorna tutto triste e quatto-quatto da Shanghai con poco più di un pugno di mosche in mano: una manciata di riso e un po’ di carne da vendere in Cina. Ignorato un po’ da tutti e umiliato, tra l’altro, dal presidente francese Emmanuel Macron, che invece ha calcato da protagonista la scena degli incontri cinesi.

DI MAIO HA IGNORATO IL FASTIDIO DEGLI USA PER I RAPPORTI ITALIA-CINA

Insomma, della famosa e contestata Nuova Via della seta tra Pechino e Roma questo è quel che è rimasto? Riso e carne da vendere in Cina, un po’ di turisti cinesi da portare in Italia: nient’altro? E le migliaia di container che dovevano viaggiare pieni di merci prelibate italiane lungo il nuovo asse ferroviario Italia/Europa-Cina, e che invece tornano per il 99% vuoti verso la Cina (mentre lì arrivano strapieni di export da piazzare da noi, in Europa)? Di Maio sembra ignorare questa e molte altre realtà (o forse nessuno del suo staff gliel’ha detto…) intenzionato ad andare avanti imperterrito sulla strada degli investimenti cinesi in Italia, convinto – in modo del tutto irragionevole – di non doversi aspettare nuove tensioni con l’alleato americano.

Gi avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco

«Trump è uno che capisce le ragioni del business», ha dichiarato ai giornalisti italiani a Shanghai, incalzato sull’argomento, «e gli americani non ci hanno mai fatto arrivare nessuna protesta per gli accordi della Via della seta», ha insistito. «La loro preoccupazione era tutta concentrata sul 5G, e ora in Italia abbiamo la normativa più restrittiva d’Europa al riguardo, che si applica a tutte le società senza discriminazioni». Sarà. Peccato però che non sia vero niente: gli avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco. C’è da chiedersi in quale universo politico e su quale scenario internazionale viva di Maio, a questo punto.

LA CAMPAGNA ACQUISTI CINESE IN ITALIA È GIÀ INIZIATA

Sul tavolo shanghaiese di Di Maio c’era poi un altro dossier delicato, per noi: la penetrazione dei capitali cinesi in Italia e la massiccia campagna acquisti che le imprese cinesi stanno facendo nei nostri porti. L’attenzione di Washington per la presenza cinese nel Mediterraneo, infatti, è altissima. Trieste ha chiuso di recente un mega accordo con il colosso di Stato Cccc per costruire in Cina piattaforme logistiche per convogliare export made in Italy. Una buona cosa, in teoria, peccato che in realtà si tratti solo della prima fase di un progetto che prevede l’ingresso massiccio, a gamba tesa, dell’azienda statale cinese nel sistema ferroviario dello scalo triestino.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio durante un brindisi in occasione di una cena con investitori cinesi e rappresentanti di aziende cinesi, a Shanghai.

Ma il nostro ministro degli Esteri non sembra rendersi conto dei rischi di questa massiccia campagna acquisti cinese in Italia, e invece di frenare e magari preoccuparsi, rilancia: «I progetti di investimento lungo la Via della seta marittima non finiscono qui», dice: «Il porto di Genova è abbastanza avanti e c’è un interesse anche su quello di Taranto». Ma allora dategli l’Ilva, piuttosto, per scongiurare il disastro che si sta annunciando! A questo punto, sarebbe il male minore.

PECHINO PUÒ SANZIONARE LE IMPRESE ESTERE A SUA DISCREZIONE

Del resto non bisogna mai dimenticare che quello con il colosso-Cina, per un piccolo e geopoliticamente insignificante Paese come il nostro – l’abbiamo detto e scritto molte volte – rischia sempre di trasformarsi in un abbraccio mortale. Per questo la prudenza e l’attenzione devono essere massime. Per esempio sul delicatissimo tema dei cosiddetti crediti sociali, che si sta rivelando uno dei principali ostacoli al raggiungimento dell’auspicato e molto necessario accordo sugli investimenti bilaterali, a cui Cina e Unione Europea lavorano ormai dal 2013. Il sistema dei crediti sociali, secondo i cinesi, mira a creare una società basata «sull’onestà» dispensando premi e punizioni a seconda di come i singoli e anche le aziende si comportano.

Risulta impossibile tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina

Ma secondo un recente rapporto della Camera di Commercio europea, in realtà espone le imprese straniere che operano in Cina a pesanti ritorsioni – fino all’espulsione dal mercato cinese – semplicemente per un commento sgradito o una scritta su una maglietta che i solerti censori pechinesi giudichino – a loro insindacabile giudizio – «lesiva dell’onorabilità e della sovranità del popolo e della nazione cinese». Risulta impossibile, insomma, tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina, a causa della discrezionalità con cui Pechino si arroga il diritto di sanzionare chiunque tocchi il tasto dolente dei diritti umani o metta in dubbio la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, Tibet, mar cinese e qualsiasi altro tema considerato sensibile dai burocrati del Partito comunista. E Dolce e Gabbana, Tiffany, la Nba (per citarne solo alcuni, la lista delle “vittime” si allunga ogni giorno di più) lo sanno bene.

Questa è la triste storia di Giggino che se ne torna tutto solo sulla via della Seta. Nel suo fagotto sulla spalla porta un manciata di riso è un po’ di carne, molte dichiarazioni sbagliate e una serie di gaffe a dir poco imbarazzanti. L’ultima quando a Shanghai gli è stato chiesto di esprimersi sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong: «Abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi», ha risposto. Il vuoto assoluto.

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La triste storia di Luigi Di Maio sulla Via della Seta

Dopo tanti annunci roboanti, il ministro degli Esteri è tornato da Shanghai con un pugno di mosche in mano. Intanto la Cina continua la sua campagna acquisti in Italia.

Giggino è stato a Shanghai. Anzi, il nostro ministro degli Esteri, capo della Farnesina, Luigi Di Maio (detto “Giggino”, ma lui si arrabbia se lo si chiama così) nei giorni scorsi è volato in Cina a capo della delegazione ufficiale italiana alla grande fiera del commercio di Xi Jinping.

Gli annunci che hanno preceduto questa missione cinese sono stati a dir poco mirabolanti: ecco finalmente l’occasione per mettere a frutto le intese firmate a suo tempo con Pechino – l’ormai famosa “fuga in avanti” del passato governo, che ha provocato la ferma l’opposizione del nostro principale alleato, gli Usa e praticamente di tutta l’Unione Europea – intese commerciali, export di pomodori campani, arance napoletane… e questo mondo e quest’altro!

In realtà il povero Di Maio se ne ritorna tutto triste e quatto-quatto da Shanghai con poco più di un pugno di mosche in mano: una manciata di riso e un po’ di carne da vendere in Cina. Ignorato un po’ da tutti e umiliato, tra l’altro, dal presidente francese Emmanuel Macron, che invece ha calcato da protagonista la scena degli incontri cinesi.

DI MAIO HA IGNORATO IL FASTIDIO DEGLI USA PER I RAPPORTI ITALIA-CINA

Insomma, della famosa e contestata Nuova Via della seta tra Pechino e Roma questo è quel che è rimasto? Riso e carne da vendere in Cina, un po’ di turisti cinesi da portare in Italia: nient’altro? E le migliaia di container che dovevano viaggiare pieni di merci prelibate italiane lungo il nuovo asse ferroviario Italia/Europa-Cina, e che invece tornano per il 99% vuoti verso la Cina (mentre lì arrivano strapieni di export da piazzare da noi, in Europa)? Di Maio sembra ignorare questa e molte altre realtà (o forse nessuno del suo staff gliel’ha detto…) intenzionato ad andare avanti imperterrito sulla strada degli investimenti cinesi in Italia, convinto – in modo del tutto irragionevole – di non doversi aspettare nuove tensioni con l’alleato americano.

Gi avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco

«Trump è uno che capisce le ragioni del business», ha dichiarato ai giornalisti italiani a Shanghai, incalzato sull’argomento, «e gli americani non ci hanno mai fatto arrivare nessuna protesta per gli accordi della Via della seta», ha insistito. «La loro preoccupazione era tutta concentrata sul 5G, e ora in Italia abbiamo la normativa più restrittiva d’Europa al riguardo, che si applica a tutte le società senza discriminazioni». Sarà. Peccato però che non sia vero niente: gli avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco. C’è da chiedersi in quale universo politico e su quale scenario internazionale viva di Maio, a questo punto.

LA CAMPAGNA ACQUISTI CINESE IN ITALIA È GIÀ INIZIATA

Sul tavolo shanghaiese di Di Maio c’era poi un altro dossier delicato, per noi: la penetrazione dei capitali cinesi in Italia e la massiccia campagna acquisti che le imprese cinesi stanno facendo nei nostri porti. L’attenzione di Washington per la presenza cinese nel Mediterraneo, infatti, è altissima. Trieste ha chiuso di recente un mega accordo con il colosso di Stato Cccc per costruire in Cina piattaforme logistiche per convogliare export made in Italy. Una buona cosa, in teoria, peccato che in realtà si tratti solo della prima fase di un progetto che prevede l’ingresso massiccio, a gamba tesa, dell’azienda statale cinese nel sistema ferroviario dello scalo triestino.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio durante un brindisi in occasione di una cena con investitori cinesi e rappresentanti di aziende cinesi, a Shanghai.

Ma il nostro ministro degli Esteri non sembra rendersi conto dei rischi di questa massiccia campagna acquisti cinese in Italia, e invece di frenare e magari preoccuparsi, rilancia: «I progetti di investimento lungo la Via della seta marittima non finiscono qui», dice: «Il porto di Genova è abbastanza avanti e c’è un interesse anche su quello di Taranto». Ma allora dategli l’Ilva, piuttosto, per scongiurare il disastro che si sta annunciando! A questo punto, sarebbe il male minore.

PECHINO PUÒ SANZIONARE LE IMPRESE ESTERE A SUA DISCREZIONE

Del resto non bisogna mai dimenticare che quello con il colosso-Cina, per un piccolo e geopoliticamente insignificante Paese come il nostro – l’abbiamo detto e scritto molte volte – rischia sempre di trasformarsi in un abbraccio mortale. Per questo la prudenza e l’attenzione devono essere massime. Per esempio sul delicatissimo tema dei cosiddetti crediti sociali, che si sta rivelando uno dei principali ostacoli al raggiungimento dell’auspicato e molto necessario accordo sugli investimenti bilaterali, a cui Cina e Unione Europea lavorano ormai dal 2013. Il sistema dei crediti sociali, secondo i cinesi, mira a creare una società basata «sull’onestà» dispensando premi e punizioni a seconda di come i singoli e anche le aziende si comportano.

Risulta impossibile tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina

Ma secondo un recente rapporto della Camera di Commercio europea, in realtà espone le imprese straniere che operano in Cina a pesanti ritorsioni – fino all’espulsione dal mercato cinese – semplicemente per un commento sgradito o una scritta su una maglietta che i solerti censori pechinesi giudichino – a loro insindacabile giudizio – «lesiva dell’onorabilità e della sovranità del popolo e della nazione cinese». Risulta impossibile, insomma, tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina, a causa della discrezionalità con cui Pechino si arroga il diritto di sanzionare chiunque tocchi il tasto dolente dei diritti umani o metta in dubbio la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, Tibet, mar cinese e qualsiasi altro tema considerato sensibile dai burocrati del Partito comunista. E Dolce e Gabbana, Tiffany, la Nba (per citarne solo alcuni, la lista delle “vittime” si allunga ogni giorno di più) lo sanno bene.

Questa è la triste storia di Giggino che se ne torna tutto solo sulla via della Seta. Nel suo fagotto sulla spalla porta un manciata di riso è un po’ di carne, molte dichiarazioni sbagliate e una serie di gaffe a dir poco imbarazzanti. L’ultima quando a Shanghai gli è stato chiesto di esprimersi sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong: «Abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi», ha risposto. Il vuoto assoluto.

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La triste storia di Luigi Di Maio sulla Via della Seta

Dopo tanti annunci roboanti, il ministro degli Esteri è tornato da Shanghai con un pugno di mosche in mano. Intanto la Cina continua la sua campagna acquisti in Italia.

Giggino è stato a Shanghai. Anzi, il nostro ministro degli Esteri, capo della Farnesina, Luigi Di Maio (detto “Giggino”, ma lui si arrabbia se lo si chiama così) nei giorni scorsi è volato in Cina a capo della delegazione ufficiale italiana alla grande fiera del commercio di Xi Jinping.

Gli annunci che hanno preceduto questa missione cinese sono stati a dir poco mirabolanti: ecco finalmente l’occasione per mettere a frutto le intese firmate a suo tempo con Pechino – l’ormai famosa “fuga in avanti” del passato governo, che ha provocato la ferma l’opposizione del nostro principale alleato, gli Usa e praticamente di tutta l’Unione Europea – intese commerciali, export di pomodori campani, arance napoletane… e questo mondo e quest’altro!

In realtà il povero Di Maio se ne ritorna tutto triste e quatto-quatto da Shanghai con poco più di un pugno di mosche in mano: una manciata di riso e un po’ di carne da vendere in Cina. Ignorato un po’ da tutti e umiliato, tra l’altro, dal presidente francese Emmanuel Macron, che invece ha calcato da protagonista la scena degli incontri cinesi.

DI MAIO HA IGNORATO IL FASTIDIO DEGLI USA PER I RAPPORTI ITALIA-CINA

Insomma, della famosa e contestata Nuova Via della seta tra Pechino e Roma questo è quel che è rimasto? Riso e carne da vendere in Cina, un po’ di turisti cinesi da portare in Italia: nient’altro? E le migliaia di container che dovevano viaggiare pieni di merci prelibate italiane lungo il nuovo asse ferroviario Italia/Europa-Cina, e che invece tornano per il 99% vuoti verso la Cina (mentre lì arrivano strapieni di export da piazzare da noi, in Europa)? Di Maio sembra ignorare questa e molte altre realtà (o forse nessuno del suo staff gliel’ha detto…) intenzionato ad andare avanti imperterrito sulla strada degli investimenti cinesi in Italia, convinto – in modo del tutto irragionevole – di non doversi aspettare nuove tensioni con l’alleato americano.

Gi avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco

«Trump è uno che capisce le ragioni del business», ha dichiarato ai giornalisti italiani a Shanghai, incalzato sull’argomento, «e gli americani non ci hanno mai fatto arrivare nessuna protesta per gli accordi della Via della seta», ha insistito. «La loro preoccupazione era tutta concentrata sul 5G, e ora in Italia abbiamo la normativa più restrittiva d’Europa al riguardo, che si applica a tutte le società senza discriminazioni». Sarà. Peccato però che non sia vero niente: gli avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco. C’è da chiedersi in quale universo politico e su quale scenario internazionale viva di Maio, a questo punto.

LA CAMPAGNA ACQUISTI CINESE IN ITALIA È GIÀ INIZIATA

Sul tavolo shanghaiese di Di Maio c’era poi un altro dossier delicato, per noi: la penetrazione dei capitali cinesi in Italia e la massiccia campagna acquisti che le imprese cinesi stanno facendo nei nostri porti. L’attenzione di Washington per la presenza cinese nel Mediterraneo, infatti, è altissima. Trieste ha chiuso di recente un mega accordo con il colosso di Stato Cccc per costruire in Cina piattaforme logistiche per convogliare export made in Italy. Una buona cosa, in teoria, peccato che in realtà si tratti solo della prima fase di un progetto che prevede l’ingresso massiccio, a gamba tesa, dell’azienda statale cinese nel sistema ferroviario dello scalo triestino.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio durante un brindisi in occasione di una cena con investitori cinesi e rappresentanti di aziende cinesi, a Shanghai.

Ma il nostro ministro degli Esteri non sembra rendersi conto dei rischi di questa massiccia campagna acquisti cinese in Italia, e invece di frenare e magari preoccuparsi, rilancia: «I progetti di investimento lungo la Via della seta marittima non finiscono qui», dice: «Il porto di Genova è abbastanza avanti e c’è un interesse anche su quello di Taranto». Ma allora dategli l’Ilva, piuttosto, per scongiurare il disastro che si sta annunciando! A questo punto, sarebbe il male minore.

PECHINO PUÒ SANZIONARE LE IMPRESE ESTERE A SUA DISCREZIONE

Del resto non bisogna mai dimenticare che quello con il colosso-Cina, per un piccolo e geopoliticamente insignificante Paese come il nostro – l’abbiamo detto e scritto molte volte – rischia sempre di trasformarsi in un abbraccio mortale. Per questo la prudenza e l’attenzione devono essere massime. Per esempio sul delicatissimo tema dei cosiddetti crediti sociali, che si sta rivelando uno dei principali ostacoli al raggiungimento dell’auspicato e molto necessario accordo sugli investimenti bilaterali, a cui Cina e Unione Europea lavorano ormai dal 2013. Il sistema dei crediti sociali, secondo i cinesi, mira a creare una società basata «sull’onestà» dispensando premi e punizioni a seconda di come i singoli e anche le aziende si comportano.

Risulta impossibile tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina

Ma secondo un recente rapporto della Camera di Commercio europea, in realtà espone le imprese straniere che operano in Cina a pesanti ritorsioni – fino all’espulsione dal mercato cinese – semplicemente per un commento sgradito o una scritta su una maglietta che i solerti censori pechinesi giudichino – a loro insindacabile giudizio – «lesiva dell’onorabilità e della sovranità del popolo e della nazione cinese». Risulta impossibile, insomma, tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina, a causa della discrezionalità con cui Pechino si arroga il diritto di sanzionare chiunque tocchi il tasto dolente dei diritti umani o metta in dubbio la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, Tibet, mar cinese e qualsiasi altro tema considerato sensibile dai burocrati del Partito comunista. E Dolce e Gabbana, Tiffany, la Nba (per citarne solo alcuni, la lista delle “vittime” si allunga ogni giorno di più) lo sanno bene.

Questa è la triste storia di Giggino che se ne torna tutto solo sulla via della Seta. Nel suo fagotto sulla spalla porta un manciata di riso è un po’ di carne, molte dichiarazioni sbagliate e una serie di gaffe a dir poco imbarazzanti. L’ultima quando a Shanghai gli è stato chiesto di esprimersi sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong: «Abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi», ha risposto. Il vuoto assoluto.

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