Via libera in Spagna al governo formato da socialisti e Podemos

I 13 deputati dell'Erc, la sinistra repubblicana catalana, hanno deciso che si asterranno nel voto di fiducia.

In Spagna i 13 deputati dell’Erc, sinistra repubblicana catalana, hanno deciso che si asterranno nel voto di fiducia, dando così il via libera al premier socialista incaricato Pedro Sanchez di formare un governo con la sinistra di Podemos di Pablo Iglesias. La decisione conclude una crisi politica che in Spagna che non si è sblocca da mesi, nonostante due elezioni anticipate. Il voto di fiducia è previsto nel fine settimana.

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Il parlamento turco ha approvato l’invio di truppe in Libia

I soldati verranno schierati a sostegno del governo di Tripoli presieduto da Fayez al-Serraj. Il mandato è valido per un anno.

Il parlamento della Turchia ha approvato l’invio di truppe in Libia a sostegno delle milizie che difendono il governo di Tripoli presieduto da Fayez al-Serraj. La mozione che ha ottenuto l’ok consente al presidente Recep Tayyip Erdogan di inviare soldati da schierare per un anno contro le forze del generale Khalifa Haftar: 325 deputati hanno votato a favore, 184 contro.

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La fuga di Ghosn dal Giappone sta diventando un caso diplomatico

Faro delle autorità turche sul passaggio dell'ex presidente Nissan nel Paese prima dell'arrivo in Libano. Almeno cinque le persone fermate. E la Francia offre asilo. La situazione.

L’arrivo in Libano dell’ex presidente di Nissan Carlos Ghosn sta diventando sempre più un caso diplomatico. I fronti sono almeno tre: quello libanese, quello turco e ultimo in ordine di tempo quello francese.

LO SCENARIO LIBANESE: SMENTITI I CONTATTI COL PRESIDENTE AOUN

Venendo al primo, scrive il Financial Times, le autorità di Beirut avrebbero chiesto il rientro del manager già una settimana prima della fuga vera e propria. Non solo. Secondo al Jazeera Ghosn avrebbe incontrato il presidente libanese Michel Aoun il giorno dopo l’arrivo in Libano. Ipotesi poi smentita dall’ufficio della presidenza libanese: «Non è stato accolto dal presidente e non l’ha mai incontrato», ha fatto sapere un funzionario. Con ogni probabilità potrebbe arrivare qualche chiarimento il prossimo 8 gennaio, quando Ghosn terrà una conferenza stampa.

ARRESTI IN TURCHIA PER LO SCALO DAL GIAPPONE

Intanto si è aperto anche un fronte ad Ankara. La Turchia ha aperto un’indagine sul passaggio dell’ex presidente di Nissan-Renault. Secondo i media turchi, alcune persone sono già state arrestate ed interrogate. Nei giorni immediatamente successivi i media libanesi avevano riferito che Ghosn era atterrato all’aeroporto di Beirut con un jet privato proveniente da Istanbul. Stando alle prime indiscrezioni i fermati sarebbero sette e tra di loro ci sarebbero quattro piloti, il dirigente di una società di cargo e due dipendenti aeroportuali. Il Libano ha affermato che Ghosn è entrato “legalmente” nel Paese e non c’era motivo di agire contro di lui.

LA FRANCIA PROMETTE DI NON ESTRADARLO

Nel complesso scacchiere si è poi inserita anche la variabile francese. Secondo fonti sentite dal canale pubblico Nhk Carlos Ghosn era stato autorizzato dalla giustizia giapponese a mantenere in suo possesso un secondo passaporto francese, con il quale presumibilmente sarebbe entrato in Libano. Il manager, per ragioni che non si conoscono, possedeva due passaporti d’oltralpe, trattenuti entrambi dal suo avvocato, insieme a quello libanese, fino allo scorso mese di maggio, quando riuscì a ottenere la restituzione di uno dei due documenti francesi per ragioni legali. Il documento doveva essere conservato in una cassaforte chiusa a chiave. Intanto da Parigi è arrivato un altro aiuto a Ghosn: il segretario di stato all’economia Agnes Pannier-Runacher ha fatto sapere che la Francia «non estraderà» il manager se arriverà nel Paese.

IN GIAPPONE PROSEGUONO LE INDAGNI

Intanto, le autorità nipponiche hanno perquisito l’abitazione dell’ex tycoon e recuperato le immagini delle telecamere di sorveglianza per studiare l’esecuzione del piano di fuga messo in atto e l’eventuale esistenza di complici. Il 31 dicembre scorso la corte distrettuale di Tokyo ha revocato la libertà vigilata di Ghosn su richiesta del pubblico ministero, ordinando la confisca della cauzione di 1,5 miliardi di yen (12,3 milioni di euro). Il governo di Tokyo non ha firmato un trattato di estradizione con il Libano, rendendo molto difficile la cooperazione giudiziaria con Beirut, che con molta probabilità rifiuterà di consegnare l’ex tycoon alla giustizia nipponica.

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Cade elicottero a Taiwan, morto il capo di stato maggiore

Un velivolo dell'esercito è precipitato poco dopo il decollo. Tra le vittime diversi ufficiali. Ancora ignote le cause dello schianto.

Brutto incidente aereo a Taiwan. Un elicottero militare con a bordo di 13 persone è precipitato nei pressi delle montagne del distretto di Wulai di New Taipei. Le vittime finora accertate sono otto, tra di loro anche il capo dello stato maggiore, il generale Shen Yi-ming. Lo riferisce il ministero della Difesa taiwanese. Secondo i media locali, delle persone a bordo dell’UH-60M Black Hawk solo cinque si sono salvate. L’incidente, le cui cause sono ancora da chiarire, è avvenuto a pochi giorni dalle elezioni presidenziali dell’11 gennaio.

FALLITO OGNI TENTATIVO DI ATTERRAGGIO

Il Black Hawk, in dotazione all’Air Force Rescue Team, è partito nella mattinata del 2 gennaio dalla base aerea di Songshan, alle porte di Taipei, intorno alle 7:54 locali (00:54 in Italia) diretto alla base militare Dong’ao di Yilan per un’ispezione ordinaria prima della lunga festività del Capodanno lunare. Il velivolo è scomparso tuttavia è dai radar meno di 15 minuti dopo il decollo, fallendo il tentativo di atterraggio d’emergenza tra le montagne. Il ministero della Difesa ha istituito una task force per indagare sull’incidente.

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Un milione di persone in piazza a Hong Kong

Corteo autorizzato e in partenza pacifico. Ma poi è sfociato in scontri con la polizia che hanno portato a circa 400 arresti.

Comincia all’insegna della protesta anche il nuovo anno a Hong Kong dove sono scesi in piazza in massa i manifestanti pro democrazia – 1 milione secondo gli organizzatori – per un corteo autorizzato e in partenza pacifico, ma poi sfociato in scontri con le forze dell’ordine, finiti con l’arresto di circa 400 persone.

SETTE MESI ININTERROTTI DI MOBILITAZIONE

La gran parte del 2019 è stata segnata dalla protesta, con sette mesi ininterrotti di mobilitazione scanditi da disordini e un’escalation della rivolta che vede ancora contrapposti dimostranti e forze dell’ordine, anche nei cortei di Capodanno: i manifestanti si erano radunati nel Victoria Park per poi marciare attraverso l’isola principale dell’ex protettorato britannico fino a Central, il cuore commerciale dell‘hub finanziario internazionale.

I MANIFESTANTI CHIEDONO ELEZIONI LIBERE E AMNISTIA

Molti esibivano striscioni con le principali richieste, tra cui elezioni totalmente libere, un’inchiesta indipendente sulla gestione della polizia e l’amnistia per le quasi 6.500 persone arrestate durante le proteste. La violenza è però esplosa dopo qualche ora a margine della marcia principale, con scontri fra agenti e dimostranti a volto coperto registrati in più quartieri: la polizia antisommossa ha usato spray urticante e gas lacrimogeni, mentre alcuni manifestanti hanno lanciato molotov.

UN RECORD PER IL MOVIMENTO DI PROTESTA

Dimostranti mascherati di nero si sono inoltre radunati per allestire barricate improvvisate, alcune strutture sono state vandalizzate. È a quel punto che è stato ordinato agli organizzatori di terminare il corteo. Questi ne avevano però già decretato il successo, parlando di una partecipazione record: «Crediamo che l’adesione alla marcia di oggi abbia superato l’1,03 milioni del 9 giugno», con riferimento alla marea umana che era scesa in piazza quel giorno e che aveva di fatto segnato l’inizio del movimento di protesta. Sono cifre che si distaccano notevolmente da quelle indicate dalla polizia, che per la manifestazione di Capodanno segnala soltanto 60 mila partecipanti.

ARRESTATE CIRCA 400 PERSONE

Intanto si ripetono scene fin troppo note e che si sono succedute a più riprese negli ultimi mesi: la polizia in assetto antisommossa che usa spray urticanti, spara lacrimogeni e ricorre a cannoni ad acqua per disperdere la folla, in particolare quei dimostranti irriducibili determinati a fare resistenza, costruendo barricate, dotandosi di Molotov, assaltando esercizi commerciali associati a Pechino. Di qui gli scontri che hanno portato a circa 400 arresti per «raduno illegale e detenzione di armi». Le tensioni verificatesi nelle scorse ore sono comunque circoscritte e limitate rispetto ai momenti più drammatici vissuti nei mesi scorsi.

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Capodanno di proteste e violenze a Hong Kong

Sit-in e barricate nel cuore dell'ex colonia per la fine del nuovo anno. Gruppi di manifestanti sono stati poi dispersi dall'intervento della polizia. Timori per la manifestazione del primo gennaio.

La polizia di Hong Kong ha sparato gas lacrimogeni sui manifestanti pro democrazia poco dopo lo scoccare del Capodanno 2020, una scadenza che gli attivisti hanno trasformato in una occasione di protesta. Lo riportano i media internazionali. I manifestanti hanno organizzato raduni a tarda sera salutando il nuovo anno in piazza, in vista di un corteo di massa previsto per il primo gennaio. Poco prima della mezzanotte, migliaia di persone si sono radunate nel quartiere degli affari, lungo il lungomare di Victoria Harbour e nella zona della movida di Lan Kwai Fong.

BARRICATE INCENDIATE A MONG KOK

Il gruppo concentrato al porto ha inneggiato un conto alla rovescia verso il nuovo anno cantando: «Dieci! Nove! Liberate Hong Kong, la rivoluzione ora!» ondeggiando i telefoni accesi. Gruppi più piccoli di manifestanti hanno eretto barricate nel distretto di Mong Kok e le hanno incendiate, ed è stato qui che la polizia antisommossa ha scatenato, in risposta, le prime raffiche di gas lacrimogeni del 2020. Mancavano invece pochi secondi alla mezzanotte quando la polizia ha usato i cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti in una zona attigua, mentre nel vicino quartiere Principe Edoardo gli agenti hanno arrestato diversi manifestanti che avevano organizzato una veglia a lume di candela. All’inizio della serata, migliaia di persone hanno inscenato catene umane che si estendevano per miglia lungo le trafficate strade dello shopping e i quartieri residenziali. Il tradizionale spettacolo pirotecnico dei fuochi d’artificio della vigilia di Capodanno è stato annullato per motivi di sicurezza; ammessi solo spettacoli di luci e fuochi d’artificio a dimensione familiare.

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Dazi Usa-Cina, verso la firma dell’intesa a metà gennaio

Il presidente americano Trump ha twittato che Washington e Pechino firmeranno la prima parte dell'intesa all'inizio dell'anno per poi continuare avviare la seconda fase dei colloqui.

«Firmerò la fase uno del nostro grande e completo accordo commerciale con la Cina il 15 gennaio. La cerimonia avrà luogo alla Casa Bianca. Saranno presenti rappresentanti di alto livello della Cina. In seguito andrò a Pechino, dove inizieranno i colloqui sulla fase due». È quanto ha scritto su Twitter il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

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Centinaia di manifestanti contro l’ambasciata americana di Baghdad

Hanno tentato di assaltare l'edificio dopo i raid che hanno provocato la morte di 25 combattenti di una milizia sciita appoggiata dall'Iran.

Centinaia di iracheni hanno tentato di assaltare l’ambasciata americana di Baghdad, per protestare contro i raid Usa che hanno ucciso 25 combattenti di una milizia sciita appoggiata dall’Iran.

Secondo il New York Times i partecipanti al funerale, una volta terminata la cerimonia, hanno deciso di marciare verso la Zona Verde dove ha sede l’ambasciata. La folla ha uralto: «Down, down Usa!».

Le guardie di sicurezza si sono ritirate all’interno del palazzo, mentre i manifestanti hanno lanciato bottiglie e distrutto le telecamere di sicurezza all’esterno dell’edificio. I manifestanti hanno anche appeso fuori dalle mura dell’ambasciata le bandiere gialle della milizia Kataeb Hezbollah.

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Il 2019 attraverso gli avvenimenti nel mondo

L'effetto Greta sul dibattito climatico. L'ondata di proteste, dal Sudamerica a Hong Kong. Le elezioni europee e quelle britanniche. L'impeachment di Trump e la cattura di al Baghdadi. I 10 fatti dall'estero che hanno segnato quest'anno.

Greta Thunberg e la questione climatica. Le proteste a Hong Kong, in Medio Oriente e in Sudamerica. Ma anche l’impeachment di Donald Trump, le elezioni britanniche che blindano la Brexit, le elezioni nell’Ue e la frenata della Germania. I 10 fatti esteri cruciali del 2019.

1 – LA QUESTIONE CLIMATICA ESPLOSA CON GRETA

Sull’onda dei cambiamenti climatici è esploso il movimento globale di Greta Thunberg. Milioni di adolescenti hanno manifestato ai Fridays for future nelle metropoli del mondo, Roma e le altre capitali europee, a New York, New Delhi, Istanbul, per salvare il pianeta. Quest’estate in Groenlandia sono scorsi torrenti di acque sciolte dai ghiacci, all’Artide sono divampati incendi a catena, nel Mediterraneo si sono scatenate trombe d’aria mentre l’Europa continentale soffriva la siccità. Greta ha attraversato l’Atlantico in barca a vela, per parlare del riscaldamento globale all’Assemblea dell’Onu a New York evitando le emissioni Co2 degli aerei. E a dicembre l’attivista ha visitato i Fridays for future di Torino.

2 – IL FIUME UMANO DI HONG KONG IN MARCIA PER LA DEMOCRAZIA

Da marzo 2019 Hong Kong marcia per la democrazia. Le proteste nella regione amministrativa speciale della Cina sono rimontate per le modifiche tentate sull’isola alla legge sull’estradizione, che avrebbe permesso i trasferimenti di ricercati anche verso la Cina (al momento priva di accordo per l’estradizione). Una manovra, si è temuto, che avrebbe dato margine a Pechino di azione sui dissidenti rifugiati a Hong Kong. Milioni di cittadini dell’ex colonia britannica chiedono le dimissioni del governo filocinese, un’inchiesta sulle repressioni della polizia (due uccisi e più di 2600 feriti dalla primavera), il rilascio dei 4.500 arrestati, libertà di  manifestazione del pensiero e la difesa dell’autonomia.

3 – LA TEMPESTA DELL’IMPEACHMENT SULLE PRESIDENZIALI USA

A dicembre 2019 la Camera, a maggioranza democratica, del Congresso americano ha dato il via libera all’impeachment contro Donald Trump, per abuso di potere e di ostruzione all’Assemblea legislativa. A inizio 2020 partirà il processo davanti al Senato del terzo presidente della storia degli Usa incriminato per gravi reati contro la Costituzione. Trump conta di aggirare l’impeachment perché la maggioranza dei senatori sono repubblicani. Ma la procedura, aperta a settembre dalla presidente della Camera Nancy Pelosi dopo la notizia circostanziata di pressioni sull’Ucraina di Trump, per far indagare il candidato democratico Joe Biden,  è la tempesta perfetta sulle Presidenziali del 2020.

4 – LA CATTURA DI AL BAGHDADI GRAZIE AI CURDI ABBANDONATI

La notte del 27 ottobre 2019 il capo dell‘Isis Abu Bakr al Baghdadi si è fatto saltare in aria nell’assalto delle forze speciali americane al suo fortino nel Nord della Siria, a circa 5 chilometri dalla Turchia. I resti del sedicente califfo sono stati dispersi in mare; la  sua morte, a 48 anni, è stata confermata anche dall’Isis, che ha nominato successore Abu Ibrahim al Qurayshi e promesso attentati. L’operazione degli americani contro al Baghdadi è andata a segno soprattutto grazie alle informazioni passate loro dalle forze curdo-siriane (Ypg) che avevano combattuto e liberato i territori occupati dall’Isis. Clamorosamente abbandonate nel 2019 dai militari Usa che, su ordine di Trump, si sono ritirati dal Rojava presto invaso dalla Turchia.

5 – VON DER LEYEN E LE ALTRE ALLA GUIDA DELL’UE

Tra il 23 e il 29 maggio 2019 i cittadini dell‘Ue hanno eletto il nuovo parlamento di Strasburgo. L’accordo tra popolari (Ppe, 37 seggi), socialisti (Se, 32 seggi) e liberali (Alde, 37 seggi) è sfociato a luglio nell’elezione di Ursula von der Leyen, ex ministro tedesco della Difesa, alla presidenza della Commissione Ue. L’intesa tra forze ha compreso la nomina della francese Christine Lagarde, ex capo del Fondo monetario internazionale (Fmi), ai vertici della Banca centrale europea (Bce) al posto di Mario Draghi. Per la prima volta due donne siedono al comando dei principali organi decisionali europei – e l’economista bulgara Kristalina Georgieva, già commissario e vicepresidente della CommIssione Ue, del Fmi.

6 – LE SOCIETÀ MEDIORIENTALI CONTRO I CLAN POLITICI

Il 2019 è stato l’anno delle nuove proteste di massa nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Dal 22 febbraio in Algeria un fiume umano di manifestanti pacifici si è riversato nelle strade, pretendendo una transizione democratica dopo aver bloccato la rielezione farsa dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika. Dall’autunno anche in Libano e in Iraq la popolazione è insorta contro i governi corrotti, per il ricambio della vecchia classe politica. Un’onda lunga, come per le Primavere arabe del 2011, che ha toccato anche il Kuwait, dove come in Libano l’esecutivo in carica si è dimesso per venire incontro alla volontà popolare. In Iraq, invece, si è sparato sulla folla: oltre 400 morti in due mesi, migliaia i feriti e gli arrestati tra i civili.

7 – L’IRAN SCATENATO DALLE SANZIONI MASSIME DI TRUMP

Ancor più cruenta è stata la repressione delle rivolte dilagate in Iran, a 10 anni dall’Onda verde del 2009, contro raddoppio del prezzo della benzina. Per Amnesty international «almeno 106 morti in 21 città» in tre giorni, sulla base di «filmati verificati e testimonianze sul terreno». Internet e le reti mobili sono state oscurate il secondo e il terzo giorno delle proteste  contro il regime: una crisi innescata dal grave avvitamento economico dell’Iran a causa delle massime sanzioni degli Usa, in vigore da aprile 2019. Proprio in quel mese si votava in Israele: un regalo inutile di Trump al premier Benjamin Netanyahu, costretto senza maggioranza a tornare alle urne a settembre e ancora a marzo 2020. Intanto l’Iran brucia.

8 – IL TRIONFO DI JOHNSON CHE SPINGE LONDRA FUORI DALL’UE

Il 2019 si chiude con la tormentata Brexit del Regno Unito. Il trionfo Oltremanica di Boris Johnson alle Legislative anticipate del 12 dicembre segna il divorzio dall’Ue, entro il 31 gennaio 2020. Con una maggioranza netta, decade l’ostruzionismo del parlamento verso il leader conservatore che preme l’acceleratore sul leave. Il nuovo accordo di Johnson con Bruxelles – dopo i flop della premier Theresa May e le sue dimissioni – prevede una transizione fino al 31 dicembre 2020, per un’uscita soft e guidata dai trattati europei e per la rinegoziazione dei rapporti economici e commerciali con l’Ue. Grandi interrogativi si aprono in compenso sul remain della Scozia e dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito.

9 – IL SUDAMERICA SCOSSO DALLE DISEGUAGLIANZE

Anche diversi Stati sudamericani sono diventati turbolenti nel 2019, a causa dell’aumento delle diseguaglianze. Se in Venezuela era prevedibile l’auto-investitura a presidente, a gennaio, di un leader dell’opposizione come Juan Guaidó, molto meno lo erano le proteste violente del Cile (15 morti) contro i rincari, che a ottobre hanno riportato il coprifuoco a Santiago come ai tempi di Pinochet. Anche in Argentina si è manifestato contro i tagli alla spesa. In Brasile, contro l’ultradestra di Jair Bolsonaro. In Ecuador contro lo stop ai sussidi per il carburante. A novembre, altra sorpresa, sull’onda delle proteste contro la sua rielezione il presidente indigeno Evo Morales ha lasciato la Bolivia, governata ad interim dall’ultradestra.

10- LA FRENATA DELLA LOCOMOTIVA D’EUROPA

Nel 2019, last but not least, ha frenato la Germania, la locomotiva d’Europa. Per la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina, i dazi di Trump imposti (sull’acciaio) e minacciati (sulle auto) all’Ue, non ultima l’incertezza sulla Brexit i tedeschi hanno rallentato l’export (-8% rispetto al 2018) e, di conseguenza la produzione industriale, soprattutto nella siderurgia e dell’automotive. Il rallentamento ha ricadute sui distretti industriali collegati, in primis gli italiani, e aggrava le crisi politiche: nel 2019 a Roma è caduto il governo gialloverde ma si è evitato di tornare al voto. Non ci è riuscita la Spagna che nel 2019 ha votato due volte e resta senza maggioranza, mentre in Germania vacilla di nuovo la Grande coalizione.

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Le mosse della Turchia in Libia a sostegno di al-Sarraj

Conferme sullo sbarco a Tripoli di centinaia di ribelli siriani, cooptati dalla Turchia. Obiettivo: fermare l'avanzata di Haftar. In attesa del voto del parlamento turco sull'invio delle truppe.

Ankara accelera sul sostegno all’esercito libico di Fayez al-Sarraj. Il pomeriggio del 29 dicembre, diversi media internazionali, citando l’Osservatorio siriano per i diritti umani, hanno riferito che circa 300 ribelli siriani, cooptati dalla Turchia, sono stati inviati a Tripoli per combattere a fianco dell’esercito di al-Sarraj, sostenuto da Ankara, contro l’offensiva del generale Khalifa Haftar, che gode dell’appoggio di Russia, Egitto e Francia. Altri 900-1000 miliziani sarebbero stati invece trasferiti in campi di addestramento turchi in attesa di partire per la Libia. Secondo le stesse fonti l’ingaggio avrebbe una durata di 3-6 mesi ed un compenso tra i 2 mila ed i 2.500 dollari.

I VIDEO DELLA DISCORDIA

In mattinata, l’ufficio stampa del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna), guidato da al-Sarraj, aveva smentito la veridicità di alcuni video, «pubblicati su pagine di sostenitori del criminale di guerra Haftar» e circolati sui social network, che ritraggono alcuni combattenti siriani in Libia. «Questi video sono stati verificati dai canali di notizie locali e internazionali e risulta che siano stati girati nella città di Idlib, in Siria», si legge sulla pagina Facebook dell’Ufficio media del governo di Tripoli. «Il Gna afferma che perseguirà tutti coloro che contribuiscono alla pubblicazione di queste menzogne e di altre calunnie, che sono un tentativo disperato di distorcere le vittorie sull’aggressore, compiute dall’esercito libico», conclude la nota.

ANKARA ANTICIPA IL VOTO SULL’INVIO DI TRUPPE

Nel frattempo, il Parlamento turco ha anticipato a giovedì 2 gennaio alle 14 locali (le 12 in Italia) il voto sulla mozione dell’Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan che autorizza l’invio di truppe in Libia a sostegno del governo di accordo nazionale di al-Sarraj contro l’offensiva di Haftar. La riapertura ordinaria della Grande assemblea nazionale di Ankara dopo le festività di fine anno era fissata il 7 gennaio. Il testo della mozione dovrebbe giungere in Parlamento già il 30 dicembre, secondo l’agenzia Dogan.

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I sogni di Putin si scontrano con la capacità produttiva russa

Mosca si pone come modello di una nuova era. E spera nello smantellamento dell'Ue. A partire dalla Brexit. Ma in economia e finanza il sistema del Cremlino non ha mai funzionato. Così le ambizioni dello zar non sono supportate.

La vocazione imperiale sta nei cromosomi di una nazione, della sua classe dirigente, e non è solo questione di forza, ma anche di astuzia. E di Storia. C’è un Paese che ha lo stesso Prodotto interno lordo (Pil), cioè la capacità di creare ricchezza misurata di solito su base annua, della Spagna, pur avendo più del triplo degli abitanti e ricchezze minerarie ed energetiche infinitamente superiori. Un Paese economicamente assai debole quindi. Essere come la Spagna quanto a Pil significa essere di un buon 25% più piccoli dell’Italia. Questo Paese ha prodotto una delle grandi culture, tra letteratura, musica e arti, dell’umanità, e da molto tempo cerca di non essere inferiore a nessuno quanto ad armi e capacità strategica, ma ha sempre fatto vivere il suo popolo assai meno bene di quanto non si viva da tempo nelle terre bagnate da Reno, Senna, Po, Tamigi ed Ebro. Eppure questo Paese si pone ormai come modello di una nuova era, come un tempo si atteggiava a faro della rivoluzione mondiale.

IL SENSO DELLA NAZIONE COME UNICA IDEOLOGIA

Il presidente russo Vladimir Putin è stato chiarissimo, anche nella conferenza stampa di fine anno il 19 dicembre 2019 a Mosca, una settimana dopo il trionfo della Brexit. Putin ha salutato questo responso delle urne con favore ricordando come il premier Boris Johnson abbia capito gli umori del suo Paese meglio degli oppositori. Interferenze russe nella politica britannica? Tutte illazioni, ha detto Putin. E ha indicato nel senso della nazione e della sua identità e missione, «l’unica ideologia possibile in una moderna società democratica».

PUTIN HA DECRETATO LA FINE DEL LIBERALISMO

A giugno 2019, intervistato dal Financial Times, Putin aveva decretato la fine del liberalismo (teoria storica con varie identità ma sempre basata su libertà individuali, consenso dei governati e uguaglianza di fronte alla legge) ormai «sopravissuto a se stesso», che ha «esaurito i suoi scopi» e minato dalla crescente ostilità degli elettori verso l’immigrazione, il multiculturalismo e i valori laici a spese di quelli religiosi. Putin vedeva in atto quindi anche nel mondo occidentale una trasmigrazione dal liberalismo al nazional populismo. E insisteva sulla conseguente fine dell’ordine internazionale creato dall’Occidente dopo il 1945.

MA L’ORIENTE RUSSO NON FUNZIONA ECONOMICAMENTE

Questo è un punto fermo moscovita a partire dalla crisi finanziaria del 2008, la prova che l’Occidente non funziona più. Il guaio è però che, in economia e finanza, neppure l’Oriente russo ha mai funzionato. Non è un mistero che la prima istituzione multilaterale occidentale da archiviare, secondo il Cremlino, sia l’Unione europea, un’organizzazione nata a suo tempo con il forte patrocinio americano e che Mosca considera un retaggio della Guerra fredda. Per questo la Brexit è stata salutata con favore. Per questo anche l’intervista di giugno, piena di accuse agli Stati Uniti, opera un netto distinguo fra la tradizionale diplomazia americana aspramente criticata e Donald Trump, trattato con rispetto e simpatia, anche perché Trump per motivi commerciali di breve termine, e di scarsa perspicacia, è ugualmente anti-Ue.

IL SOGNO DELLA FINLANDIZZAZIONE DELL’EUROPA

Per Mosca una crisi profonda e uno smantellamento dell’Unione sarebbe il coronamento di una politica secolare che ha visto nell’Europa occidentale da sempre una minaccia dovuta prima di tutto ai successi economici di quelle piccole nazioni oggi militarmente insignificanti ma, rispetto alla Russia, così produttive anche se moralmente corrotte, cosa che una certa cultura russa ripete da almeno 150 anni. Dagli zar a Lenin a Stalin a Putin la finlandizzazione dell’Europa è stato un sogno, prima molto ardito nell’epoca d’oro dell’industrializzazione e del potere europeo (1830-1913), poi a portata di mano nel 1945 non fosse altro per l’innaturale “ritorno” in Europa degli americani nel ’47, con la Nato e, poco dopo, le istituzioni europee. Finlandizzazione vuol dire una cosa molto semplice: simbiosi fra industria europea e materie prime russe, e rispetto dalla Vistola alla Manica per la diplomazia sovietica e i suoi missili.

TRUMP FRA OPPORTUNISMO E IGNORANZA STORICA

I tempi sembrano propizi, con l’Europa che si interroga sul suo futuro a fronte di una indubbia crisi e cambiamento del “vecchio” sistema americanocentrico. Quest’ultimo in parte un fenomeno naturale dopo oltre 70 anni e in parte frutto della profonda ignoranza storica e dell’opportunismo cronico di Trump. Il putinismo, nella sua proiezione diplomatica sull’Europa, ha obiettivi chiari e strategie ben mimetizzate. Vuole trarre vantaggio da un’Europa che si interroga sul futuro e sembra colta come già nei primi Anni 20 del 1900, dopo lo sfacelo della Grande guerra e per fortuna in forma blanda, da un attacco di quella che lo storico Guglielmo Ferrero aveva battezzato la grande peur, l’ansia da incertezza delle masse francesi (Ferrero coniò il termine per la Rivoluzione francese) e poi europee. La riscoperta del nazionalismo, sentimento nobile se moderato (patriottismo) e illogico nell’Europa di oggi se esasperato, è tutta qui, Brexit compresa, nella piccola grande peur in cerca di facili certezze.

L’ILLUSIONE DEMOCRATICA DI POTER SCEGLIERE

Putin si offre come soluzione. Per chi volesse un trattato sul putinismo un lungo articolo uscito nel febbraio 2019 sulla Nezavisimaya Gazeta e riassunto subito da alcuni giornali occidentali è un testo base. Lo ha scritto Vladislav Surkov, 55 anni, madre russa e padre ceceno, uomo d’affari e politico, già vice premier e ideologo ufficioso della russia putiniana e dal 2013 consulente personale di Putin. Surkov è il padre della formula della managed democracy, affidata a un capo «capace di ascoltare capire e vedere», migliore di quella «illusione di poter scegliere» che la democrazia formale occidentale (la definivano così anche i bolscevichi) promette e non mantiene.

PROGETTI DI GRANDEZZA E SCENARI DI SECOLO GLORIOSO

Il putinismo è «l’ideologia del futuro», sostiene Surkov, e «l’algoritmo politico» di Putin ha capito le cause della volatilità e per questo è sempre più seguito anche dai leader occidentali, spinti a offrire certezze e quindi nazionalismo. Il nazionalismo trionfante sarebbe la fine definitiva del sistema multilaterale americanocentrico e dell’Unione europea, e una grande vittoria russa. La Russia vive con Putin, dice Surkov, la quarta delle sue stagioni di grandezza, dopo quelle di Ivan il Grande (o il Terribile), di Pietro il Grande, di Vladimir Lenin, e sarà presto riconosciuta come faro del mondo intero. È ormai avviato «un secolo glorioso» per il sistema politico putiniano. Putin «gioca con i meccanismi mentali dell’Occidente», continua Surkov, «che non sanno come muoversi a fronte delle loro nuove prese di coscienza».

TENTATIVO DI INFLUENZARE L’OCCIDENTE

Le stesse cose diceva la diplomazia zarista di 115 anni fa, con il Mr. Vladimir di una fantomatica ambasciata russa ne L’agente segreto di Joseph Conrad. Mosca non gioca solo, con Putin, attraverso i «meccanismi mentali dell’Occidente», ma cerca anche di influenzarli. Le ramificazioni via internet sono numerose. Johnson ha bloccato prima del voto un rapporto dei Comuni sulle attività russe nella politica britannica, in genere si presume cose note ma ben elencate. L’appoggio informatico e no a Donald Trump è stato più o meno documentato. E per esempio chi cercasse su internet, in italiano, non faticherebbe a trovare voci chiare che sostengono in maniera decisa la crisi mortale del nostro mondo, dell’Ue in particolare, e il prossimo trionfo di Mosca e tutte le molto selettive versioni storiche ufficiali moscovite, a partire da una lettura del 1939, del patto Molotov-Ribbentrop e dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Si veda per esempio vocidallestero.it, a gestione coperta dall’anonimato.

MA DIETRO LE AMBIZIONI I CONTI NON TORNANO

Nina L. Khrushcheva, Nikita era suo nonno, insegna relazioni internazionali alla New School di New York e sostiene da tempo che le ambizioni putiniane non sono supportate né da un accettabile funzionamento del sistema russo, che è una kleptocrazia dove lo stesso vertice ruba a man salva, né da una sufficiente capacità produttiva. «Nonostante i suoi sogni di grandezza, [la Russia] assomiglia a una piccola ex colonia dove ogni generale al potere vuole poter vantare un dottorato di ricerca solo per poter aumentare i suoi profitti». Non è una storia del tutto nuova. Piero Melograni, uno dei massimi storici italiani contemporanei, ricordava che l’Europa dell’Est, impero zarista incluso, era il 17% del prodotto mondiale nel 1913 e l’8% nel 1992 «dopo decenni di una disastrosa economia pianificata». Oggi il salario medio russo secondo Rosstat (statistiche ufficiali ai quali non molti credono) è di circa 580 euro e arriva nelle maggiori città a circa 1.200, e solo grazie a un’economia in nero stimata doppia rispetto a quella italiana ci si arrangia e si tira avanti.

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I sogni di Putin si scontrano con la capacità produttiva russa

Mosca si pone come modello di una nuova era. E spera nello smantellamento dell'Ue. A partire dalla Brexit. Ma in economia e finanza il sistema del Cremlino non ha mai funzionato. Così le ambizioni dello zar non sono supportate.

La vocazione imperiale sta nei cromosomi di una nazione, della sua classe dirigente, e non è solo questione di forza, ma anche di astuzia. E di Storia. C’è un Paese che ha lo stesso Prodotto interno lordo (Pil), cioè la capacità di creare ricchezza misurata di solito su base annua, della Spagna, pur avendo più del triplo degli abitanti e ricchezze minerarie ed energetiche infinitamente superiori. Un Paese economicamente assai debole quindi. Essere come la Spagna quanto a Pil significa essere di un buon 25% più piccoli dell’Italia. Questo Paese ha prodotto una delle grandi culture, tra letteratura, musica e arti, dell’umanità, e da molto tempo cerca di non essere inferiore a nessuno quanto ad armi e capacità strategica, ma ha sempre fatto vivere il suo popolo assai meno bene di quanto non si viva da tempo nelle terre bagnate da Reno, Senna, Po, Tamigi ed Ebro. Eppure questo Paese si pone ormai come modello di una nuova era, come un tempo si atteggiava a faro della rivoluzione mondiale.

IL SENSO DELLA NAZIONE COME UNICA IDEOLOGIA

Il presidente russo Vladimir Putin è stato chiarissimo, anche nella conferenza stampa di fine anno il 19 dicembre 2019 a Mosca, una settimana dopo il trionfo della Brexit. Putin ha salutato questo responso delle urne con favore ricordando come il premier Boris Johnson abbia capito gli umori del suo Paese meglio degli oppositori. Interferenze russe nella politica britannica? Tutte illazioni, ha detto Putin. E ha indicato nel senso della nazione e della sua identità e missione, «l’unica ideologia possibile in una moderna società democratica».

PUTIN HA DECRETATO LA FINE DEL LIBERALISMO

A giugno 2019, intervistato dal Financial Times, Putin aveva decretato la fine del liberalismo (teoria storica con varie identità ma sempre basata su libertà individuali, consenso dei governati e uguaglianza di fronte alla legge) ormai «sopravissuto a se stesso», che ha «esaurito i suoi scopi» e minato dalla crescente ostilità degli elettori verso l’immigrazione, il multiculturalismo e i valori laici a spese di quelli religiosi. Putin vedeva in atto quindi anche nel mondo occidentale una trasmigrazione dal liberalismo al nazional populismo. E insisteva sulla conseguente fine dell’ordine internazionale creato dall’Occidente dopo il 1945.

MA L’ORIENTE RUSSO NON FUNZIONA ECONOMICAMENTE

Questo è un punto fermo moscovita a partire dalla crisi finanziaria del 2008, la prova che l’Occidente non funziona più. Il guaio è però che, in economia e finanza, neppure l’Oriente russo ha mai funzionato. Non è un mistero che la prima istituzione multilaterale occidentale da archiviare, secondo il Cremlino, sia l’Unione europea, un’organizzazione nata a suo tempo con il forte patrocinio americano e che Mosca considera un retaggio della Guerra fredda. Per questo la Brexit è stata salutata con favore. Per questo anche l’intervista di giugno, piena di accuse agli Stati Uniti, opera un netto distinguo fra la tradizionale diplomazia americana aspramente criticata e Donald Trump, trattato con rispetto e simpatia, anche perché Trump per motivi commerciali di breve termine, e di scarsa perspicacia, è ugualmente anti-Ue.

IL SOGNO DELLA FINLANDIZZAZIONE DELL’EUROPA

Per Mosca una crisi profonda e uno smantellamento dell’Unione sarebbe il coronamento di una politica secolare che ha visto nell’Europa occidentale da sempre una minaccia dovuta prima di tutto ai successi economici di quelle piccole nazioni oggi militarmente insignificanti ma, rispetto alla Russia, così produttive anche se moralmente corrotte, cosa che una certa cultura russa ripete da almeno 150 anni. Dagli zar a Lenin a Stalin a Putin la finlandizzazione dell’Europa è stato un sogno, prima molto ardito nell’epoca d’oro dell’industrializzazione e del potere europeo (1830-1913), poi a portata di mano nel 1945 non fosse altro per l’innaturale “ritorno” in Europa degli americani nel ’47, con la Nato e, poco dopo, le istituzioni europee. Finlandizzazione vuol dire una cosa molto semplice: simbiosi fra industria europea e materie prime russe, e rispetto dalla Vistola alla Manica per la diplomazia sovietica e i suoi missili.

TRUMP FRA OPPORTUNISMO E IGNORANZA STORICA

I tempi sembrano propizi, con l’Europa che si interroga sul suo futuro a fronte di una indubbia crisi e cambiamento del “vecchio” sistema americanocentrico. Quest’ultimo in parte un fenomeno naturale dopo oltre 70 anni e in parte frutto della profonda ignoranza storica e dell’opportunismo cronico di Trump. Il putinismo, nella sua proiezione diplomatica sull’Europa, ha obiettivi chiari e strategie ben mimetizzate. Vuole trarre vantaggio da un’Europa che si interroga sul futuro e sembra colta come già nei primi Anni 20 del 1900, dopo lo sfacelo della Grande guerra e per fortuna in forma blanda, da un attacco di quella che lo storico Guglielmo Ferrero aveva battezzato la grande peur, l’ansia da incertezza delle masse francesi (Ferrero coniò il termine per la Rivoluzione francese) e poi europee. La riscoperta del nazionalismo, sentimento nobile se moderato (patriottismo) e illogico nell’Europa di oggi se esasperato, è tutta qui, Brexit compresa, nella piccola grande peur in cerca di facili certezze.

L’ILLUSIONE DEMOCRATICA DI POTER SCEGLIERE

Putin si offre come soluzione. Per chi volesse un trattato sul putinismo un lungo articolo uscito nel febbraio 2019 sulla Nezavisimaya Gazeta e riassunto subito da alcuni giornali occidentali è un testo base. Lo ha scritto Vladislav Surkov, 55 anni, madre russa e padre ceceno, uomo d’affari e politico, già vice premier e ideologo ufficioso della russia putiniana e dal 2013 consulente personale di Putin. Surkov è il padre della formula della managed democracy, affidata a un capo «capace di ascoltare capire e vedere», migliore di quella «illusione di poter scegliere» che la democrazia formale occidentale (la definivano così anche i bolscevichi) promette e non mantiene.

PROGETTI DI GRANDEZZA E SCENARI DI SECOLO GLORIOSO

Il putinismo è «l’ideologia del futuro», sostiene Surkov, e «l’algoritmo politico» di Putin ha capito le cause della volatilità e per questo è sempre più seguito anche dai leader occidentali, spinti a offrire certezze e quindi nazionalismo. Il nazionalismo trionfante sarebbe la fine definitiva del sistema multilaterale americanocentrico e dell’Unione europea, e una grande vittoria russa. La Russia vive con Putin, dice Surkov, la quarta delle sue stagioni di grandezza, dopo quelle di Ivan il Grande (o il Terribile), di Pietro il Grande, di Vladimir Lenin, e sarà presto riconosciuta come faro del mondo intero. È ormai avviato «un secolo glorioso» per il sistema politico putiniano. Putin «gioca con i meccanismi mentali dell’Occidente», continua Surkov, «che non sanno come muoversi a fronte delle loro nuove prese di coscienza».

TENTATIVO DI INFLUENZARE L’OCCIDENTE

Le stesse cose diceva la diplomazia zarista di 115 anni fa, con il Mr. Vladimir di una fantomatica ambasciata russa ne L’agente segreto di Joseph Conrad. Mosca non gioca solo, con Putin, attraverso i «meccanismi mentali dell’Occidente», ma cerca anche di influenzarli. Le ramificazioni via internet sono numerose. Johnson ha bloccato prima del voto un rapporto dei Comuni sulle attività russe nella politica britannica, in genere si presume cose note ma ben elencate. L’appoggio informatico e no a Donald Trump è stato più o meno documentato. E per esempio chi cercasse su internet, in italiano, non faticherebbe a trovare voci chiare che sostengono in maniera decisa la crisi mortale del nostro mondo, dell’Ue in particolare, e il prossimo trionfo di Mosca e tutte le molto selettive versioni storiche ufficiali moscovite, a partire da una lettura del 1939, del patto Molotov-Ribbentrop e dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Si veda per esempio vocidallestero.it, a gestione coperta dall’anonimato.

MA DIETRO LE AMBIZIONI I CONTI NON TORNANO

Nina L. Khrushcheva, Nikita era suo nonno, insegna relazioni internazionali alla New School di New York e sostiene da tempo che le ambizioni putiniane non sono supportate né da un accettabile funzionamento del sistema russo, che è una kleptocrazia dove lo stesso vertice ruba a man salva, né da una sufficiente capacità produttiva. «Nonostante i suoi sogni di grandezza, [la Russia] assomiglia a una piccola ex colonia dove ogni generale al potere vuole poter vantare un dottorato di ricerca solo per poter aumentare i suoi profitti». Non è una storia del tutto nuova. Piero Melograni, uno dei massimi storici italiani contemporanei, ricordava che l’Europa dell’Est, impero zarista incluso, era il 17% del prodotto mondiale nel 1913 e l’8% nel 1992 «dopo decenni di una disastrosa economia pianificata». Oggi il salario medio russo secondo Rosstat (statistiche ufficiali ai quali non molti credono) è di circa 580 euro e arriva nelle maggiori città a circa 1.200, e solo grazie a un’economia in nero stimata doppia rispetto a quella italiana ci si arrangia e si tira avanti.

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In Austria è accordo tra i Popolari di Kurz e i Verdi

Al partito del cancelliere andrebbero i ministeri di maggior peso. Agli ecologisti Infrastrutture-Ambiente-Energia. Intesa in dirittura d'arrivo.

A tre mesi esatti dalle elezioni politiche che avevano rafforzato i Popolari di Sebastian Kurz dopo lo scandalo Ibizia-Gate, l’Austria ha finalmente una nuova alleanza di governo. Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre è infatti stato raggiunto l’accordo di massima tra l’Övp del cancelliere e i Verdi di Werner Kogler. Un accordo che era stato ampiamente anticipato e che ora si è concretizzato.

MANCA LA RATIFICA DEI VERDI

Ora manca solo la ratifica da parte dei Verdi. Il partito ecologista ha infatti convocato per il 4 gennaio l’assemblea, il cui voto – secondo lo statuto di partito – è vincolante per un’entrata nell’esecutivo. Il giuramento – secondo la stampa austriaca – potrebbe avvenire il 7 gennaio. «Gli ostacoli più grandi sono stati superati», ha confermato Kurz che, dopo lo scandalo che aveva colpito il vice cancelliere e leader del Fpö Heinz Christian Strache, aveva di fatto perso il vecchio alleato di ultradestra, scivolato di oltre 8 punti percentuali alle elezioni di settembre e deciso a ripartire dall’opposizione.

ALCUNI DETTAGLI DA CHIARIRE

Per il leader dei Verdi Kogler, restano da chiarire solo alcuni dettagli. Secondo il quotidiano Salzbuger Nachrichten, i ministeri di peso (Esteri, Interni, Finanze, Economia, Istruzione e Agricoltura) sono destinati ad andare alla Övp, mentre i Verdi riceveranno, oltre al ‘superministero’ Infrastrutture-Ambiente-Energia, anche Giustizia, Salute e Affari sociali. Sotto la guida ambientalista tornerebbe anche il ministero alla Cultura, che durante gli scorsi esecutivi non è stato un ministero autonomo.

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Attacco con machete in una casa di un rabbino a New York

Violenza antisemita a Monsey. Ferite cinque persone, due sono gravi. Cuomo: «Un atto spregevole e codardo. Tolleranza zero».

È entrato in casa di un rabbino nella settima giornata delle celebrazioni di Hannukah e, con il viso coperto in parte con una sciarpa e armato di machete, ha seminato il panico fra i presenti, ferendone almeno cinque, tutti ebrei chassidisti, di cui due sono in condizioni gravi. L’attacco è avvenuto a Monsey, circa 50 chilometri a Nord di New York. Secondo i media americani l’autore, che era riuscito a scappare dall’abitazione limitrofa alla sinagoga nonostante i vari tentativi di fermarlo (anche con un piccolo tavolo per bloccargli il passaggio), è stato arrestato dalla polizia.

UN UOMO COLPITO IN PIENO PETTO

In un primo momento i media americani parlavano di un attacco in una sinagoga, ma successivamente l’Orthodox Jewish Public Affairs Council ha precisato in un tweet che è stata presa di mira l’abitazione di un rabbino. Al momento le ricostruzioni sono tutte parziali: si sa che alcuni dei feriti sono stati colpiti ripetutamente, uno almeno sei volte, un altro in pieno petto ed è quello nelle condizioni peggiori. Un’altra persona è rimasta ferita solo leggermente a un dito.

UNA LUNGA SERIE DI ATTACCHI

L’episodio si inserisce in una serie di attacchi antisemiti che si sono verificati negli ultimi giorni a New York: incidenti che hanno fatto alzare la guardia e rafforzare i controlli di polizia nell’area di Brooklyn, quella più colpita. «Un atto spregevole e codardo», ha commentato il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo. «Voglio essere chiaro: l’antisemitismo e l’intolleranza sono ripugnanti e abbiamo assolutamente tolleranza zero per tali atti di odio», ha aggiunto.

«SERVE MAGGIORE PROTEZIONE»

«Monitoriamo le informazioni che arrivano da Monsey», ha affermato la polizia anti-terrorismo di New York. A condannare l’attacco è anche il procuratore di New York, Letitia James: «C’è tolleranza zero per atti di odio di qualsiasi tipo, continueremo a monitorare la situazione» a Monsey. «Dopo gli attacchi dell’ultima settimana a Brooklyn e Manhattan spezza il cuore vedere ancora violenza. La comunità ebraica ha bisogno di maggiore protezione», ha affermato il numero uno dell’Anti-Defamation League.

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Il governo britannico pubblica per errore gli indirizzi di alcuni vip

Online gli indirizzi di oltre mille destinatari dei New Year Honours: tra loro politici, star del calibro di Elton John.

Il governo britannico è in imbarazzo dopo la pubblicazione, per errore, degli indirizzi di oltre mille destinatari dei cosiddetti New Year Honours, le tradizionali onorificenze reali: tra loro politici, star del calibro di Elton John, ma anche decine di funzionari della difesa e dell’antiterrorismo, con evidenti implicazioni per la sicurezza. Una svista, ha ammesso l’ufficio del gabinetto che si è scusato per quanto accaduto, assicurando di aver rimediato in breve tempo.

ANCHE OLIVIA NETWON JOHN E BEN STROKES TRA LE VITTIME DELLA ‘SVISTA’

Tra i 1.097 destinatari delle onorificenze del 2020 ci sono anche il giocatore di cricket Ben Stokes, l’attrice Olivia Newton John, l’ex leader del Partito conservatore Iain Duncan Smith, la cuoca televisiva Nadiya Hussain e l’ex capo dell’Ofcom (l’authority per le comunicazioni) Sharon White. Tra gli altri, diversi funzionari di governo, accademici, leader religiosi, sopravvissuti all’Olocausto. Ma anche funzionari della Difesa e alte gerarchie della polizia, quindi personalità considerate sensibili dal punto di vista della sicurezza. C’è chi ha preso questa vicenda con filosofia, come Mete Coban, pioniere delle attività caritatevoli che ha ricevuto un’onorificenza per il suo lavoro con i giovani, che si è detto non troppo preoccupato per l’errore. Al contrario, Big Brother Watch, organizzazione britannica che si occupa di privacy e tutela delle libertà civili, ha definito «estremamente preoccupante che il governo non mantenga una solida stretta sulla protezione dei dati e che le persone che ricevono alcuni dei più alti onori siano messe a rischio per questo». Ed il ministro ombra per l’ufficio del gabinetto, Jon Trickett, ha evidentemente rincarato la dose: «Se il governo non è in grado di proteggere dati sensibili, come possiamo aspettarci che risolva le importanti questioni del nostro Paese?».

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Aereo si schianta in Kazakistan: almeno 14 morti

A bordo dal velivolo partito da Almaty e precipitato poco dopo il decollo c'erano 98 persone: 60 i feriti.

Tragedia in Kazakistan, dove un aereo con 98 persone a bordo è precipitato vicino alla città di Almaty. Un primo bilancio parla di di almeno 14 morti e 60 feriti. Secondo funzionari dell’aeroporto, il velivolo della Bek Air sarebbe precipitato poco dopo il decollo dallo scalo. Il personale dei servizi di emergenza si è immediatamente precipitato sul luogo dello schianto. L’aereo era in rotta da Almaty alla capitale del Paese Nursultan (ex Astana).

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Morto suicida lo scrittore norvegese Ari Behn

Era stato spostato con la principessa Martha Louise, figlia di Re Harald V. Nel 2017 aveva accusato Kevin Spacey di molestie.

Si è tolto la vita a 47 anni Ari Behn, scrittore ed ex genero del re di Norvegia. Lo ha reso noto il suo portavoce, citato dai media internazionali. Autore di numerosi romanzi e opere teatrali, Behn aveva sposato la principessa Martha Louise nel 2002 per poi divorziare nel 2016. La coppia ha avuto tre figlie. Behn è stato, sempre nel 2017, anche tra gli accusatori di Kevin Spacey, l’attore premio Oscar finito al centro dello scandalo #MeToo: disse che 10 anni prima l’attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la Pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. «Magari più tardi», gli avrebbe risposto lui imbarazzato.

L’ESORDIO NEL 1999

Il primo romanzo di Behn fu pubblicato nel 1999, ma la fama arrivò tre anni più tardi, nel 2002, proprio grazie al matrimonio reale con la primogenita di re Harald V. Il suo ultimo libro, Inferno, è invece datato 2018 ed è un racconto della sua dura lotta contro la malattia mentale. «Ari è stato una parte importante della nostra famiglia per molti anni, e abbiamo ricordi belli di lui con noi», ha fatto sapere la casa reale norvegese in una nota.

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Gli Usa pensano al ritiro dall’Africa occidentale

La decisione è attesa in gennaio. Poi è prevista la valutazione dei programmi per l'America Latina.

Grandi manovre di fine anno al Pentagono. Gli Stati Uniti d’America potrebbero ritirare le truppe dall‘Africa occidentale. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, secondo le quali le proposte allo studio sono la prima fase dell’esame sul dispiegamento delle forze americane nel mondo. Dopo l’Africa Occidentale, per la quale una decisione è attesa in gennaio, il Pentagono valuterà i piani per l’America Latina.

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Cinque condannati a morte per l’omicidio Khashoggi, ma zero addebiti al principe

L'annuncio della procura di Riad. L'Onu aveva trovato "prove credibili" contro Mohammed bin Salman e il consigliere Saud al Qahtani,

Giustizia non è fatta. La procura di Riad ha annunciato che cinque persone sono state condannate a morte in Arabia Saudita per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul nel 2018. Sempre la procura della capitale saudita ha spiegato che Saud al Qahtani, stretto consigliere ed ex responsabile per la comunicazione sui social media del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman non è stato incriminato per l’omicidio del giornalista. Secondo le indagini condotte dagli esperti dell’Onu c’erano «prove credibili» di responsabilità individuali del principe e del suo consigliere.

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La Libia non è un porto sicuro e Sarraj vuole armi

L'allarme dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite: «Tra gennaio e novembre, oltre 8.600 migranti sono stati intercettati in mare dalla Guardia costiera e riportati indietro dove sono vittime di violenze e abusi». Intanto il premier ricorda la sua richiesta: «Da Roma nessuna risposta ufficiale»

Nel giorno in cui le Nazioni Unite ricordano che la Libia non è un porto sicuro, il primo ministro Fayez Sarraj sottolinea di averci chiesto armi per la guerra di Tripoli.

QUEGLI 8.600 RIPORTATI IN LIBIA

Il 23 dicembre in una nota l ‘Alto Commissariato dell’Onu per i diritti Umani (Ohchr) ha lanciato l’allarme: «Tra gennaio e novembre, oltre 8.600 migranti sono stati intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e riportati in Libia, che ovviamente non può essere considerato in nessun modo come un porto sicuro per lo sbarco». «Migranti e rifugiati in Libia «continuano a essere regolarmente sottoposti a violazioni e abusi tra cui uccisioni extragiudiziali e arbitrarie, detenzione arbitraria, sparizioni forzate, torture, violenza sessuale e di genere, rapimento per riscatto, estorsione e lavoro forzato da parte di funzionari statali, trafficanti e trafficanti », denuncia l’Onu.

SARRAJ CHIAMA L’ITALIA NON RISPONDE

Intanto il premier libico Fayez Sarraj intervistato dal Corriere della Sera ha dichiarato: «Noi avevamo chiesto le armi a tanti Paesi, inclusa l‘Italia, che pure ha diritto di scegliere la politica che più le aggrada e con cui i rapporti restano comunque ottimi. Da Roma, in verità, non sono mai giunte risposte ufficiali». «Con Di Maio – spiega Sarraj – abbiamo avuto un ricco scambio d’opinioni. Quanto invece alla sua tappa a Bengasi dal nostro aggressore (il generale Haftar, ndr) e Tobruk non ho visto alcuna sostanza, oltre a generiche dichiarazioni di amicizia che lasciano il tempo che trovano. Così, la comunità internazionale risulta divisa. Da una parte i Paesi disposti ad armare i nostri avversari-aggressori. A loro – prosegue – si contrappongono altri Paesi, tra cui l’Italia, che credono tutt’ora alla formula per cui l’unica soluzione resta il dialogo politico». «Ma si tenga a mente – sottolinea – che qui siamo sotto attacco militare, con sofferenze indicibili per la popolazione vittima di bombardamenti, morti, feriti, con centinaia di migliaia di sfollati».

TRA PUTIN, ERDOGAN, GLI USA E LA GERMANIA

Alla domanda se alla fine saranno Putin ed Erdogan a dettare le regole del gioco, risponde: «È uno scenario difficile, reso ancora più complesso dagli interventi stranieri. Non credo però che l’intera questione possa venire risolta solo dai colloqui tra Putin ed Erdogan. È un processo caratterizzato da continui contatti bilaterali e multilaterali, in cui non mancano le voci degli Stati Uniti, della Germania impegnata con l’Onu a preparare la conferenza di Berlino e degli altri partner europei. Il nostro aggressore ha già fallito. Al momento del suo improvviso attacco il 4 aprile diceva che avrebbe preso Tripoli entro 48 ore. Nove mesi dopo la guerra continua»

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Gli Stati Uniti di Trump hanno le forze spaziali

Inaugurato dal presidente e dalla first lady il nuovo corpo militare dedicato alla guerra nello spazio.

L’esercito degli Stati Uniti guarda allo spazio ed è pronto alla sua conquista, letteralmente. Il presidente Donald Trump ha ufficialmente inaugurato la sera del 20 dicembre la Us Space Force cioè le nuove forze spaziali americane, un nuovo corpo militare – si tratta del primo in più di settant’anni dedicato alla conquista e alla difesa spaziale.

«LA SUPERIORITÀ NELLO SPAZIO È VITALE»

«Lo spazio è il nuovo dominio mondiale di combattimento in guerra e tra le gravi minacce alla nostra sicurezza nazionale la superiorità americana nello spazio è assolutamente vitale», ha sottolineato il presidente Usa, in visita al nuovo corpo militare assieme alla first lady Melania Trump.

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Il parlamento britannico ha dato il primo via libera alla Brexit

Con 358 sì e 234 no Westminster ha approvato in seconda lettura il testo modificato dal governo Johnson in vista dell'addio a Bruxelles.

Primo sì del Parlamento britannico alla legge sulla ratifica della Brexit entro il 31 gennaio. Il testo, modificato dal governo di Boris Johnson dopo la vittoria elettorale del 12 dicembre, ha ottenuto il via libera della Camera dei Comuni nella cosiddetta seconda lettura con 358 sì e 234 no, come largamente previsto data la larga maggioranza assoluta conquistata dai Tory nelle urne. Ora l’iter proseguirà dopo la pausa natalizia dei lavori di Westminster, per essere completato nelle attese prima di metà di gennaio.

SUPERATA LA MAGGIORANZA DI 44 VOTI

La maggioranza è stata di 124 voti, 44 in più di quella che il gruppo Tory può garantire sulla carta – in caso di assemblea al completo – al governo Johnson. Uno scarto ulteriore significativo a favore del premier, legato secondo le informazioni dei media ad alcune astensioni di singoli deputati laburisti – malgrado la linea ufficiale del partito fosse per il no – e a un certo riallineamento degli unionisti nordirlandesi del Dup: che pur essendo pro Brexit avevano criticato il deal raggiunto da Johnson con Bruxelles sul divorzio, temendo fra le possibili conseguenze dei meccanismi concordati per eliminare la clausola del cosiddetto backstop l’introduzione di un confine doganale di fatto fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. A seguire l’aula ha approvato anche una mozione governativa sul calendario della ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa natalizia, che scatta stasera. A partire dal completamento dell’iter ai Comuni della legge sull’uscita dall’Ue (EU Withdrawal Agreement Bill) fra il 7 e il 9 gennaio.

BRUXELLES: «PRONTI A CHIUDERE L’ACCORDO ANCHE IN UE»

Un portavoce della Commissione Ue ha commentato la notizia dicendo che i vertici Ue hanno preso nota del voto alla Camera dei Comuni e seguiranno il processo di ratifica nel Regno Unito da vicino. «Siamo pronti a fare i passi formali per chiudere l’accordo anche in Ue», ha concluso.

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L’ex ad di France Telecom condannato per l’ondata di suicidi in azienda

Per i giudici l'azienda portò avanti mobbing «morale e istituzionale» nei confronti dei suoi dipendenti. Il mega-manager francese dovrà scontare un anno di carcere, di cui otto mesi con la condizionale.

L’ex amministratore delegato di France Télécom, Didier Lombard, è stato condannato per mobbing «morale e istituzionale» nel processo legato all’ondata di suicidi dei dipendenti che 10 anni fa scosse il colosso francese delle Tlc. Il mega-manager francese, ex numero uno di France Télécom, dovrà scontare un anno di carcere di cui otto mesi con la condizionale. Condannati alla stessa pena anche altri due dirigenti di France Télécom e la stessa azienda, che dovrà pagare una multa 75 mila euro. Secondo il tribunale di Parigi, tra il 2007 e il 2008, dai vertici del gruppo si diffuse una clima nocivo di molestie «morali e istituzionali», anche se i giudici non appurano alcun legame diretto tra gli autori e le vittime. Una nozione, quella del mobbing morale e istituzionale, che con questa sentenza entra per la prima volta a far parte della giurisprudenza francese.

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In Vaticano mille denunce di abusi sessuali in un anno: «È uno tsunami»

John Joseph Kennedy, il capo Ufficio della sezione disciplinare della Congregazione per la dottrina della fede: «Se avessi un bambino maltrattato, probabilmente smetterei di andare a messa».

Sopraffatti dalle denunce, letteralmente. L’ufficio vaticano che riceve le denunce di abusi sessuali da parte del clero ha registrato quest’anno la cifra record di 1.000 casi segnalati da tutto il mondo, anche da Paesi di cui non aveva mai sentito parlare prima, e potrebbe non essere finita qui. John Joseph Kennedy, il capo Ufficio della Sezione Disciplinare nella Congregazione per la dottrina della fede, lo ha detto all’agenzia di stampa americana Associated press, precisando che l’enorme afflusso di denunce ha “sopraffatto” il personale

«STIAMO ASSISTENDO A UNO TSUNAMI DI CASI»

Per evadere tutti i documenti relativi al 2019, il quadruplo di quanti se ne gestivano un decennio fa, il personale – ha spiegato Kennedy – «dovrebbe lavorare sette giorni alla settimana». «Stiamo effettivamente assistendo a uno tsunami di casi, al momento, in particolare da Paesi di cui non abbiamo mai sentito parlare prima», ha detto, riferendosi ai casi più eclatanti emersi in Argentina, Messico, Cile, Italia, Polonia e Stati Uniti. «Suppongo che se non fossi un prete e se avessi un bambino maltrattato, probabilmente smetterei di andare a messa», ha detto Kennedy. Ma il Vaticano – ha ricordato – si è impegnato a combattere gli abusi e ha solo bisogno di tempo per esaminare tutti i casi. «Li esamineremo dal punto di vista forense e garantiremo il giusto risultato – ha aggiunto -. Non si tratta di riconquistare la gente, perché la fede è qualcosa di molto personale. Ma almeno diamo alla gente la possibilità di dire: ‘Forse diamo alla chiesa una seconda possibilità di ascoltare il messaggio’».

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L’impeachment non scalfirà Trump ma era una questione di valori

Il Senato repubblicano salverà il presidente dalla messa in stato d'accusa. Eppure bisognava farlo: per difendere la democrazia contro la corruzione. C'entrano giustizia, etica e morale. Un giorno l'America si libererà di questo despota senza scrupoli.

Dopo Andrew Jackson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, Donald J. Trump è il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti a essere messo in stato d’accusa: il Congresso ha votato per l’impeachment. Benché sia un’accusa estremamente grave, starà al Senato decidere se le sue azioni sono gravi abbastanza da rimuoverlo dalla sua posizione di presidente. Se dovesse succedere, cosa molto improbabile, la presidenza passerà al vicepresidente Mike Pence. Insomma, gli americani passerebbero dalla padella alla brace.

THE DONALD CONTINUERÀ A ESSERE POPOLARE

Alla fine, dunque, chi ha vinto? C’è chi pensa che malgrado tutto, Trump e i repubblicani ne escano vincitori: dopo tutto l’economia sta andando molto bene e il tasso di approvazione di Trump non è cambiato di molto durante questo periodo. I repubblicani potrebbero passare come i vincitori perché malgrado la gravità dell’impeachment, il presidente ne uscirà senza nessun danno permanente: continuerà a essere popolare tra i suoi fedeli come lo era all’inizio di questo processo.

IL SISTEMA NON FUNZIONA A DOVERE

Inoltre, in questi mesi è riuscito a raccogliere milioni di dollari per la campagna elettorale per la presidenza del 2020, presentandosi come vittima del complotto democratico che dall’inizio della sua candidatura ha cercato di cacciarlo. Immaginiamo l’inimmaginabile: nel 2020 Trump viene rieletto. Sicuramente cadrà ancora nella trappola della disonestà, come ha fatto in questi anni decine di volte. Cosa succederà a quel punto? Ci potrà essere un altro tentativo di impeachment nei suoi confronti? Probabilmente no. Insomma, malgrado la sua dimostrabile corruzione, finora il sistema, creato apposta per prevenire azioni corrotte, non è stato in grado di funzionare come avrebbe dovuto. Non con Trump.

PELOSI POTREBBE PROLUNGARE L’ATTESA

E i democratici? Malgrado un quasi sicuro insuccesso al Senato, forse hanno ancora una carta da giocarsi. Potrebbero non consegnare i documenti necessari al Senato per procedere fino a quando i repubblicani concordano nel condurre un vero processo, con tanto di testimoni, cosa che per adesso rifiutano di fare. L’impeachment, dunque, potrebbe rimanere irrisolto per molto tempo: non scade. Nancy Pelosi, per ora, non ha commentato se deciderà di seguire questa possibilità, ma se scegliesse di farlo la conclusione dell’impeachment potrebbe diventare molto lunga, addirittura oltrepassare la data delle elezioni.

I DEM HANNO DIFESO LA COSTITUZIONE AMERICANA

I dem sono stati assaliti da insulti, attacchi alla loro integrità e trattati come bugiardi dai repubblicani, eppure tutto questo non li ha intimiditi. Hanno mantenuto la loro calma, la loro professionalità e sono andati avanti, come richiesto dalla Costituzione. Come tutti i rappresentanti del Congresso, hanno giurato che avrebbero difeso la Costituzione a spada tratta. E così hanno fatto: hanno deciso di prendere la strada di giustizia, etica e morale che il loro ruolo richiede. Sanno bene che al prossimo giro, e cioè durante le discussioni in Senato, di maggioranza repubblicana, le probabilità che il presidente sia rimosso dal suo ruolo sono molto basse, anzi inesistenti. Ma almeno sanno che in coscienza hanno mantenuto fede ai valori che rendono questa una democrazia: hanno scelto la strada della giustizia a quella della corruzione.

L’ERA DEL DESPOTA SENZA SCRUPOLI FINIRÀ

Hanno detto e ripetuto che nessuno, neanche il presidente, è al di sopra della legge, e che la Costituzione è nata dal desiderio non essere mai guidati da sovrani. Durante il suo discorso conclusivo Adam Schiff, a capo della Commissione Giustizia del governo, invoca uno dei principali redattori della Costituzione, Alexander Hamilton. Nel 1792 fu lungimirante quando mise in guardia gli americani sulla possibilità, un giorno, di essere guidati da un uomo senza scrupoli, despota, capace di imbarazzare il governo, pronto a tutto pur di mantenere il suo potere. Quando questo succederà, continua Hamilton, marcherà la fine della democrazia e il ritorno alla monarchia. Direi, caro Alexander, che quel despota senza scrupoli è arrivato e non ha nessuna intenzione di andarsene. Faremo di tutto per liberarcene.

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Perché la Libia ha chiesto aiuto all’Italia e altri 4 Paesi

L'esercito di Haftar ha lanciato un ultimatum di tre giorni al governo. Che si è rivolto a noi, Regno Unito, Usa, Algeria e Turchia domandando di intervenire in difesa di Tripoli.

La richiesta è stata lanciata dal palcoscenico più autorevole della comunità internazionale, diretta all’Italia e ad altri quattro Paesi, tra cui non a caso non figura la Francia di Emmanuel Macron. Il premier del governo di accordo nazionale libico, Fayez al Sarraj, ha chiesto a Italia, Usa, Regno Unito, Algeria e Turchia di «attivare gli accordi di cooperazione di sicurezza» per «respingere l’attacco a Tripoli, condotto da qualsiasi gruppo armato». Sarraj ha inoltre chiesto ai cinque Paesi di «cooperare con il governo di accordo nazionale nella lotta alle organizzazioni terroristiche», all’immigrazione clandestina e ai trafficanti di esseri umani.

L’ULTIMATUM DI HAFTAR: VERSO LA BATTAGLIA SU MISURATA

Contemporaneamente Ahmed al Mismari, il portavoce dell’ esercito nazionale libico (Lna) guidato dal generale Khalifa Haftar ha lanciato in un video sul canale facebook dell’ Lna un ultimatum. Tre giorni al massimo, con scadenza alla mezzanotte di domenica 22 dicembre perchè Misurata ritiri «le proprie milizie da Tripoli e Sirte». «Prendere per obiettivo Misurata proseguirà ogni giorno senza sosta e in maniera intensiva, senza precedenti, se Misurata non ritirerà le sue milizie da Tripoli e Sirte al massimo in tre giorni, con scadenza domenica a mezzanotte», ha detto Mismari.

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Le reazioni internazionali dopo l’impeachment contro Donald Trump

Il mondo sovranista si stringe intorno al presidente Trump dopo la messa in stato d'accusa. Putin: «Solo accuse inventate». E Salvini parla di una sinistra globale che «vuole sovvertire la volontà popolare».

L’internazionale sovranista si muove in difesa di Donald Trump, dopo il via libera della Camera dei Rappresentati all’impeachment. Il presidente russo Vladimir Putin, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha toccato brevemente il caso sottolineando che la messa in stato d’accusa «si basa su accuse inventate e il Senato respingerà le imputazioni contro il presidente americano». «È estremamente difficile», ha aggiunto il capo del Cremlino, «che i repubblicani tolgano la carica di presidente a un rappresentante del loro stesso partito per motivi che sono assolutamente inventati».

ANCHE SALVINI CORRE IN DIFESA DI TRUMP

In Italia intanto è corsa a destra per dare il proprio sostegno al tycoon. Matteo Salvini, che dovrà fronteggiare la Giunta per le Immunità sul caso Gregoretti, ha espresso tutto il suo sostegno a Trump e vedendo nei due casi un certo parallelismo: «Mal comune e mezzo gaudio», ha detto in una conferenza stampa alla Camera, «Evidentemente c’è una reazione al sistema politico mediatico e giudiziario, non solo in Italia: pensiamo agli Usa, coi risultati economici della presidenza Trump che sta ottenendo dati alla mano… C’è un Presidente che deve passare le sue giornate preoccupandosi di difendersi da un impeachment che lo vedrebbe come traditore del popolo… Evidentemente in giro per il mondo a sinistra c’è qualcuno che usa qualsiasi arma per sovvertire la volontà popolare».

MELONI ESPRIME SOLIDARIETÀ VIA TWITTER

Appoggio sovranista via Twitter anche dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Negli Usa una sinistra perdente e incapace di dare risposte tenta di salire al potere rovesciando con ogni mezzo chi è stato eletto e sta ottenendo risultati straordinari. La sinistra è uguale in tutto il mondo. Solidarietà e sostegno a Donald Trump e al popolo americano».

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Le reazioni internazionali dopo l’impeachment contro Donald Trump

Il mondo sovranista si stringe intorno al presidente Trump dopo la messa in stato d'accusa. Putin: «Solo accuse inventate». E Salvini parla di una sinistra globale che «vuole sovvertire la volontà popolare».

L’internazionale sovranista si muove in difesa di Donald Trump, dopo il via libera della Camera dei Rappresentati all’impeachment. Il presidente russo Vladimir Putin, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha toccato brevemente il caso sottolineando che la messa in stato d’accusa «si basa su accuse inventate e il Senato respingerà le imputazioni contro il presidente americano». «È estremamente difficile», ha aggiunto il capo del Cremlino, «che i repubblicani tolgano la carica di presidente a un rappresentante del loro stesso partito per motivi che sono assolutamente inventati».

ANCHE SALVINI CORRE IN DIFESA DI TRUMP

In Italia intanto è corsa a destra per dare il proprio sostegno al tycoon. Matteo Salvini, che dovrà fronteggiare la Giunta per le Immunità sul caso Gregoretti, ha espresso tutto il suo sostegno a Trump e vedendo nei due casi un certo parallelismo: «Mal comune e mezzo gaudio», ha detto in una conferenza stampa alla Camera, «Evidentemente c’è una reazione al sistema politico mediatico e giudiziario, non solo in Italia: pensiamo agli Usa, coi risultati economici della presidenza Trump che sta ottenendo dati alla mano… C’è un Presidente che deve passare le sue giornate preoccupandosi di difendersi da un impeachment che lo vedrebbe come traditore del popolo… Evidentemente in giro per il mondo a sinistra c’è qualcuno che usa qualsiasi arma per sovvertire la volontà popolare».

MELONI ESPRIME SOLIDARIETÀ VIA TWITTER

Appoggio sovranista via Twitter anche dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Negli Usa una sinistra perdente e incapace di dare risposte tenta di salire al potere rovesciando con ogni mezzo chi è stato eletto e sta ottenendo risultati straordinari. La sinistra è uguale in tutto il mondo. Solidarietà e sostegno a Donald Trump e al popolo americano».

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La Corte Ue intima alla Spagna di liberare Junqueras

L'immunità del leader indipendentista catalano parte dal momento della proclamazione delle Europee. Per questo viene chiesta la scarcerazione dopo la condanna a 13 anni seguita al referendum.

L’immunità del leader indipendentista catalano Oriol Junqueras, eletto al parlamento Ue a maggio 2019, parte dal momento della proclamazione dei risultati delle elezioni europee. Quindi la Spagna dovrebbe rilasciarlo immediatamente affinché possa assumere il suo incarico. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia della Ue che ha dato ragione a Junqueras, condannato dalla giustizia spagnola a 13 anni di prigione e di allontanamento dal pubblico ufficio per l’organizzazione del referendum sull’indipendenza della Catalogna.

GARANTITO ANCHE IL DIRITTO DI VIAGGIARE

La Corte ha prima di tutto stabilito che «la persona eletta al parlamento Ue acquisisce lo status di membro al momento della proclamazione e da allora gode dell’immunità». Inoltre, scrivono i giudici, Junqueras gode da quel momento anche del diritto di viaggiare, «connesso allo status di membro del parlamento Ue». Infine, l’immunità e il diritto di viaggiare «comprendono la soppressione di misure di detenzione imposte prima dell’elezione, per consentire alla persona di spostarsi e prendere parte alla sessione inaugurale del parlamento Ue. Di conseguenza, se la Corte competente nazionale ritiene che la misura debba essere mantenuta, deve il prima possibile chiedere al parlamento Ue di derogare all’immunità».

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Donald Trump è stato messo sotto Impeachment

La Camera ha approvato i due capi di imputazione contro il presidente con poche defezioni. Furiosa la reazione di Trump che in un comizio in Michigan attacca: «Vogliono annullare le elezioni».

Agognava di finir nei libri di scuola come un presidente migliore di Abramo Lincoln. Invece Donald Trump è entrato nella storia indossando gli umilianti panni del terzo presidente Usa messo in stato d’accusa con la procedura di impeachment. Prima di lui sono finiti a giudizio solo Andrew Johnson nel lontano 1868 e Bill Clinton nel 1998. Entrambi sono stati assolti in Senato, come succederà con ogni probabilità in gennaio anche al tycoon, che conta sulla granitica maggioranza repubblicana nella camera alta del parlamento. Richard Nixon invece si dimise nel 1974 prima di essere imputato.

LEGGI ANCHE: Perchè l’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

MOZIONE VOTATA DOPO UN DIBATTITO DURATO ORE

Due i capi di imputazione: abuso di potere per le pressioni su Kiev per far indagare il suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e ostruzione del Congresso per aver bloccato testimoni e documenti. Il voto della Camera è arrivato dopo settimane di aspre polemiche e dopo un lungo, a tratti velenoso dibattito in un ramo del Congresso saldamente controllato dai democratici. Alcuni repubblicani sono arrivati a paragonare l’indagine di impeachment all’attacco di Pearl Harbor o alla crocefissione di Cristo, sostenendo che Ponzio Pilato si è comportato meglio con Gesù. Alla fine i due articoli sono stati approvati rispettivamente con 230 e 229 voti, tutti dem tranne tre contrari. Compatto invece il no del Grand Old Party.

La prima pagina della risoluzione contro Donald Trump.

SI PREPARA LA BATTAGLIA AL SENATO

Ma ora si apre un nuovo fronte di guerra: dopo il voto la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato che i due articoli non saranno inviati al Senato finchè non ci saranno garanzie di un processo giusto in quel ramo del Congresso, finora negate a suo avviso dalle mossa del leader dei senatori Mitch McConnell, che è andato alla Casa Bianca per coordinare le strategie e affermato che non sarà un giudice imparziale. Nel giorno più buio della sua presidenza, il tycoon ha aspettato la votazione prima twittando nel bunker della Casa Bianca e poi tenendo un comizio in Michigan, Stato cruciale per la sua rielezione. È li che ha saputo la notizia ma ha reagito come sempre attaccando, osannato dalla folla che gridava «altri quattro anni».

I democratici stanno cercando di annullare il voto di decine di milioni di patrioti americani

Donald Trump

LA FURIA DI TRUMP: «VOGLIONO ANNULLARE LE ELEZIONI»

«Non abbiamo fatto nulla di sbagliato. Abbiamo l’appoggio del partito repubblicano», ha esordito. «Dopo tre anni di caccia alle streghe, bufale, vergogne, truffe, i democratici stasera stanno cercando di annullare il voto di decine di milioni di patrioti americani», ha denunciato, accusando l’opposizione di «abuso di potere». «Questo è il primo impeachment dove non c’è un reato», ha incalzato, convinto che sarà un «suicidio politico» per i dem. E ha vantato l’unità del partito: «Non abbiamo perso neanche un voto dei repubblicani e tre democratici hanno votato con noi». La sua bestia nera resta Nancy Pelosi, cui alla vigilia del voto aveva inviato un’infuocata lettera di sei pagine accusandola di aver «dichiarato guerra aperta alla democrazia americana» con la «crociata» di un impeachment che è «un fazioso e illegale colpo di stato».

LA SPEAKER DELLA CAMERA PELOSI: «NON AVEVAMO ALTRA SCELTA»

Una lettera «ridicola» e «triste», ha replicato la Pelosi, ammonendo che «se consentiamo ad un presidente, qualsiasi presidente, di proseguire su questa strada, diremo addio alla repubblica e buongiorno al presidente re». La speaker democratica ha rincarato la dose aprendo il dibattito alla Camera. «Trump non ci ha dato altra scelta. Il presidente ha violato la costituzione e resta una costante minaccia per la sicurezza del nostro Paese e l’integrità delle nostre elezioni», ha denunciato, dopo aver letto accanto ad un tricolore americano il Pledge of Allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti.

La prima pagina dle New York Times del 19 dicembre 2019

UN PAESE SPACCATO SULL’IMPEACHMENT

Nel frattempo davanti a Capitol Hill centinaia di attivisti manifestavano a sostegno dell’impeachment, dopo gli oltre 600 tra raduni e marce in varie città di tutti i 50 Stati Usa, a partire da New York. «Che atroci bugie. Questo è un assalto all’America e al partito repubblicano», le ha risposto su Twitter il tycoon, che mira a galvanizzare la sua base e a trasformare l’impeachment in un boomerang politico contro i democratici. I sondaggi mostrano un Paese spaccato a metà sulla messa in stato d’accusa ma nel frattempo il gradimento del presidente sembra salire, stando all’ultimo sondaggio di Gallup: dal 39% di quando è iniziata l’indagine all’attuale 45%.

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