Il cadavere di un bambino trovato nel carrello di un aereo Air France

Il velivolo è partito dalla Costa d'Avorio ed è atterrato a Parigi. Le indagini della polizia sono in corso.

Il cadavere di un bambino di circa 10 anni è stato ritrovato nel carrello di un aereo Air France atterrato l’8 gennaio all’aeroporto parigino di Roissy Charles de Gaulle. Il velivolo era partito da Abidjan, in Costa d’Avorio. Le indagini della polizia sono in corso.

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La situazione della centrale nucleare in Iran dopo il terremoto

Preoccupazione per l'impianto atomico di Bushehr, vicino alla costa del Golfo, dove è stato avvertito un sisma di magnitudo 4.5. Epicentro a 17 chilometri a Sud-Est di Borazjan. Non si registrano notizie di danni o vittime.

La fine del mondo è qui? Dal Medio Oriente sono arrivate in sequenza notizie da scenario apocalittico: nel giorno della controffensiva lanciata da Teheran in risposta all’attacco americano, in Iran è precipitato un aereo ucraino poco dopo il decollo ed è stato pure registrato un terremoto di magnitudo 4.5.

PROFONDITÀ DI 10 CHILOMETRI

La preoccupazione è alta anche perché il sisma dell’8 gennaio ha colpito una zona del Paese vicina a un impianto nucleare. L’Istituto geofisico americano (Usgs) ha indicato che l’epicentro è stato localizzato a 17 chilometri a Sud-Est di Borazjan, a una profondità di 10 chilometri. Non ci sono notizie di danni o vittime.

L’UNICO IMPIANTO ATOMICO DEL PAESE

Il terremoto ha colpito un’area a meno di 50 km dall’impianto atomico iraniano di Bushehr, vicino alla costa del Golfo. Secondo l’agenzia di stampa Irna il sisma è stato avvertito proprio nella città che ospita l’unica centrale nucleare del Paese.

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L’esercito dei buoni ci salvi dai miserabili trumpismi

Mentre rischiamo una guerra mondiale e l'Australia va in fiamme, in Italia ci si preoccupa di Sanremo. Finché sarà questo il nostro stato d'animo Salvini e Meloni avranno gioco facile. L'unico antidoto è puntare sulle grandi idee, quelle di una sinistra plurale che collabori con i movimenti cattolici.

Ogni notte, sarà così per tanto tempo ancora, un’agenzia lancerà la notizia di una reazione militare iraniana e della risposta americana o viceversa. Ogni notte avremo il timore che chi ha le sorti del mondo nelle mani possa fare la mossa sbagliata, quella che ci porterebbe tutti verso la terza guerra mondiale.

LEGGI ANCHE: La sinistra riparta dalle parole rivoluzionarie di Zuppi

Il fanatismo dei leader religiosi iraniani e l’analogo fanatismo del più pericoloso presidente americano stanno facendo girare sulle nostre teste droni che portano bombe anche là dove possono provocare l’incidente irrecuperabile.

L’APOCALISSE AUSTRALIANA

Cambiamo scenario. La cronaca ci dice che l’incendio che in Australia ha distrutto un territorio pari all’Austria, ha ucciso un miliardo di animali e ora vogliono abbattere 10 mila cammelli perché c’è poca acqua e loro ne bevono troppa.

Nei roghi che stanno distruggendo l’Australia sono morti almeno 1 miliardo di animali.

Rileggete quel numero, voi che postate sui social le foto dei vostri gattini, di piccoli cani, di criceti: un miliardo di animali, alcuni anche rari, che sono stati bruciati vivi nel cuore di uno dei Paesi più ricchi del mondo. Finora nulla è stato fatto per arginare questo disastro, chiunque l’abbia provocato sia il riscaldamento globale sia un centinaio di piromani da chiudere in galera per tutta la loro vita.

GLI ITALIANI INTERESSATI ALLE QUERELLE SANREMESI

A colpire, qui da noi, è la passione che si accende su Rita Pavone e su Rula Jebreal e su altre stupidaggini analoghe che sembra far svanire le ombre dei disastri che riguardano l’intera umanità e, in essa, di noi come singoli. Non guardiamo oltre la nostra tivù o il nostro telefonino. Lo dico in fretta perché non voglio iscrivermi al partito di coloro che disprezzano la modernità, comprese le nuove cattive abitudini.

Rita Pavone durante il programma Rai “Woodstock – Rita Pavone racconta”.

Il tema che ci dovrebbe interessare è come sia potuto accadere che gran parte dell’umanità, soprattutto in Occidente, sia diventata così indifferente. C’è stata in questi giorni una corsa per vedere il film di Checco Zalone. L’altra sera siamo usciti in 50 dopo aver visto quello di Ken Loach e non si è praticamente formato un solo capannello, non c’era niente da dire, quel film bello e terribile ci aveva detto che non avevamo più niente da dire.

COSÌ LA CULTURA EGOSITICA È DIVENTATA CUPA RABBIA

Finché sarà questo il nostro stato d’animo, Matteo Salvini troverà sempre la strada della vittoria e se non vincerà lui vincerà Giorgia Meloni. La campagna contro la solidarietà, il multiculturalismo, l’accettazione dell’altro, il dono di sé hanno fatto prevalere una specifica cultura egoistica che ha perso l’allegria dei primi anni liberisti ed è diventata cupa rabbia contro gli altri, tutti gli altri, anche contro di te elettore di Salvini se scoprirai che un altro elettore di Salvini ti intralcerà la strada. Se l’Emilia-Romagna ci farà il regalo di far vincere il candidato del Pd tireremo un sospiro di sollievo. Salvini si berrà due birrozze e comincerà piano piano a fare i bagagli. Ma la questione di fondo non cambierà.

salvini premier 2020
Matteo Salvini.

L’ANTIDOTO AL TRUMPISMO È FUORI DA UNA LOGICA DI PARTITO

La sinistra e anche il cattolicesimo sociale e democratico assieme con l’anima laica del Paese e con la destra liberale avevano decenni fa in animo di competere per costruire un Paese di Grandi Virtù, non questa miserabile esibizione di trumpismi. Lasciate razzolare Mario Giordano, Maria Giovanna Maglie, Pietro Senaldi e persino Vittorio Feltri. Quello che li potrà distruggere è fuori da una logica di partiti o di partiti associati ed è dentro una cultura in cui ci si occupa dell’altro e si creano correnti di opinioni, movimenti reali, azioni esemplari che, aggiungendosi a chi già è sul campo, rafforzeranno l’esercito dei buoni. Non mi impressionano le parole di questi facinorosi di Rete4. Mi impressiona il fatto che abbiano fatto facilmente breccia in una società sbriciolata. Ecco perché devono tornare le grandi idee, quelle di una sinistra plurale che collabori con grandi movimenti cattolici. Quanti partiti potranno nascere da questa confluenza è del tutto irrilevante. L’importante è che arrivi il messaggio che l’esercito dei buoni, non dei buonisti, è in campo senza ritrosie e senza paure.

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Terna, con l’hub di Milano si progetta la rete elettrica intelligente

Dopo Torino e Napoli, vede la luce l’innovation hub del capoluogo lombardo. Avrà due laboratori: uno si occuperà di advanced analytics e l’altro servirà a condurre sperimentazioni.

Dopo quelli di Torino e Napoli, il gruppo Terna apre un innovation hub anche a Milano. È stato inaugurato lo scorso 17 dicembre, presso la sede Terna di Pero, alla presenza dell’assessora alla Trasformazione Digitale del Comune di Milano Roberta Cocco, del membro del collegio dell’Arera Stefano Saglia e della presidente di Terna Catia Bastioli. L’Innovation Hub di Milano si muoverà in ambito «Analytics & Energy Systems», per sviluppare strumenti e competenze per una gestione della rete elettrica sempre più intelligente attraverso l’elaborazione e l’interpretazione di dati e lo sviluppo di algoritmi e strumenti avanzati di simulazione e previsione.

DUE LABORATORI PER INNOVAZIONE A ANALISI AVANZATA

L’hub di Milano si articolerà in due distinti laboratori: uno dedicato all’Energy Tech, per abilitare i progetti di innovazione del system operator e condurre sperimentazioni e uno focalizzato sugli Advanced Analytics, per interagire con startup e aziende innovative in un ambiente appositamente realizzato. «L’obiettivo è quello di sviluppare idee e percorsi innovativi a beneficio di una rete elettrica sempre più moderna, efficiente, flessibile, sostenibile e soprattutto in grado di favorire la transizione energetica in atto», ha detto l’amministratore delegato di Terna Luigi Ferraris.

SINERGIE CON LE ECCELLENZE DEL TERRITORIO

«L’hub è uno strumento per portare avanti il nostro sfidante piano nazionale che prevede investimenti per oltre 700 milioni di euro in cinque anni in innovazione e digitalizzazione, elementi imprescindibili per abilitare la transizione energetica», ha commentato invece la presidente di Terna, Catia Bastioli, «e si propone di creare sinergie tra le persone, le professionalità di Terna e le eccellenze del territorio». A tal proposito, attraverso l’interazione e lo scambio con realtà esterne come Università, centri di ricerca, startup e imprese, l’Innovation Hub diventerà un laboratorio dove creare, sviluppare e testare concretamente nuove idee.

LOMBARDIA PRIMA PER INVESTIMENTI PIANIFICATI

Proprio dall’Hub di Milano, così come previsto per quelli di Torino e Napoli, partiranno progetti che puntano a favorire la diffusione della cultura dell’innovazione, la creazione di future professionalità di eccellenza e lo sviluppo di soluzioni industriali che possano avere implementazione su più larga scala. «La Lombardia è la prima regione per investimenti Terna nel Nord Italia con 516 milioni di euro pianificati nei prossimi 5 anni e, proprio a Milano, si è conclusa recentemente la fase più significativa dell’opera di ammodernamento della rete a 220 kV della città con la sostituzione di 47 Km di vecchi cavi in olio fluido risalenti agli anni ’50 con nuovi cavi più efficienti e sostenibili», ha concluso l’ad Ferraris.

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Le condizioni dei soldati italiani impegnati in Iraq

Sono circa mille i nostri connazionali attivi sul territorio. Di questi 400 nella base di Erbil. Nessun ferito dopo l'attacco di Teheran. La scheda.

Sarebbero tutti in salvo i soldati italiani di stanza a Erbil dopo l’attacco contro la base di Ayn al-Asad in Iraq che ospita militari americani. Proprio a Erbil si trova una parte consistente dei circa mille nostri connzionali attualmente presenti in varie località dell’Iraq. In particolare, dal 2015 è attiva la task force Land composta da militari dell’esercito che hanno compiti di addestramento dei peshmerga, le forze di sicurezza curde.

SONO 400 GLI ITALIANI A ERBIL

I militari italiani presenti a Erbil sarebbero al momento circa 400, di cui 120 istruttori. Nessuno, è stato ribadito, avrebbe subito conseguenze dopo l’attacco. La task force land è inquadrata nel Kurdistan training coordination center (Ktcc), il cui comando è attribuito alternativamente per un semestre all’Italia e alla Germania: a esso contribuiscono nove nazioni, con propri addestratori (Italia, Germania, Olanda, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna, Ungheria, Slovenia e Turchia). Gli istruttori militari italiani addestrano i peshmerga in varie discipline: dalla formazione basica di fanteria all’uso dei mortai e dell’artiglieria, dal primo soccorso alla bonifica degli ordigni improvvisati.

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Aereo ucraino precipita dopo il decollo all’aeroporto di Teheran

Almeno 170 morti. La causa del disastro sarebbe un problema tecnico.

Sono tutte morte le persone a bordo dell’aereo ucraino che questa mattina è precipitato a Teheran subito dopo il decollo. Lo ha confermato un portavoce della Mezzaluna islamica alla televisione iraniana, affermando che a bordo del Boeing 737 vi erano 173 persone.

Secondo i media russi l’aereo dell’Ukraine International Airlines era partito alle 5 del mattino ora locale da Teheran diretto a Kiev. E’ precipitato subito dopo il decollo in un campo alla periferia della capitale iraniana. Le autorità iraniane hanno indicato un guasto tecnico come causa dell’incidente.

Intanto, la US Federal Aviation Administration ha vietato a tutti i voli commerciali di entrare nello spazio aereo iraniano ed iracheno dopo il lancio di missili contro le basi militari Usa in Iraq, sottolineando “rischio” di “possibili errori di calcolo e di identificazione” in caso di lancio di missili.

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L’Iran ha bombardato due basi americane in Iraq

Almeno 80 morti. A Erbil i soldati italiani in salvo nei bunker. Atteso un discorso del presidente Trump alla nazione.

Almeno 80 morti. Sarebbe questo il primo bilancio dell’attacco missilistico compiuto nella notte tra il 7 e l’8 gennaio dall’Iran contro due basi in Iraq dove erano ospitati militari americani. È l’operazione ‘Soleimani Martire‘, per vendicare il generale ucciso dal raid Usa all’aeroporto internazionale di Baghdad.

Una pioggia di cruise e di missili balistici a corto raggio partita dal territorio iraniano e che si è abbattuta contro la base di al-Asad e contro quella di Erbil, come prima rappresaglia per l’uccisione del generale Qassem Soleimani da parte degli Usa. Secondo la tv di Stato iraniana, ci sarebbe stata anche una seconda ondata di attacchi.

Il personale del contingente militare italiano ad Erbil si è radunato in un’area di sicurezza e gli uomini si sarebbero rifugiati in appositi bunker. Risultano tutti illesi. Il Pentagono, in una nota, ha affermato che dopo aver messo al corrente dei fatti il presidente americano Donald Trump sta ancora valutando le conseguenze dell’offensiva.

Intanto a Washington si è riunito il consiglio per la sicurezza nazionale alla presenza del segretario di Stato Mike Pompeo e del numero uno del Pentagono Mark Esper. Da Teheran il corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane ha annunciato come “la feroce vendetta” per l’uccisione del generale Soleimani è iniziata e ha affermato che l’operazione iniziale si è conclusa con successo e che la base di al-Asad, contro cui sarebbero stati lanciati almeno 35 missili, “è stata completamente distrutta”.

L’Iran minaccia quindi “azioni ancor più devastanti” se gli Usa dovessero decidere di rispondere. “Se l’Iran dovesse essere attaccato sul suo territorio – avvertono le Guardie Rivoluzionarie – Dubai, Haifa e Tel Aviv verranno colpite in un terzo round di attacchi da parte dell’Iran”. Intanto volano le quotazioni del petrolio, balzato del 3,4% a 65 dollari, e dell’oro, a quota 1.600 dollari l’oncia ai massimi dal 2013.

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Le quotazioni di Borsa e spread dell’8 gennaio 2020

Attesa per l'apertura dei listini dopo la chiusura in positivo del 7 gennaio. Spread in aumento a 166 punti. I mercati in diretta.

C’è attesa per la seduta della Borsa italiana dell’8 gennaio 2020. Il 7 Piazza Affari ha chiuso le contrattazioni in positivo con l’indice Ftse Mib in rialzo a +0,6%. In generale le principali Borse europee hanno tenuto testa al rosso di Wall Street nonostante le tensioni sul dossier iraniano. La migliore Piazza del Vecchio continente è stata Francoforte (+0,7%) insieme a Milano. In rosso Madrid (-0,2%), sul filo Parigi e Londra (-0,02%).

SPREAD IN RIALZO INTORNO AI 166 PUNTI

Il 7 gennaio lo spread tra Btp e Bund ha chiuso in rialzo a 166 punti base (162 punti la chiusura del 6 gennaio), con il rendimento del Btp salito all’1,37%.

I MERCATI IN DIRETTA

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A che punto è la discussione della giunta sul caso Gregoretti

I 23 senatori stanno studiando il dossier che coinvolge l'ex ministro dell'Interno. Il timing per il 20 gennaio dovrebbe essere rispettato. Ma potrebbe esserci un rinvio per non influenzare il voto del 26 in Emilia e Calabria.

La Giunta delle immunità del Senato è entrata nel vivo del caso Gregoretti per decidere sull’autorizzazione a procedere, chiesta dal tribunale dei ministri di Catania nei confronti di Matteo Salvini quand’era alla guida del Viminale. Sul tavolo dei 23 senatori nel complesso barocco di Sant’Ivo alla Sapienza, c’è la memoria scritta presentata dal leader della Lega. Nove pagine per difendersi dall’accusa di sequestro di persona contestata dal tribunale ma su cui la procura catanese ha chiesto l’archiviazione.

SUL TAVOLO UN POSSIBILE RINVIO DEL VOTO

Nel dubbio, il diretto interessato ha insistito: «Se vogliono mandarmi in galera, non trovano un uomo preoccupato ma orgoglioso di aver difeso i confini. Io al governo rifarei lo stesso», ha ammonito a Radio 24. Ma in attesa del verdetto della Giunta, previsto il 20 gennaio, nei corridoi parlamentari corre voce di un rinvio del voto a dopo le regionali del 26 gennaio. Del resto i 30 giorni a disposizione della Giunta, e che scadono attorno al 20 gennaio, non sono un termine perentorio, mentre sono rilevanti i 60 giorni entro i quali deve esprimersi l’aula del Senato per il voto definitivo.

I DUBBI SUL POSSIBILE IMPATTO SUL VOTO IN EMILIA

Il rischio – secondo alcuni – è che la ‘condanna’ della Giunta possa creare un effetto ‘martire’ attorno al ‘capitano’, con un boom di consensi a una settimana dal voto cruciale in Emilia-Romagna e in parte in Calabria. Troppo rischioso, insomma. In ogni caso, perché il voto slitti deve esserci una richiesta motivata da parte dei senatori della Giunta. Poi deciderà l’ufficio di presidenza. Niente di concreto, al momento, per il presidente della Giunta, il senatore Maurizio Gasparri che ha continuato a lavorare sul caso e in particolare sulla proposta che dovrà fare in quanto relatore. Quindi ha tagliato corto e assicurato che i tempi per una discussione approfondita ci sono.

I TEMI DI LAVORO DELLA GIUNTA

Il calendario fissato a dicembre conta cinque riunioni, compresa quella finale e due sono di lunedì, quando in genere non si riunisce l’Aula. Considerando che ogni senatore ha 10 minuti per intervenire, non è il tempo a mancare. In ogni caso, nel pomeriggio la Giunta potrebbe ‘limitarsi’ a prendere atto della memoria di Salvini con qualche commento e far partire la discussione direttamente sulla proposta del relatore, che potrebbe esser pronta entro fine settimana. Sulla carta comunque i numeri sembrano chiari e più orientati a mandare a processo il leghista.

LA GIUNTA PROPENDE PER IL VIA LIBERA

Sarebbero infatti 13 i “sì” (M5s, Pd, Iv e probabilmente i tre senatori del Misto) e 10 i contrari, tutti del centrodestra. Parecchi però tacciono in attesa di leggere tutte le carte. I 5Stelle si riuniranno per fare il punto sulla questione. A far pendere la bilancia da una parte all’altra è la somiglianza o meno con il caso Diciotti che portò Salvini davanti alla Giunta un anno fa. Anche allora la sua versione fu che il mancato sbarco dei migranti era stata un’azione collegiale del governo. Stavolta però nella sua difesa manca l’endorsement scritto del premier e dell’allora vicepremier Di Maio. Ci sono invece le mail dei dirigenti di vari ministeri che dimostrano – secondo Salvini – che tutto il governo sapeva, Conte compreso.

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All’America non piace la guerra di Trump contro l’Iran

Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.

In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike al generale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.

DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»

L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».

ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD

Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.

STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO

Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.

Iran Soleimani Trump caos Usa
Americani contro la guerra all’Iran di Trump, Usa. (Getty).

NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA

L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».

LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE

Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».

Iran Soleimani Trump caos Usa
In Times Square, a New York, contro le guerre di Trump in Medio Oriente. GETTY.

DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI

La Germania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.

IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA

I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lo choc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.

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Una ‘sorella’ della Terra distante 100 anni luce

Si chiama TOI 700 d, ed è stata individuata dal nuovo cacciatore di pianeti della Nasa. Una scoperta che parla anche italiano.

A circa 100 anni luce di distanza c’è una ‘sorella’ della Terra, che si trova nella cosiddetta zona abitabile, ossia alla distanza ideale dalla sua stella per avere acqua liquida in superficie. Si chiama TOI 700 d ed è stata individuata dal nuovo cacciatore di pianeti Tess, della Nasa. Il risultato è stato annunciato al convegno della Società astronomica americana, dal gruppo guidato da Emily Gilbert, dell’università di Chicago. Vi partecipano anche gli italiani Giovanni Covone, astrofisico dell’università Federico II di Napoli e associato dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), e lo studente Luca Cacciapuoti della Federico II.

IN CERCA DI OSSIGENO E ACQUA

«Questo risultato è molto importante per Tess perché è il primo pianeta simile alla Terra scoperto dal telescopio spaziale», dice Covone. Il prossimo passo, aggiunge, sarà verificare se il pianeta ha un’atmosfera e quale è la sua composizione chimica. «Cercheremo soprattutto tracce di ossigeno e acqua che» – spiega l’esperto – «sono le prime indicazioni importanti dell’eventuale presenza di forme di vita». Lanciato nel 2018, Tess cerca i pianeti osservando eventuali cali nella luminosità della stella causati dal loro passaggio. Così ha trovato tre pianeti intorno alla stella TOI 700, che è una nana rossa, la cui massa è circa la metà di quella del Sole. Dei tre mondi, il più affascinante è TOI 700 d, il pianeta più esterno, che è roccioso e poco più grande della Terra (del 20%). Il pianeta ha un anno lungo 37 giorni e ha temperature miti in superficie perché riceve dalla sua stella l’86% dell’energia che la Terra riceve dal Sole. Altra caratteristica che lo rende simile alla Terra è la tranquillità della sua stella che in 11 mesi di osservazioni non ha mostrato segni di eruzioni.

INCOGNITE SULLA NASCITA DELLA VITA

Il pianeta rivolge sempre la stessa faccia alla sua stella, come fa la Luna con la Terra, perché impiega lo stesso tempo sia per ruotare su se stesso che per girare intorno alla stella, ma questo potrebbe non essere un limite per la nascita della vita. Tuttavia, rileva Covone «bisogna vedere che tipo di vita si potrebbe formare su un pianeta senza l’alternanza di giorno e notte, per questo TOI 700 d sarà un bel laboratorio per l’astrobiologia». La scoperta è stata confermata dal gruppo coordinato da Joseph Rodriguez, del Centro americano Harvard-Smithsonian, grazie alle osservazioni del telescopio spaziale Spitzer della Nasa, mentre il gruppo di Gabrielle Englemann-Suissa, dell’americana Universities Space Research Association, ha tracciato l’identikit del pianeta con delle simulazioni. In una di esse TOI 700 d è un mondo coperto di acqua con un’atmosfera dominata dalla CO2, mentre in un’altra è secco e senza nuvole. “Sono due ipotesi alternative su cui è difficile scommettere ma – conclude Covone – simulazioni come queste sono utili per capire cosa dobbiamo aspettarci quando andremo a osservare il pianeta in modo diretto”.

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Le mosse diplomatiche di Ue e Italia sulla crisi libica

L'Alto rappresentante Borrell e i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Regno Unito e Germania sono rimasti bloccata a Bruxelles senza sbocchi. E il vertice di pace a Berlino resta un miraggio.

Naufragata la missione diplomatica dell’Unione europea che avrebbe voluto tentare di convincere le due fazioni libiche a deporre le armi, l’Alto rappresentante Josep Borrell e i quattro ministri degli Esteri di Italia, Francia, Regno Unito e Germania hanno dovuto ripiegare su una riunione a Bruxelles. Per ragioni di sicurezza dopo gli ultimi attacchi, è stata la motivazione ufficiale, anche se a pesare sulla decisione con ogni probabilità è stata anche la contrarietà all’iniziativa lasciata trapelare nei giorni scorsi dal governo di Tripoli di Fayez al-Sarraj, forte ora del sostegno militare garantito dalla Turchia.

L’INCOGNITA TURCA A BENGASI

Nell’incontro, fatto traslocare in fretta e furia nella capitale europea, non si è potuto dunque fare altro che ribadire una serie di appelli di principio già espressi nei giorni scorsi dagli stessi attori che hanno partecipato alla riunione: la necessità del dialogo, l’invito a interrompere le interferenze esterne, la de-escalation. Mentre sul campo la realtà procede a passi spediti in tutt’altra direzione, con il generale Khalifa Haftar che sfrutta ogni secondo utile per cercare di guadagnare terreno con le sue truppe, con i soldati turchi che hanno già iniziato a dispiegarsi nel Paese per aiutare Sarraj, con la possibile presenza di mercenari e mezzi russi a fianco delle forze di Bengasi.

IL TOUR DE FORCE DIPLOMATICO DI DI MAIO

L’Europa pensa che sia ancora possibile riuscire a fermare con le parole questo marchingegno sempre più veloce e complicato. In Libia «bisogna parlare con tutti e convincerli a un cessate il fuoco», ha insistito il ministro Luigi Di Maio prima di volare alla volta della Turchia per mettere subito in pratica il proposito, incontrando il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu. Il titolare della Farnesina si sposterà poi nel giro di qualche giorno prima in Egitto, Paese vicino invece ad Haftar, e quindi in Algeria e in Tunisia. Una maratona diplomatica che dimostra la volontà italiana di garantirsi un ruolo di mediazione mantenendosi su una posizione equidistante dalle fazioni in lotta. «Ma l’Ue deve parlare con una voce sola», ha ammonito Di Maio a Bruxelles, dicendosi sicuro che le iniziative europee «vedranno un cambio di passo» nei prossimi giorni.

IL MIRAGGIO DEL VERTICE DI BERLINO

Un invito che affonda il coltello in quella che storicamente è una delle debolezze dell’Ue nella sua proiezione sulla politica estera e che fa il paio con l’appello del commissario europeo italiano Paolo Gentiloni, secondo il quale l’Unione europea deve ora «evitare di trovarsi di fronte a fatti compiuti» e farsi superare da una situazione geopolitica che va «più veloce della nostra ambizione». Per ora l’unica iniziativa concreta a livello europeo sembra essere la conferenza sulla Libia di cui si parla da mesi e che a Berlino dovrebbe far sedere intorno a un tavolo tutti gli attori regionali coinvolti in qualche modo nel conflitto. Anche l’Algeria, che era finora stata tenuta fuori, è stata invitata da Angela Merkel a partecipare all’incontro, per il quale tuttavia non è stata fissata ancora nemmeno una data e che continua a slittare.

IL PESO DELLA CRISI IRANIANA SULLA LIBIA

Intanto, mentre tutti osservano gli sviluppi sul terreno, i valzer dei colloqui e delle telefonate incrociate proseguono. Tra i protagonisti c’è naturalmente anche la Russia, con Putin che vedrà prima Erdogan e poi nel fine settimana la cancelliera tedesca. Anche se l’attenzione e la preoccupazione del mondo, probabilmente anche quella dell’Unione europea, in questo momento sembra essere maggiormente concentrata sulla crisi dell’Iran. E tra i corridoi delle istituzioni europee circolano voci, non confermate, sulla possibilità di un vertice a livello di capi di Stato e di governo sulla complessa situazione mediorientale.

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Perché in Spagna il governo Sanchez è nato già sotto scacco

Coalizione con otto partiti. Più o meno di sinistra. E due soli voti di margine in parlamento. L'esecutivo preannuncia turbolenze. Con la spina della questione catalana. E difficilmente avrà la forza di proporre riforme strutturali.

Con molta fatica e un margine risicatissimo, il parlamento spagnolo ha partorito un nuovo governo, il primo di coalizione nella storia del Paese. Ma la via crucis di Pedro Sánchez, diventato presidente dopo vari tentativi falliti, potrebbe essere solo all’inizio.

CATALOGNA SPINA NEL FIANCO

Una coalizione dalle molteplici posizioni (otto partiti in tutto, più o meno di sinistra) e la risposta all’interminabile questione catalana saranno spine nel fianco di una legislatura che si annuncia parecchio turbolenta. E il presidente dell’esecutivo deve fare attenzione a ogni sua mossa.

ACROBAZIE ALLA RICERCA DEI VOTI

Con i risultati delle elezioni del 10 novembre 2019 era chiaro che l’investitura di Sánchez non sarebbe stata una passeggiata, ma dopo l’accordo-lampo con Unidas Podemos (per fare il governo) e quello più complicato con gli indipendentisti di Esquerra Republicana de Catalunya (per assicurarsene l’astensione nel voto) la strada sembrava in discesa. Nel secondo dibattito di investitura, infatti, al numero uno dei socialisti non serviva più la maggioranza dei voti della Camera, ma soltanto un numero di “sì” superiore ai “no” fra i 350 seggi.

PRESENTE ANCHE UNA PARLAMENTARE COL CANCRO

L’aritmetica parlamentare della coalizione faticosamente cesellata in settimane di negoziati ha però rischiato seriamente di saltare per aria al momento della verità. La deputata di Coalición Canaria, Ana Oramas, aveva disatteso le indicazioni del suo partito e annunciato il voto contrario al governo, riducendo il margine di vantaggio a sole due lunghezze. Le sorti dell’investitura dipendevano quindi da ogni singola presenza, compresa quella di Aina Vidal, parlamentare catalana di Podemos malata di cancro che stoicamente si è presentata in Aula ricevendo l’applauso dell’emiciclo.

LO SPETTRO DEI FRANCHI TIRATORI

Nella Camera del Congresso, però, aleggiava comunque lo spettro del “tamayazo”, il termine usato in Spagna per connotare l’azione dei franchi tiratori, dal nome di Eduardo Tamayo, un socialista madrileno che nel 2003 regalò la presidenza regionale agli avversari. L’opposizione, sfaccettata tanto quanto la coalizione di governo, ha cercato fino all’ultimo di recuperare il singolo voto che avrebbe potuto bloccare l’investitura, che in Spagna avviene per voto palese a chiamata in ordine alfabetico. La leader di Ciudadanos, Inés Arrimadas, ha chiesto a viso aperto e con un discorso accorato l’intervento di franco-tiratori nel Psoe: «Non c’è nemmeno uno, un solo coraggioso in questa tribuna?».

DA DESTRA SI URLA AL «TRADIMENTO» DELLA SPAGNA

Da destra Pablo Casado e Santiago Abascal, a capo di Partido popular e Vox, hanno battuto sul ritornello del «tradimento alla Spagna» per l’intesa di Sánchez con i separatisti, nella speranza remota di convincere qualcuno a modificare il voto e in quella meglio riposta di aizzare l’elettorato. È finita 167 a 165, con 18 astensioni: tra citazioni di Manuel Azaña, Che Guevara e Groucho Marx, è risultata decisiva la fermezza di Tomás Guitarte, deputato del micro-partito provinciale Teruel Existe che ha ricevuto quasi 9 mila mail (alcune con contenuto intimidatorio) per cambiare lato della barricata e ha dovuto passare la notte prima del dibattito in un luogo segreto.

DIFFICILE FARE RIFORME SULL’ECONOMIA

Per arrivare alla Moncloa, Sánchez ha dovuto negoziare l’astensione di due partiti regionali con largo seguito, Eh Bildu (formazione di estrema sinistra basca, con ex sostenitori di Eta fra le sue fila) ed Esquerra Republicana de Catalunya, la voce più forte dell’indipendentismo catalano. Come spiegato da Ignacio Molina, senior analyst del Real Instituto Elcano, in una situazione del genere è molto difficile intraprendere riforme strutturali in ambito economico, dove i due soci maggioritari di governo potrebbero non essere d’accordo, mentre sarà relativamente più semplice lavorare sul welfare o sulla politica estera e di sicurezza.

NESSUNA ALTERNATIVA POSSIBILE

Al contrario di quanto succede in Italia, secondo Molina in Spagna un governo eletto con un margine ristretto non è una condizione particolarmente grave perché non c’è nessuna alternativa possibile, vista anche l’attuale polarizzazione del parlamento. «Ci sono due casi in cui l’esecutivo potrebbe cadere: la rottura fra Psoe e Unidas Podemos, che porterebbe Sánchez alle dimissioni e il Paese alle elezioni, oppure il blocco di leggi importanti come quella di bilancio da parte di Erc e Eh Bildu».

Con la nostra gente in carcere non mi importa nulla della governabilità del Paese


Montserrat Bassa di Esquerra Republicana de Catalunya

In particolare è l’accordo fra Psoe ed Erc a destare preoccupazione, visto che i primi vorrebbero pacificare la Catalogna e i secondi ottenere l’indipendenza dalla Spagna. Montserrat Bassa di Erc, nel caso qualcuno nutrisse dubbi, durante il suo intervento ha detto: «Con la nostra gente in carcere non mi importa nulla della governabilità del Paese. Ma il dialogo è l’unica via per raggiungere una Repubblica catalana cordialmente con gli spagnoli».

CAOS NEL GOVERNO CATALANO

A questa naturale differenza di intenti si aggiunge il caos nel governo catalano, visto che l’attuale presidente della Generalitat, Quim Torra, separatista radicale, ha subìto dalla Junta electoral central un’inabilitazione come parlamentare per disobbedienza e se non vince il ricorso dovrà lasciare la presidenza: provvedimento che è subito (e alquanto paradossalmente, almeno dal punto di vista linguistico) stato definito «colpo di Stato» dagli indipendentisti. Nell’accordo scritto si conviene soltanto «il riconoscimento di un conflitto politico in Catalogna» e «la creazione di un tavolo di dialogo per risolverlo». Parole ricche di buoni propositi, ma di difficile traduzione in misure concrete.

SANCHEZ NON ACCETTERÀ UN REFERENDUM SULL’INDIPENDENZA

Ignacio Molina ha affermato: «Questi concetti hanno un forte impatto simbolico, ma vogliono dire molto poco dal punto di vista pratico. Il governo non farà nulla che alteri la Costituzione, e anche volendo non potrebbe perché gli mancano i numeri necessari. Sicuramente non accetterà un referendum sull’indipendenza catalana. Il tavolo di dialogo servirà per raffreddare il conflitto in atto e parlare di possibili riforme minori sull’autonomia, al massimo per risolvere la questione dei politici catalani in carcere».

I POPOLARI ASSUMONO POSIZIONI PIÙ RADICALI

Il dibattito di investitura ha anche mostrato un’accesa lotta per accreditarsi come leader dell’opposizione fra Casado e Abascal. Casado, che abitualmente viaggia in ambo i sensi di marcia tra il centro e la destra a seconda della convenienza, sembra avere assunto posizioni più radicali e puntare dritto a recuperare per il Pp i voti di Vox. Abascal, invece, non aveva certo bisogno di rinsaldare la sua immagine di uomo forte e intransigente difensore della nazione. Tuttavia non ha rinunciato a definire il nuovo governo come «un golpe istituzionale, matrimonio tra la bugia e il tradimento» e a concludere il suo intervento con un doppio «Viva España» e «Viva el rey» da capo ultrà, ricevendo per tutta risposta il coro dei suoi.

CIUDADANOS LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA

Molto di questa sfida intestina alla destra dipende per Molina dalla sinistra, cioè da cosa farà il governo: «Se nella legislatura dominano temi economici e sociali ne trarrà vantaggio Casado. Ma più il dibattito si polarizza, peggio è per lui: il leader del Pp deve allo stesso tempo trattenere i suoi elettori più nazionalisti dalle lusinghe di Vox ed evitare le “guerre culturali” che il partito di Abascal potrebbe mettere in agenda». Lotterà invece per la sopravvivenza Inés Arrimadas, erede di Albert Rivera alla guida di Ciudadanos, che aveva proposto a Sánchez un patto di governo di costituzionalisti moderati. Nella Spagna profondamente divisa di oggi, una pura utopia.

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L’Antitrust mette nel mirino nove squadre di Serie A

Avviati procedimenti nei confronti di Inter, Milan, Roma, Lazio, Juventus, Cagliari, Genoa, Udinese e Atalanta. I club utilizzerebbero «clausole vessatorie nei contratti di acquisto di abbonamenti e biglietti per le partite».

Inter , Milan, Roma, Lazio, Juventus, Cagliari, Genoa, Udinese e Atalanta sono le nove società di Serie A nel mirino dell’Antitrust che ha avviato nove procedimenti istruttori per «clausole vessatorie nei contratti di acquisto di abbonamenti e biglietti per le partite». Si tratta, in particolare, di clausole che non riconoscerebbero il diritto a ottenere il rimborso di tutto o parte dell’ abbonamento o del singolo biglietto, in caso di chiusura dello stadio o rinvio di partita, e a ottenere risarcimenti per fatto della società.

ARCHIVIATA LA POSIZIONE DI BOLOGNA E PARMA

L’attività istruttoria in corso fa seguito – si legge in una nota dell’Antitrust – al mancato accoglimento dell’invito rivolto dall’Autorità alle nove società lo scorso 8 maggio 2019, tramite una comunicazione di moral suasion con la quale era stato richiesto ai club di adottare iniziative dirette a rimuovere le evidenze appena richiamate. A queste richieste hanno risposto positivamente solo Bologna e Parma. Queste ultime – sottolinea l’Antitrust – hanno «effettivamente modificato le loro condizioni generali di contratto, con la rimozione dei profili di possibile vessatorietà ivi rilevati nelle rispettive lettere. Per queste due ultime società sono stati archiviate le rispettive procedure.

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Le mosse della Russia alla luce della crisi tra Usa e Iran

Putin è volato a sorpresa in Siria per incontrare Assad. Un vertice di sicurezza prima dell'incontro ad Ankara con Erdogan. Così Mosca tenta di puntellare il Medio Oriente dopo la morte di Soleimani.

Nel pieno della crisi che ha investito il Medio Oriente dopo l’eliminazione da parte degli Usa del generale Qassem Soleimani, il presidente russo Vladimir Putin, a sorpresa, si produce in una sortita in Siria, dove ha incontrato il rais Bashar al-Assad. Un fuori programma che si è saldato con la visita prevista per l’8 gennaio a Istanbul – in agenda invece da tempo per tenere a battesimo il gasdotto TurkStream insieme al collega turco Recep Tayyip Erdogan – e che andrà ad aumentare il profilo di mediatore costruito sapientemente dallo zar nel corso dell’ultimo anno.

SUL TAVOLO LIBIA, SIRIA E QUESTIONE ENERGETICA

Il tema del gas, infatti, a questo punto resterà sullo sfondo e per forza di cose la geopolitica prenderà il sopravvento (benché lo scatto in avanti d’Israele, Cipro e Grecia per realizzare il condotto Eastmed, inviso alla Turchia e di certo non gradito da Mosca, va ad aggiungersi al delicato gioco di alleanze in corso nel Mediterraneo orientale). Putin ed Erdogan faranno così il punto della situazione e il Cremlino ha fatto sapere che a Istanbul «si discuterà dell’ulteriore sviluppo della cooperazione russo-turca e di temi internazionali rilevanti, inclusa la situazione in Siria e in Libia».

ANKARA E MOSCA SUI DUE FRONTI LIBICI

La Libia d’altra parte sembra essere il nodo più spinoso sul tavolo, dato che Mosca – pur sostenendo di aver sempre mantenuto rapporti equidistanti fra le parti – ha sostenuto Haftar, c’è chi dice con uomini e mezzi, mentre Ankara si appresta a inviare truppe per spalleggiare il governo di Tripoli. Insomma, se in Siria Putin ed Erdogan hanno trovato un accordo, in Libia rischiano di trovarsi su fronti contrapposti. La crisi siriana, poi, è tutt’altro che faccenda conclusa.

I RISCHI DEL CAOS IRANIANO SULLA SIRIA

L’Iran, terzo puntello della triplice alleanza per tenere in sella Assad (e suo alleato più convinto), ora si ritrova sotto tiro e una sua reazione scomposta potrebbe far saltare i difficili equilibri sperimentati sul campo. Putin, che in Siria visiterà non solo Damasco ma anche “altri siti” non meglio precisati, ha voluto sottolineare come nella capitale siriana «si possano notare, ad occhio nudo, segni di vita pacifica in ripresa». Traduzione: non si metta a rischio l’exit-strategy stilata sin qui per rimettere in piedi la Siria.

UN TOUR PER SONDARE GLI ANIMI

Ecco allora che la sortita dello zar appare come un tour a tappe forzate per sondare gli animi da vicino. Dopo Assad ed Erdogan, infatti, Putin vedrà anche Angela Merkel a Mosca l’11 gennaio appositamente invitata per parlare di «Siria, Libia e Ucraina». Altra mossa per mettere il colbacco sulla crisi mediorientale e mostrarsi come leader responsabile che tenta di risolvere i problemi invece di crearli.

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Dalla rovente Italia un altro allarme sul riscaldamento globale

Il 2019 è stato il quarto anno più cocente dal 1800. Dopo 2014, 2015 e 2018. Il decennio che si è chiuso risulta dunque il peggiore di sempre per il nostro Paese. Gli effetti dei cambiamenti climatici nei dati del Cnr.

E adesso i negazionisti del riscaldamento globale saranno ancora un filo più imbarazzati. Perché dall’Italia è arrivata un’ulteriore conferma dei cambiamenti climatici che stanno interessando il Pianeta. Con il secondo dicembre più caldo dal 1800 a oggi, infatti, il 2019 ha chiuso con un’anomalia di +0,96 gradi sopra la media, risultando il quarto anno più caldo per il nostro Paese dopo il 2014, 2015 e 2018.

DATI DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE

È finito così il decennio più rovente di sempre in Italia, secondo quanto ha rilevato Michele Brunetti, responsabile della Banca dati di climatologia storica dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Bologna. Con buona pace dei giornali di destra che provano a smontare l’attivismo di Greta Thunberg, ogni volta che la temperatura cala, a suon di “Ma se fa freddo”.

TEMPERATURA IN CONTINUA CRESCITA

Analogamente a quanto è accaduto su scala globale, ha spiegato l’esperto del Cnr in una nota, anche nel nostro Paese ciascuno degli ultimi quattro decenni è risultato più caldo del precedente: dal 1980 a oggi la temperatura è cresciuta in media di 0,45 gradi ogni 10 anni. I dati relativi al 2019 non fanno che confermare questo trend in continua crescita.

NEL 2019 OTTO MESI SU 12 DA RECORD

Con dicembre (+1,9°C di anomalia rispetto alla media del periodo di riferimento 1981-2010), sono otto i mesi dell’anno rientrati nella top 10 delle rispettive classifiche mensili: marzo (nono più caldo, +1,48°C), giugno (secondo più caldo, +2,57), luglio (settimo più caldo, +1,29°C), agosto (sesto più caldo, +1,42°C), settembre (decimo più caldo, +1,27°C), ottobre (quarto più caldo, +1,56°C), novembre (decimo più caldo, +1,33°C).

NEL 2014 E 2015 ANOMALIA DI OLTRE UN GRADO

Peggio del 2019 sono risultati solo il 2014 e il 2015 (+1°C sopra media) e il 2018 (l’anno più caldo con un’anomalia di +1,17°C rispetto alla media del periodo di riferimento 1981-2010). Nonostante tutto, il mondo non riesce a mettersi d’accordo per cercare di arginare il fenomeno, come dimostra il fallimento della Cop25 di Madrid, la conferenza dell’Onu sul clima. Non ci resta che l’ironia del presidente degli Stati Uniti Donald Trump – ora impegnato su un altro fronte altrettanto “caldo”, con l’Iran – : «Il riscaldamento globale? Usiamolo contro il freddo».

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Mandato d’arresto per la moglie di Carlos Ghosn

Carole, che ha raggiunto il marito a Beirut dopo la fuga da Tokyo, è accusata dai pm giapponesi di falsa testimonianza.

Guai per la moglie di Carlos Ghosn. Il pubblico ministero di Tokyo ha infatti spiccato un mandato di arresto per Carole, la 53enne con cittadinanza libanese che si è a lungo battuta per la liberazione del marito criticando duramente il sistema giudiziario giapponese.

L’ACCUSA DI FALSA TESTIMONIANZA DURANTE UN’UDIENZA

La signora che ha raggiunto l’ex numero uno di Renault-Nissan a Beirut dopo la sua rocambolesca fuga da Tokyo dove si trovava in libertà vigilata in attesa di processo per frode industriale e fiscale, è accusata di falsa testimonianza.

LA BATTAGLIA PER IL MARITO

All’ex tycoon 65enne era stato vietato di vedere la propria consorte nel periodo di detenzione, e aveva un accesso limitato alle conversazioni tramite videoconferenza durante la libertà su cauzione. Al suo arrivo in Libano, la scorsa settimana, Ghosn ha escluso che la moglie avesse orchestrato il piano di fuga, insistendo che il progetto era stato ideato da lui personalmente. Carole, che ha anche cittadinanza statunitense, aveva lasciato il Giappone lo scorso aprile dopo il quarto mandato di arresto a carico di Ghosn, ma aveva continuato a battersi per garantirgli un equo processo e la liberazione.

NISSAN HA CALCOLATO PERDITE PER 290 MILIONI DI EURO

Intanto Nissan ha definito la fuga del manager «un atto di sfida contro il sistema giudiziario giapponese». Nel primo comunicato ufficiale la casa automobilistica ha giudicato l’atto «estremamente spiacevole», spiegando che le azioni dell’ex top manager quando era alla guida dell’azienda, rilevate nel corso di un’inchiesta interna, sono giudicate estremamente gravi. Nissan ha aggiunto che continuerà a cooperare con le autorità preposte, e il fatto che Ghosn non si trovi più in Giappone non significa che le accuse nei suoi confronti cadranno. L’indagine interna ha calcolato che le perdite frutto delle malversazioni finanziarie dell’ex tycoon assieme all’ex direttore finanziario statunitense Greg Kelly ammontano a oltre 35 miliardi di yen, quasi 290 milioni di euro.

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La Rai fa dietrofront: Rula Jebreal sarà a Sanremo

Retromarcia di Viale Mazzini: la giornalista salirà sul palco dell'Ariston con un monologo dedicato alla violenza contro le donne. Si chiude il caso legati ai presunti veti alla sua partecipazione.

Ennesimo dietrofront a Viale Mazzini. Rula Jebreal sarà al Festival di Sanremo. La notizia, riportata da Repubblica, è arrivata al termine di un vertice con l’amministratore delegato Fabrizio Salini, la direttrice di RaiUno Teresa De Santis e il conduttore Amadeus. La giornalista salirà sul palco dell’Ariston con un suo monologo dedicato alla violenza contro le donne. Si chiude così il caso dell’esclusione che la stessa Jebreal aveva attribuito a un veto di Matteo Salvini o ai vertici Rai di area sovranista. In difesa della giornalista si era schierata in particolare Italia viva con interrogazioni parlamentari e denunce.

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I soldati italiani lasciano Baghdad ma restano in Iraq

I nostri uomini sono stati trasferiti in una zona più sicura. La Germania invece è pronta al ritiro. La Nato sospende temporaneamente l'attività di addestramento sul campo.

La Nato ha confermato il proprio impegno in Iraq anche se le attività di addestramento sono «temporaneamente sospese». Lo ha detto il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg al premier iracheno Adil Abdul Mahdi. «Gli alleati Nato», ha sottolineato Stoltenberg, «rimangono fortemente impegnati nella missione in Iraq che sta contribuendo a rafforzare le forze irachene e impedire il ritorno dell’Isis».

LEGGI ANCHE: Tredici scenari per vendicare Soleimani

La discussione, è la precisazione, si è incentrata sulla «situazione della sicurezza nella regione e sulle implicazioni per la missione di addestramento non combattente della Nato in Iraq». Il segretario generale ha quindi ricordato che «l’addestramento delle forze locali è uno strumento prezioso per la stabilità e la lotta al terrorismo internazionale» e ha assicurato che l’attività di addestramento sul campo è «temporaneamente sospesa, ma è pronta a continuare quando la situazione lo permetterà». Riguardo alla situazione regionale Stoltenberg ha riferito che gli «alleati hanno chiesto moderazione e una de-escalation e che l’Iran si astenga da ulteriori provocazioni».

LA GERMANIA VERSO IL RITIRO DELLE TRUPPE

Intanto sul campo è cominciato il riposizionamento. La Germania ritirerà alcune delle sue truppe schierate in Iraq nell’ambito della della coalizione anti-Isis. Circa 30 soldati di stanza a Baghdad e Taji saranno trasferiti in Giordania e in Kuwait, ha detto un portavoce del ministero della Difesa alla Afp, aggiungendo che il ritiro «inizierà presto».

L’ITALIA STA PIANIFICANDO UNA PARZIALE RIDISLOCAZIONE

«Nessuna ipotesi di ritiro dei militari italiani», ha dichiarato invece il ministero della Difesa italiano. Come scritto da La Stampa, i nostri soldati hanno lasciato la base americana a Baghdad, da due giorni sotto il tiro dei mortai per essere trasferiti in un luogo più sicuro. Il quartier generale della Coalizione internazionale che opera in Iraq «al momento sta pianificando una parziale ridislocazione degli assetti al di fuori di Baghdad», ha confermato lo Stato Maggiore della Difesa precisando che ciò «non rappresenta un’interruzione della missione e degli impegni presi» dall’Italia con i partner internazionali e che la decisione è stata presa a «livello di coalizione internazionale». La pausa delle attività di addestramento e l’eventuale ridislocazione dei militari italiani dalle zone di operazione irachene, sottolinea infatti lo Stato Maggiore della Difesa, «rientra nei piani di contingenza per la salvaguardia del personale impiegato» e dipendono «solo dalle misure di sicurezza adottate»: dunque «non rappresentano una interruzione della missione e degli impegni presi con la coalizione». Lo Stato Maggiore ricorda inoltre che «gli stati di allertamento e le misure di sicurezza sono decise a livello di coalizione internazionale in coordinamento con le varie nazioni partner».

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In Spagna via libera al nuovo governo di coalizione di Pedro Sanchez

Alla seconda votazione il premier ottiene il voto favorevole da parte del parlamento con una maggioranza risicatissima: 167 favorevoli e 165 contrari.

Per la prima volta dalla fine del franchismo anche la Spagna avrà il suo governo di coalizione. Il leader del Psoe e presidente uscente Pedro Sanchez è stato rieletto il 7 gennaio con una risicatissima maggioranza relativa, dopo che la prima votazione a maggioranza assoluta aveva segnato una sconfitta nel voto di fiducia al premier spagnolo. Sanchez ha ottenuto 167 voti a favore e 165 contrari: 18 gli astenuti.

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L’altoforno 2 dell’Ilva non deve essere spento

Il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso degli amministratori straordinari dell'acciaieria di Taranto.

Il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso degli amministratori straordinari dell’Ilva: l’altoforno 2 non deve essere spento. Le trattative tra il governo e ArcelorMittal possono quindi ripartire, alla luce di questo nuovo elemento che arriva dalla magistratura.

(notizia in aggiornamento)

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L’altoforno 2 dell’Ilva non deve essere spento

Il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso degli amministratori straordinari dell'acciaieria di Taranto.

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Australia: 180 persone arrestate per gli incendi

La maggior parte degli accusati sono giovani. Duemila case bruciate e 7 milioni di ettari di boschi in fumo. I numeri.

La polizia australiana ha fatto sapere di avere arrestato oltre 180 persone sospettate di avere appiccato incendi nel Nuovo Galles del Sud, tre solo nell’ultimo fine settimana, mentre proseguono i devastanti roghi nonostante le piogge degli ultimi giorni in alcune aree del Paese. Lo riporta la stampa australiana. Oltre 7 milioni di ettari di boschi sono bruciati da settembre ad oggi, e nella maggior parte dei casi si è trattato, secondo le autorità, di incendi provocati dall’uomo.

TRA I FERMATI 40 MINORENNI

Tra i fermati, anche 40 minorenni, che saranno giudicati dai tribunali nei prossimi mesi. In tutto sono stati contestati a 183 persone 205 reati connessi agli incendi boschivi; 24 di questi sono accusati di incendio doloso e rischiano una pena massima fino a 21 anni di reclusione. Altri avrebbero provocato i roghi per incuria e disattenzione, accendendo fuochi per cucinare o bruciare rifiuti, incappando comunque nei severissimi divieti in atto dall’inizio dell’emergenza incendi. Solo sabato scorso almeno 60 case sono state distrutte dal fuoco nel Nuovo Galles del Sud.

DUEMILA CASE DISTRUTTE

Almeno 2 mila case sono state distrutte in Australia negli incendi in atto dal settembre scorso, in cui sono morte almeno 25 persone e milioni di animali, mentre i soccorritori si apprestano a far fronte ad un ulteriore peggioramento delle condizioni meteo. Il caldo ha concesso nelle ultime ore una breve tregua, e i vigili del fuoco ne stanno approfittando per ampliare le linee di contenimento intorno ai focolai. È probabile che le temperature saliranno di nuovo verso la fine della settimana, e vi è il timore che i due incendi maggiori in atto nel Nuovo Galles del Sud possano finire per confluire in un unico, gigantesco, fronte di fuoco.

DANNI PER ALMENO 430 MILIONI DI EURO

Il Consiglio delle assicurazioni australiano ha fornito una stima parziale dei danni che ha raggiunto i 700 milioni di dollari australiani (430 milioni di euro), ma si prevede che saranno molto più ingenti.

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