Enrico VIII, in vendita per 2,3 milioni di euro la residenza di caccia dove corteggiò Anna Bolena

La celebre residenza di caccia nel Sussex appartenuta a re Enrico VIII, il castello di Bolebroke, è in vendita per 2 milioni di sterline, equivalente a circa 2,3 milioni di euro. Il castello del fondatore della Chiesa anglicana risale al 1480 e si trova nel pittoresco villaggio di Hartfield. Fu qui che il re corteggiò Anna Bolena, damigella di corte della sua prima moglie Caterina d’Aragona. Anna Bolena, che all’epoca aveva solo 20 anni, catturò l’attenzione del re che voleva assolutamente l’erede maschio che la prima moglie, madre della futura regina Maria I, non era riuscita a dargli. Tuttavia, la fortuna non sorrise alla nuova coppia: nemmeno Anna Bolena, sposata dopo l’annullamento delle prime nozze, non diede a Enrico VIII ciò che voleva. Tre anni dopo le nozze, Anna Bolena fu giudicata colpevole di tradimento, adulterio e incesto con il fratello, condannata a morte per decapitazione.

Enrico VIII, il castello in cui corteggiò Anna Bolena in vendita per 2,3 milioni di euro
Il castello di Enrico VIII (Wikipedia).

Trecento metri quadri immersi nel verde

Il castello ha subito nei secoli notevoli trasformazioni. Come recita l’annuncio pubblicato dall’ agenzia immobiliare Hamptons, la residenza ha quattro camere da letto, tre bagni e quattro saloni. Inoltre, include un suggestivo parco e si trova nelle vicinanze del pittoresco villaggio di Hartfield, celebre per essere l’ambientazione del bosco dei 100 acri nelle storie di Winnie the Pooh. Nel corso del tempo, la proprietà è stata ampliata con nuovi edifici, e attualmente occupa oltre 300 metri quadrati. Il piano terra ospita un ampio soggiorno con soffitto a volta e travi a vista con un imponente camino in mattoni, il secondo più grande in tutto il Regno Unito. Grandi porte finestre si aprono verso l’esterno e i giardini. Sempre al piano terra, si trovano uno studio e una sala giochi, due camere matrimoniali e due bagni, insieme alla cucina. Un arco conduce alla parte storica dell’edificio, dove c’è una sala da pranzo e una scala che porta ai livelli superiori e alle stanze situate nelle due alte torri ottagonali in mattoni, con accesso tramite una scala a chiocciola in rovere.

A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti: l’omaggio di Fraquelli a Frank Zappa

È appena uscito nelle librerie A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti. Gli uomini, e le donne, di Frank Zappa, di Marco Fraquelli (edizioni Arcana). Collaboratore storico di Lettera43, Fraquelli è appassionato di Zappa dal 1971, cioè da quando a 14 anni acquistò 200 Motels, attirato dalla sua «spettacolare copertina». Il libro è un omaggio al musicista e compositore americano (scomparso esattamente 30 anni fa, il 4 dicembre 1993, per un tumore diagnosticato troppo tardi) del tutto particolare: protagonista del libro, infatti, non è direttamente Frank Zappa, ma i 109 musicisti che, per quasi tre decenni, si sono avvicendati sul palco, nelle varie formazioni, negli oltre 1.800 concerti tenuti dal genio di Baltimora nel corso della sua avventura musicale. Dalla A di Mike Altschul alla Z di Allan Zavod. Spesso i ritratti sono corredati da retroscena e  aneddoti che offrono uno spaccato del tutto particolare dei rapporti tra il compositore e i membri delle sue varie band. Lettera43 vi propone un estratto dalla introduzione (© 2023 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione).

A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti: l'omaggio di Fraquelli a Frank Zappa
La copertina di A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti.

Vaffanculo capitano Tom! Adrian Belew

Nashville, ottobre 1976. Dopo lo show, Zappa chiede all’autista assegnatogli dall’organizzazione di portarlo ad ascoltare un po’ di musica. L’autista lo conduce allora al Fanny’s bar, dove si esibisce il suo gruppo preferito, gli Sweetheart, una cover band che suonava brani inseriti nei Top 40. Sul palco, c’era il 27enne Adrian Belew – era nato a Covington, nel Kentucky, nel 1949 -, maestro di chitarra, ma anche batterista, percussionista, bassista, tastierista, violoncellista, cantante, cantautore (originariamente batterista al liceo, nella sua prima band, The Denems, Belew aveva imparato a suonare la chitarra a 16 anni, usandone una presa in prestito e ascoltando centinaia di dischi, con l’obiettivo di scrivere canzoni proprie). «Lo vidi arrivare dal fondo del locale e fermarsi a osservarci» ha raccontato Adrian Belew in un’intervista a Guitar (febbraio 1994) «cosa che, comprensibilmente, mi rese un po’nervoso. Nel bel mezzo di Gimme Shelter si portò su un lato del palco, si allungò e mi strinse la mano: più tardi si fece dare il mio nome e indirizzo dall’autista e non molto tempo dopo mi telefonò e mi chiese di fare un provino per lui».

A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti: l'omaggio di Fraquelli a Frank Zappa
Adrian Belew nel 2017 (Getty Images).

Adrian Belew ha avuto modo di esibirsi dal settembre 1977 al febbraio 1978 e suonare in diversi album di Zappa e nei video Baby Snakes e Video From Hell. Nella primavera del 1978 Belew lascia Zappa (facendolo molto incazzare) per suonare con David Bowie. Ecco come la racconta lo stesso Belew: «Nel 1978 feci il mio primo tour in Europa come chitarrista e cantante “stunt” (memorabile la sua imitazione di Bob Dylan in Flakes) per la band di Frank Zappa. La sera in cui abbiamo suonato a Colonia […] Brian Eno era tra il pubblico. Brian sapeva che David Bowie stava cercando un nuovo chitarrista per il suo prossimo tour. Lo ha chiamato […] e gli ha detto che doveva venire a vedere il chitarrista della band di Frank. La sera dopo ci siamo esibiti a Berlino. Mentre Frank faceva un lungo assolo, la maggior parte dei membri della band, me compreso, ha lasciato il palco per qualche minuto. Mentre camminavo verso il retro del palco, ho guardato il mixer del monitor e ho visto David Bowie e Iggy Pop in piedi lì». Bowie propone a Belew di vedersi a cena: «Quanti ristoranti ci sono a Berlino? 25 mila?», dice Adrian. «Siamo arrivati al ristorante, siamo entrati […] e chi c’era seduto al primissimo tavolo se non Frank Zappa con il resto della band?! … Allora ci siamo seduti con loro. David, cercando di essere cordiale, mi ha fatto un cenno e ha detto: “Hai qui un chitarrista molto bravo, Frank”. E Frank: “Vaffanculo capitano Tom!” […] David insiste: “Oh andiamo Frank, possiamo di sicuro discuterne garbatamente” e Frank “Vaffanculo capitano Tom!”. A questo punto ero paralizzato. David ci riprova: “Quindi davvero non hai niente da dire?” e Frank: “Vaffanculo capitano Tom!”. David e io ci siamo alzati e siamo usciti. Salendo sulla limousine, David, col suo modo meravigliosamente britannico, ha detto: “Penso che sia andata piuttosto bene!”» (per la cronaca, il maggiore Tom, degradato da Frank a capitano, è il protagonista di Space Oddity e gira, in proposito, anche una vignetta molto carina: Bowie e Zappa si incontrano in cielo, sono seduti su due nuvolette; David chiede «Ancora arrabbiato?» e Frank: «Vaffanculo capitano Tom!»). Quella con Bowie è solo la prima di una lunga serie di prestigiose collaborazioni di Adrian con grandi nomi del rock, tra cui i King Crimson e i Talking Heads, passando per GaGa, Tom Tom Club, The Bears, Nine Inch Nails, Gizmodrome.

Otto pollici. Warren Cuccurullo

Nato a Brooklyn nel 1956, primo dei quattro figli dei signori Jerry e Ellen, come rivela il cognome Warren Cuccurullo aveva chiaramente origini italiane: il nome gli derivava proprio dal nonno paterno Guerino, originario di Nocera inferiore. A nove anni aveva iniziato a suonare la chitarra e la batteria, optando poi definitivamente per la prima. Era un super fan di Frank Zappa, e, dal 1975 al 1977, non si era perso un concerto, viaggiando in su e in giù lungo la East Coast; imparando, nello stesso tempo, a suonarne i brani alla chitarra… Il suo debutto avvenne al concerto di Halloween del 1978, al Palladium di New York, ma fu una sorta di ospitata. Verso la fine dello stesso anno, Warren riceve una telefonata da Zappa, che gli parla dell’imminente tour europeo e gli chiede se vuole fare un provino. «Il giorno dopo» ha raccontato Cuccurullo «partì per la California e senza quasi neanche rendermene conto mi trovai a suonare sul palco dell’Hammersmith Odeon di Londra. Dalla cantina direttamente alle luci della ribalta». Con il tour del 1979, insomma, Warren è diventato membro della band a pieno titolo…Nel 1981, con Terry Bozzio, costituisce il già citato gruppo dei Missing Persons e, nel 1986, inizia a collaborare con i Duran Duran, di cui diviene membro effettivo nel 1989 (e vi rimarrà fino al 2001), prima di dedicarsi ad altri progetti…Parallelamente all’ambito musicale, Warren Cuccurullo ha poi coltivato anche altri interessi, diciamo piuttosto curiosi. Da quello gastronomico a quello…dell’esibizionismo erotico e pornografico. Per quanto riguarda la gastronomia, nel 2002 Cuccurullo ha acquistato un ristorante a Santa Monica, ribattezzato “Via Veneto” in onore delle sue radici italiane. Per quanto riguarda l’altro ambito, beh, diciamo che la sua avventura è iniziata nel 2000, quando il chitarrista ha accettato di comparire nudo su una rivista gay brasiliana, G Magazine. Le foto, alcune delle quali lo mostravano col pene eretto, sono diventate, si direbbe oggi, «virali» sul web; vero e proprio oggetto di culto e di scambio…Nel 2002, Cuccurullo ha avviato anche un’attività imprenditoriale nel settore dei sex toy. Prima realizzazione il Rock Rod, un vibratore perfettamente modellato sulla forma e sulle dimensioni del suo pene: otto pollici (che, in centimetri, ve lo dico io così vi risparmio la googlata, fa poco meno di ventuno).

A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti: l'omaggio di Fraquelli a Frank Zappa
Warren Cuccurullo.

Il classico stronzo erudito. Kent Nagano

Kent Nagano è un’altra eccezione alla regola che ho deciso di inserire qui (non ha infatti suonato con Zappa, ma lo ha diretto), ma se avrete la pazienza di leggere le prossime righe, capirete perché non si poteva tralasciare.Nato nel 1951 a Berkeley, nippo-americano di terza generazione, Nagano ha studiato sociologia e musica presso l’Università della California di Santa Cruz, poi musica alla San Francisco State University e, dopo aver frequentato i corsi di composizione diretti da Grosvenor Cooper e Roger Nixon, ha studiato presso l’Ecole Normale de Musique di Parigi. Impossibile riassumere qui la sua straordinaria carriera di direttore d’orchestra e direttore musicale. Nei primi Anni 80, mentre dirige la Berkeley Symphony Orchestra, viene a sapere che l’altro grandissimo direttore e compositore, Pierre Boulez, si apprestava a dirigere un’opera di Zappa (la citata The Perfect Stranger) che il maestro gli aveva appositamente commissionato. Nagano rimane sorpreso e spiazzato, dato che, dirà, aveva sempre considerato Frank un musicista rock; d’altra parte, è anche molto curioso, perché, racconterà sempre il maestro, se in generale è già un grande onore per un compositore sentirsi chiedere di comporre qualcosa per un ensemble, figuriamoci se quell’ensemble è diretto da Pierre Boulez. E così, nel dicembre 1981, avendo saputo che Zappa si sarebbe esibito a San Francisco, decide di contattarlo per poter visionare alcune partiture. Zappa invita allora Nagano nel backstage del concerto e gli mostra le partiture, anzi gliele lascia portare a casa. Risultato, Kent Nagano, nel novembre 1983, dirigerà la London Symphony Orchestra eseguendo musiche di Zappa al Barbican Theatre di Londra. Ma ecco come ha raccontato la vicenda a Dan Forte lo stesso Nagano: «Ho contattato la direzione di Frank e l’ho incontrato nel backstage quando ha suonato al Berkeley Community Theater, alla fine del 1981. Mi ha mostrato una partitura e ha detto: “Questo è quello che faccio.” Così mi sono seduto lì e ho dato un’occhiata, ed è stato un colpo semplicemente fantastico.

A nessuno frega un cazzo se siamo grandi musicisti: l'omaggio di Fraquelli a Frank Zappa
Kent Nagano (Getty Images).

Certo, non era una cosa che potevo facilmente guardare standomene lì seduto. Era roba molto sofisticata; non riuscivo nemmeno a sentirla in testa – dovevo portarla a casa e provarla al pianoforte. Così me l’ha prestata per studiare, e me ne ha date un paio di altre. Mi ci è voluto molto tempo solo per digerire la cosa. Tieni presente che io sono il classico stronzo erudito, troppo istruito, con un pesantissimo background teorico. Ma ero anche molto eccitato. Per uno come me, che visionava, senza esagerare, forse 50 o 60 partiture nuove di zecca all’anno, è stato davvero piacevole leggere dei fraseggi così raffinati. Perciò ho chiamato Frank e gli ho spiegato che mi sarebbe piaciuto eseguire i pezzi… Il risultato lo potete ascoltare in London Simphony Orchestra, Voll. I & II (1995)… «Frank è un genio» dirà Nagano.«Questa è una parola che non uso spesso… Ma nel suo caso, non è eccessiva… È estremamente istruito musicalmente. Non sono sicuro che il grande pubblico lo sappia. Non è proprio pop, ma è una pop star, non ha fatto proprio rock, ma è pur sempre una rock star, non è nemmeno proprio jazz, ma si è comunque circondato di musicisti jazz. Alla fine non era proprio un “compositore serio”, ma ha studiato le opere di Nicolas Slonimsky, Edgard Varèse, ecc. Non si può proprio inserire in nessuna categoria».

I 60 anni dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e le maledizioni di famiglia: il racconto della settimana

Sessant’anni fa esatti, la mattina del 22 novembre 1963, John Fitzgerald Kennedy veniva assassinato a Dallas davanti a 150 mila persone. Due colpi di arma da fuoco colpirono mortalmente il presidente degli Stati Uniti mentre, a bordo della sua limousine, percorreva il centro della città texana alla testa di un corteo di automobili. Ci sono immagini che restano scolpite nella memoria della gente, immagini che segnano un’epoca. Quella di JFK, con il cervello esploso, accasciato sui sedili dell’auto presidenziale tra le braccia di sua moglie Jacqueline, che lo stringeva a sé nell’istintivo gesto di metterlo al riparo e tamponare il sangue che scorreva, è sicuramente una di quelle.

Il 22 novembre 1963 veniva ucciso a Dallas JFK. Stessa sorte toccò anni dopo a Bob.
Il 22 novembre 1963 JFK veniva ucciso a Dallas (Getty Images).

Per quanto mi riguarda i ricordi legati alla famiglia Kennedy sono sempre stati orientati però verso due altre immagini altrettanto iconiche che riguardano entrambe John Kennedy Junior, per tutti semplicemente John John. Una lo ritrae all’età di due anni mentre gioca, nascosto sotto la scrivania del padre, nello studio ovale della Casa Bianca; l’altra è quella di lui in piedi, ancora bambino, che fa il saluto militare al funerale di suo papà, pochi giorni dopo i tragici fatti di Dallas. Sarà per il contrasto tra le due fotografie, rappresentanti simbolicamente il prima e il dopo, sarà per la mia istintiva empatia nei confronti degli orfani, ma queste due immagini questa settimana mi sono tornate spesso in mente mentre tv e giornali celebravano il sessantennale della scomparsa di JFK. Lo stesso John John, con la moglie Carolyn Bessette, in una notte di luglio dell’estate 1999 precipitò con il suo aereo, inabissandosi nelle acque dell’oceano al largo delle coste di Martha’s Vineyard vicino alla villa di famiglia di Cape Cod, perdendo la vita a soli 38 anni e alimentando a sua volta quella che da sempre i media hanno chiamato “la maledizione dei Kennedy”.

Il 22 novembre 1963 veniva ucciso a Dallas JFK. Stessa sorte toccò anni dopo a Bob.
Jacqueline Kennedy con i figli Caroline e John F. Kennedy Jr al funerale di JFK (Getty Images).

 

«Piangiamo», disse Edward, sul feretro del fratello Robert (morto anche lui in seguito a un attentato, nella famosa sparatoria nella hall dell’Hotel Ambassador di Los Angeles), «per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato». Frase che mi perseguita giorno e notte da quando ho età per ricordare, costretto a fare i conti fin da cucciolo con l’ombra di una sciagura sempre in agguato. Lo diceva spesso anche mio zio Nando che le tragedie della nostra famiglia somigliavano in qualche modo a quelle dei Kennedy, o degli Agnelli, e negli ultimi anni di vita aveva iniziato a ripeterlo anche mio padre, asserragliato nella sua solitudine in compagnia di un nutrito numero di demoni, nella palazzina a due piani in via Visconti a Macherio. L’elenco dei drammi in cui siamo stati coinvolti in effetti è abbastanza sterminato e probabilmente è questo uno dei motivi per cui ultimamente ho deciso di raccontare tutto in un romanzo che però al momento non mi riesce in nessun modo di scrivere.

«Piangiamo», disse Edward sul feretro del fratello Robert, morto anche lui in seguito a un attentato, «per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato». Frase che mi perseguita giorno e notte da quando ho età per ricordare, costretto a fare i conti fin da cucciolo con l’ombra di una sciagura sempre in agguato

E così, cercando di tornare in contatto con il me ragazzo inseguendo una specie di strampalata autoterapia, mi ritrovo a spendere un sacco di soldi in vinili dei Daft Punk, di Fatboy Sim, dei Chemical Brothers, oppure in Nike Air Jordan in edizione limitata, in romanzi di Ellroy o di Don De Lillo comprati alla Rizzoli in galleria, in mocassini college e a osservarmi dall’esterno il pomeriggio, seduto davanti allo schermo nero del computer in salotto, con i dischi di Bob Dylan in sottofondo (io che non l’ho mai ascoltato in vita mia) e i romanzi di Lawrence Osborne da recensire per i quotidiani, appoggiati sulla scrivania a prendere polvere, facendo il possibile per evitare tutti  gli appuntamenti e rifiutare gli inviti alle feste di compleanno degli amici domandandomi: «Che si va a fare ai party se non si può scopare?». «Un libro, un romanzo, è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s’innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c’è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso in cui qualcuno probabilmente si farà male», scrive in apertura di Le schegge Bret Easton Ellis, l’autore dell’ultimo romanzo che ho letto. Da quando l’ho finito non penso altro, sopraffatto dalla voglia di scrivere, circondato da drammi, tragedie, incidenti, morti premature, arresti, fughe, bancarotte e lunghe agonie. «Chi scrive oggi, a parte Ellis, le storie di queste famiglie?», mi ha chiesto un tizio l’altra sera mentre dietro al banco del bar gli servivo un bicchiere di rosso. «Forse Edward St. Aubyn. E poi ci sono io, hombre», gli ho risposto.

Roma, così appariva la città nel 320 d.C.: lo studio dei monumenti perduti

Un gruppo di specialisti si è unito per concepire una ricostruzione virtuale dell’antica Roma, offrendo una visione della vita nella Città Eterna nel suo periodo di massimo splendore. Rome Reborn immagina la città al culmine della sua grandezza intorno all’anno 320 d.C., includendo luoghi ancora esistenti oggi come il Colosseo e l’Arco di Costantino, insieme a monumenti ormai perduti come il Colosso di Nerone. Un viaggio virtuale messo a disposizione dagli autori trasporta gli spettatori sopra il nucleo della città antica e le alture del Campidoglio e del Palatino. Questo progetto ha coinvolto l’azienda tecnologica educativa Flyover Zone e un team di esperti archeologici e storici per creare ciò che gli autori definiscono come «scientificamente accurato in base ai resti frammentari che sono giunti fino a noi».

Rome reborn, l’app per tornare indietro nel tempo

Immaginate di ammirare dall’alto il Circo Massimo, il Colosseo, i Fori imperiali in tutta la loro maestosa bellezza, entrare nel Pantheon e nella basilica di Massenzio. Una Roma così non l’avete mai vista, sostiene il team di esperti che si è occupato di mostrarci come la Capitale apparisse nel periodo di massimo splendore, il 320 d.C. Il frutto di 27 anni di lavoro di una squadra composta da accademici ed esperti tecnologici internazionali. Questi professionisti hanno realizzato Rome Reborn 4.0, un’app innovativa che consente di compiere un viaggio nel tempo. Attraverso Flight over ancient Rome, è possibile effettuare un tour in 3D della città antica, catturandone l’aspetto nel momento culminante del suo sviluppo urbano, intorno all’anno 320 d.C., poco prima che la capitale fosse trasferita a Costantinopoli.

L’app costituisce uno strumento prezioso e pratico per appassionati di storia, insegnanti, studenti e turisti che desiderano studiare, insegnare e immergersi nella storia antica attraverso la più estesa e accurata ricostruzione digitale mai creata di una città antica. Attraverso la realtà aumentata, offre agli utenti la possibilità di esplorare ogni dettaglio e prospettiva di oltre 7 mila edifici monumentali, distribuiti su una superficie di 13,6 chilometri quadrati all’interno delle mura Aureliane. Questo permette di rivivere la storia attraverso decorazioni ormai cancellate dal tempo e monumenti immortali, rivelando la loro forma originaria.

Così i prezzi alle stelle delle case nelle metropoli hanno trasformato la scena musicale: il racconto della settimana

Nell’ultimo mese mi è capitato di entrare due volte in una famosa libreria in centro a Milano che per i nostalgici dei pomeriggi di una volta era tappa fissa anche per l’approvvigionamento di musica tra dischi, spartiti, pianoforti e chitarre elettriche dai colori sgargianti. La prima volta in diffusione suonava l’ultimo album dei Rolling Stones, Hackney Diamond, e una parete vicino all’entrata era interamente dedicata alla band con in esposizione una sfilza di vinili, cd e libri con in copertina le facce di Keith Richards, di Mick Jagger and company. La seconda volta, tre settimane più tardi, la stessa parete era stata riempita con album dei Beatles, in occasione dell’uscita di Now and Then (la nuova canzone della resuscitata band di Liverpool ottenuta anche grazie al lavoro dell’intelligenza artificiale), e in diffusione suonavano uno dopo l’altro i brani del Red e del Blue Album, le due celebri raccolte, recentemente ridate alle stampe in una nuovissima riedizione extralarge, pubblicate 50 anni fa che in realtà s’intitolavano 1962-1966 e 1967-1970. Considerate da tutti, probabilmente, i due più significativi greatest hits di tutta la storia della musica.

«Quando vedi nel Village al posto di un liutaio che vendeva le chitarre a Keith Richards, a Eric Clapton, a Jimi Hendrix, un negozio di Manolo che vende scarpe di merda, capisci dove siamo arrivati. E questo influisce in maniera determinante sulla creatività delle persone anche nella musica»

Vinili, Beatles e Stones, le loro canzoni in diffusione nei negozi, la gente in fila alle casse con i loro dischi sottobraccio: di colpo sembrava di essere stati catapultati in un pomeriggio degli Anni 60. Passano due giorni e sull’iPhone mi arrivano due whatsapp di Seriosound, il ragazzo che per anni è stato il terzo componente della band di PopUp, nonché insostituibile regista della trasmissione, che mi segnala due strepitosi live in programma nei prossimi mesi a Milano: quello di Kruder & Dorfmeister da Base a dicembre e quello degli Air che rifaranno dopo 25 anni Moon Safari al Fabrique a febbraio. Che dire? Per quanto riguarda Kruder & Dorfmeister basta sottolineare che il loro triplo album in compact disc, K&D Sessions, quando uscì negli Anni 90 divenne un vero e proprio oggetto di culto che ha venduto più di un milione di copie nel mondo. Un disco pazzesco zeppo di infinite contaminazioni che vanno dal funk al jazz, dall’house all’hip hop, con l’aggiunta di inserti dub, reggae, ambient e fusion, brasiliana. Su Moon Safari ogni commento ancora oggi appare superfluo, perché fu il disco, quando uscì nel 1998, che trasformò un semisconosciuto duo di musica elettronica francese in autentiche star, una versione 2.0 dei Velvet Underground. Dolce eppure terribilmente intossicante come una dose di morfina. Sul finire degli Anni 90, era tutta una questione di beat, e sicuramente sia i viennesi K&D, che il duo nato alla corte di Versailles, Nicolas Godin e Jean-Benoit Dunckel (che si fecero chiamare appunto Air in onore del grande architetto svizzero Le Corbusier) furono tra i maggiori esponenti di quella scena che compì nel mondo della musica un vero e proprio golpe rivoluzionando tutto e dando una nuova vita alla musica da dancefloor.

«Beatles, Stones, Air, Kruder & Dorfmeister… perché nella musica c’è questo continuo e reiterato ritorno al passato?», domando, seduto al bar del Palace in Piazza della Repubblica, inviato dal Messaggero, per intervistare un tizio che nella New York degli Anni 80 e 90 da corrispondente Rai ha dato del tu a tutte le leggende del rock in circolazione. «È soprattuto un problema sociale», mi risponde, «perché un tempo le città, come New York ad esempio, erano un formidabile crogiolo di persone e idee. Oggi è cambiato tutto e le grandi metropoli, innanzitutto per i prezzi delle case che sono saliti alle stelle, non sono più luoghi dove si vive, al massimo sono diventati posti dove ci si incontra. Quando vedi nel Village al posto di un liutaio che vendeva le chitarre a Keith Richards, a Eric Clapton, a Jimi Hendrix, un negozio di Manolo che vende scarpe di merda, capisci dove siamo arrivati. E questo influisce in maniera determinante sulla creatività delle persone anche nella musica».

Probabilmente, la soluzione per ricominciare a progredire e abbandonare il passato è questa: perdersi completamente, annullare la forza di gravità e ricominciare a inseguire una farfalla in giardino

Mezz’ora più tardi mentre slego la mia bici da un palo davanti all’hotel, stretto nella mia giacca di velluto con le mie college ai piedi, e rifletto sulle sue parole il sole sta tramontando su Piazza della Repubblica. La risposta a questo problema forse l’ha data Andre 3000, ex componente degli Outkast, che dopo 17 anni di silenzio è tornato con un nuovo album, New Blue Sun, un disco completamente strumentale di jazz sperimentale, composto con Carlos Nino nei seminterrati di Los Angeles. «Quando ho fatto ascoltare i nuovi brani ad alcuni colleghi più giovani, come Tyler the Creator e Frank Ocean, che probabilmente si aspettavano da me un disco rap, Tyler mi ha detto: “Ascoltando questo pezzo ho avuto la sensazione che tu stessi inseguendo una farfalla in giardino”». E infatti, probabilmente, la soluzione per ricominciare a progredire e abbandonare il passato è questa: perdersi completamente, annullare la forza di gravità e ricominciare a inseguire la nostra personale farfalla.

Haiku, i poeti del Giappone sono preoccupati dalla crisi climatica

«Il candore più bianco, delle pietre di Stone Mountain, il vento dell’autunno». Così scriveva nel settembre 1689 Matsuo Basho, uno dei massimi autori di haiku in Giappone. Poesie brevi di appena tre versi, racchiudono in poche parole l’essenza delle stagioni, il loro alternarsi costante e gli effetti sull’anima e la mente di un soggetto. Quasi 350 anni dopo, però, il quadro è drasticamente cambiato per colpa della crisi climatica. Tokyo e le città del Sol Levante affrontano sempre più spesso autunni afosi e caldi, con zanzare anche nei mesi di ottobre e novembre, ed estati piovose e fresche. Un mutamento che rende sempre più fuori luogo le tradizionali 17 sillabe nipponiche, che per generazioni hanno evocato sentimenti e ispirato la popolazione durante l’anno. Preoccupati soprattutto i poeti più puristi, che temono di vedere sparire un fattore che ha fatto la storia del Paese.

La crisi climatica mette a rischio anche la cultura del Giappone. Preoccupati i poeti haiku, tradizionali versi molto legati alle stagioni.
La fioritura dei ciliegi a Tokyo (Getty Images).

La crisi climatica condiziona la composizione e la lettura degli haiku

Ciascun haiku, per rispettare la tradizione inaugurata da Basho, deve contenere tre versi, rispettivamente di cinque, sette e nuovamente cinque sillabe per un totale di 17. Al suo interno, non deve mancare un kireji, la «parola tagliente» che contiene il significato stesso del componimento, e soprattutto un kigo, il riferimento esplicito a una delle quattro stagioni. Proprio in questo contesto si inserisce la crisi climatica che starebbe devastando il Saijiki, l’almanacco annuale dei termini che i poeti possono usare negli haiku per raccontare il caldo estivo, il pungente freddo dell’inverno o la fioritura dei ciliegi di marzo-aprile. Si tratta, come ha spiegato il Guardian, di particolari piante o animali, condizioni meteo, feste o colori del cielo che, se letti nel preciso giorno dell’anno, suscitano una serie di emozioni uniche. Con il surriscaldamento globale, ciò sta divenendo sempre più complesso.

«Il kigo comprime tre o quattro mesi in una sola parola», ha raccontato David McMurray, che ha curato una rubrica haiku per l’Asahi Shinbun. «Basti pensare alla zanzara, chiaro rimando al caldo dell’estate, oppure ai primi germogli dei sakura (ciliegi, ndr.) della primavera o l’arrivo dei tifoni autunnali». La crisi climatica però ha mutato tali elementi secolari, portando le tempeste in estate e le zanzare in autunno sia nel Nord che nel Sud dell’isola. «Rischiamo di perdere il ruolo centrale delle quattro stagioni nell’haiku», ha sottolineato McMurray. «Le parole del Saijiki non riflettono più la realtà». Altri autori nipponici, tra cui Toshio Kimura che dirige l’Associazione internazionale Haiku, hanno presupposto un adattamento da parte dei poeti, che però andrebbe a intaccare l’elemento cardine della tradizione. «Lo scopo non è lodare le stagioni stesse», ha ribadito l’autore. «Cerca di vedere l’essenza umana attraverso la natura».

Attivismo e adattamento potrebbero caratterizzare le nuove composizioni

Andrew Fitzsimons, professore di lingua e cultura inglese a Tokyo, ha ipotizzato che l’attivismo ambientale potrebbe presto prendere il sopravvento negli haiku. «Aumenta la sensazione di non essere al passo con i tempi», ha spiegato al Guardian. Sebbene descrivere la crisi climatica non rappresenti lo scopo principe dei celebri componimenti del Giappone, lo stesso Basho ne aveva involontariamente parlato nelle sue opere. «Rosso su rosso su rosso, il sole ancora implacabile, il vento dell’autunno», aveva scritto alla fine del XVII secolo. Lamentando la calura di settembre, il poeta aveva già narrato un fenomeno allora inusuale che però oggi rappresenta la normalità. «L’haiku riflette la quotidianità», ha concluso speranzoso Fitzsimons. «Il surriscaldamento globale e gli effetti che avrà sul nostro mondo ci saranno sempre».

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala

Un filo rosso collega la prossima inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, Don Carlo, a quella che l’ha preceduta, Boris Godunov. Il dettaglio non è stato finora sottolineato come merita, ma l’elemento comune è chiaro: sia Verdi che Musorgskij in queste opere attribuiscono una decisa dimensione politica ai soggetti storici che avevano scelto di mettere in musica. Il legame fra i due lavori, del resto, è anche nella loro genesi. La prima rappresentazione di Don Carlo avvenne all’Opéra di Parigi l’11 marzo 1867 e due anni più tardi il compositore russo iniziò a scrivere il Boris. Prima di mettersi al lavoro, all’inizio di quel 1869, aveva assistito a San Pietroburgo al capolavoro verdiano. Come ha osservato lo storico della musica Michele Girardi, la comune tematica di fondo riguarda «le logiche spietate dei detentori di un potere assoluto che disintegra l’aspirazione alla felicità individuale e collettiva degli oppressi».

Il Don Carlos, titolo originale, è l’ultima incursione verdiana nella drammaturgia di Schiller 

Don Carlo fu composto su commissione dell’Opéra di Parigi e rappresentato in occasione dell’Esposizione Universale del 1867. Nacque quindi come Don Carlos, su libretto in francese di François-Joseph Mery e Camille du Locle. Ultima incursione verdiana nella drammaturgia di Friedrich Schiller – e unica in età matura dopo Giovanna d’Arco, I masnadieri e Luisa Miller – l’opera costituisce di fatto anche una delle ultime e più importanti affermazioni del cosiddetto “grand-opéra” nato a Parigi ormai mezzo secolo prima, con la sua suddivisione in cinque atti, lo spazio concesso a grandi e spettacolari scene di massa, la presenza di un ampio inserto dedicato alla danza. Al suo apparire il lavoro fu salutato da un discreto ma non travolgente successo. E già iniziavano a circolare fra i critici gli addebiti di “wagnerismo” che cinque anni più tardi per Aida sarebbero diventati parere quasi generale. Tuttavia, si trattava pur sempre dell’ultima novità di uno dei massimi autori di teatro per musica, e subito se ne ebbero rappresentazioni in Italia (con il libretto tradotto da Achille de Lauzières) e in Europa.

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala
Giuseppe Verdi (Getty Images).

Le modifiche apportate alla versione italiana

Con la versione in italiano (il titolo era diventato Don Carlo) cominciarono anche le modifiche da parte di Verdi: già significative quelle realizzate per l’approdo al San Carlo di Napoli nel 1872, fondamentali e radicali quelle che oltre un decennio più tardi furono approntate per le rappresentazioni alla Scala nel gennaio del 1884. Fu allora che venne tagliato il primo atto della versione iniziale dalla partitura. Si tratta del cosiddetto “atto francese”, che si svolge nella foresta di Fontainebleau e che peraltro non esiste in Schiller ma è proprio solo del libretto francese. Contiene, oltre a sofisticate pagine corali, un’aria di Don Carlo, erede al trono di Spagna e un duetto di questi con Elisabetta di Valois, sua promessa sposa di un tempo ora costretta dalla ragion di Stato a convolare con il padre di lui, il re di Spagna Filippo II. Dal taglio venne salvata solo l’Aria, inserita nel secondo atto (che diventava il primo). Verdi non era certo il tipo che si faceva imporre cambiamenti così importanti e infatti nel suo epistolario si trovano ripetute considerazioni positive sulla versione in quattro atti. Sta di fatto che appena un paio di anni più tardi, a Modena, non è chiaro con quanta diretta partecipazione del compositore, l’atto francese fu riesumato, naturalmente sempre in italiano. E l’Aria di Don Carlo tornò al suo posto originale. Se si aggiunge che una cinquantina di anni fa sono emerse dagli archivi dell’Opéra varie pagine della partitura iniziale, che il compositore stesso aveva tagliato in occasione della prima rappresentazione assoluta (almeno un quarto d’ora di musica, forse di più), si ha il quadro del complesso percorso creativo verdiano in Don Carlo.

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala
Un libretto del Don Carlo.

La versione 1884 in quattro atti aprirà la stagione della Scala con Chailly sul podio e la regia di Lluís Pasqual

Dal punto di vista rappresentativo, oggi le opzioni restano principalmente due: la versione parigina del 1867 (in francese, cinque atti, con i ballabili) e la versione scaligera del 1884 (in italiano, quattro atti, senza ballabili); in alternativa a quest’ultima, c’è la versione modenese, in italiano ma con il recupero dell’atto francese. Negli Anni 80 sulla questione si erano divisi due fra i maggiori studiosi italiani, Massimo Mila e Fedele d’Amico, peraltro concordi nel ritenere quest’opera uno dei maggiori raggiungimenti dell’arte di Verdi. Mila era a favore della versione in cinque atti, d’Amico di quella in quattro atti. A 40 anni di distanza, pare di poter dire che il confronto sia stato vinto da quest’ultimo. Secondo l’archivio del sito specializzato Operabase.com, dai primi anni Duemila la versione francese in cinque atti è stata proposta solo una volta, nel 2004 all’Opera di Roma. Quella in italiano in quattro atti è largamente maggioritaria e anche frequente in maniera confortante: se ne contano 23 apparizioni nei teatri di 13 città, con Firenze in prima fila (quattro allestimenti) seguita da Milano con tre. Negli ultimi tempi se ne sono avute edizioni ragguardevoli alla Fenice di Venezia (2019, regia di Robert Carsen, direttore Myung-Whun Chung), a Firenze e a Napoli (meno di un anno fa). Fra l’altro, Don Carlo torna a essere l’opera del 7 dicembre scaligero a 15 anni dall’ultima volta che inaugurò la stagione milanese, nel 2008, direttore Daniele Gatti, regista Stéphane Braunschweig. L’ormai imminente nuova proposta milanese della versione 1884 in quattro atti vedrà sul podio Riccardo Chailly, mentre la regia sarà dello spagnolo Lluís Pasqual. Cast di notevole livello, con René Pape (Filippo), Luca Salsi (Posa), Francesco Meli (l’Infante), l’immancabile Anna Netrebko (Elisabetta) ed Elina Garanča (Eboli).

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala
Il Don Carlo rappresentato alla Fenice di Venezia nel 2019 (dal sito Teatro la Fenice).

Con il suo spirito cupo e violento, il Don Carlo è una sorta di annuncio del decadentismo

L’opera è dominata da uno spirito cupo e violento, che rende drammaticamente vana ogni speranza. Il cattolicissimo re Filippo II opprime i protestanti dei Paesi Bassi e li manda al rogo sobillato dalla Santa Inquisizione, e intanto si arrovella perché la moglie Elisabetta di Valois non lo ama. Lei era stata promessa al figlio di Filippo, Don Carlo, ed è lui che ama, riamata. Un rapporto platonico ma ugualmente dal peso insostenibile, che resterà sempre e solo ideale, mentre la marchesa di Eboli cerca a sua volta di conquistare l’amletico Infante di Spagna, salvo confessare – per poi essere mandata in esilio – di essere l’amante del re. Il marchese di Posa, amico fedele di Don Carlo, si oppone alle politiche assolutiste di Filippo, ma non riesce a salvare i protestanti di Fiandra e finirà ucciso dagli archibugi del Sant’Uffizio, pur essendo stimato dal monarca. Il loro duetto nel primo atto, la pagina che più è stata rielaborata da Verdi, è uno dei culmini di tutta l’opera, come lo è l’intero terz’atto, aperto dalla formidabile aria di Filippo, Ella giammai m’amò. Il clima è torbido, la tinta oscura; totale la libertà dalle forme tradizionali del canto operistico, ammaliante la sottigliezza della scrittura strumentale. Non a caso Mila vedeva in questo capolavoro una sorta di annuncio del decadentismo, in grado di fare piazza pulita dei vani tentativi di rivoluzionare il genere operistico da parte della Scapigliatura. E non c’è da stupirsi se nella versione 1884 l’Infante di Spagna, che il padre ha deciso di consegnare al boia, alla fine letteralmente svanisce mentre si trova nella cripta del nonno Carlo V, in un’atmosfera quasi esoterica.

L’attualità drammatica dell’opera e il pessimismo di Verdi sulle umane sorti

Con i suoi personaggi dalla psicologia complessa, dipinta realisticamente fra dilemmi interiori e umanissime contraddizioni; con l’impari confronto fra gli individui e una ragion di Stato che non si ferma di fronte alla ferocia e al delitto; con la sua durissima rappresentazione della guerra in nome della religione, condotta fino agli omicidi rituali degli autodafé imposti dall’Inquisizione; con l’evidenza drammatica di come l’assolutismo soffochi non solo la libertà, ma anche l’aspirazione a essa, Don Carlo appare oggi drammaticamente attuale. È davvero un’opera profondamente politica, dominata dal radicale pessimismo del compositore sulle umane sorti, che non concede soverchie speranze neanche a chi vi assiste nel XXI secolo, dopo le illusioni sulla “fine della storia”. La storia non è affatto finita, e Verdi ce lo ricorda con una musica capace come poche di parlare sia al cuore che alla mente.

Terrorismo, Br e stragi: due libri per riflettere sugli Anni di piombo (e non solo)

Se la cronaca ci aggiorna quotidianamente su un uso cinico, spregiudicato della storia, con risse da bar su Dante e ora pure su Tolkien, d’altra parte l’Italia pare un paese perennemente con il fiato corto, dove è quasi impossibile analizzare in modo equilibrato il passato nella speranza di dare più solidità e meno isteria al presente. Una buona occasione per uscire da questo pantano la offrono due volumi appena usciti pieni di spunti per ripercorrere diversamente i cosiddetti Anni di piombo, gli anni del terrorismo e delle stragi.

Luzzatto e l’antropologia delle Br genovesi

Sergio Luzzatto, studioso delle Rivoluzione francese e di Padre Pio, ha appena pubblicato per Einaudi Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse. A parte la ricostruzione storica ben raccontata, Luzzatto dedica la sua attenzione a ricostruire le vite dei terroristi per spiegare a un lettore di oggi, come quei giovani «si erano ritrovati (…) chiusi in un covo a progettare rapimenti, irruzioni, gambizzazioni, omicidi, per fare la rivoluzione e instaurare il comunismo». Protagonisti sono una città, Genova, centro nevralgico del triangolo industriale, e un uomo, un terrorista, Riccardo Dura, nome di battaglia “Roberto”, ucciso a 29 anni, nel corso dell’irruzione dei corpi antiterrorismo dei carabinieri nel covo di via Fracchia, nella primavera del 1980. Una città medaglia d’oro della Resistenza, dove a grandi insediamenti industriali come la Ansaldo e l’Italsider si affianca un fermento culturale ribollente di vitalità, e un ex marinaio con un passato burrascoso tanto da finire in un singolare riformatorio sotto forma di nave ancorata al porto della città, la Garaventa.

Terrorismo, Br e stragi: due libri per riflettere sugli Anni di piombo (e non solo)
La copertina di Dolore e furore di Sergio Luzzatto (Einaudi).

Giovanissimo, Dura inizia a navigare, salendo i gradini delle gerarchie marittime, mozzo, poi “piccolo di camera”, “giovanotto di macchina”, fino al ’74, quando scende per sempre da una nave per entrare, qualche tempo dopo, in clandestinità. Rapidamente Dura sale tutti i gradini delle Brigate rosse diventando il delfino del capo assoluto, Mario Moretti. La colonna genovese si procura fama di spietatezza e di efficienza che destano ammirazione nei settori antagonisti più radicali. Qui avvengono alcuni dei fatti più importanti della storia del terrorismo rosso: il primo rapimento importante, quello del giudice Sossi (1974), l’omicidio del giudice Coco (1976), inizio dell’attacco al cuore dello Stato che culmina con il rapimento di Moro, infine l’omicidio dell’operaio sindacalista Guido Rossa, ucciso proprio da Dura. Siamo nel gennaio del ’79 e l’assassinio di Rossa segna il distacco definitivo delle Brigate rosse dal movimento operaio, passano una manciata di mesi e la vita di Dura viene stroncata per sempre con un colpo di pistola alla nuca. È l’inizio della fine per le Br, si susseguono gli arresti, compreso quello di Moretti (1981), bloccato e portato in prigione assieme a Enrico Fenzi, il professore di letteratura italiana ed esperto di Petrarca all’università di Genova, in via Balbi. Il libro di Luzzatto riesce a restituire vita a un ambiente articolato dove agli operai delle grandi fabbriche di Genova e dintorni si affiancano intellettuali raffinati come Fenzi, criminologi come Giovanni Senzani, un chirurgo come Sergio Adamoli, perfino, oggi potrebbe sembrare impensabile, una cattolica devota come Fulvia Miglietta.

Tobagi e la faticosa ricerca della verità sulle stragi nere e mafiose

Su tutt’altro versante, quello della lunga stagione delle stragi e della difficoltosa ricerca della verità, si muove il libro di Benedetta Tobagi, Segreti e lacune (Einaudi), un viaggio per spiegare come mai, a distanza di decenni, siamo ancora impegnati alla ricerca di una versione soddisfacente. Le bombe a piazza Fontana a Milano, a piazza della Loggia a Brescia, alla stazione di Bologna, quelle sui treni, rimandano, ormai è certo, anche a un coinvolgimento di quegli apparati di sicurezza e informazione, i cosiddetti servizi segreti.

Terrorismo, Br e stragi: due libri per riflettere sugli Anni di piombo (e non solo)
Segreti e lacune di Benedetta Tobagi (Einaudi).

E ha ragione la Tobagi nel mettere in campo una dialettica, quando non uno scontro, tra questi apparati e la magistratura al lavoro su inchieste spesso rivelatesi faticosissime proprio perché più o meno visibilmente ostacolate «da lentezze, gravi distorsioni o depistaggi veri e propri, messi in atto da personale d’intelligence e di altre forze di sicurezza operanti a servizio dell’esecutivo: comportamenti contrati ai principi costituzionali, sovente illegali e non chiaramente giustificabili in termini di sicurezza nazionale o di ragion di Stato, anche se teniamo conto delle necessità vere o presunte imposte dalla Guerra fredda». L’arco temporale del libro va dal ’77, anno di una riforma dei servizi di sicurezza che pure aveva generato qualche ottimismo al momento del suo varo, fino al ’96, quando, con la vittoria del centro-sinistra, sembra terminare una volta per tutte la guerra fredda che aveva voluto fuori dal governo il partito comunista e i suoi eredi, salvo accorgersi che i depistaggi sarebbero continuati su un altro terreno, non meno costellato di morti, quello delle stragi mafiose. E proprio a proposito di queste ultime si stanno delineando  convergenze fra settori degli apparati di sicurezza, mafia stragista e personaggi di spicco di quel terrorismo nero che non era sparito di colpo con la caduta del muro di Berlino come qualcuno aveva voluto farci credere.

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?

Di primo acchito c’è una considerazione che ormai appare talmente usurata da non meritare nemmeno le pagine dei giornali: perché i consigli di amministrazione dei teatri tengono in pancia personalità politiche che nulla hanno a che vedere con lo spettacolo, l’arte e la cultura? Sembra un’utopia ma nella fame di poltrone ormai diamo per scontato che l’ex parlamentare, l’assessore sconfitto, il sindaco decaduto o – ancora peggio – il familiare di qualche politico occupino quei posti. Non fa eccezione Geronimo La Russa – figlio di cotanto padre – entrato nel consiglio di amministrazione del Teatro Piccolo di Milano. E fa specie che un profilo così venga tenuto in considerazione per un luogo di quella levatura, anche quando si tratta di cognomi meno altisonanti e visibili.

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?
Geronimo La Russa (Imagoeconomica).

L’incontro tra Strehler e Grassi in corso Buenos Aires

Poi c’è la storia. E la storia del Piccolo a Milano è la storia di quello che sono stati Paolo Grassi e Giorgio Strehler. È del 1933 il discorso tenuto da Benito Mussolini presso la Società Italiana degli Autori, in cui invita i drammaturghi a risollevare le sorti del teatro nazionale, facendosi espressione delle grandi passioni collettive. Paolo Grassi aveva 14 anni e solo dopo tre anni dopo viene assunto senza paga come assistente di Angelo Frattini, autore insieme a Dino Falconi della rivista musicale Bertoldissimo. Nel febbraio del 1938 si presenta a Giorgio Strehler a una fermata del tram, in corso Buenos Aires a Milano: «Senta, io la vedo sempre a teatro, evidentemente è una sua passione. Tanto vale che io mi presenti, che ci conosciamo e che ci frequentiamo, visto che abbiamo in comune questo amore. Io mi chiamo Paolo Grassi. […] E io, Giorgio Strehler».

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?
Giorgio Strehler nel 1976 (Getty Images).

Grassi cacciato dal GUF e Strehler nella Resistenza

Come racconta Valentina Garavaglia nel suo articolo Tra utopia e riformismo, il teatro pubblico di Paolo Grassi e Giorgio Strehler nel 1941 Grassi mette in scena al Teatro dell’Arte di Milano L’ultima stazione di Beniamino Joppolo e lo spettacolo è un successo, ma un successo scomodo, tanto che su Secolo Sera il critico Gianluigi Gatti, responsabile del GUF, rende nota l’espulsione di Grassi dal gruppo universitario fascista di Milano per attività estranee al gruppo stesso. Anche Strehler, che si era diplomato ai Filodrammatici nel 1940 e nel frattempo aveva girato l’Italia intera recitando in compagnie di tradizione e in gruppi di teatro sperimentale, aveva prestato servizio militare come sottotenente di fanteria, ma dopo l’8 settembre 1943, apertamente antifascista, non aderisce alla Repubblica di Salò e si unisce alla Resistenza. Sotto esortazione del Comitato di Liberazione Nazionale si rifugia in Svizzera ed è proprio a Ginevra, dove incontra e frequenta esponenti di spicco del mondo politico e culturale italiano, quali Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, il regista Dino Risi, che Strehler ha modo di coltivare la sua irrefrenabile passione per il teatro, che si intreccerà nuovamente con quella di Paolo Grassi al termine della guerra.

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?
Il Piccolo in via Rovello, 2 a Milano.

Geronimo La Russa conosce la storia del teatro? 

Una lapide all’esterno sulla facciata dell’edificio in cui oggi si trova il Piccolo Teatro, in via Rovello 2, collocata dall’Anpi il primo aprile del 1995 recita: «Qui tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 hanno subito torture e trovato la morte centinaia di combattenti della libertà prigionieri dei fascisti. Il Piccolo Teatro ha fatto di questo edificio un centro e un simbolo della rinascita culturale e della vita democratica di Milano». In quel teatro, primo teatro stabile di prosa pubblico in Italia, Grassi e Strehler in sintonia con il sindaco di Milano, il socialista Antonio Greppi, aprono il 14 maggio del 1947 con la messa in scena de L’albergo dei poveri, di Maxim Gor’kij, per la regia di Strehler stesso. La scelta dello spettacolo d’apertura non è ovviamente casuale. Lì dentro c’è l’idea del ‘teatro del popolo’, un teatro inteso come pubblico servizio, costruito sul modello gramsciano, inteso come un fenomeno culturale necessario alla collettività. Quindi la domanda è spontanea: le sa queste cose Geronimo La Russa? E soprattutto, che c’entra?

L’11 novembre 1994 usciva T’appartengo di Ambra, ma a noi non importava un granché: il racconto della settimana

«Ricordati che domani suoni da noi», leggo sul display dell’iPhone mentre, immerso nei miei pensieri più tetri, faccio scorrere tra le mani i titoli dei vinili che ho ordinato da Serendeepity: Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die, il disco postumo di Jaimie Branch pubblicato da International Anthem, il live di Mac Miller registrato per Tiny Desk del 1998, Purple Rain di Prince del 1984, Thriller di Michael Jackson del 1982, Maggot Brain dei Funkadelic del 1971 e Synchronicity dei Police del 1983. Ultimamente hanno ripreso a chiamarmi in parecchi per mettere la musica in giro. Solo nell’ultimo mese ho messo i dischi a matrimoni, feste aziendali, vernissage, compleanni di locali, eventi patrocinati dal Comune. Ho suonato di tutto: dal jazz al rap, dal rock al funk, dall’elettronica ai classici di musica italiana.

Ambra cantava T’appartengo ma tutti noi per lo più la ignoravamo, perché da qualche mese si era sparato Kurt Cobain ed eravamo tutti in fissa con i Nirvana o al massimo con i Green Day, che erano appena usciti con Dookie, il disco che conteneva Basketcase, il pezzo in assoluto che andava in loop dai nostri stereo

Una sera però a una festa, assediato da un gruppo di quarantenni ubriache che avevano ballato tutta la sera come delle ossesse, come ultimo disco della serie, ormai sfinito dalle loro continue richieste, per accontentarle e mandarle via, ho messo T’appartengo di Ambra e anche se l’ho tolta dopo un minuto e mezzo, devo ammettere che è stata un’umiliazione perché uno si danna l’anima per fare un percorso musicale adeguato, studia i cambi per infilare uno dopo l’altro dei pezzi che possano stare bene insieme l’uno con l’altro, e poi la gente vuole ascoltare Ambra. In fondo è sempre stato così, anche verso la fine degli Anni 90 quando mettevamo Smack My Bitch Up dei Prodigy o, che so, Born Slippy degli Underworld, le piste dei locali si svuotavano. La gente generalmente non capisce un cazzo. «La tua carriera da deejay stasera è finita dopo Ambra, Andre»,  mi ha detto una di loro, ridendo, mentre staccavo il jack delle cuffie del mixer.

T’appartengo uscì esattamente l’11 novembre del 1994, 370 mila copie vendute e tre dischi di platino, per il singolo cantato dall’ex stellina di Non è la Rai, all’epoca uno dei fenomeni televisivi di maggior successo del nostro Paese. Clinton era il presidente degli Stati Uniti, in Italia il premier era Silvio Berlusconi e Ruud Gullit, in rotta con l’allora mister del Milan Fabio Capello, aveva nuovamente lasciato Milanello e fatto le valigie per Genova, tornando alla Sampdoria. Ambra cantava T’appartengo ma io non me la cagavo più di tanto, perché c’era Jovanotti e Penso positivo, gli Articolo 31 pubblicavano Messa di Vespiri, i REM Monster, il loro album più punk-rock, e soprattutto c’era il britpop dei Blur e degli Oasis.

Ambra cantava T’appartengo ma tutti noi per lo più la ignoravamo, perché da qualche mese si era sparato Kurt Cobain ed eravamo tutti in fissa con i Nirvana o al massimo con i Green Day, che erano appena usciti con Dookie, il disco che conteneva Basket Case, il pezzo in assoluto che andava più in loop di tutti dagli stereo delle nostre camerette. Proprio questa settimana tra l’altro sono stato invitato al loro private concert per pochi intimi ai Magazzini Generali, dove la band ha dato un assaggio di quello che farà vedere l’anno prossimo, il 16 giugno all’Ippodromo, per il tour in programma di Saviors, il loro nuovo album in uscita il 19 gennaio 2024, a 30 anni da Dookie e a 20 da American Idiot. E la cosa devo dire mi ha fatto un certo effetto, un po’ perché non avevo mai visto dal vivo i Green Day e l’atmosfera era veramente rock e un po’ perché non entravo ai “Magazza” da almeno 20 anni. Enorme edificio ex industriale in zona sud i Magazzini Generali sono stati per quelli che hanno pressapoco la mia età uno dei locali più importanti della nostra giovinezza, un posto che i primi anni del 2000 era diventato una sorta di mecca di tutti i creativi, degli studenti e di una grande fetta della comunità gay milanese, oltre che teatro dei live underground più importanti che si tenevano in città. Ai “Magazza” si andava il mercoledì perché si entrava gratis, si andava il venerdì alla serata Jetlag, e si andava a sentire i Massive Attack, i Chemical Brothers o altri dj di fama internazionale come Carl Cox o Laurent Garnier.

L'11 novembre 1994 usciva T'appartengo di Ambra, ma a noi non importava un granché: il racconto della settimana
I Green Day ai Magazzini Generali.

Ambra cantava T’appartengo ma a noi non importava granché, perché al cinema uscivano contemporaneamente Pulp Fiction di Quentin Tarantino, Il Corvo con Brandon Lee, Clerks e Dellamorte Dellamore con Rupert Everett, (l’attore che aveva dato il volto al protagonista del nostro fumetto preferito, Dylan Dog, per cui tutti andavamo fuori di testa), un film bruttissimo che noi guardavamo solo per farci le seghe dato che Anna Falchi, il nostro sogno erotico estremo, recitava in un paio di scene completamente nuda. Ambra cantava T’appartengo ma a me non interessava, perché nel mio zaino insieme ai libri di poesia di Arthur Rimbaud c’era il romanzo di un giovane scrittore bolognese di nome Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, una storia che raccontava per filo e per segno quello che mi stava capitando esattamente in quel momento con Nicole, una mia compagna di classe di cui mi ero perdutamente innamorato.

Il figlio di La Russa, Geronimo, entra nel cda del Piccolo di Milano

Geronimo La Russa, figlio del presidente del Senato, entra a far parte del cda del Piccolo di Milano su designazione del ministero della Cultura. Sarà dunque lui, come riporta Repubblica, a rappresentare il governo nel board del teatro di prosa più importante del Paese. Una scelta che ha sollevato inevitabili polemiche, a partire dall’assenza di competenze specifiche in materia culturale e teatrale del neo consigliere.

Ignazio La Russa e il figlio Geronimo
Ignazio La Russa e il figlio Geronimo (Imagoeconomica).

La carriera di Geronimo La Russa 

Geronimo La Russa ha 43 anni, è il primogenito di Ignazio La Russa e lavora come avvocato nell’avviato studio legale di famiglia. Ricopre già poi numerose cariche tra cui quella di presidente dell’Aci, e siede nel consiglio di amministrazione di diverse aziende come M4 Spa, la società impegnata nella realizzazione della linea blu della metropolitana a Milano, Sara Assicurazioni, Milan RealEstate, M-I Stadio srl e alcune altre finanziarie. Geronimo è inoltre membro della holding H14 insieme agli amici Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi.

Il teatro Piccolo di Milano
Il teatro Piccolo di Milano (Imagoeconomica).

Il nuovo cda del Piccolo di Milano

Il consiglio di amministrazione del Piccolo di Milano è scaduto il 31 luglio scorso e, nella sua nuova formazione, sarà composto da Geronimo La Russa, nominato dal ministero della Cultura, Massimiliano Finazzer Flory, ex assessore alla cultura del Comune di Milano della giunta Moratti, ed Emanuela Carcano. Questi ultimi due membri rappresentano la quota della Regione Lombardia, mentre l’ex consigliere regionale capogruppo del Pd ed ex sindaco di Vimercate, Enrico Brambilla, è stato scelto come rappresentante dalla Camera di Commercio. Alla composizione totale mancano però ancora due caselle, ovvero quelle di pertinenza del Comune di Milano che ha il potere di nominare un consigliere e di scegliere il presidente del cda. In quest’ultimo caso il nome più gettonato è, al momento, quello di Piergaetano Marchetti. Potrebbe essere lui a sostituire Salvatore Carrubba.

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L’eclissi degli intellettuali e l’urgenza di una rivoluzione culturale

“Lavoro zero reddito intero. Tutto il lavoro all’automazione”. Slogan attualissimo, peccato però che sia apparso sui muri di Bologna nel 1977 nei giorni della rivolta degli studenti universitari che mise sottosopra l’intera città. Erano molto più avanti e spiritosi gli indiani metropolitani di allora degli intellettuali e politici di oggi. Lo ricorda Franco Bifo Berardi, storico attivista e saggista, in una conversazione con il sottoscritto che si riassume in una parola: diserzione. Dei giovani soprattutto (dal lavoro e dal desiderio di fare figli), ma più colpevolmente degli uomini di cultura, dell’intellighenzia.

La classe intellettuale ha fatto la fine della classe operaia: è scomparsa

I tempi velocissimi e distruttivi che stiamo vivendo richiederebbero infatti pensieri nuovi e la mobilitazione quasi fisica di scrittori, artisti, scienziati, cineasti. Il problema però è che la classe intellettuale ha fatto la fine della classe operaia: è sparita come l’idea che compito dei filosofi, per dirla con Karl Marx, sia non di interpretare il mondo ma di cambiarlo. Per trovare una forte tensione di rinnovamento e contestazione dell’esistente, che dovrebbe essere il lievito di una cultura militante, bisogna andare indietro nel tempo. Al movimento del ‘77, appunto, ma ancor più a quello del ‘68, che pure con tutte le degenerazioni e agli eccessi – infantilismo e velleitarismo – è stato un momento di contestazione globale del sistema. “Chiedete l’impossibile”, “una risata vi seppellirà”, ”contro i baroni rossi, neri e a pois” erano slogan che manifestavano un sense of humor oggi completamente scomparso dalle piazze della protesta. Non mancavano i cattivi maestri, ora però sono scomparsi i maestri. Tant’è che se volessimo indicare intellettuali di riferimento per le diverse aree politico-cuturali oggi non sapremmo chi nominare. All’ombra della scomparsa dei maître à penser si scorge la sagoma del critico d’arte e sottosegretario Vittorio Sgarbi.

L'eclissi degli intellettuali e l'urgenza di una rivoluzione culturale
Indiani metropolitani a Milano (giallinovagabondo).

L’esperienza del Gruppo 63 e l’Olivetti

Ma se vogliamo considerare caratteristiche più interne e specialistiche in materia di lavoro culturale, nonché di opposizione alle gerarchie tradizionali, per trovare in Italia un movimento che ha prodotto un rinnovamento radicale dobbiamo risalire al Gruppo 63, da cui scaturì anche la neo avanguardia. Il gruppo di letterati e critici schierati sul fronte dei nuovi linguaggi mediali (la tv, la pubblicità, la pop art), i vari Umberto Eco, Alberto Arbasino, Angelo Guglielmi, Nanni Balestrini poi protagonisti di una stagione culturale nuova che rompeva con la tradizione del neo-realismo, e si sintonizzava con il clima e il sentimento più generale dell’Italia del boom economico. La Rai in bianco e nero era la prima industria culturale del Paese, luogo di sperimentazione, ma anche di fedeltà alla missione di servizio pubblico. Ma da ricordare, perché unica, era anche la circolazione di saperi e intellettuali fra i mondi della cultura e dell’industria. L’Olivetti e il suo profeta Adriano era il porto sicuro di scrittori e poeti (Paolo Volponi, Giovanni Giudici) che diedero vita a una cultura d’impresa capace di creare innovativi prodotti tecnologici (che competevano con IBM), ma anche imprese editoriali (Edizioni di Comunità), fabbriche avveniristiche e insediamenti abitativi modello. Della Rai come di Olivetti restano solo i marchi.

L'eclissi degli intellettuali e l'urgenza di una rivoluzione culturale
Umberto Eco (Getty Images).

L’intellò da Festival

Se la tv pubblica oggi non ha praticamente trasmissioni culturali, la tv commerciale è ovviamente peggio. Anche nella costruzione del “personaggio televisivo”, che attualmente è il prototipo, nel comune sentire, dell’uomo di cultura. Sedersi sulla poltrona di un talk è la condizione indispensabile perché uno psicologo o un filosofo diventi un personaggio da festival. Ovvero nella condizione di monetizzare la propria popolarità televisiva. Con i festival si toccano due tasti dolenti. L’imporsi di una cultura di mezzo – per citare D. MacDonald, autore del celebre e classico Masscult e Midcult – che è una parodia dell’alta cultura.
. E la formazione di compagnie di giro che vanno da un festival della filosofia o della letteratura a quello del mare o della creatività a proporre più o meno la stessa minestra. Servita però con i nomi altisonanti di lectio magistralis o master class. A pagare robusti compensi ai vari Galimberti, Cacciari, Recalcati, per fare tre nomi che sono forse fra i migliori blablatori da festival, sono le fondazioni bancarie. In questo ambito, che è perlopiù turistico, di innovazione culturale, di offerta di modelli alternativi o sperimentali nemmeno si parla. Anche perché essendo i personaggi televisivi l’ingrediente essenziale di una manifestazione che riempia le piazze o i teatri è un pubblico anziano, che come tale guarda la tv, quello che corre ad applaudire. Nei talk da piazza di giovani se ne vedono pochi, di giovanissimi nemmeno l’ombra. Ovviamente ci si dovrebbe chiedere: ma i giovani dove vanno? Nel 1968 e nel 1977 in piazza, volendo colpire al cuore del sistema. Ora invece visto che gli intellettuali vanno in tv e non più a infiammare le aule universitarie, anche i giovani sono renitenti a essere mobilitati e a mobilitarsi. Se non quando le questioni sono molto concrete. E ci sta. Però sia chiaro che se è legittima la protesta contro il caro affitti, piantando le tende in piazze, è allarmante che le questioni ideali non scaldino più menti e cuori giovanili.

L'eclissi degli intellettuali e l'urgenza di una rivoluzione culturale
Massimo Cacciari (Imagoeconomica).

La crisi dell’editoria rappresentata dal successo di Vannacci

Forse il nome Ultima generazione è un chiaro indizio di ritirata ideale e di pessimismo che non riesce più a essere dissacrante ma anche un po’ allegro. Cioè a essere giovani nello spirito. Ma ben poco allegro, per citare anche l’ultimo ma fondamentale caposaldo della cultura, è il mondo dell’editoria, dei libri e anche dei giornali. Del disastro dei giornali di carta parlano i dati diffusionali e la chiusura accelerata delle edicole. Della crisi del libro invece la crescente diffusione del self publising. Dell’auto pubblicazione che ha in Amazon il principale killer dell’industria libraria tradizionale. Il clamoroso successo del Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci, unico best seller nazionale dell’anno, suona il de profundis per editori, editor e curatori. Tutti evidentemente incapaci in un periodo di sommovimento epocale di trasformare radicalmente il modo di produrre e vendere libri. È in un simile contesto che forse più che invocare il ritorno degli indiani metropolitani vien da rimpiangere la furia iconoclasta nei confronti di accademie e retaggi culturali che fu del futurismo e dei futuristi capitanati da Filippo Tommaso Marinetti. Ma consapevoli che stiamo parlando di più di un secolo fa. Giusto per ribadire quanto sia polverosa, vecchia e ormai insopportabile tutta la cultura nazionale.

Morto il giornalista e autore televisivo Massimo Ghirelli

È morto Massimo Ghirelli, giornalista e saggista, autore e regista di programmi radio e tv. Ne dà notizia il figlio Parvis, anche lui giornalista: «Se ne è andato con gentilezza, senza disturbare, con l’eleganza e l’accortezza che l’hanno sempre contraddistinto, rendendolo un punto di riferimento ed esempio per amici, colleghi, alunni e conoscenti. Una vita ricca di amore, curiosità, generosità, con al centro la continua ricerca del dialogo e di scambi culturali ed emotivi».

Ideò Nonsolonero, rubrica andata in onda dal 1988 al 1994

Nato a Milano nel 1946, Ghirelli ha ideato e realizzato per sei anni (dal 1988 al 1994) la trasmissione Nonsolonero, rubrica del Tg2 e prima in Italia su immigrazione e razzismo (Premio Mandela 1991). Dal 1985 al 2013 è stato Esperto prima nel Fai (Fondo Aiuti Italiani), e poi presso la direzione generale per la Cooperazione allo Sviluppo del ministero degli Esteri. Consulente per l’informazione di organizzazioni internazionali e di numerose Ong, è stato per 27 anni nel direttivo del Consiglio Italiano per i Rifugiati.

La carriera da giornalista e da docente universitario

Come giornalista ha diretto le riviste Replay e Caffè, ha fondato l’agenzia Migra e ha collaborato a numerose testate nazionali, tra cui La Repubblica (come critico cinematografico) e il Manifesto. Autore di un centinaio di saggi e una decina di libri, tra cui Immigrati brava gente e L’antenna e il baobab, ha insegnato all’università di Algeri (1974-76), tenendo inoltre corsi, master, seminari e conferenze in molte università italiane come La Sapienza di Roma. Dall’autunno 2014, il dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Roma Tre assegnato a Ghirelli l’insegnamento di Cooperazione internazionale, poi assegnato dal 2015 al 2021 anche l’insegnamento di Politica internazionale e delle migrazioni. Nel 2022 è stato docente dell’insegnamento magistrale di Storia e Politiche della Cooperazione Internazionale e nel 2023 del corso magistrale di Cooperazione Internazionale.

Il giorno dei morti e quella storia su Halloween: il racconto della settimana

2 novembre

Sul tavolo della cucina di fianco a una tazza di caffè fumante c’erano già i giornali del mattino, con gli ennesimi titoli sul conflitto Israele-Palestina, e fuori dalla finestra la giornata minacciava pioggia. A torso nudo con ancora indosso le braghe del mio pigiama scozzese mi sedetti a tavola di fronte a Ofelia, in vestaglia, intenta a cercare sul MacBook portatile voli aerei per qualche destinazione. Forse Grecia, forse Stati Uniti.

«È un periodo che ho voglia di rock, bella», dissi, stringendomi nelle spalle e afferrando la tazzina di caffè. «Basta jazz?», sospirò Ofelia. «Abbiamo nuove fisse, vedo».
«Sì, mi prendo una pausa dal jazz. I love rock and roll». Ofelia diede un’altra occhiata allo schermo del portatile, poi alzò gli occhi al cielo e si voltò verso di me. Sembrava insolitamente espansiva quella mattina, e quando mi guardò sorrise. Aveva legato i capelli sulla nuca con una molletta e io allungai una mano per toccarli, un gesto che la fece sorridere ancora di più. «Non capisco perché sorridi, bella. Mi mancano delle pietre miliari della storia della musica. Non ho dischi di Bob Dylan, né di Jimi Hendrix e nemmeno di Bowie. Insieme a un nuovo paio di Jordan sono i miei desiderata di questo mese». «Non puoi comprare più dischi né tantomeno Nike», rispose, aggrottando la fronte. «Abbiamo la casa invasa!». «Per adesso ho ordinato il nuovo degli Stones e uno dei Doors, per il resto vedremo», risposi. «Ecco», fece lei, sbattendo le palpebre. Poi la abbracciai. Lei me lo permise e poi si scostò delicatamente, prima che la telecamera potesse staccare su di noi e riprendermi mentre sotto l’acqua della doccia iniziavo a formulare i miei piani per la giornata. «Penso che andrò al cimitero oggi», urlai dal bagno, e aggiunsi: «Da quando ho saputo, a settembre dell’anno scorso, che la tomba di famiglia non sarebbe più stata espropriata non ci sono più tornato». Poi, ancora bagnato e con un asciugamano bianco legato intorno intorno alla vita, la raggiunsi nuovamente in cucina e la baciai. Stretta a me era morbida e piccola.

Quando arrivai davanti alla tomba di famiglia guardando la statua che mio padre aveva fatto costruire quando mia madre morì, chiusi gli occhi e pensai anche a lui: alla sua rabbia, alla sua ossessione per la ricchezza, alla sua solitudine. «Feliz día de los muertos». Poi lasciai un fiore e me ne andai, fischiettando, incredibilmente leggero

Da bambino, il giorno dei morti, mia zia mi portava sempre al cimitero a trovare mia madre. Salivamo sulla sua Renault4, attraversavamo la città e, dopo aver parcheggiato nel grosso piazzale davanti al Monumentale, prima di entrare ci fermavamo sempre al solito chiosco per comprare dei fiori. Era una piccola ritualità di quei giorni di vacanza, che all’epoca erano due, e che di solito trascorrevo da lei, a casa di mia nonna a Palazzo Fidia, con loro e mia cugina Laura. Pensavo a questo mentre, stretto nella mia giacca di velluto e con in testa una coppola irlandese che avevo comprato qualche anno prima a New York, varcavo la soglia del cimitero. Quando arrivai davanti alla tomba di famiglia guardando la statua che mio padre aveva fatto costruire quando mia madre morì, chiusi gli occhi e pensai anche a lui: alla sua rabbia, alla sua ossessione per la ricchezza, alla sua solitudine. «Feliz día de los muertos», pensai. Poi lasciai un fiore, attraversai il Famedio e me ne andai, fischiettando, sentendomi incredibilmente leggero.

La sera nel mio studio non riuscii a concentrarmi sul mio romanzo, di cui non avevo ancora scritto nemmeno una riga, misi su un vecchio film di James Bond con Sean Connery, Dalla Russia con amore, e, steso sul divano del salotto con la copertina appoggiata sulle gambe ed uno spino di CBD stretto fra le labbra, iniziai a prendere appunti sul mio taccuino immaginandomi una storia di Halloween ambientata in una discoteca milanese dove lavorai per un certo periodo e che oggi non esiste più.

 

Halloween

Sono a casa di Nicole dietro Piazza della Repubblica ed è tardo pomeriggio. Fuori il cielo è già tetro e nero anche se sono solo le cinque. Abbiamo cazzeggiato tutto il giorno perché oggi non c’è stata scuola e i suoi sono fuori città, partiti per Arma di Taggia per chiudere definitivamente la casa al mare. Abbiamo chiacchierato, ascoltato a tutto volume una cassetta di suo fratello registrata il mese scorso durante una serata al City Square e siamo parecchio eccitati entrambi, perché stasera c’è la one-night di Halloween al Rolling Stone organizzata dallo staff del Madame Claude, il locale dove andiamo a ballare tutti i sabati pomeriggi dell’anno. Guardo Nicole mentre si cambia per la serata e il cazzo mi diventa duro, vorrei provarci, saltarle addosso ma non ho il coraggio, così me ne rimango seduto, buono buono, sulla poltrona di camera sua mentre lei zompetta avanti e indietro per la stanza domandandomi: «Come sto?». Faccio scattare l’accendino, mi trema la mano, fingendo indifferenza torno a guardarla e con voce molto bassa, mentre la testa non la smette di girarmi, le rispondo: «Benissimo, sei bellissima». Dopo cena usciamo, chiamiamo un taxi, arriviamo davanti al Rolling, saltiamo la fila, prendiamo due pass ed entriamo. Ho 14 anni ed è la prima volta che vado in una discoteca la sera. Quando torniamo a casa alle tre, dopo quattro caipiroske alla fragola, barcollante verso il letto mi tolgo la giacca dello smoking e mi addormento con su ancora la camicia bianca aperta sul petto che non mi voglio togliere perché ha ancora il suo profumo addosso.

Il giorno dei morti e quella storia su Halloween: il racconto della settimana
Il party di Hallowen di Heidi Klum (Getty Images).

Le immagini di quella notte mi scorrono davanti agli occhi anche adesso, 10 anni più tardi, mentre spengo l’ennesimo spino di caramello nel grosso portacenere arancione a casa mia in via Tiepolo e fisso Giulia, seduti con le gambe incrociate, uno di fronte all’altra, sul letto di camera mia.
«
Perché non hai mobili qui?», domanda.
«Ho un frigorifero. Ho questo letto». rispondo.
«Già, hai ragione. Uno a zero».
«Sei sicura di non voler venire con me al Rolling dopo? Mi piacerebbe vedessi come mi guadagno da vivere», dico, sbottonandomi la camicia.
«Odio le discoteche, lo sai. E poi, come passa le serate la ragazza del dj?».
«In consolle, di fianco al dj, bella», replico, togliendomi i pantaloni e gettandoli sul pavimento.
«Non so».
«Pensa che il Rolling è stato il primo locale in cui a 14 anni sono andato a ballare la sera. In quel periodo nascevano le one-night, sostanzialmente feste per minorenni che le discoteche dedicavano agli sbarbi fiordilatte come noi. Anche se era Halloween non era una pagliacciata come oggi, nessuno veniva in maschera. Il dress code era rigorosissimo: abito scuro per i ragazzi e lungo per le ragazze», le racconto, sorridendo.
«Sei emozionato quindi?», domanda, tutta seria.
«Bella, sono un deejay. Sono una specie di rockstar, e ho solo 24 anni», rispondo sardonico, mentre lentamente mi tolgo i boxer, facendole cenno di venire verso di me. Rimaniamo qualche secondo a guardarci inermi, lei con la bottiglia di birra in mano, una fetta di limone sopra, uno spinello spento tra le labbra. Poi di colpo siamo finalmente entrambi nudi e iniziamo a masturbarci a vicenda facendo piuttosto in fretta perché è quasi mezzanotte e io devo proprio andare.

Un’ora più tardi sono al Rolling Stone che credo di non aver mai visto così pieno. Ci saranno almeno 5 mila persone. Fendo la folla, guadagno il mio posto in consolle, prendo il microfono in mano e inizia lo show. Per tutta la sera sono attratto da una ragazza in miniabito e tacchi vertiginosi che balla, ammiccando, davanti alla consolle. Capelli a caschetto neri, gambe chilometriche. Dopo il terzo cuba libre non smetto di guardarla e mi accendo una sigaretta, anche se nel locale è vietato fumare. Poi mi avvicino, cominciamo a parlare all’orecchio perché la musica è veramente a un volume assordante e a un certo punto le chiedo, a voce molto bassa, con tono fortemente sospettoso: «Quanti anni hai?».
«Venti».
«No, sul serio», insisto. «Fai la brava, dimmi la verità».
«Okay, ne ho 14. Te la senti?».
«Niente da fare, bella. Sparisci subito dalla mia vista. Non ho nessuna intenzione di cacciarmi nei guai».
«Ne compirò 15 tra poco», risponde, rubandomi dalle mani la sigaretta.
«Non dovresti fumare», le dico, tuonato dai cuba, molle sulle gambe, girandole le spalle e lasciandola lì, sotto la consolle a sputare il fumo in aria.

L’immagine dopo è una inquadratura dall’alto di me, con le braghe calate tra le macchine, in un parcheggio di viale Abruzzi, che mi faccio succhiare il cazzo da un trans alle cinque del mattino completamente ubriaco con le chiappe gelate appoggiate al cofano di una Volkswagen.

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